10 settembre, 2022

Quell’estate a Mangalavite - Storie di armi e di amori

Seconda parte Gaetano Zingales Quell'estate a Mangalavite IL SOGNO DI ALBERTO E BEATRICE   Un uomo percorreva, sull’imbrunire, la strada principale del borgo, che sfociava nella piazza antistante la chiesa di rito bizantino: ne varcavano la soglia le donne, dopo aver assistito alla messa serale domenicale; esse, nell’attesa che arrivasse l’ora per andare a cena, s’intrattenevano a conversare. Alla sinistra del giovane procedeva, saltellando, un magnifico esemplare di pastore belga, di taglia robusta ma asciutta, dal pelo folto e nero, che copriva anche la coda pendente, perfetta nella sua linea di caduta, tenuto al guinzaglio e con la museruola messa: era, infatti, un cane sempre pronto a scattare, volendo usare una definizione un po’ mitigata rispetto al suo vero temperamento. Black, così si chiamava il cane, fermandosi di colpo, si mise a ringhiare verso il gruppo delle ragazze, cercando di trascinarvi il suo padrone. Una di loro, incuriosita dal comportamento del pastore belga e rimastane affascinata dall’aspetto, staccatasi dalle sue amiche, si avvicinò alla coppia volendo osservare più da vicino quel bell’esemplare di cane e possibilmente accarezzarlo. L’uomo intimò a Black di accucciarsi e quello obbedì. Una cascata di capelli neri e lucenti, che copriva le spalle della donna sino al fondo della schiena, faceva da splendida cornice al volto ovale dalle guance vellutate come la seta carnicina; un nasino, con la punta leggermente all’insù, sovrastava in parte il rosso delle labbra, sinuose e tumide, che schiudendosi accendevano un sorriso soave. La perfezione di quei lineamenti era completata dalle ciglia lunghe e nerissime che racchiudevano due pupille castano-scure, messe in risalto da sopraciglia lievemente inarcate al centro e perfettamente curate, quale pennellata finale agli occhi, stupendi e penetranti come fari marini nella notte. Occhi, che ammaliavano con la tenerezza dello sguardo e trasmettevano intorno, oltre che la mitezza dell’animo, un senso anche di sereno idillio. La dolcezza della voce era pari a quella di un liuto, suonato sotto una primaverile notte lunare, nella solitudine di un paesaggio montano vicino alle stelle. Simili fattezze s’adagiavano su forme che inducono a definire le sembianze umane come meravigliose: nel loro insieme, conferivano la perfezione all’armonia fisica di quella creatura umana, ineguale rarità dell’oggettiva bellezza.   La donna portava un abito estivo azzurro, che sembrava indossato per mettere in rilievo la statura alta e longilinea, che esprimeva un seno pieno, ma non volgare, a forma di pera; esso torreggiava sopra un vitino piatto, sorretto da rotondità perfettamente fuse con il resto del corpo. Le gambe, dritte e modellate da un’equilibrata plasticità dei muscoli, poggiavano su sandali bianchi, con i tacchi di media altezza, che davano slancio alle non troppo esili caviglie, da cui si dipartivano polpacci affusolati. Corpo dalle fattezze perfette, dunque? Si. Ed aveva vent’anni. Si presentò: << il mio nome è Beatrice>>, complimentandosi per il bel cane lupo, del quale chiese la razza e l’età; indi, espresse il desiderio di poterlo accarezzare. Cosa che fece sotto il controllo rigido del proprietario.  Lei è forestiero? –soggiunse la ragazza. Si, mi chiamo Alberto e mi trovo qui per trascorrere le ferie estive. Come mai in questo paese sperduto della Calabria? – chiese con una certa meraviglia Beatrice. o    Presto chiarito: mi hanno consigliato la cura idropinica delle terme qui vicine ed ho preso alloggio presso uno chalet del villaggio turistico accanto a questo delizioso paese, che sa ancora d’antico, lontano dalla civiltà, quella che ti travolge. o    La ringrazio per il complimento nei confronti del mio paese. Anch’io vado alle terme, di tanto in tanto, per una depurazione generale dell’organismo e devo affermare che, in effetti, quelle acque sono efficaci. S’intrattennero ancora brevemente a discutere e, dopo avere chiesto di dare un’altra carezza a Black, Beatrice si congedò da Alberto auspicando d’incontrare ancora quella meravigliosa bestiola. L’indomani si rividero alle terme e, tra un bicchiere e l’altro di acqua, sorseggiata passeggiando all’ombra degli alberi secolari, trascorsero insieme un paio d’ore della mattinata scambiandosi le futilità delle notizie di quei giorni. Dopo aver adempiuto il rito idropinico, Alberto, avendo saputo che Beatrice era venuta con un pullman di linea, si offrì di dare un passaggio con la macchina. La donna ben volentieri accettò; durante il tragitto concordarono che ogni mattina si sarebbero visti alla fermata dell’autocorriera, per venire insieme alle terme. Il paese di Beatrice sorgeva su una collina, da dove lo sguardo degradava verso una pianura immensa: l’estensione degli uliveti ed il verde degli agrumeti conferivano un tocco lussureggiante alla dolcezza del paesaggio; in fondo, il ceruleo mare Ionio e la piana di Sibari, delimitata, ad ovest, dalla catena montuosa del Pollino. Il borgo era formato, in grandissima parte, da oriundi albanesi, fuggiti, nella seconda metà del XV secolo, dalla propria terra, per non cadere sotto la dominazione turca, che impediva loro l’esercizio delle libertà, civili e religiose. Come tutti gli albanesi, trapiantati in Calabria ormai da cinque secoli, la comunità parlava ancora, oltre l’italiano, la lingua albanese antica, mentre la liturgia religiosa seguiva il rito bizantino-greco. Le tradizioni etniche venivano ancora mantenute vive attraverso l’uso della lingua greca nelle funzioni religiose e di quella arberèshe nei canti d’amore e poetici. I costumi delle donne, indossati in occasione delle feste e dei matrimoni, conservavano intatta la loro originaria bellezza e ricchezza decorativa e di colori. Il villaggio turistico, dove aveva preso alloggio Alberto, si trovava ad inizio di un bosco, nelle vicinanze della Sila Greca, un bosco carico di essenze e formato da una varietà di alberi: dal cerro e dall’acero al castagno, al rovere, al pino. Dopo essere usciti dalla boscaglia, ove c’era lo chalet , la strada scorreva lungo la riva di un lago e portava, in una ventina di minuti, al paese di Beatrice. La sua famiglia, religiosissima e di rigidi principi, era guidata dalla mamma in quanto il padre era morto alcuni anni addietro; essa traeva i mezzi per il proprio sostentamento da estesi possedimenti terrieri; un fratello e due sorelle facevano compagnia a Beatrice, che si era già diplomata alle scuole magistrali e doveva iscriversi, quell’anno, all’Università di Napoli, in Lingue orientali. Beatrice e Alberto si frequentarono ogni giorno: insieme alle Terme, il mattino, e, spesso, ancora insieme, nel pomeriggio, a scoprire gli angoli più suggestivi della Sila Greca oppure a mare, accompagnati dal focoso cane lupo, che, avendo preso confidenza con la ragazza, si lasciava accarezzare docilmente. Alberto, 29 anni, all’inizio della professione di giornalista e con in tasca una laurea in scienze politiche, raccontava a Beatrice le vicende della propria vita. Le disse anche che era riuscito a trovare lavoro presso un giornale di Roma, laddove si sarebbe trasferito dalla Sicilia: voleva conoscere il mondo svolgendo servizi giornalistici e corrispondenze dall’estero. Ovviamente avrebbe voluto scoprire anche le bellezze del proprio Paese per il tramite di questo lavoro. Beatrice s’intratteneva invece sui suoi propositi futuri: uscire dalla rigidità conservatrice del proprio ambiente per liberarsi dai vincoli e dai pregiudizi, in cui era costretta a vivere. La sua predisposizione allo studio delle lingue orientali le avrebbe anche consentito l’esplorazione di quella parte dell’Europa, da cui provenivano i suoi antenati, ma, in maniera più estesa, i Balcani, verso i quali si sentiva particolarmente attratta. Alberto, che doveva stare, in quella parte settentrionale della Calabria, pochi giorni, sbalordito per l’inaspettato incontro con quella ragazza bellissima e per il piacevole quotidiano intrattenersi con lei, decise di prolungare il suo soggiorno a tutto il mese di agosto. Dopo anni di solitudine interiore, assaporava momenti di serenità: con Beatrice scopriva quanto di bello la natura offriva per essere goduta, ma anche l’unisono di vedute relativamente a parecchie circostanze di vita ed a propositi, d’ogni giorno e di quelli a lungo termine. Un dì venivano attratti da angoli di laghetti, nascosti tra i boschi, mentre quello appresso faceva loro scoprire piccoli tesori d’arte, eremi solitari: piacevolezze, di cui erano ricche le alture Silane. L’atmosfera, che, sin dal primo istante aveva circondato i due, era quella che si presenta in uno stato crescendo di un sentimento d’amore. Dopo tanti giorni trascorsi meravigliosamente insieme, Beatrice e Alberto scoprirono di essere innamorati l’una dell’altro. L’ombra del tramonto si apprestava a scendere sulle acque del lago e la radio, a basso volume, diffondeva le note di un motivo mai udito, una musica dolcissima che sembrava provenire da spazi siderali, suonata da pochi strumenti. Un passaggio di note musicali che rimaneva nel cervello. Un Martini dry, per Alberto, ed un tè, per Beatrice, erano poggiati sul tavolinetto del terrazzo sul lago, attorno al quale i due sedevano, conversando. I colori attorno, il momento della giornata – forse il più delizioso, il più tenero – il luogo, il silenzio, rotto da quelle piacevoli note musicali in sottofondo, interruppero i loro dialoghi per dare spazio all’esplosione dei propri sentimenti. Alberto prese nella sua la mano di Beatrice e, tenendo fisso lo sguardo in quello di lei, riuscì a dirle quel che, nei giorni precedenti, aveva represso in fondo all’animo: Ciò che di bello e di buono la natura ha creato e che viene dal profondo di noi stessi sono sentimenti puri e, come tali, più forti degli istinti del corpo: questi ultimi possono essere dominati, ma i primi cercano disperatamente il loro spazio esistenziale. Non posso andare via da te, Beatrice, senza dirti qual è il mio sentimento nei tuoi confronti, che ogni giorno ancor più cresce di intensità. Io ti amo. Anche in me, per la prima volta nella mia vita, si è fatto strada questo stesso sentimento – confessò Beatrice, non senza imbarazzo e con i battiti cardiaci talmente forti, che potevano essere percepiti da un udito sensibile; - anch’io ti amo, Alberto, ti amo, bada bene, non sono semplicemente innamorata di te, cioè presa da una semplice passione. Il mio è un sentimento molto profondo, che non ho mai conosciuto prima e dal quale sento di essere posseduta. o    L’amore esiste nella natura. Ci s’innamora, quindi, perché questo tassello dell’universo è già insito nell’uomo. Dominare questo sentimento é impossibile; se vi si è costretti, è certamente un’azione violenta contro se stessi e si compie un atto contro la natura. Sono sconvolta anch’io da questo mio nuovo stato dell’animo; ti ripeto di amarti intensamente, Alberto, ma ho paura, tanta paura a proseguire insieme con te il percorso che si presenta davanti a noi. Perché dici ciò? In due ce la faremo – l’interruppe Alberto. Ma, è anzitutto la lontananza, - riprese Beatrice - poi il tuo proposito di andare in giro per il mondo ed inoltre la diversità di costumi, di religione, perfino di etica politica, che si frappongono tra noi. Io appartengo ad un ambiente conservatore e molto religioso, mentre tu sei un individuo fondamentalmente libertario. Per superare le tante difficoltà della vita – osservò Alberto – occorre rinunciare anche ad una parte di noi stessi, a talune nostre aspirazioni, per trovare quel giusto equilibrio che ci consenta di procedere, se non con piena armonia, nel quotidiano, con il minor danno possibile. Sono convinta, invece, che, se ci lasciamo trasportare dal corso degli eventi, dovremo affrontare ostacoli ambientali ed incomprensioni personali, che si presenteranno di difficile soluzione. Ammesso che riusciremmo a superarli andando contro tutto ciò che ci circonda - concluse Beatrice - quale sarà il prezzo che dovremo pagare? o    Il mondo, – incalzò Alberto- l’Italia stanno per cambiare e chi si opporrà al nuovo corso sarà travolto dagli eventi. Ti rendi conto, Beatrice, che per la prima volta, nel nostro paese, si è avuto il coraggio di porsi contro il volere della Chiesa Cattolica e di un determinato, forte partito al potere per chiedere l’approvazione della legge che consenta il divorzio? Questo tuo mondo non può rimanere fermo a tutto ciò che sino ad oggi è stato e tu, e tanti come te come noi, non possiamo continuare ad essere una sua vittima. o    E’ necessario interrompere questi nostri incontri, - asserì Beatrice, abbassando gli occhi, già velati dalle lacrime, ed il tono della voce. Ella, però, aveva la sensazione che la sua mente non fosse più nelle condizioni di pensare, a seguito dell’impatto violento dei suoi sensi con una nuova realtà. Il tramonto di quella sera fu scolorito dalle lacrime, non più trattenute, che a fiotti uscivano dai begli occhi della ragazza. Quella notte, il vento urlò tra le fronde dei secolari castagni attorno al lago e le sue acque, sollevatesi dal tranquillo letto, furono ancor più increspate da una fitta pioggia di quel torrido agosto. La lunga veglia notturna dei due giovani si arrese alfine alla tenue luce dell’alba; dopo le poche ore di tregua, il tormento riprese a sconvolgere la loro contingente quotidianità. Nei due giorni a venire non si videro e Alberto decise, pertanto, di anticipare la fine del suo soggiorno in quei posti.   Prima di partire, Alberto si recò presso il piccolo Santuario della Madonna Nera, laddove un giorno Beatrice lo aveva condotto sollecitandolo a pregare insieme: da parecchi anni Alberto si era allontanato dalla Chiesa e dalla religione cattolica. Entratovi, nella penombra del pomeriggio, scorse le terga di un corpo a lui noto, genuflesso sulla balaustra di fronte all’Altare Maggiore, dietro al quale, in alto, era collocata la statua della Madonna, rischiarata da una luce soffusa: era Beatrice, che pregava intensamente. Alberto, fattosi il segno della Croce, non trovò la forza di elevare una preghiera, ma rimase in silenzio mirando or l’immagine della Vergine, or il capo di Beatrice, i cui lunghi capelli neri, annodati dietro la nuca, a forma di toupet, davano ancor più risalto alla bellezza di quel volto; un volto, che a Alberto appariva incorniciato in una tela del Rinascimento, illuminata da un’atmosfera di antico misticismo. Dio aveva tracciato già il suo piano o Qualche Altro, in Sua vece, aveva deciso il percorso di vita dei due giovani. Ma essi non sapevano di essere vittime designate perché si compiesse un certo destino... Quale? La ragazza si alzò per avviarsi verso l’uscita, ma ne venne impedita in quanto l’uomo, alle sue spalle, le ostacolava il percorso; incrociando il suo sguardo, Beatrice non poté fare a meno di bloccarsi di fronte a Alberto: il turbinio di sentimenti riaffiorò ed investì i due giovani. I loro animi si sondarono attraverso lo sguardo che li penetrava. Uscirono, e sostarono sul sagrato della Chiesa. Alberto le comunicò che l’indomani sarebbe partito; visto che si erano incontrati, le manifestò il desiderio che avrebbe voluto congedarsi andando insieme a cena. Era la loro prima cena, ma Alberto promise che sarebbe stata anche l’ultima: un principio ed una fine con un definitivo addio. Beatrice accettò l’invito e fece cenno alla sua amica, Gemma, che sostava in macchina e che l’aveva accompagnata al Santuario, di avvicinarsi. Le presentò Alberto e, scusandosi, la pregò di rientrare da sola al paese, ma soggiunse che avrebbe telefonato alla propria madre per informarla che sarebbero rientrate sul tardi; Gemma, quindi, non si sarebbe dovuta far vedere in giro, quella sera, per le strade del borgo. Beatrice, per la prima volta lontana da casa sino a tarda ora, incassò una durissima reprimenda telefonica da parte della genitrice. A pochissima distanza dal luogo sacro, c’era una piccola località balneare verso la quale si diressero alla ricerca di un ristorante defilato. Consumarono una rapida cena, durante la quale Alberto comunicò a Beatrice che sarebbe rientrato immediatamente in Sicilia e, dopo aver sistemato le sue cose, sarebbe partito per Roma per iniziare quel lavoro di cui le aveva già parlato. Oltre gli effetti personali, si sarebbe portato dietro il cane, anche se era convinto che gli avrebbe procurato grossi problemi. - Perché non lo lasci a me? Saprei badargli, oltretutto non ha nemmeno un anno e, quindi, si potrebbe affezionare a me- azzardò a dire Beatrice - Avrei anche un tuo ricordo... La cosa è fattibile, ma occorrerebbe provare se Black sia disponibile ad assuefarsi lontano da me senza soffrire... però io tra qualche giorno debbo partire... - rispose Alberto. Si avviarono, a piedi, verso il finire del lungomare per concludere la serata. Da lontano s’udivano le note di un complesso, che suonava presso un night all’aperto. Alberto, io non so se sia un segno divino quello che ha spinto entrambi presso la Madonna Nera e nella medesima ora - iniziò il dialogo Beatrice -. Una cosa, però, è certa: non credevo che l’amore fosse anche dolore o, meglio, era lungi da me il pensiero di potermi innamorare sino al punto di entrare in crisi spirituale con me stessa... o    Bisogna avere il coraggio di affrontare le incognite del futuro- la interruppe Alberto accendendosi una sigaretta-. Il sentimento che è nato e cresciuto in noi, in questi giorni, non è quello usuale dell’innamorarsi con il coinvolgimento di tutti i sensi. Per quanto mi riguarda, è la parte più profonda e più nascosta del mio intimo, che si è svegliata dopo anni di torpore, trasmettendo alla ragione sentimenti mai conosciuti: non passione, ma la quiete di un fuoco che scalda l’animo infreddolito, che ti dà un senso di pace in un’armonica visione di ciò che veramente bello; ma, quel fuoco, se lo tocchi ti brucia. E’ così che ti amo, Beatrice, si, ti amo; dirti che ti voglio bene sarebbe ben misera cosa di fronte all’emozione che io provo per la tua immagine, al piacere, non formale, di stare così, semplicemente, accanto ed insieme con te. o    C’è in me un’immane lotta tra quello che mi è stato inculcato ed il nuovo che sto conoscendo, che non considero innaturale; e tutto ciò che non va contro la natura credo che sia buono ed accettabile. Ma, ho paura, tanta paura...- asseriva con costernazione Beatrice. o    Io domani parto- dichiarò il giovane- e sarei andato via senza né vederti, né salutarti. Convengo anch’io che c’è “qualcosa” sopra di noi, che ha fatto in modo che c’incontrassimo, e per di più presso quel Santuario, laddove tu, alcuni giorni addietro, mi ci hai condotto poiché dovevi assistere ad un rito religioso; ed io non entravo nelle chiese se non per ammirare eventuali opere d’arte. o    Anche se la cascata di amore sommerge il mio animo, Alberto, mio caro,- riprese la donna-le mie perplessità permangono e, quindi, sarebbe una battaglia dura e disperata contro noi stessi se ci lasciassimo andare ai desideri del nostro cuore. o    Non credo proprio che quanto da te messo in risalto sia un ostacolo insormontabile: occorre superare pregiudizi e distanze ideologiche: e le persone in possesso di una certa cultura e dotate di intelligenza riescono a trovarne la soluzione. Certo, non ti aggiungo nulla di nuovo, ma ritengo che il segreto per un’armonia della coppia stia nelle piccole privazioni reciproche o nelle rinunzie alle grandi ambizioni, quelle che creano lontananza; due persone che si amano, invece, devono vivere accanto per alimentare il fuoco quotidiano dell’amore. - Questo, di rimando, sosteneva Alberto sperando di far breccia nei pensieri di Beatrice -. Malgrado la sua giovanissima età, la donna era dotata di un forte equilibrio interiore, che era il frutto di un’antica sapienza, che si tramandava di generazione in generazione alla luce delle traversie subite da quell’etnia. Ma coesisteva in lei una grande bontà d’animo, che la induceva ad amare il suo prossimo. Forza e bontà d’animo, che generavano un drammatico, intimo conflitto, che, spesso, in quei giorni, l’avevano fatta ritrovare con le gote inumidite da lacrime sgorgate nel silenzio di un pianto che partiva dal cuore e lì rimaneva chiuso. o    Dipende da te, Beatrice, - riprese Alberto – continuare ad alimentare questo sentimento, che è meraviglioso perché raramente così si rivela: puro, ma intenso e sconvolgente, e, nel medesimo istante, nicchia per una serena sublimazione dell’animo. Essendo tua intenzione iscriverti all’Università di Napoli, sarà possibile vederci spesso, forse ogni fine settimana, giacché io sarò già a Roma. Dopo un breve, intenso silenzio, Beatrice decise di affrontare il destino, che le aveva fatto incontrare quell’uomo, affidandosi a Dio: “Ebbene, Alberto, io ti attendo, ai primi di ottobre, presso l’Istituto di Lingue Orientali dell’Università di Napoli...”. La luna, sullo sfondo di un cielo turchino scuro, fece filtrare i suoi raggi attraverso i rami dei palmizi per far brillare le “due gemme“ apparse sulle guance di Beatrice: erano ancora lacrime, lucide e calde, che davano la stura ad una gioiosa speranza di un grande amore... Alberto le prese la mano intrecciandone le dita per uno scambio della loro reciproca emozione; si avviarono verso la macchina per rientrare. Alberto comunicò a Beatrice che le avrebbe consegnato il cane lupo sino ad ottobre e sarebbe partito per la Sicilia un paio di giorni dopo per vedere, nel frattempo, la reazione di Black. Ad ottobre, però, dopo essersi sistemato a Roma in qualche piccolo appartamentino ammobiliato, sarebbe venuto per riprenderselo. Anziché percorrere la strada più breve per raggiungere il paese, imboccarono quella più lunga, che passava accanto al laghetto collinare, dov’erano stati alcuni giorni prima ed avevano messo a nudo il loro sentimento. Alberto aveva con sè la pistola, con regolare porto d’armi, per cui si sentiva sereno nel fermare la macchina in quel posto solitario, sotto gli alberi che costeggiavano il lago. La luna di prima, ancora più alta e più luminosa nel cielo di quella notte di fine agosto, invitava a calpestare la ghiaia presso la riva del lago. Scesero dalla macchina e, tenendosi per mano, i due innamorati procedevano in silenzio contemplando lo specchio d’acqua che rifletteva sulla sua superficie la smerlatura delle creste montuose che lo chiudevano in un abbraccio. Si fermarono per fissare quell’istante nei loro occhi, le mani si strinsero ancor di più, i loro corpi si avvicinarono fino a sfiorarsi: ali di farfalle erano le loro labbra, che si lambivano e si schiudevano per sussurrarsi, per la prima volta, “ti amo”. Un “ti amo”, che aveva la carica di un giuramento, suggellato da un solenne atto d’amore: il loro primo bacio. Beatrice diede inizio alla storia del suo primo ed unico amore. Le braccia di Alberto la cinsero forte ed ella si abbandonò, ricambiando i suoi baci sempre più intensi e lunghi; fremevano di voluttà mentre sentivano lo spirito uscire dai loro corpi per volare verso le cime dei monti, laddove non senti più il mondo che è ai tuoi piedi: era il “piacere” nella sua globale essenza, di spirito e di materia, che insieme si fondono in quei momenti sublimi di fuga dalle quotidianità terrestri. Beatrice non resse alla complessità delle sensazioni che la pervasero e le forze le vennero meno; Alberto fece appena in tempo a prenderla tra le sue braccia ed adagiarla sulla ghiaia: riportò la candida ragazza alla normalità bagnandole le gote con l’acqua del lago. Nei brevi giorni che seguirono e che servirono più che altro per fare ambientare Black presso la sua provvisoria, nuova dimora, i due innamorati si videro solo qualche volta, e di giorno, poiché “quella notte” Beatrice era stata destinataria di una violenta sfuriata da parte della madre, la quale, non credendo di essere stata sino a quell’ora con Gemma, aveva lasciato partire anche qualche ceffone all’indirizzo del volto della figlia, proibendole, contestualmente, di continuare la frequenza con il “siciliano”. Alberto, prima di partire, scrisse una lettera, che riuscì a consegnare personalmente alla donna, nella quale le ribadiva il suo amore, la sua sincerità, la sua disponibilità a volere continuare su una strada di fermezza di intenti. La lettera casualmente capitò sotto le lenti della mamma, la quale minacciò che non l’avrebbe inviata a Napoli per iscriversi all’Università. A questo punto, Beatrice fu costretta a dire la prima bugia della sua vita promettendo alla genitrice che avrebbe cessato ogni rapporto con Alberto e che non l’avrebbe più rivisto. Black aveva superato abbastanza bene la prova. Il suo padrone, quindi, poteva partire per rientrare in Sicilia, alla volta di Castel Lungo, dove abitava con sua madre, Angela Montemylè. Dopo una notte insonne, Alberto si appisolò sino a mezzogiorno e, consumata una breve colazione, si mise in viaggio. Unici compagni furono la musica trasmessa dalla radio di bordo ed i progetti, in cuor suo, per la nuova vita che l’attendeva, soprattutto accanto a Beatrice. Al’anziana madre, che gli chiese come avesse trascorso le sue vacanze, Alberto rispose: - Forse, ho trovato la compagna della mia vita.     Nell’attesa che arrivasse l’ottobre, le giornate furono per entrambi abbastanza tormentate; un mese circa di trepidazione e di solitudine interiore, accentuate dall’impossibilità di comunicare giacché il telefono e la posta erano sotto il rigido controllo della madre di Beatrice.   In una giornata di un caldo fine settembre, Alberto, accogliendo l’invito di alcuni amici, partecipò ad un’escursione sulle montagne dei Nebrodi. Ma, ahimè, il capriccioso destino l’attendeva su uno sperone di roccia a cavaliere di un canalone profondo una trentina di metri: dopo aver scattato alcune fotografie stando ritto su di esso, ma in equilibrio precario, nel muoversi, per discenderlo, il piede sinistro venne a trovarsi senza più un sostegno e Alberto, perdendo la presa con la roccia, rotolò lungo il pendio per trovarsi dolorante ed immobilizzato alla fine della corsa. All’ospedale, presso il quale venne ricoverato in stato di incoscienza, gli riscontrarono un trauma cranico e due vertebre fratturate: prognosi, trenta giorni di degenza, salvo complicazioni. Ripresa conoscenza, pur tra l’intontimento dei farmaci che gli venivano somministrati, al dolore fisico il giovane ebbe ad aggiungere il dispiacere per l’impossibilità di comunicare a Beatrice quest’incidente, le sue condizioni di salute, l’immobilizzo del suo corpo in un letto di ospedale, ma soprattutto il fatto di non potere mantenere l’impegno assunto di incontrarsi ai primi di ottobre. Beatrice, infatti, non avendo avuto più notizie, si persuase di essere stata raggirata. L’amore, che portava racchiuso in sé, le diceva, però, che qualcosa non aveva funzionato per il verso giusto ed imprecava contro il fatto di non essersi fatta dare il recapito di Alberto, anche se le sarebbe stato impossibile comunicare con lui senza che lo scoprissero i suoi familiari. Correvano gli anni sessanta ed i mezzi di telecomunicazione non erano al livello di quelli della fine del ventesimo secolo.   Il decorso della degenza di Alberto in ospedale si prolungò per altri quindici giorni e di ulteriori venti al proprio domicilio per terapia e massaggi. Il suo morale era a terra, mentre a Beatrice stava per venire meno l’entusiasmo e l’interesse per le lezioni delle lingue orientali.   Appena fu nelle condizioni di affrontare il viaggio, Alberto avvisò il direttore del giornale che l’avrebbe raggiunto soltanto ai primi del mese di gennaio dell’anno successivo e si precipitò a Napoli mettendosi a frequentare tutte le lezioni del primo anno della Facoltà cui si era iscritta Beatrice, nella speranza di poterla incontrare. Dopo qualche giorno, infatti, la vide che si accingeva a varcare la soglia dell’ingresso principale dell’Istituto. Rimasero, per qualche istante, ammutoliti interrogandosi vicendevolmente con il solo sguardo, dopo di che Beatrice emise un grido: “Alberto”, e si gettò tra le sue braccia dando finalmente sfogo alla sofferenza, a lungo repressa, attraverso un pianto liberatorio, questa volta di gioia.   Trascorsero insieme l’intera giornata comunicandosi tutto quanto era accaduto a ciascuno di loro, durante questo lungo, infelice silenzio.   Alberto, dopo avere raccontato a Beatrice dell’incidente e della lunga degenza ospedaliera, le disse della sua disperazione per non averla potuta avvisare; non era in possesso, infatti, del numero telefonico di Gemma e non ne conosceva il cognome. La ragguagliò sul suo stato di salute e le comunicò che si sarebbe fermato a Napoli alcuni giorni per stare insieme con lei.   Beatrice confessò a Alberto che il mancato incontro ottobrino era stato da lei inteso come il solito raggiro di un effimero amore estivo, ma, riandando col pensiero ai momenti trascorsi insieme, agli atti, alle parole, si era detta in cuor suo che non era possibile che un uomo fingesse sino a tal punto. E poi, il cane, lasciatole quasi come pegno, le assicurava che Alberto non avrebbe tradito anche quella bestia, alla quale teneva tanto. Si era, quindi, fatta lentamente strada in lei l’intima speranza, che era quasi una certezza, che avrebbe rivisto, alla fine, il suo Alberto. Gli comunicò anche che Black era rimasto in consegna al suo fattore, che badava alle proprietà della famiglia e viveva in campagna.   Questo periodo d’isolamento e di solitudine, mi è servito per fare maturare in me – proseguì Beatrice – il convincimento, sofferto ma determinato, che, se Iddio ci avesse concesso di rivederci, io avrei accettato di lottare avverso tutto ciò che ci sarebbe stato contro. Il sentimento, infatti, che sgorga dalla parte più profonda del proprio animo, saturo quindi di spiritualità, rappresenta il nucleo esistenziale di un essere umano. Voglio continuare ad amarti, pertanto, per fare, delle nostre due, una vita soltanto.   La tua decisione non può che farmi sommamente felice perché, nel mio lungo silenzio ospedaliero, ho deciso che, se ti avessi avuta, avrei rinunciato al mio intendimento di andare in giro per il mondo, nella qualità di giornalista. Il mondo, ove sarà possibile e ne avremo le possibilità, lo voglio conoscere assieme a te, - le disse di rimando Alberto.   Trascorsero insieme ogni istante di quei pochi giorni, dal mattino presto, - allorquando Alberto, uscendo dall’albergo, dove aveva preso alloggio, passava a prendere Beatrice al pensionato universitario - sino a sera. Visitarono la città, le gallerie d’arte ed i monumenti più importanti, i luoghi più caratteristici di Napoli. Si apprestavano le vacanze di Natale e la studentessa doveva rientrare al paese: fecero insieme il percorso in treno sino alla stazione ferroviaria, laddove Beatrice scese per continuare il viaggio in pullman, mentre Alberto proseguì per la Sicilia. Questa volta si fornirono di reciproci recapiti telefonici: Beatrice le diede quello della sua amica Gemma.   Si scambiarono gli auguri a Natale ed a Capo d’Anno. In occasione di quest’ultima festività, Alberto comunicò a Beatrice che dopo l’Epifania avrebbe dovuto iniziare la sua attività giornalistica presso il nuovo editore romano. Le soggiunse che sarebbe partito con la sua Lancia Appia e sarebbe passato a prendersi il cane lupo avendo già trovato un bilocale a Roma, dove alloggiare: “sarebbe bello fare il viaggio insieme con la macchina sino a Napoli, le disse Alberto. Ti faccio addirittura la proposta di trascorrere l’Epifania sulla neve. Inventati una scusa per un rientro a Napoli prima dell’inizio delle lezioni e fammelo sapere al più presto”.   Dopo qualche giorno, arrivò la risposta: “Accetto l’invito. - disse Beatrice – Ho detto a mia madre che avrei dovuto partecipare ad un corso privato di dattilografia, a Napoli, che inizia il giorno dopo l’Epifania e che Gemma mi avrebbe dato un passaggio sino alla solita stazione ferroviaria, per poi proseguire col treno. Sarò ad attenderti alla fermata dell’autobus presso le Terme, in quanto Gemma mi lascerà lì. Dammi il giorno e l’ora dell’incontro”.   La vigilia dell’Epifania, Roccaraso li vide suoi ospiti. Presero alloggio in albergo in due camere distinte, ma l’una accanto all’altra, non trascurando di sistemare anche Black, il quale sin da quando aveva rivisto il suo padrone non finiva di saltargli addosso, di leccarlo e di guaire per la felicità.   Stavano seduti in un angolo defilato del salone-bar sorseggiando il tè. Alberto teneva lontano dai suoi pensieri un rapporto sessuale con Beatrice. Desiderava, infatti, che il loro candido legame si trasformasse in un rapporto completo allorquando la disponibilità di spazi temporali e di frequentazione avrebbe consentito allo spirito ed al corpo di entrambi di fondersi per divenire un’unica essenza. Tutto ciò spiegò a Beatrice comunicandole anche che quella “sua prima volta” andava ricercata in un’atmosfera ed in condizioni ben diverse, che non fossero “il mordi e fuggi” di un paio di giorni di convivenza.   - Alberto, sei stato mai innamorato di qualcuno? – chiese Beatrice, dopo che egli aveva finito di ragionare sul problema dei rapporti sessuali tra loro.   Alberto fece passare qualche minuto prima di rispondere con la scusa di fare acquietare il cane, che gli voleva saltare addosso. Dopo di che si accese una sigaretta e diede inizio alla temuta risposta:   - E’ questa una domanda che mi aspettavo da qualche tempo. A dire il vero, tante volte sono stato sul punto di iniziare il discorso su questo argomento, ma mi sono tirato indietro, … si…, senz’altro per vigliaccheria, dovuta al fatto che avevo paura di perderti nello stesso momento in cui avevo trovato il vero amore. Adesso io ti chiedo perdono per averti nascosto il mio passato, o meglio per non essere stato del tutto limpido, sin dal primo momento, anche su ciò. Dopo che ti avrò letto anche quest’ultima pagina della mia vita, tenuta nascosta, sei libera di dirmi e di decidere quello che ritieni più giusto. Ti chiedo solo di capirmi perché in me non c’era, nè c’è, assolutamente la benché minima intenzione di farti del male. Vorrei tentare con te, avendo percepito che tu possiedi una particolare spiritualità, di uscire dal tunnel buio che circonda la mia esistenza. Giudicami pure egoista; ma, credimi, è la prima volta che “approfitto di una persona”, tra virgolette, per trarne un tornaconto personale: fondamentalmente non lo sono, anzi mi viene rimproverato da mia madre l’eccessivo altruismo.   Dopo una pausa per accarezzare Black, Alberto riprese il suo racconto:   -Ho avuto una storia d’amore alcuni anni addietro ed una vicenda successiva, naturalmente con due donne differenti. La prima, riguarda una ragazza con la quale c’è stata una certa intimità ed anche un legame affettivo che avevamo già deciso di sposarci. Ma le nostre strade si separarono per sopravvenute incomprensioni reciproche. Beatrice si alzò per prendersi un bicchiere d’acqua.   Alberto, dopo essersi fatto portare un whisky dal barman, si accese un’ulteriore sigaretta e proseguì nel non facile racconto:   - Il motivo per cui fui indotto a sposare quella donna era dovuto adun trauma che mi portavo dietro sin da bambino. Infatti, io sono figlio adottivo di quella donna che chiamo mamma. La quale mi adottò quando i miei genitori naturali vennero uccisi da alcuni banditi. Venni a sapere, divenuto adulto, che la mia vera mamma era figlia di una donna con la quale mio nonno, il Barone Averardo, aveva avuto una relazione adulterina, da cui nacque mia madre, Rosa. La quale si sposò con un medico e partorì me. Ulteriori vicende dolorose determinarono l’eccidio dei miei genitori. Angela, avendo saputo che io ero suo nipote ed essendo rimasto orfano, col consenso della nonna Nunziatina, mi adottò riuscendo anche ad aggiungere al mio originario cognome, quello di mio nonno Averardo. Il trauma , che ne ricevetti fu tremendo e , per superarlo, sono stato in cura, per diversi anni, con uno psichiatra e con uno psicologo. Devo a mia madre se sono riuscito a guarire avendomi affidato a specialisti e devo ancora a lei i miei studi. Mi sono portato dietro, però, la solitudine interiore ed è per questo motivo che ho commesso l’errore di sposarmi con una donna che mi era sembrata potesse essere quella giusta. Prima di me, lei era stata con un altro uomo, che aveva lasciato quando questi si trasferì in un'altra città. Da un paio d’anni stavamo insieme, “senza infamia e senza lode”, come suol dirsi, quando un giorno, a seguito di una soffiata anonima, la colsi, in un luogo appartato e già coperto dalle ombre di fine giornata, che faceva l’amore, in macchina: il suo precedente amico era ritornato a lavorare nella città dove noi abitavamo. Lasciai immediatamente lei e la casa.   L’uomo si alzò ed accompagnò alla cuccia il cane. Quando tornò, riprese a dire: << In uno dei miei discorsi precedenti ti ho accennato alla battaglia in corso per il divorzio, che è una battaglia di civiltà: uno di quelli che usufruirà della nuova legge, sarò io>>.   Beatrice rimase in silenzio guardando con incredulo stupore Alberto. Indi, si alzò per chiedere al barman un altro bicchiere d’acqua minerale; passò dal portiere per la chiave della sua camera; vi salì per farsi una doccia. Ridiscese e tornò a sedere accanto all’uomo. Malgrado lo stacco di circa venti minuti e la rinfrescata, le guance erano di fuoco, lo sguardo velato da una patina acquosa. Per intuibili motivi, si sentiva in preda a forte emozione ed agitazione: si era scatenato in lei un travagliato conflitto, un disagio interiore. Ma, e rimaneva sorpresa, non avvertiva risentimento per il comportamento di Alberto, che le aveva taciuto una amara verità. L’amore aveva vinto! Facendosi animo, ruppe il silenzio:   - Ora intuisco il motivo per cui i tuoi occhi, quando ti ho conosciuto, sembravano spenti anche se da essi emanava un fascino magnetico. Sono addolorata per quanto è accaduto alla tua originaria famiglia ed a te personalmente. Non ho nulla da perdonarti, né da rimproverati. Capisco perfettamente il tuo comportamento, dopo quello che mi hai raccontato. Ritengo che il dolore e le delusioni portino ad una condizione di infelicità difficile a superarsi, ma se io sono stata lo strumento che ti ha fatto uscire da questa situazione, non so come definirla, …forse… d’intensa depressione, sono ben lieta di averti aiutato.   Dopo aver poggiato la mano sulla guancia di Alberto, la donna proseguì:   L’amore, il vero amore però, credo che non si distrugga, né che si possa fermare dinnanzi a barriere che improvvisamente vi si frappongono; anzi possono diventare uno strumento di prova della sua tenuta ed un mezzo per rafforzarlo ancor più. Certo, se tu mi avessi detto, sin dal primo momento che ci siamo conosciuti, che eri sposato, anche se separato da tua moglie, forse oggi non saremmo qui a parlare; dico forse, perché sin da quel primo istante che il mio sguardo non poté staccarsi dal fascino, quasi ipnotico, dei tuoi occhi, mi sono sentita sconvolgere dentro; non so quindi sino a che punto sarei stata capace di dominare i miei sentimenti. Indubbiamente, il divorzio o lo stato di separazione pongono seri ostacoli all’interno della mia famiglia e determinano uno stato di conflitto religioso alla mia coscienza. Ma, oggi, so che ti amo immensamente e non voglio rinunziare al tuo amore. Il resto si vedrà!   Ti sono grato per la generosità nell’avermi graziato per il mio colpevole silenzio. Da quando ho fatto quelle esperienze negative ho conosciuto donne con le quali non mi sono soffermato ad intessere una trama d’amore seria perché, dopo averle frequentate per un paio di giorni, nel mio cervello si accendeva un lumicino, come un allarme, che mi diceva di proseguire oltre. Ho conosciuto te ed il lumicino non si è acceso; tutto è stato diverso, non c’è stato, né c’è alcunché che solleciti il mio stato di allerta. Dopo le mie esperienze passate e dopo ciò che mi hai manifestato, non voglio bruciare le tappe e desidero che tutto tra noi accada nella maniera più naturale possibile, lasciando fare al destino o, se preferisci, mettendoci nelle mani di Dio, nel quale tu confidi ciecamente.   Alberto, stai certo, in me potrai trovare un libro, che in ogni momento della vita potrai aprire per leggere ciò che a tutti è visibile; mi è stato insegnato di praticare la verità come costume di vita, di rispettare il prossimo e di non ledere la dignità personale di alcuno. Se questo nostro amore avrà la fortuna di vivere, diventerà sempre più forte e crescerà sempre più. Così come io non ti nasconderò niente di me, altrettanto desidero che faccia tu: nessun’ombra, mai, dovrà offuscare il nostro cammino d’amore e di vita. E sono certa che quel Dio, del quale tu dubiti, non ci abbandonerà, anzi ci aiuterà. Ho letto da qualche parte che il vero Amore s’incontra una sola volta nella propria vita; bisogna saper cogliere quell’evento e fermarlo per sempre. Ogni essere umano dovrebbe avere il diritto a vivere questo momento, che lo possa accompagnare lungo l’arco della propria vita. Sappiamo che, purtroppo, non sempre è così.   Dimmi di te, piuttosto: sei stata innamorata, fidanzata?   Né innamorata, né fidanzata. La mia vita si è svolta tra casa e scuola, prima quella dell’obbligo al mio paese, e poi il Magistrale frequentato presso un Istituto di monache, che è aperto anche alle studentesse esterne, e che dista dalla mia residenza trenta minuti di pullmann: ogni giorno io percorrevo questo tragitto. Non ho avuto, quindi, modo di frequentare ragazzi. Si, c’è stata un'innocente simpatia adolescenziale con qualche giovanotto, ma senza alcun seguito. L’amore lo conosco solo attraverso qualche pellicola, alla cui proiezione ho assistito presso la sala cinematografica del mio paese.   Magari quella parrocchiale…-la interruppe Alberto.   Beatrice non raccolse e proseguì: “ Tu sei il primo uomo che conosco, il mio primo amore, la mia prima evasione dall’ambiente bigotto e repressivo di casa mia. E’ stato solo dopo il conseguimento del diploma magistrale che, a fatica, sono riuscita a conquistarmi alcuni miei spazi di libertà: andare con le amiche fuori paese, continuare gli studi in una città lontana vivendovi da sola. Mi sono dovuta imporre a conseguire certi obiettivi col raggiungimento della mia maggiore età: ma quanti scontri ho dovuto affrontare con mia madre, la quale, più avanza negli anni e più si fa strada in lei una concezione di vita, che oserei definire integralista, per quanto riguarda la religione, ma, in generale, esasperatamente ostile al nuovo”.   Si trasferirono nella hall, dove era acceso il fuoco del caminetto e vi rimasero sino all’ora di cena ciascuno bevendo il proprio drink. Continuarono a discutere sul concetto del giusto e sul perché diviene giusto ciò che una parte degli uomini decide che lo sia. <>. <>, convennero i due giovani.   Le stanze separate, pur tuttavia, non impedirono loro lo scambio di effusioni spontanee, che si infrangevano contro il tormento dei freni tirati. Trascorsero quei tre giorni, al mattino, prendendo lezioni di sci perché, più in là, si ripromettevano di ritornare sulla neve; nel pomeriggio, dopo la siesta, andando in giro per il paese o percorrendo i sentieri intorno quando non nevicava. Vissero i dopo cena, l’uno, in un locale notturno danzando il cosiddetto “ballo della mattonella”, e l’altro, assistendo ad uno spettacolo di varietà. Cercavano di rifarsi delle tristi giornate trascorse in occasione dell’incidente di Alberto.   Furono felici in quei giorni e sentivano che il loro legame cresceva d’intensità. A malincuore dovettero lasciare il candore di quelle montagne, lo spettacolo del fumo dei comignoli che correva incontro ai fiocchi di neve, il calore del caminetto, che li attendeva, nella hall, al loro rientro dagli svaghi notturni. Davanti a quel fuoco crebbe, in quei giorni, la loro sete d’amore.   Beatrice riprese a frequentare l’Università e Alberto iniziò a lavorare presso il giornale. La domenica mattina, col treno, Alberto arrivava a Napoli e, quando era bel tempo, visitavano la città, i suoi monumenti ed i dintorni, deliziandosi soprattutto in quelli più noti, tra cui Posillipo, Margellina, il Vomero, ove facevano colazione intrattenendosi nei locali tipici. La visione del Golfo li estasiava sino al punto che passavano ore ed ore a rimirare il panorama discutendo dei loro problemi e facendo progetti per il futuro. S’intrattenevano anche sulla situazione politica e sociale, che stava attraversando il paese, ma trovavano il modo di palesarsi il loro amore attraverso reciproche attenzioni, anche le più piccole.   Passeggiando, intrecciavano le dita delle mani come se volessero percepire il pulsare dei loro cuori. Guardarsi negli occhi eguagliava l’intensità di un lungo bacio e, quando era possibile scambiarselo, quelle tenerezze rivelavano la genuinità del loro amore: un bacio pudico, ma che non offendeva la casuale visione da parte di altri.   Ogni volta Alberto portava un piccolo omaggio a Beatrice: una rosa rossa o fiori particolari, talvolta un profumo o un piccolo monile o dei dolciumi. In nottata Alberto rientrava a Roma e, prima di lasciarsi, si rammentavano vicendevolmente che ogni mercoledì si sarebbero scambiati dei messaggi epistolari, mentre il giovedì sera Beatrice avrebbe telefonato a Alberto, in redazione.   Venne il Primo maggio con un bel ponte di tre giorni e Alberto chiese al direttore del giornale se poteva essere lasciato libero. Ottenutone il consenso, invitò Beatrice a trascorrere, a Roma, insieme a lui, quei giorni.   Nel pomeriggio di giovedì erano già insieme. Dopo l’esperienza delle due camere separate, a Roccaraso, Beatrice, rincuorata della fermezza dei sentimenti di Alberto, accolse la sua proposta di occupare lo stesso tetto, considerato altresì che l’appartamento era munito di due locali; Alberto cedette la sua camera alla ragazza, mentre lui avrebbe dormito sul divano nell’ingresso-soggiorno.   Il giovane diede il benvenuto a Roma alla sua donna con una corbeille di roselline selvatiche, ordinata al fioraio alcuni giorni prima. La sera andarono a cena in una tipica trattoria romana, ma senza tirare sino a notte tarda giacché l’indomani, avendo stabilito di trascorrerlo “fuori porta”, come si usa per il primo maggio a Roma, dovevano partire di buon’ora per Tivoli. La porta della camera da letto venne chiusa, con grande, reciproco sforzo di volontà, dopo un non breve bacio, a fatica interrotto, con cui i due innamorati si augurarono la buonanotte.   Fu un caldo primo maggio, allietato dal sole romano, quello che, l’indomani, accompagnò i due giovani sulla collina, dove sorge la deliziosa Tivoli. Beatrice volle vedere tutto ciò che di bello era visitabile. Le acque dell’Aniene rinfrescarono il volto dei due innamorati: il parco di Villa Gregoriana, con le sue grotte ed i templi, innalzati a divinità pagane, con i suoi alberi rari, tra cui lauri e agrifogli, e lo spettacolo del fiume, che, con un balzo di circa cento metri, si offre alla vista con le sue celebri cascate, furono le prime bellezze naturali che vennero visitate durante la mattinata.   Nel pomeriggio si deliziarono a girare e a godersi la frescura dei famosi giochi d’acqua e delle cascatelle di Villa d’Este, delle cento fontane del giardino all’italiana dalla ricca e splendida vegetazione.   Ma lo spettacolo più avvincente, più indimenticabile fu quello, inaspettato, cui assistettero, dopo il toast serale con fettine abbrustolite di pane casereccio ed imbottite con prosciutto di cinghiale. Vennero a sapere, infatti, che al Canopo di Villa Adriana, quella sera, facevano le prove generali dello spettacolo di “Suono e Luce”, in programma per l’imminente estate, e che l’ingresso, da parte del pubblico, in via eccezionale, era libero; in verità, considerate le miti serate di quei giorni, gli Amministratori di Tivoli vollero offrire uno spettacolo a coloro che, in occasione della festività di quella giornata, si trovarono ospiti della ridente località.   La Villa fu costruita dall’imperatore romano Adriano: uomo di vasta cultura, viaggiatore infaticabile, amante delle arti e della bellezza classica, di quelle soprattutto che fiorirono nell’era ellenistica. Egli volle che fosse riprodotto, nell’immensa estensione della Villa, quanto di più bello egli aveva visto girando il mondo, soprattutto quello orientale, ed in particolare quello greco.   Malgrado nei secoli erano andate perse parecchie opere d’arte e rimanevano i ruderi di templi, dei palazzi e di altre costruzioni, a suo tempo destinate a luoghi di divagazioni, di cultura e di cura del corpo, attraverso gli scavi archeologici erano venute alla luce parecchie delle antiche bellezze architettoniche ed artistiche.   La Villa, durante l’estate, era aperta al pubblico in notturna: magistralmente illuminata, con luci soffuse, invitava alla riflessione dinnanzi a tanto genio creativo ed infondeva momenti di serenità, d’amore, di sollecitazione del pensiero verso ciò che dall’animo trascende.   Alberto e Beatrice, dopo un rapido giro presso i luoghi, che era consentito visitare, si avviarono verso quello dove si sarebbe tenuto lo spettacolo. Ricavato all’interno di un canale, un laghetto, circondato da un colonnato in marmo, che si alternava con statue d’ispirazione mitologica, era il naturale palcoscenico della rappresentazione; candidi cigni solcavano lentamente le acque, su cui, quella sera, si rifletteva anche una stupenda luna piena; sul lato sinistro di esso erano stati sistemati i posti a sedere per il pubblico. Non c’erano attori, o, meglio, essi erano rappresentati dal suggestivo scenario, che cambiava colore e visione con l’alternarsi del gioco cromatico delle luci che lo illuminava, e dall’impareggiabile, calda voce di Arnoldo Foà, che l’aveva “data in prestito allo spirito di Adriano” per raccontare episodi della sua vita. Inoltre, un dolcissimo sottofondo musicale, che sgorgava da una cetra in accompagnamento ad un flauto, emetteva una melodia, che completava lo spettacolo classico, offerto da invisibili protagonisti.   Furono momenti in cui l’arte scenica e quella musicale trovarono la loro perfetta fusione trasmettendo allo spirito fremiti non usuali attraverso l’elevazione dei sensi. Momenti indimenticabili, di una levità a stento percettibile, che i due innamorati, però, assaporarono con pieno coinvolgimento del loro animo; il flusso spirituale generatosi, pur provenendo da due diverse fonti , percorreva un’unica arteria ideale: il braccio di Alberto, infatti, che cingeva le spalle di Beatrice, fungeva da ponte tra i rispettivi modi dell’intimo percepire il suono e la luce che lo spettacolo e la finzione scenica loro trasmettevano.   In nottata rientrarono a Roma. La mattina successiva Beatrice si alzò per tempo giacché si era assunta l’onere di preparare il pranzo con piatti tipici della sua terra. Tutti gli ingredienti erano già in casa in quanto Beatrice li aveva dettati per telefono, qualche giorno prima, a Alberto. Egli aveva voglia di dormire sino a tardi, ma il tramestio per la preparazione delle pietanze gli impediva di continuare a stare sotto la coperta. Fecero colazione insieme e, dopo la doccia, Alberto uscì per comprare le ultime cose a completamento del pranzo. Si recò presso una pasticceria; i proprietari, essendo siciliani, quasi ogni giorno, si facevano spedire, con l’aereo proveniente da Palermo, i tipici cannoli, il cui gusto è ben diverso da quelli confezionati in altre regioni. Erano arrivati da poco: ne acquistò un vassoio ed assieme ad una bottiglia di vino rosso, sempre siciliano, rientrò a casa.   Beatrice, intanto, si accingeva a dare gli ultimi ritocchi ai suoi piatti: ditalini con salsa di cipolle, peperoncino e ricotta salata grattugiata e, per secondo, capretto alla griglia. Imbandita la tavola, i due gusti, il calabrese ed il siciliano, si fusero benissimo insieme; Alberto si complimentò per il perfetto dosaggio e la giusta cottura delle pietanze preparate dalla sua compagna, la quale gli confermò che era vero che il gusto di quei cannoli, provenienti direttamente dalla Sicilia e che lei assaggiava per la prima volta, era diverso e più squisito rispetto ad altri preparati in luoghi lontani dalla terra di origine: indubbiamente c’era qualcosa che aveva a che fare con il latte, per la ricotta, e l’acqua.   Si accomodarono sul divano per riposare, ma, appesantiti dall’ottimo pranzo, con alcune pietanze un pò piccanti, si addormentarono l’una nelle braccia dell’altro e si svegliarono quando era già pomeriggio inoltrato. Gustarono un caffè ed uscirono in giro per la città.   Il Campidoglio, i Fori, il Colosseo e Piazza di Spagna furono oggetto di ammirazione da parte dei due innamorati, i quali, a sera, per la cena, si recarono presso un locale alla moda, laddove fu possibile assistere, prima, ad uno spettacolo di danze, latino-americane e spagnole, e, dopo la mezzanotte, ad un recital di due cantanti, un uomo ed una donna, durante il quale poterono anche danzare.   Il giorno dopo, Beatrice espresse il desiderio di visitare la Basilica di S.Pietro e, questa volta, girando per i luoghi sacri, volle che Alberto le offrisse il proprio braccio, come una coppia sposata: atto che lei riteneva più signorile e più confacente, per il luogo dove si trovavano, rispetto al gesto di camminare con la mano nella mano. Nel primo pomeriggio, Alberto l’accompagnò alla volta di Napoli.   Durante il viaggio, Beatrice pose a Alberto questa domanda:   Possono, un uomo ed una donna, stare insieme da soli, senza necessariamente fare l’amore? Soprattutto, se giovani ed innamorati? Io, sino a questa mattina, ero convinta del contrario.   E’ difficile sciogliere il dubbio attorno a quest’interrogativo perché il problema non può essere di carattere oggettivo, -tentò di ragionarci su Alberto - ma riguarda singole persone; che, in tutti i casi, devono essere dotate di forte autocontrollo e trovarsi in una solida condizione di sentimenti. Due esseri di sesso opposto possono starsene buoni, insieme, senza compiere atti sessuali quando l’amore platonico supera quello dei sensi, quando l’individuo cerca il puro, il vero, il bello, quando cioè esclude di perseguire il piacere epicureo in presenza di un amore pulito, che nasce soprattutto dal dialogo spirituale tra i due e si autoalimenta con la semplice tenerezza delle carezze, che non rappresentano l’effimero, ma il sentimento già temprato. Noi due ne siamo la dimostrazione più evidente, che non ha bisogno di ulteriori parole.   Ti devo confessare – soggiunse Beatrice – che, quando siamo stati a Roccaraso ed anche in questi giorni, avendo acconsentito di stare accanto a te nel modo in cui lo siamo stati, avevo tanta perplessità ed una certa riluttanza ad accettare: ma ti amo tanto, caro, per cui non ho potuto fare a meno di essere condiscendente con te; ho tanto pregato Iddio, però, affinché non accadesse nulla contro la mia volontà. Oggi, sono una donna felice perché sicura di aver trovato, alla mia prima esperienza, l’uomo che cercavo e che potrà farmi felice; così come sono certa che anch’io potrò darti la gioia della vita, quella che tu sopra ogni cosa desideri. Alberto accompagnò Beatrice al pensionato e le augurò la buona notte con la solita tenerezza – ricambiata – promettendole che l’avrebbe rivista per il prossimo fine settimana; indi, riprese il treno notturno per rientrare alla capitale.   Le settimane a venire furono riempite, da parte di Beatrice, da un intenso studio per la preparazione delle materie, che doveva sostenere nella sessione estiva; ma, la domenica era dedicata allo stacco, che riempiva l’attesa settimanale dell’incontro con il suo uomo. Andarono avanti, così, sino a metà luglio; dopo di che, Beatrice dovette rientrare al suo paese per le vacanze estive.   Concordarono di sentirsi per telefono, due volte ogni settimana, presso il domicilio di Gemma, laddove Alberto avrebbe chiamato Beatrice, prima di cena, nelle giornate di giovedì e domenica.   Ad agosto, Alberto prese le ferie. Aveva già prenotato lo chalet presso il solito villaggio, vicino il paese di Beatrice, che raggiunse assieme al pastore belga.   - Starò con te per una settimana – comunicò Alberto -; dopo di che andrò a Castel Lungo per un’altra settimana da dedicare alla mia mamma, e, subito dopo ferragosto, staremo nuovamente insieme fino alla fine del mese.   Quei pochi giorni volarono in fretta; anche perché poterono incontrarsi soltanto i pomeriggi giacché, per cena, Beatrice doveva essere a casa, mentre al mattino era impedita fisicamente a frequentare le Terme. Il giorno del suo compleanno, però, Beatrice riuscì a strappare alla madre il consenso di cenare fuori, asserendo di essere in compagnia di alcune amiche dei paesi vicini, conosciute all’Università. Mezza giornata, che, invece, trascorse con la persona amata.   Beatrice volle andare, assieme a Alberto, a visitare la Madonna Nera presso il solito Santuario. Si recarono,poi, nella vicina località marina ed, a sera, nel medesimo ristorante ove l’anno precedente avevano deciso di mettersi insieme.   Alberto il giorno prima aveva prenotato un tavolo d’angolo, con vista sul mare, ordinando anche un bouquet di rose rosse al centro del tavolo. Una mousse di cioccolato, da servire alla fine su un vassoio rettangolare d’argento, era contornata da ventuno palline di morbido torrone alla nocciola, che racchiudevano, in ciascuna di esse, una candelina rosa. I cibi erano accompagnati da un eccezionale vino spumante secco, di una prestigiosa e qualificata casa vinicola nazionale; spumante, che, secondo il parere di Alberto, era superiore a talune marche di champagne francese.   Prima di accomodarsi al tavolo, mentre prendevano l’aperitivo al bancone del bar, Alberto consegnò al maitre un pacchettino in confezione regalo da mettere accanto ai fiori.   Raggiunto il loro tavolo, Beatrice ammirò i fiori e, con emozione, aprì il pacchetto, che vi stava accanto; vide il contenuto di un sacchetto di velluto blu su cui era ricamata, con filo dorato, la lettera “V” e lesse su un cartoncino pergamenato: “ Desidero che diventi mia moglie. Ti amo. Alberto”; attaccato al cartoncino con un nastrino un cerchietto d‘oro bianco, che si chiudeva con una foglia d’edera in miniatura, al centro della quale era incastonato un piccolo brillante. Beatrice fu inondata da un susseguirsi di sentimenti: sorpresa, gioia, delizioso piacere, amorevole esultanza. Sentimenti, che trasmise a Alberto baciandolo teneramente sulle labbra per ringraziarlo e mettendo subito l’anello all’anulare della sua mano sinistra. . Era di una bellezza struggente, quella donna, che ispirava, ad un tempo, estatici pensieri di un vivere angelico nella contemplazione paradisiaca del suo splendore ed accettazione di un soggiorno temporaneo nel Limbo dove si scontano le passioni travolgenti. Due calici con quel vino spumante, freddo al punto giusto, si alzarono in un indirizzo augurale al concretarsi del reciproco desiderio di una vita insieme ad alla lieta ricorrenza di quella giornata. La serata trascorse gaiamente.   Gli ospiti presenti nella sala vollero complimentarsi con la festeggiata per la sua bellezza ed i suoi ventuno anni; un piacevole menù e lo spegnimento delle candeline accese ai lembi del vassoio, che conteneva il semifreddo al cioccolato, nonché l’ambiente raffinato, fecero da cornice all’importante evento.   Quella gioiosa atmosfera si concluse sulle rive del lago del loro primo bacio, scambiatosi nell’estate dell’anno precedente. Domani, dirò a mia madre di averle mentito quando le promisi che non t’avrei più rivisto e riferirò la nostra intenzione di volerci sposare, anche se non potrò precisare la data – interruppe il silenzio la neo ventunenne – ma so di già che ci sarà resistenza per i motivi più impensabili, che lei tirerà fuori. Figuriamoci cosa succederà quando lei verrà a sapere che sposerò un divorziato. Sappi, però, che io ti amo troppo per lasciarmi convincere del contrario, da mia madre. Anch’io voglio dedicarti la mia vita, il mio essere, il mio corpo anche se forse dovrò rinunziare a qualche mio sogno…   La decisione di averti quale compagna della mia vita e madre dei nostri figli, se ne avremo, è maturata nel corso di questi ultimi mesi, nell’attesa dell’incontro del fine settimana. Aver conosciuto la sensibilità del tuo animo, - proseguì Alberto - il tuo modo di intendere la vita, le nostre reciproche affinità e la tua decisione a continuare in ogni caso il nostro rapporto sono stati determinanti in questa mia richiesta. Sin tanto che non ho visto il tuo volto illuminarsi, dopo aver letto il mio messaggio, sono stato inquieto non potendo prevedere la tua reazione. Ora sono un uomo sereno e, direi, anche felice perché so di aver trovato l’Amore, con la vocale maiuscola. Anch’io ti amo profondamente e voglio renderti felice più di quanto tu possa pensare.   L’indomani pomeriggio, quando si videro, Beatrice aveva gli occhi gonfi: aveva dovuto, infatti, affrontare, come previsto, un dialogo burrascoso con la madre. La quale, ancora una volta, si era attestata su un divieto assoluto riferito a qualsiasi tipo di rapporto con il “siciliano”, pur in presenza di una richiesta di matrimonio. Motivava questa sua decisione attraverso una conclusione cui era pervenuta dopo avere saputo per quale giornale Alberto lavorava, la cui linea politica, secondo il prete al quale si era rivolta per consigli, era d’ispirazione comunista e, quindi, concludeva la madre, anch’egli doveva essere ateo.   Beatrice obiettò che, si, il giornale era in mano ai comunisti, ma Alberto non era né comunista, né ateo. Semmai socialista. Nessun’altra argomentazione riuscì a sradicare i convincimenti integralisti della signora, i quali lo erano sino a pretendere che la figlia dovesse sposare addirittura un uomo d’origine albanese, come lei, e che praticasse la sua stessa religione.   I toni di voce si alzarono ad un tale livello che la madre, perdendo il controllo di se stessa, fece volare alcuni schiaffi. Beatrice decise di chiudere ogni tentativo di dialogo e di comportarsi, quindi, di conseguenza.   Alberto rimase veramente turbato di fronte ad un simile atteggiamento da parte della madre della sua donna e, nello stesso tempo, sbigottito per il fatto di trovarsi in presenza di una situazione di totale chiusura mentale nei confronti della realtà della vita, la quale era ben diversa da quella che la sua immobilità evolutiva le aveva configurato.   Beatrice cercò di spiegare il motivo da cui discendeva l’impuntatura di sua madre:   - Da cinque secoli, noi albanesi, ci tramandiamo, difendendolo, il nostro patrimonio culturale e religioso. Tra noi parliamo ancora l’antica lingua albanese, come pure nel canto e nella poesia, e, nella liturgia, ci rifacciamo al rito greco-bizantino, ai valori simbolici in esso contenuti ed al suo calendario. Il rito del matrimonio, ad esempio, è un susseguirsi di aspetti suggestivi, laddove i due sposi vengono incoronati più volte. Tutto ciò, per mia madre, è molto importante: rappresenta il suo mondo lontano, al quale si sente ancora collegata. Non si vuole rendere conto, purtroppo, che sono trascorsi alcuni secoli da quando la nostra gente è fuggita dalla sua terra d’origine e che, quindi, siamo integrati in un altro tipo di civiltà, che vive usi e costumi diversi da quelli dei nostri antenati. Io, pur amando le mie antiche origini, sento di appartenere al mondo occidentale: non rinnego le prime, ma vivo la realtà che mi circonda. Mia madre posso comprenderla, ma non giustificarla, né tampoco accettarne il suo imperioso “volere”.   Alberto ascoltò con molta attenzione Beatrice per tentare di dare un giusto significato al comportamento della madre; cercò, indi, di infonderle coraggio incitandola a resistere. Le ripeté che l’indomani sarebbe partito per la Sicilia e che sarebbe tornato dopo una settimana; stabilì anche i giorni e l’ora in cui le avrebbe telefonato presso il domicilio di Gemma.   Beatrice assicurò il suo uomo che niente e nessuno le avrebbe fatto cambiare la propria decisione, ormai presa, di fronte ad un sentimento, le cui radici già erano penetrate nel suo animo. Poteva solo amareggiarsi perché avrebbe procurato un dispiacere alla propria madre; ma dava per scontato che i cambiamenti epocali in corso non potevano consentire ai genitori di disporre, ancora, in assoluto dell’avvenire dei propri figli.   Trascorsi gli otto giorni con sua madre, Alberto ritornò al solito villaggio turistico, vicino al paese di Beatrice. Questa volta, gli innamorati poterono vedersi due volte al giorno. Di mattina, infatti, s’incontravano alle Terme e, nel pomeriggio, andavano a mare o in giro a visitare luoghi che li interessavano sotto l’aspetto artistico, architettonico od anche archeologico. L’uomo, appassionato di storia e di archeologia, nel visitare gli scavi dell’antica Sybaris, erudiva Beatrice raccontandone le vicende di importante centro della Magna Grecia, della quale si vantava di avere il primato politico e militare .   A pranzo ed a cena, però, Beatrice doveva essere a casa: condizione che fu accettata dalla ragazza per non esacerbare ancora di più i rapporti con la madre, alla quale disse che a mare vi si recava in compagnia di amiche e amici.   Erano volati dieci giorni di quel soggiorno calabrese, quando la direzione del giornale inviò un telegramma a Alberto invitandolo a rientrare perché doveva sostituire un collega che era stato impedito, improvvisamente, a presentarsi al lavoro di redazione. Il giovane giornalista era costretto ad obbedire all’invito, che non era altro se non un ordine. In quel loro ultimo giorno d’estate insieme, i due giovani non si lasciarono un istante: la scusante, che Beatrice fornì alla madre, fu quella di dovere stare in compagnia di un’amica, venuta da fuori assieme al suo ragazzo.   Dopo avere trascorso la mattinata in spiaggia, aver fatto il bagno e consumato una frugale colazione, i due innamorati pensarono di raggiungere lo chalet , dove alloggiava Alberto, per una siesta pomeridiana. Nel pomeriggio passeggiarono lungo i sentieri del vicino bosco ed assistettero, poi, alle animazioni del villaggio, laddove, peraltro, consumarono la cena. Si ritirarono, indi, nel monolocale per ascoltare un pò di musica dalla radio, alternando la conversazione a tenere effusioni.   Si sentivano per telefono un paio di volte alla settimana, ma il desiderio di stare insieme era intenso, struggente. A metà settembre, Alberto comunicò a Beatrice che il suo giornale, a fine mese, l’avrebbe inviato in Calabria per un servizio giornalistico sui Monasteri, Abbazie ed Eremi, sorti intorno all’anno Mille; le chiese se era disposta ad accompagnarlo.   Dopo aver riflettuto sulla proposta per un paio di giorni, Beatrice rispose di sì. Comunicò, indi, alla madre che era costretta ad anticipare di qualche settimana la partenza per Napoli perché doveva frequentare dei laboratori in vista di alcuni esami, che avrebbe dovuto sostenere entro la fine dell’anno.   Nella tarda mattinata dell’ultimo sabato di settembre, i due innamorati s’incontrarono presso la stazione ferroviaria di Paola, ove Beatrice era solita prendere il treno per Napoli. Si misero in macchina e puntarono verso la Sila. Alberto comunicò a Beatrice di aver prenotato una casetta in legno in un villaggio turistico nei dintorni di Camigliatello Silano, dove avrebbero soggiornato per una settimana; da lì, dopo due, tre giorni di salutare relax, si sarebbero mossi per ammirare le bellezze naturali e, nel frattempo, visitare l’antico patrimonio artistico, soprattutto religioso, su cui Alberto doveva redigere il servizio giornalistico.   - Una settimana tutta per noi – le dichiarò Alberto – con spazi piacevoli dedicati al lavoro: piacevoli giacché si tratta di visitare, continuando a stare insieme, luoghi sacri e d’arte, sui quali poi dovrò lavorare.   Pranzarono in una trattoria; indi, si avviarono verso la loro meta, ma, ad un tratto scorsero, poco lontano dalla strada, un convento; vi si diressero e, scesi dalla macchina, entrarono in chiesa: una grande statua della Madonna sovrastava l’altare maggiore.   Dopo qualche attimo di preghiera, Beatrice propose di confessarsi: Alberto rimase perplesso, ma accolse l’invito. Erano trascorsi parecchi anni dall’ultima volta che egli si era accostato ai Sacramenti. Non era nei suoi intenti un simile adempimento, almeno nei programmi di quella settimana, ma la dolcezza con cui gli fu richiesto e l’amore che portava alla sua donna lo indussero ad accettare la proposta.   Il “freddo cattolico” non si pentì, perché si venne a trovare dinnanzi ad un prete di vasta cultura, il quale, in maniera realistica, applicava i principi teologici alla pratica di vita quotidiana; un religioso, che dal suo pensiero eclettico sapeva tirare fuori la duttilità necessaria per fornire quei consigli e quegli ammaestramenti, che servono a far convivere “chiesa e casa”, cioè il sacro con il profano: l’integralismo religioso e la rigidità della verità indiscussa, in pratica, erano ben lontani da lui.   Era egli un anziano frate cappuccino, ritiratosi in un eremo di montagna dopo essere vissuto in grandi città a contatto con la sofferenza della gente; ascoltò attentamente i propositi dei due giovani e quant’altro loro vollero comunicargli, compreso che avevano deciso di sposarsi, civilmente, dopo che Alberto avrebbe ottenuto il divorzio.   Padre Giovanni – questo era il nome del religioso - s’intrattenne con entrambi i giovani prima di impartire loro, a ciascuno nel privato della Confessione, l’Assoluzione ed, insieme, la Comunione; aveva anche saputo, peraltro, la situazione creata dall’atteggiamento d’intransigenza della madre di Beatrice.   “ La Chiesa cattolica – affermò il religioso - è contraria, dissoluto il legame del matrimonio, alla convivenza civile di una coppia, alla quale nega anche il Sacramento della Comunione. Nella mia lunga vita, trascorsa accanto alla sofferenza degli uomini, ho conosciuto parecchie persone separate vivere felici nell’osservanza dei principi cristiani, che cercavano oltretutto di trasmettere ai propri figli: alcune di queste mi chiedevano di ammetterle alla Sacra Comunione poiché la loro condizione interiore era di una serenità tale, che li predisponeva all’Ostia Sacra. Ne conobbi altri che non erano nelle condizioni economiche di affrontare una causa, presso la sacra Rota, per l’annullamento del matrimonio, pur esistendone le motivazioni.”.   Dopo una breve pausa, padre Giovanni proseguì: “ Se Dio perdona chi si pente di aver commesso peccati, quindi chi ha sbagliato, se Gesù morente sulla Croce promise il Paradiso ad uno dei due ladroni, crocifissi con Lui sul Golgota, essendosi questi pentito ed avendoGli detto di ricordarsi di lui, - ed il ladrone aveva violato, quanto meno, uno dei sette Comandamenti, quello del “non rubare” – non vedo il motivo per cui Dio non debba assolvere, di fronte ad una contrizione sincera, chi ha commesso l’errore di sposare la donna sbagliata e, successivamente, si è unito ad un’altra donna, quella giusta, quella che gli assicurerà una famiglia, che vivrà nell’osservanza dei canoni cristiani. E’ per questo che io vi assolvo dai vostri peccati e, nell’impartirvi la benedizione di Gesù, vi ammetto alla Sua mensa tramite la Santa Comunione”.   Felici per aver vissuto un momento di alta ed intensa spiritualità, nonché per le parole di conforto e di esortazione ad andare avanti, Beatrice e Alberto si avviarono verso il villaggio, che li avrebbe ospitati.   Percorsi pochi chilometri, passando davanti ad un casale, furono investiti dal profumo della vendemmia; si fermarono e, poiché si era già prossimi all’imbrunire, un fuoco incominciava ad ardere sotto le chiome di un maestoso gelso, prospiciente l’ingresso del frantoio.   Furono accolti con grande cortesia dal proprietario, il quale offrì loro il mosto appena spremuto dai grappoli d’uva, vendemmiati sulle colline adiacenti. Quel delizioso liquore, ancora senza gradi di alcolicità, sorseggiato dinnanzi al fuoco che rischiarava l’incipiente serata di quel mite settembre, già sul finire, era, per i due innamorati, la continuazione di una sublime giornata, ancora lungi dal chiudersi.   Durante il percorso che li doveva portare al villaggio, Alberto raccontò a Beatrice che la Sicilia, ma soprattutto il territorio d’origine della sua famiglia, era legata da una sorta di comunione spirituale con la Calabria, che ebbe inizio nel decimo secolo. “Infatti, durante la dominazione musulmana in Sicilia, la religione cristiana trovò alcuni veri e propri baluardi di difesa dei suoi contenuti, soprattutto nel Val Demone, laddove alcuni monaci basiliani, di rito bizantino, avevano fondato dei Monasteri. Una di queste roccaforti era la famosa città di Demenna, che si distinse per l’eroica e tenace resistenza opposta ai saraceni, dai quali pur tuttavia, alla fine, fu conquistata e distrutta totalmente”.   “Per sfuggire alla persecuzione dei musulmani, - proseguì Alberto - alcuni monaci basiliani andarono via da Demenna; tra questi un certo Luca, che, dopo aver soggiornato in vari Monasteri, soprattutto della Calabria, si fermò ai confini tra la Basilicata e la Calabria, fondò un Monastero, del quale divenne Abate ed animatore della vita religiosa di quelle popolazioni. In vita operò diversi miracoli; si oppose anche, alla testa di un’armata, ai saraceni che saccheggiavano quel territorio, sconfiggendoli; divenne famosissimo per le sue opere e per la santità della vita che conduceva. Un pio uomo di chiesa, che divenne il Santo Protettore di Armento, un paese, non molto lontano dal tuo; un monaco, che praticava il rito della tua religione: San Luca di Demenna; un uomo, proveniente dalla terra d’origine dei miei antenati, anzi dalla città adiacente ai loro insediamenti territoriali, della quale fu eroico difensore il nobile patrizio, soprannominato << Il Cavaliere dalla sciarpa azzurra>>. In tutto ciò, io intravedo-concluse Alberto, tra il serio ed il faceto, - una parentela spirituale tra la mia e la tua terra, legame che affonda le sue radici nei secoli passati, addirittura a qualche millennio addietro”.   Era già buio e la notte s’appressava quando giunsero al villaggio e presero alloggio nello chalet. Dalla veranda sul prato verde si accedeva al soggiorno riscaldato dal caminetto: una porta laterale immetteva alla camera da letto, le cui finestre si aprivano sui pini intorno alla baita.   Si recarono al ristorante per la cena, frequentato da poche persone, quelle che si attardavano tra i monti a godersi la frescura stagionale andando magari alla ricerca di funghi. Appresero di essere nel mezzo di una foresta di conifere, prossima a colorarsi del giallo autunnale, che iniziava dopo aver percorso un altipiano coperto da erba. Un lago non molto distante accoglieva il fluire di acque, che sgorgavano lassù, sulla montagna, pronta già a farsi coprire dalle prime nevi. In attesa di ritirarsi per la notte, ascoltarono qualche brano di musica nell’annessa discoteca.   I viottoli del villaggio, che portavano agli alloggi, erano rischiarati da bugie in coccio, poste ai lati del sentiero. All’interno dei tipici ambienti, volendo, si poteva spegnere la lampada elettrica ed accendere le candele, che, variopinte, erano già collocate in rustici candelabri di ferro battuto; il caminetto, che avevano fatto accendere qualche ora prima, scaldava già la piccola casetta in legno mentre soffuse note di musica classica provenivano, in sottofondo, dal nastro inserito nel fonoriproduttore.   Non c’era luna quella notte, ma il cielo terso era rischiarato dalla miriade di stelle che, a quelle altezze, brillano ancor di più illuminando il buio cosmico. Alberto spense le lampade elettriche ed accese le candele di cera, versò nei bicchieri, per Beatrice, un sorso di limoncello calabrese e, per sé, un dito di grappa, che accompagnò col gusto forte di una sigaretta. Entrambi si distesero sul tappeto posto dinnanzi al caminetto: l’aria calda del piccolo soggiorno era resa ancor più eccitante, in quel momento, dalle note di quello stesso motivo sconosciuto, dolcissimo, che ascoltarono in riva al lago, ove, per la prima volta, si dichiararono il loro amore.   I due innamorati sentivano interiormente la forte tensione emotiva del particolare momento, che, attraverso un tacito, mutuo consenso, sapevano sarebbe stato il primo di nuove sensazioni future, ma l’unico di cui sarebbe rimasto un ricordo ed un segno nella vita di una donna. Ma, non solamente di una donna…   Alberto prese la mano di Beatrice per sfiorarla con le sue labbra; con l’altra le carezzava il capo e le scioglieva i capelli annodati dietro la nuca per farli cadere lungo le spalle. Baciandola, dolcemente la stringeva a sé. Come quando si sfiorano le rose di primavera con le narici, per annusarne la levità dell’odore, e con le labbra, per assaporarne la levigatezza voluttuosa dei petali vellutati, così Alberto carezzava le labbra di Beatrice sfiorandole con le sue.   Il languido abbandono dell’animo invadeva lentamente le loro membra irrigidite mentre il suono delle eterne parole d’amore si spandeva attorno ai loro sensi: “Ti amo”, millenario, immutato canto di ciascun atto d’amore, compiuto in ogni anfratto di questa crosta terrestre.   “Ti amo, quale foglia arsa che cerca la rugiada del primo mattino; il povero corre verso i raggi del sole invernale per scaldare il suo corpo infreddolito e, così com’egli ama il sole, parimenti io amo te e cerco la luce del tuo animo per illuminare la notte che è dentro di me; ti amo di un amore limpido ed intenso: come il gabbiano non rinuncia al suo cielo azzurro, io non voglio privarmi di vivere in eterno la purezza e la forza di questo amore”.   Era una delle frasi che Alberto scrisse in una lettera inviata a Beatrice dieci giorni prima; alla quale lei rispondeva:   “Questo amore immenso, tenero e forte nel medesimo istante, che ho avuto la gioia di conoscere attraverso te, sento, con lucida convinzione, di dovertelo donare, Alberto, assieme al mio corpo quando tu lo vorrai, perché sono certa che esso è sorto tra noi per la sublimazione del nostro rapporto d’amore, della nostra vita insieme”.   Subentrava in entrambi, adesso, il desiderio fisico attraverso un crescendo di baci, teneri…, lunghi…, appassionati…, ma senza pervenire all’intensità voluttuosa, che deriva dal piacere del sesso, fine a se stesso.   Le mani di Alberto scorrevano lungo il corpo di Beatrice denudandolo dolcemente: si trovarono nudi, stretti in una morsa, che non era solo epidermica, ma anche spirituale, che toglieva loro finanche il respiro. Rotolandosi sul tappeto, si staccavano, a distanza di braccia distese ma rimanendo uniti attraverso il groviglio delle mani, per incrociare il riflettersi dei loro sguardi; attraverso quello specchio dell’animo il diapason del loro amore penetrava sin nella profondità delle viscere di entrambi. Venivano nuovamente attratti da un susseguirsi di baci sino a sentire il fremito del desiderio: solo la necessità di riprendere fiato faceva staccare le loro bocche.   Alberto cercava di preparare Beatrice al momento in cui il loro atto d’amore avrebbe conosciuto il dolore della penetrazione e inondava, pertanto, di carezze e di baci la sua amata attendendo che si presentasse la condizione di spirito, ed in un certo qual modo quella fisica, in cui la deflorazione si sarebbe potuta compiere senza effetti traumatizzanti.   “Ti voglio, amore mio, adesso...”.   “Anch’io, mio infinito amore, adesso...” e Beatrice emise un urlo: aveva offerto il suo fiore verginale a Alberto.   Stettero immobili l’uno sull’altra per alcuni istanti mentre lacrime di dolore, miste a quelle di gioia per il dono d’amore consegnato nelle mani del suo uomo, sgorgavano dallo splendore degli occhi della donna. Alberto, dopo averla accarezzata e sfiorata sugli occhi, per tergerle le lacrime, si sollevò da lei per giacerle accanto attirandosela sul proprio petto nudo. La seta dei lunghi capelli neri, sciolti, copriva le nudità dell’uomo, il quale continuava a farle sentire la sua vicinanza amorevole poggiando il capo nel latteo incavo del seno.   Placandosi il dolore, un misto di desiderio e bruciore interno scuoteva il fisico di Beatrice. Ripresero le carezze e le effusioni in un novello crescendo sino a che Alberto penetrò nuovamente nell’intimo del corpo amato, con nuovo dolore da parte di quella creatura femminile, attutito, questa volta, dallo stordimento generale che l’aveva pervasa.   Così uniti, in un’eterea sensualità, ripresero a rotolarsi sul tappeto quando un grido di piacere, da parte di Alberto, accompagnato da interminabili “ti amo”, fece vibrare il suo corpo; seguì un eguale grido, un intenso fremito del corpo ed un sussurrato, ma convinto “ti amo”, da parte di Beatrice.   I due giacquero l’uno accanto all’altra, esausti ma invasi da quella felicità e da quella pace interiore, che seguono un perfetto atto d’amore, avendo toccato le note più alte del piacere totale in tutto il suo ventaglio di sensazioni. Alberto aveva accolto sotto le sue ali la tenerezza che emanava da Beatrice per inondarla di un pari sentimento.   Il fuoco nel camino aveva bruciato i tronchi e rimanevano i tizzoni accesi, prossimi a diventare brace. Alberto sollevò tra le braccia Beatrice per adagiarla sul letto della camera accanto, e le si mise vicino. Guardandola intensamente negli occhi, le sussurrò: “Dio, quanto sei bella, Beatrice”. Abbracciati, si addormentarono.   L’alba, che filtrava tra le fronde degli alberi ed i vetri delle imposte coperti da tendine e con lo sportello dischiuso, vide ancora cinti quei due corpi nudi nell’espressione di un sonno sereno. Il canto di un merlo, posatosi sul davanzale della finestra, li svegliò.   o    Buon giorno, amore.   o    Benvenuta nel nuovo mondo, - rispose alla sua donna Alberto.   E’ un mondo meraviglioso – continuò Beatrice mentre un sorriso luminoso rendeva ancora più bello il suo volto – ed io voglio viverlo con te per tutta la mia vita... si, proprio con te, Alberto; oggi ne sono profondamente convinta e determinata.   Un bacio incontrollato suggellò questa promessa ed i due corpi si trovarono nuovamente avviluppati per amarsi ancora.   Poi, si appisolarono, ma Black, legato con la catena al cancelletto della veranda, si mise ad abbaiare; Alberto si alzò dal letto per portargli il pasto mattutino, fece la doccia ed ordinò in camera la colazione per sé e per Beatrice. Era il mattino di una domenica, che s’inoltrava mite, ed i due uscirono per una passeggiata lungo i sentieri del vicino bosco.   Li accompagnava, correndo avanti ed indietro, il fido pastore belga.   Anche la natura intorno a loro era ridente: i rari uccelli, che si attardavano prima di andare a svernare altrove, saltellando tra i rami in parte già nudi del fogliame, facevano udire il loro cinguettio; le foglie gialle, cadute sul sentiero, formavano un lungo tappeto, che, al calpestio dei loro passi, emetteva un rumore, che non era quello di foglie secche, bensì un vibrare di corde musicali; farfalle, in gran numero, bianche, accompagnavano l’incedere dei due innamorati; i rami degli alberi, quasi vergognandosi di non potersi mostrare nella loro piena fioritura primaverile ed estiva, s’inchinavano al loro passaggio.   Un puledro bianco, chiazzato di nero, si staccò dalla madre al pascolo e si accostò alla ragazza per darle il benvenuto tra quelle valli montane.   Un pastore offrì loro l’assaggio di una freschissima ricotta di pecora, ancora calda nel pentolone, e Beatrice, inebriata dalla genuinità di quel mondo naturale, volle prendere in braccio un agnellino nato da pochi giorni per sentirne la morbidezza del pelo ed i battiti del suo piccolo cuore.   La giovane donna sentiva dentro di sé quella felicità che si prova quando ci si libera da un peso oppressivo per affacciarsi al profumo della libertà. Era felice perché aveva superato le limitate conoscenze originate dalla cultura religiosa, che le era stata somministrata sin dall’infanzia. Era felice perché aveva sconfitto la paura, ingenerata dai pregiudizi e dalle convenzioni sociali, nonché, purtroppo, dai ricatti morali. I quali, spesso, vengono camuffati con le blandizie dell’invito ad adottare un certo tipo di comportamento di vita, spesso rinunciatario, ma veicolo di dolori e di sofferenze interiori.   La frequentazione di Alberto, che enunciava principi libertari, il mondo nuovo e diverso, che aveva conosciuto uscendo dal proprio habitat nativo, certamente aveva allargato l’orizzonte di Beatrice per una sua visione più avanzata delle cose, di quelle che ruotano attorno al quotidiano. Ma, lo strumento, con il quale affrontò le sue paure, sconfiggendole, venne donato alla coraggiosa donna dall’Amore, senza aggettivazioni: la sua “A” le racchiude tutte.   Trascorsero il pomeriggio nello chalet, dinnanzi al camino acceso, facendo progetti per il futuro ed eliminando qualche ombra ancora residua nei pensieri di entrambi.   - Mi è stata impartita un’educazione religiosa molto rigida- raccontava Beatrice - per questo ho inculcati dentro di me alcuni principi, tra cui quelli dell’obbedienza e dell’osservanza delle regole senza chiedermi il perché. Mai mi sarei sognata, pertanto, d’infrangere la norma di etica religiosa secondo la quale non ci si unisce carnalmente ad un uomo al di fuori del matrimonio. Se questo ho fatto, ed ho la ferma volontà di proseguire su questa strada, è perché l’amore verso di te, Alberto, ha annientata ogni mia volontà al controllo del sentimento che mi ha portato a te. Sono stata travolta da un amore, che non esito a definire epico, conosciuto per la prima ed unica volta, ispirato dal tuo spirito e dal tuo corpo e dalla percezione che i tuoi sentimenti sono sinceri.   Lo sono veramente, amore… - tentò di interromperla Alberto-. Ma lei proseguì:   o    Anche perché il legame, che tu sostieni di sentire verso di me, essendo appunto genuino, deve trovare la sua dimensione esistenziale, che soltanto io posso donare. Io sono certa che quel frate cappuccino di ieri era nel giusto quando ci diceva che Iddio potrebbe perdonare questo nostro peccato perché, oltre i sacramenti, esiste la misericordia dell’Onnipotente quando gli intendimenti sono orientati verso il bene ed i sentimenti sono solidi: e Dio legge nel profondo del nostro animo. Se poi, invece, sarà destino che io non riceva il perdono del Creatore...   Se è vero che Dio conosce e prevede tutto di tutti – la interruppe con decisione, questa volta, Alberto- ed è anche Bontà infinita, nel momento in cui ci ha fatto incontrare sapeva già a cosa noi saremmo andati incontro. Se ciò ha permesso, quindi, non lo è stato certamente per il nostro male. I preti affermano che Dio ci ha dato il “libero arbitrio” per comportarci come riteniamo opportuno. Ebbene, se quel libero arbitrio deve portare l’uomo a farsi anche del male, io credo che esso non possa essere accettato oggettivamente come facoltà ad operare, liberamente, per procurarsi atti malefici o, comunque, dannosi per se stessi, in quanto, per l’essenza attribuita a Dio, Egli è l’esclusione del male.   Dio non può volere la nostra dannazione, il dolore per noi… - soggiunse la donna.   Di conseguenza, quel tipo di “libero arbitrio”, richiamato in occasione di “eventi contrari”, o    riprese Alberto - produce un danno alla stessa esistenza di Dio e serve solo a giustificare certe enunciazioni di fede, che talvolta non trovano riscontro nella realtà d’ogni giorno, della vita così come si presenta e che si è, quindi, costretti a vivere. Il libero arbitrio, pertanto, non promana da Dio, secondo le mie convinzioni, ma va cercato altrove. Io sono del parere che, al di là di quanto è scritto nelle leggi, divine ed umane, se un comportamento, non formalizzato né codificato dinanzi al perbenismo usuale, non arreca danno agli altri, non offende la morale della gente comune ed è finalizzato al benessere interiore, nonché materiale, del singolo individuo, esso comportamento viene tollerato da Dio. Egli, pertanto, si auto-esenta dal ricorrere ad una sentenza di condanna morale. La mente ed il comportamento umano non sono autorizzati, quindi, a percorrere la strada dell’integralismo.   Concordo con te, mio caro, che l’integralismo ha prodotto sempre danni – intercalò Beatrice –   Ha ragione quel vecchio, ma ancor lucido, frate Giovanni – concluse il giovane: se Dio, attraverso Gesù, ha accolto in Paradiso un incallito ladrone pentitosi, non vedo il perché non dovrebbe perdonare chi, pur peccando (la carne è debole), non va contro le Sue leggi.   Alberto si accese una sigaretta e riprese il proprio ragionamento:   Ieri ho voluto accogliere il tuo invito ad accostarmi ai Sacramenti, dopo parecchi anni di lontananza da Essi, perché anche la mia formazione religiosa di base é solida e sono convinto, come te, di non aver commesso peccato. In tal senso, infatti, ritengo di essere stato confortato dalle parole del padre Cappuccino.   Di fronte al male nel mondo, alle sofferenze umane, al cospetto delle devastazioni naturali e di quelle procurate dall’uomo, io talvolta – proseguì l’interessante conversazione Beatrice- mi chiedo il perché Dio non impedisca così immane dolore se Egli tutto può e tutto prevede, se Egli è, giustamente come tu dici, Bontà Infinita. E mi chiedo anche se quel “libero arbitrio” non debba essere inteso quale evento occasionale, lasciato alla volontà violenta di singoli individui ed al trionfo del Male, del Dolore, del Pianto degli innocenti. E mi chiedo: è Questi quel Dio che ho appreso dai testi sacri e dalla parola dei Suoi sacerdoti? Oppure, esistendo un Dio – perché Dio esiste – Egli é un Ente Supremo diverso dalla Divinità prefiguratami?   Il tuo é un dubbio che s’agita anche in me- l’interruppe Alberto – perciò mi sono fatta una convinzione personale. Di fronte all’immenso creato non possiamo non ammettere l’esistenza di una Mente Superiore in quanto la logica e la spiegazione scientifica delle cose e degli esseri viventi non superano la barriera posta dinnanzi all’evento della loro creazione. E’ consolidato che dal nulla non può essersi generato alcunché: è, pertanto, esistito necessariamente un qualcosa di iniziale, il cosiddetto “brodo primordiale”, da Qualcuno creato, da cui poi sono derivate tutte le altre cose materiali; un “principio”, quindi, dal quale é stato dato l’abbrivo alle cose create. Il famoso “Big Bang” è infatti un atto di Dio. Questo “principio” è da individuarsi in Dio, o Mente Superiore, il cui “eterno esistere” ed il cui “inizio” sfuggono al nostro raziocinio. Solo così si può accettare la Sua esistenza.   o    La famosa settimana, quindi, impiegata da Dio, per creare l’universo – dichiarò la donna – non è altro che un periodo millenario, che ebbe inizio con quel “brodo primordiale”, preparato da Dio e da Lui “cucinato” sino alla creazione dell’uomo, essere che volle plasmare a sua somiglianza?   o    Praticamente è così. E’ un Dio che sfugge alla mente umana – continuò Alberto - e dal Quale promana tutto ciò che in natura esiste. Mi chiedo, però: questo Dio si ferma qui oppure va oltre? Regola, in altre parole, l’umano comportamento o rimane soltanto il Creatore? Se si è attribuito quest’ultimo ruolo, noi siamo in balia di noi stessi o forse anche in balia di un altro essere superiore che determina il male ed il bene. Gli antichi greci lo chiamavano Fato. Ed allora, secondo il mio convincimento personale, Dio esiste si, ma non è quel Dio descritto dai nostri maestri di dottrina cristiana. Concludo col ritenere cristianamente giusto tutto ciò che non va contro l’etica comune ed il bene materiale, che di diritto spetta agli uomini.   Su questi argomenti ragionarono per tutto il pomeriggio pur convinti che non sarebbero arrivati mai ad una conclusione finale, tale da poterla ritenere quella giusta, considerate peraltro le tesi difformi, rispetto a quelle di Alberto, da sempre sostenute dal carro della cristianità.   Ribadirono, pur tuttavia, con reciproca convinzione, che il loro rapporto d’amore, completatosi al di fuori degli atti formali, trovava una sua giustificazione nella immanenza naturale del loro forte legame, che dava già un’impronta alla loro vita. Si scambiarono, indi, la promessa che niente avrebbe potuto rompere il loro vincolo; anzi, vollero suggellarlo e rafforzarlo ancora di più attraverso un rito in uso presso alcuni popoli. Alberto ne illustrò l’impegnativo significato, che legava i contraenti per tutta la vita. Essi adempirono il giuramento di sangue mettendo in atto l’antico rito tribale. I due innamorati si procurarono un leggero taglio ai loro polsi, che unirono nel punto in cui il sangue defluiva, per consentirgli, miscelandosi, il travaso dall’un corpo all’altro: “Che possa questo sangue, divenuta unica linfa per il nostro corpo, vivere in eterno con il nostro spirito”. Così sancirono il loro giuramento d’amore.   Vollero sublimare ancora di più quest’atto, più che altro d’alto contenuto spirituale, con la solennità, alla quale aveva diritto: miscelarono indi i loro umori salivari per mezzo di un interminabile bacio, dal quale scaturì l’ennesima unione dei loro corpi, celebrata facendo a lungo l’amore. Forse avevano dato linfa ad una nuova vita. A cena, festeggiarono queste celebrazioni bevendo champagne.   Al centro del salone ristorante, una coppia di ballerini intrattenne i pochi ospiti con il loro repertorio di danze classiche. Beatrice e Alberto vi assistettero ben volentieri sino alla fine dello spettacolo; dopo il quale fu messo in piedi un improvvisato gruppo canoro, del quale fecero parte i due giovani: parecchie canzoni erano quelle tipiche della regione. Era trascorsa da qualche ora la mezzanotte e lassù, vicino alle cime dei monti Silani, la notte era già fredda; il gruppo, formato in gran parte da giovani coppie, si sciolse per avviarsi ai propri alloggi. All’ingresso della casetta, Black attendeva i suoi padroni.   L’ambiente era già riscaldato e la legna alimentava ancora il camino fatto accendere qualche ora innanzi. Sedettero sul divano a guardare il fuoco; Alberto accese una sigaretta e si versò nel bicchiere un sorso di ottima grappa di monovitigno; Beatrice, invece, si distese lungo il divano appoggiando il capo sulle ginocchia del suo uomo. Non avevano sonno, ma erano pervasi da una sottile euforia, dovuta all’insolita, meravigliosa giornata trascorsa. Il loro conversare su argomenti frivoli era accompagnato da uno scambio di baci e di tenerezze, che li portò ancora a fare l’amore. L’indomani, Alberto avrebbe dovuto iniziare il suo lavoro per il giornale. Ma, il mattino dopo, appena svegli, ricevettero la spiacevole sorpresa di non trovare più Black dinnanzi all’ingresso: la catena con cui era legato al cancelletto era spezzata. Andarono in giro a cercarlo, ma fu inutile. La gente del luogo riferì che, durante la notte inoltrata, i lupi selvaggi si erano avvicinati alle abitazioni ed il loro ululato si era sentito nella vallata.   La razza, alla quale apparteneva Black, era quella dei lupi, non più selvaggia perché l’uomo, nei secoli, era riuscito ad addomesticarla, ma che fondamentalmente, nel suo DNA, conservava ancora qualcosa di quell’antico istinto. Si poteva presumere, quindi, che il branco dei lupi si sia avvicinato al pastore belga e l’abbia indotto ed “aiutato” a spezzare la catena per unirsi ad esso: l’odore della libertà selvaggia, di cui erano portatori quei lupi silani, era prevalso sull’obbedienza e sulla fedeltà al padrone, che sino allora aveva accompagnato quel bellissimo animale. Sperarono tutto il giorno che Black riuscisse a trovare la strada del ritorno; ma l’attesa fu vana.   Quella fu una giornata di dolore per Alberto, ma anche per Beatrice, la quale si era legata al cane: Black, peraltro, era stato il tramite, che li aveva fatti conoscere.   Il giorno dopo, Alberto non poté sottrarsi al suo dovere; superando lo stato d’animo del giorno precedente, con Beatrice, iniziò il suo giro presso i luoghi d’arte della zona, che gli serviva per il servizio giornalistico.   A sera, rientrati al villaggio, non riuscivano a trovare lo slancio per trascorrere in allegria le ore che li vedevano svegli. Ritennero che la scomparsa del pastore belga ne fosse la causa e quella casetta teneva aperta una ferita, che invece era necessario che si rimarginasse al più presto per consentire loro di ritrovare la serenità nei giorni che ancora dovevano trascorre in Sila. Decisero, indi, che, contrariamente a quanto programmato, l’indomani mattina avrebbero lasciato quel posto per fermarsi ogni giorno nei diversi villaggi, che avrebbero incontrato lungo il loro itinerario, il cui percorso Alberto aveva in precedenza studiato e tracciato.   Si allontanava lentamente, nei giorni seguenti, l’amarezza per la mancata compagnia del cane ed i due innamorati riuscirono a recuperare la serenità; oltre tutto, la reciproca vicinanza, durante il lavoro di Alberto, giovava al loro spirito. Essi arricchivano la loro curiosità culturale ammirando i paesaggi bellissimi che scorrevano dinnanzi ai loro occhi mentre erano alla ricerca dei Cenobi, delle Abbazie, dei Conventi. Questi insediamenti religiosi, che in gran numero erano sorti durante l’epoca del cosiddetto monachesimo medioevale, custodivano peraltro autentici tesori d’arte. La cultura greco-bizantina, impreziosita dai tipici elementi orientali, influenzò notevolmente i canoni architettonici ed artistici nell’edificazione dei luoghi sacri, gestiti dai monaci Basiliani, e che in gran copia erano disseminati nel sud dell’Italia, ma soprattutto nella Calabria settentrionale.   Visitarono quasi tutta la Sila Greca ed i suoi dintorni, percorsa da fiumare e torrenti, coperta anche da immense foreste di conifere, di faggi e, più in basso, di castagneti; sulle rive dei laghi sorgenti tra boscose depressioni sostarono spesso per ammirare l’insieme delle bellezze naturali.   Dov’era possibile affittare una cavalcatura, lo fecero: a cavallo visitarono il cosiddetto “bosco delle Fate”, di suggestiva bellezza. Rimasero senza parole di fronte alla maestosità dei “giganti della Sila”, rappresentati in gran quantità da pini larici ultracentenari: alcuni di questi alberi arrivavano ai 40 metri d'altezza ed avevano il tronco, alla base, di circa 2 metri di diametro; il sottobosco era ricco di biancospini e felci aquiline.   In quei luoghi essi si sentivano fuori del tempo, trasportati indietro nella natura primigenia, in un santuario del silenzio, laddove ogni cosa era rimasta immobile, colta nella staticità di un istante, risalente a parecchi secoli addietro. Ammirarono il quieto vivere di cervi, daini e caprioli in un ambiente naturale incontaminato e si dolsero quando vennero a sapere che questi graziosi animali costituivano anche la base alimentare del lupo della Sila. Sotto i pini scorsero i funghi, i primi della stagione, ma, non sapendo se erano commestibili o meno, non li raccolsero. Fecero voti affinché potessero tornarvi in primavera per godere dei paesaggi stupendi, che allora assumevano altri colori, senz’altro più belli dell’autunno, già alle porte.   Sul finire della settimana, entrando nella Sila Piccola, posero la base, per un paio di giorni, in un villaggio nei pressi del Lago Ampollino, il più incantevole dei laghi Silani: la mattina andavano in giro alla ricerca delle bellezze artistiche, per il servizio giornalistico, nel pomeriggio di quelle naturali e paesaggistiche, per il godimento personale; la sera era dedicata agli svaghi e spettacoli che il villaggio offriva agli ospiti. La notte, invece, era consacrata all’amore, anche se esso era costantemente presente, durante tutto il giorno, attraverso le tenerezze, anche le più piccole, che i due non tralasciavano di scambiarsi.   In quelle tiepide giornate d’inizio dell’ottobre, scaldate da un vivido sole non coperto ancora da nuvole, i due giovani andando in giro per valli, pianure e boschi, furono inondati anche dagli odori, oltre che dai colori, della natura. Le foglie secche lungo i filari delle piste alberate, che conducevano a taluni luoghi sacri, emanavano un odore, che, nella vicinanza di frantoi, mescolandosi a quello del mosto e dell’uva spremuta ancora nei tini, impregnava l’aria attorno e si attaccava ai loro corpi. Si sa che i ricordi si rifugiano nell’apposita nicchia che ogni essere umano costruisce in un’ansa del proprio cervello. Infatti, i colori della natura, in quel periodo, e l’odore dell’uva vendemmiata, e già pigiata, per ciascuno dei due giovani, finché vissero, rimasero un soave ricordo di quei giorni felici.   Scaduto il tempo del soggiorno, si avviarono verso la strada del ritorno. Nel pomeriggio, in albergo, a Maratea, ebbero modo di ammirare taluni scorci paesaggistici del Parco Nazionale del Pollino attraverso fotografie e guide illustrate e di leggere la descrizione d’alcuni luoghi: ne rimasero entusiasti e si ripromisero che, nel prossimo futuro, avrebbero trascorso qualche fine settimana sul Pollino. Il piccolo hotel, dove presero alloggio, era arroccato su un pianoro che si affacciava sul mare, ricoperto da una flora tipicamente mediterranea. Le acque sottostanti, disseminate di faraglioni, erano limpide ed assumevano colori cangianti, dal turchese allo smeraldo al blu, oltre che alle sfumature del verde degli ulivi e dei pini, che dai monti degradavano verso il mare. Boschi, paesini e torri antiche, che ancora sfidavano il tempo, completavano la coreografia che si specchiava su quel tratto di costa calabro- lucana, dominata dalla maestosa statua del Redentore, identica a quella del Cristo che sovrasta Rio de Janeiro. Accanto alla struttura dell’albergo, un maestoso pino marittimo spandeva la sua ombra su parte del caseggiato, che un viale di palmizi congiungeva all’ingresso principale rappresentato da un vetusto portale. Fiori variegati chiazzavano il piazzale ed un meraviglioso rosaio cespugliato adornava il muro attorno al portone d’accesso. Sul fronte opposto, - un terrazzo con vista sul mare, che veniva utilizzato come ristorante all’aperto nelle belle giornate -, era stato creato un giardino pensile: ancora colori ed odori, che rimanevano nel chiuso di quella veranda sotto il cielo, delimitata da un pergolato di piante di buganvillea, con fiori rosso-vermiglio e viola-cardinalizio, e da altri fiori posti, in vaso, ai lati del terrazzo.   La serata tiepida invitava ad affrontare la notte rimanendo in terrazzo, magari indossando qualche giubbetto di cotone. Beatrice e Alberto preferirono, quindi, cenare fuori per godere lo spettacolo del mare, solcato dalle lampare dei pescatori, ed il suo profumo salmastro, nonché per ammirare la costa con le sue luminarie, i fari che illuminavano i monumenti, i fuochi d’artificio sparati in qualche paesino in festa. Un’orchestrina locale, in sottofondo, durante la cena, diffondeva note di canzoni all’italiana per passare, dopo le ore ventidue, a musica, che invitava alle danze. I due innamorati ballarono abbracciati i lenti e quando la luna accese in pieno il suo faro si spostarono verso una parte del terrazzo, lasciata appositamente scoperta e non illuminata, se non appunto dalla luce dell’argenteo satellite terrestre. Furono seguiti da altre coppie, che formavano un’unica massa in leggero movimento essendo quei corpi, l’un l’altro, incollati, come i loro. Un musico, sceso nella pista, roteava attorno ai loro corpi e tirava fuori dal proprio violino soavi melodie: l’archetto faceva vibrare le corde con le note di “Eternamente”, il leitmotiv dell’indimenticabile “Luci della Ribalta” di Charlie Chaplin. Alberto, accarezzando i capelli sciolti sulle spalle della sua Beatrice, e sfiorandole con le labbra il volto stupendo, le sussurrava all’orecchio le parole della canzone...   Quella, per i due amanti, fu una serata felice, una delle non molte trascorse insieme . Il loro sentirsi innamorati veniva ampliato dalla bellezza della naturale scenografia che li circondava: si sentivano avvolti da una calda nuvola, che li isolava da dov’erano e li trasportava in un Eden, che la loro immaginifica mente si era creato quale unico luogo di felicità inviolabile. Un bocciolo di rosa scarlatta, colto da Alberto nel giardino, fu il ricordo di quella notte, la quale andò ad arricchire, anche quando il fiore divenne appassito, gli altri momenti belli già fissati nello schermo della memoria, che accompagnò Beatrice da allora in avanti. Non parole, quella notte, ma atti: un susseguirsi di atti di amore, che talvolta li stordivano, tal’altra trasmettevano sussulti, tra i più intensi, ai loro corpi; tal’altra ancora li inebriavano sino a farli entrare nella dimensione del loro Eden. Era l’estasi, il distacco dal tormento dei freni tirati e dai crucci quotidiani e, nello stesso istante, la materializzazione dello spirito, che li libravano lontani dalla crosta terrestre: la linfa della vita continuava, però, a rilasciare i suoi piaceri al corpo, rimasto là dov’ era. Che loro esploravano con reciproca voluttà soffermandosi soprattutto attorno alle zone erogene di ambedue. Era l’inizio del lento evolversi di quello che, se gli eventi lo avessero voluto, doveva divenire un comune processo simbiotico della sfera dei loro sentimenti e dei sensi, che li avrebbe potuti condurre a quel difficile traguardo dell’amore perfetto. Le onde, che si infrangevano sulla scogliera sottostante, quella notte sembravano emettere un suono: “Siamo stanchi”; loro, però, i due innamorati, no. Non erano stanchi di unirsi. Non era un atto fotocopiato e ripetitivo, bensì un bisogno interiore di trasmettersi sensazioni tenendo legati, il più a lungo possibile, spirito e carne, perché sentivano vagare su di loro uno strano alone, quale trascendente presagio, che, trascorsi quei giorni insieme, mai più i loro corpi si sarebbero uniti per amarsi tanto intensamente.   Diedero la libertà a quegli istinti, sino allora compressi, del ventaglio di delizie che emergono durante l’incontro dei sensi. Erano entrati in due delle tre dimensioni che arricchiscono la complessità del rapporto di coppia, che tende al sincronismo delle azioni: erano divenuti Amanti ed anche Amici, dovevano ancora calarsi nell’identificazione della figura protettiva di Genitore, che si raggiunge allorquando, accanto all’elisir dello spirito, viene a realizzarsi, nel quotidiano, la simbiosi di vita.   Guardavano, mentre albeggiava, le ultime barche che, cariche di pesci, spegnevano le lampare per volgere la prua verso la riva, quando Alberto, malgrado sfinito, fu sollecitato a tentare l’ultimo assalto... Invitò allora la sua amata a frizionare il di lui corpo con l’acqua di colonia: l’alcoolicità del liquido ed il tenue profumo, insieme, servirono allo scopo… Il “Bolero” di Ravel, diffuso in sottofondo dal registratore portatile, sintonizzava il fremere dei corpi, inondati da carezze e sfiorati da labbra, che davano l’avvio alla loro armonica fusione; la scena, non lasciva, ma offerta con erotismo artistico ad un immaginario colto pubblico, era in perfetta sintonia col crescendo che precede il raggiungimento della vetta, l’urlo di piacere, simile a quello dell’atleta che taglia, da vincitore, il traguardo olimpionico: “ti amo, ti amo, ti amo, ti amo…”. L’uomo, accolto dalla sua donna fra le braccia di un incontenibile prolungamento del piacere reciproco, giacque esausto e, dopo aver goduto appieno la dolcezza del momento, con carezzevoli baci le sussurrava: Le tue labbra, l’onda dei tuoi capelli sul mio corpo sono il crescendo di un coro celestiale che fa levitare il mio animo travolgendo tutto il mio essere. Lo stordimento che mi procuri, Alberto, tesoro mio, mi accompagna in ogni momento della giornata. Vorrei diventare la tua ombra per stare sempre con te: talmente immenso è il sentimento che ha travolto l’intero mio essere coprendoti d’amore”. Così dicendo, Beatrice, incantevole nella sua nudità, quale Venere uscita dalle acque del mare, guardava ammirata quel bel volto di giovane maschio e la plasticità del suo corpo nudo, perfetto come una scultura di Fidia. Il primo raggio di sole fuggiva dall’orizzonte per andare ad illuminare l’“immenso”, che promana dalla maestosità della statua del Redentore. Era l’alba: la loro alba! Si abbandonarono, indi, a Morfeo, anch’egli assonnato per la lunga veglia notturna, sino al mezzodì inoltrato.     Il servizio giornalistico di Alberto, sui tesori d’arte della Sila, fu presentato in tre puntate sul giornale quotidiano ed il suo capo, essendone rimasto entusiasta, lo segnalò al direttore della rivista settimanale, pubblicata dallo stesso editore.   Un paio di settimane dopo, il giovane redattore venne invitato ad andare in Sicilia per un servizio sulle isole minori, corredato da fotografie, riprese anche dall’alto. Il lavoro avrebbe impegnato Alberto per oltre una settimana ed alcuni spostamenti sarebbero avvenuti in elicottero. Alberto, dopo essersi consultato telefonicamente con la sua donna, la quale malvolentieri espresse il proprio consenso, accettò a condizione che fosse lasciato libero in quei pochi giorni precedenti la partenza per passarli insieme alla sua ragazza.   Beatrice si lamentò di questo nuovo incarico in quanto lo portava lontano da lei; pur tuttavia, nei giorni in cui poterono stare assieme, si recarono nei paesi vicino a Napoli per trascorrere con serenità il tempo a loro disposizione.   La donna informò Alberto di due avvenimenti. Mentre loro erano in giro sulla Sila, venne a cercarla al pensionato universitario una sua parente, proveniente dal paese, incaricata dalla madre ad accertare la veridicità del pretesto, da lei addotto, circa la sua anticipata presenza all’Università; sentendosi telefonicamente con la sua mamma, aveva giustificata la sua assenza dal pensionato con un’escursione, fatta assieme alle colleghe, ad Ischia. Ma la genitrice era già in stato di preallarme, quindi dovevano essere molto guardinghi. L’altra novità stava nel fatto che il suo flusso mestruale era in ritardo di una diecina di giorni! Beatrice era vivamente preoccupata.   Alberto cercò di nascondere il suo stato d’animo, ovviamente agitato, giustificando il ritardo mestruale come un fatto normale considerato lo scombussolamento arrecato al suo metabolismo dai nuovi eventi di quei giorni trascorsi insieme. Tentò di rasserenare la sua donna per entrambe le notizie assicurandole che mai e poi mai l’avrebbe lasciata da sola a risolvere i problemi, che già incominciavano a farsi avanti.   Con questo stato d’animo, Alberto, assieme a Mario, il fotografo di redazione, si apprestava a partire per le isole minori siciliane, per il suo servizio giornalistico. Da qualche giorno si erano lasciati alle spalle le “festività dei morti”. Comunicò a Beatrice, giacché avrebbe dovuto essere lei a telefonargli, il programma degli spostamenti ed i recapiti telefonici degli alberghi, in cui ciascuna sera avrebbe pernottato. Atterrarono all’aeroporto di Palermo, dopo di che noleggiarono un elicottero per riprendere dall’alto i panorami delle incantevoli isolette della Sicilia: Ustica, le Egadi, Lampedusa, Pantelleria, le Eolie. Finite le riprese aeree, raggiunsero, con i mezzi di trasporto disponibili, le varie località soggiornandovi in ciascuna di esse per qualche giornata per completare da terra la documentazione, che sarebbe servita per la stesura del reportage.   Beatrice lo chiamava tutti i giorni, ma non riusciva a nascondere la propria trepidazione per quel suo uomo, lontano da lei ed impegnato in un lavoro non privo di rischi a causa dei mezzi di trasporto adoperati, ed, inoltre, per le mestruazioni, che non davano alcun segnale di volere apparire.   Finito il lavoro, raggiunsero Reggio Calabria per rientrare a Roma, durante la serata, con un volo di linea. A metà percorso, ahimè, l’aereo, in alto mare, cominciò a non rispondere ai comandi: scese rapidamente di quota, ma il comandante seppe stabilizzarlo. Dopo qualche minuto un motore si spense ed il velivolo riprese a scendere; con l’altro motore il pilota riuscì a metterlo in linea, ma s’inchinò a sinistra; seguì un alternarsi di beccheggi e subito dopo sfuggì al controllo del pilota; andò perdendo quota per cui venne lanciato l’S.O.S. Altri tentativi per riprendere il controllo del velivolo fallirono e fu inevitabile l’impatto con il mare. L’aereo si spaccò in due tronconi e, nel volgere di pochi minuti, s’inabissò.   Alberto ed il fotografo, che avevano indossato il salvagente, ebbero la doppia fortuna di trovarsi vicino al pelo dell’acqua e di potersi aggrappare ad un portello, che si era staccato nel violento urto con il mare.   Una donna, catapultata in acqua, urlava chiedendo aiuto perché non sapeva nuotare: Alberto si lanciò verso di lei per aiutarla e, poiché si dimenava per il terrore di affogare, la afferrò per il collo trascinandola verso l’improvvisata zattera. Assieme ai pochi passeggeri che si salvarono, non rimaneva loro altro da fare che sperare nell’arrivo dei soccorsi.   Trascorsero le prime ore, già in pieno buio, senza essere avvistati; sopravvenne la notte durante la quale l’acqua del mare divenne gelida anche se, di giorno, la temperatura era ancora mite. I loro corpi incominciarono ad intorpidirsi, le palpebre, pesanti, tendevano a chiudersi. Ma, Alberto e Mario, assieme agli altri naufraghi, lottarono contro la morte che si aggirava nei paraggi, attendendoli al varco: si incoraggiavano l’un l’altro contando sul fatto che, dopo l’interruzione notturna, appena giorno le ricerche sarebbero ricominciate ed i soccorritori non potevano non individuare il luogo del disastro e, quindi, salvarli.   Beatrice attendeva, con ansietà, quel giorno, il rientro di Alberto a Roma, per telefonargli, la sera, in redazione. Le passarono il direttore del giornale, il quale, col dovuto tatto, comunicò alla donna l’incidente, ma cercò di rassicurarla comunicandole che le ricerche dell’aereo erano in corso, avendo le torri di controllo raccolto il messaggio di “SOS”; esistevano delle probabilità che gli occupanti il mezzo di trasporto fossero ancora vivi, disse l’uomo.   Una tempesta di sentimenti si abbatté sulla poveretta: vedeva il sogno infranto e prendeva corpo un ricordo struggente dell’uomo amato, che avrebbero preso possesso del suo cuore dolorante. Non un lamento, non un grido di dolore, ma solo lacrime, copiose, uscivano dai suoi occhi, dopo aver attraversato il suo animo. Pensava anche al frutto del loro amore, che con ogni probabilità ella già portava in grembo, che avrebbe visto la luce del mondo in maniera diversa rispetto ai bambini delle coppie normali; rifletteva anche sul suo futuro, quale sarebbe stato senza il suo Alberto: additata, soprattutto nel suo ambiente cittadino, come persona dalla quale occorreva tenersi distanti e, fuori di esso, come donna in cerca di un lavoro, ma, in quanto ragazza madre, maggiormente esposta alle insidie ed agli inganni del prossimo. Il suo intimo dolore era intenso, muto, solitario.   Così trascorse la notte, rileggendo le lettere che Alberto le aveva inviate e tenendo fra le mani la rosa, già appassita, che egli aveva colto per lei in quell’albergo a picco sul mare.   Nonostante la spossatezza della lunga veglia notturna, il sonno ancora non s’impadroniva dell’affranta ragazza; sul fare del giorno, un’improvvisa fitta al basso ventre la fece gemere di dolore; una sudorazione fredda accompagnava le trafitture in corrispondenza dell’utero. Ispezionò le sue parti intime e vide che macchie di sangue raggrumato cominciavano ad uscire dal suo corpo. Era probabilmente un aborto spontaneo, procurato verosimilmente dall’intenso stato emotivo, che si era riversato sulla sua persona.   Cessato lo stato dolorante, il sonno prese il sopravvento. Ma l’incubo, nel sogno subito apparso, di Alberto, che precipitava con l’aereo, che si dibatteva in balia delle onde del mare agitato, non la lasciò durante il suo breve sopore. Si svegliò di soprassalto, madida di sudore, con la gola secca e la testa dolorante. Guardò l’orologio: erano già le undici del mattino. Dopo essersi preparata un caffè, si vestì ed uscì per telefonare al giornale.   Il direttore le comunicò che da qualche ora aveva ricevuto la notizia che i mezzi di soccorso avevano trovato alcuni naufraghi allo stremo delle loro forze, ma vivi; le eliambulanza, chiamate sul posto, li stavano trasportando presso il Policlinico di Napoli, essendo il nosocomio attrezzato più prossimo al luogo dove era avvenuto il tragico evento. Non sapeva, se tra questi ci fosse anche Alberto. Beatrice telefonò alla mamma di quest’ultimo per comunicare la notizia avendola contattata la sera precedente per informarla su quanto era accaduto. Si avviò, indi, in taxi, verso l’Ospedale, dove erano già giunti i malcapitati, i quali, pur tuttavia, erano stati più fortunati di coloro che perirono nella sciagura. Non essendoci ancora ressa di parenti, consentirono a Beatrice di accertarsi se la persona che cercava fosse tra quelli che erano arrivati. Immensa fu la gioia nel vedere il volto del suo uomo, dormiente, ma vivo.   Beatrice chiese ed ottenne dai sanitari di stare accanto a Alberto, ma ricevette il divieto di svegliarlo. Per tutto il giorno e la notte stette a vegliare, su una sedia accanto al letto, il “suo paziente”. Da circa ventiquattro ore non toccava cibo, tranne qualche bicchiere d’acqua; riuscì ad avere, da un’infermiera, verso la mezzanotte, un po’ di frutta ed un caffè. Il naufrago, nutrito attraverso le fleboclisi, dormì ininterrottamente, essendogli stato somministrato un leggero sonnifero, sino il mattino del giorno successivo. Il suo risveglio non poteva essere più dolce: il volto di Beatrice, anche se provato per le due notti insonni e per i dispiaceri, era accanto al suo. Essere sfuggito alla morte e ritrovarsi accanto alla persona amata furono sensazioni di gioia, che inondarono i due innamorati e che furono manifestate attraverso gli occhioni lucidi di entrambi ed un lungo, forte abbraccio, che si rifiutava di essere interrotto. Alberto venne a sapere, poi, che anche Mario si era salvato e che era ricoverato in un’altra corsia; chiese di essere dimesso in quanto si sentiva in discrete condizioni di salute, ma gli venne consigliato di trattenersi ancora un giorno per controlli generali e per dare la possibilità al suo fisico di riprendersi dopo la forte tensione, sul piano neuro-psichico, ed il logorio fisico, ai quali era andato incontro; anche dopo l’uscita dall’ospedale avrebbe dovuto osservare un periodo di riposo. Scese dal letto per andare a telefonare a sua madre che, però, aveva ricevuto la buona notizia da Beatrice, il giorno precedente. Alberto la rassicurò sul suo stato di salute dicendole che non era il caso che lo raggiungesse e promise che per le festività natalizie sarebbe andato a trovarla. Rientrando in corsia, si era appena disteso quando comparve il direttore del giornale per fare visita ai suoi “miracolati”. Alberto s’intrattenne brevemente a raccontargli la dinamica dell’incidente ma, essendo subentrata la spossatezza fisica, si appisolò per svegliarsi all’ora di pranzo. Il direttore trascorse qualche ora a parlare con il fotografo di redazione, che era rimasto sveglio, e con Beatrice, con la quale ebbe a compiacersi per la dedizione che riversava su Alberto, nonché per la sua serena bellezza. Dopo la colazione di mezzodì, Alberto riprese nuovamente a dormire per svegliarsi nel tardo pomeriggio. Nel frattempo, Beatrice rientrò al suo pensionato per un frugale pasto, per riposare qualche ora e rinfrescarsi. Non appena Beatrice fu di nuovo accanto a lui, Alberto si alzò dal letto poiché si sentiva abbastanza ritemprato nel fisico e volle fare una passeggiata: si sedettero su una panchina del viale alberato. Ho veramente temuto di non vederti più, amore mio. Quando l’aereo cominciò a rollare violentemente, il pensiero è subito volato a te – introdusse la conversazione il giovane – e nella caduta, prima dell’impatto violento con la superficie del mare, certo che non mi sarei salvato, il mio addio fu per te, dopo aver inviato un bacio a mia madre. In quei pochi secondi vidi te, gravida, che portavi in grembo il frutto del nostro amore, vidi te, che saresti rimasta sola con un figlio, che non avrebbe conosciuto suo padre... Scusami, caro, se t’interrompo, ma aspettavo il momento propizio per informarti che l’altra notte tutto si è risolto. Ritengo che il “colpevole” sia l’evento nel quale sei stato coinvolto: il forte stress emotivo, cui sono stata sottoposta, il dolore e la paura avranno determinato il ritorno del flusso mestruale; non so, quindi, se è stato un semplice ritardo nel ciclo mestruale oppure si è trattato di un aborto, anche se all’inizio di una gravidanza. Non so dirti se mi sento sollevato da un peso – le rispose accarezzandole il volto - oppure se sono dispiaciuto: certo è che avevo già incominciato a farci il pensierino ad un figlio nostro... Ma, avremo tempo anche per questo. Anch’io desidero una creatura nostra, ma a tempo e luogo e con le carte in regola perché non voglio che un domani i nostri figli provino disagio venendo a sapere di essere nati fuori del matrimonio. Sono d’accordo con te, cara, - le rispose Alberto dandole un bacio sulle labbra -, riprenderemo questo argomento al più presto. Ma, adesso torniamo agli istanti che hanno preceduto il tuo impatto con la visione spettrale della morte. Dopo che il pilota ebbe lanciato il messaggio di aiuto, con freddezza cercò di governare il mezzo aereo; il poveretto, inabissandosi assieme al suo velivolo, avrà visto, nell’arco di pochi tremendi secondi, il ghigno della morte, che lo attendeva sul ciglio delle onde marine, assieme ad altre decine di vite umane. Mario, il fotografo, ed io, avendo individuato un rottame, lo raggiungemmo per aggrapparcisi: fu la nostra salvezza. Speravamo nell’S.O.S. lanciato, raccolto da qualcuno, ed attendevamo, quindi, i soccorsi. Ma, appena notte, l’angosciosa attesa cominciò a renderci irrequieti, anche perché il freddo iniziava ad impadronirsi del nostro corpo e la stanchezza, dovuta allo stress fisico ed emotivo, si faceva sentire. Come ha fatto a lottare contro un simile stress il povero amore mio? – lo interruppe accarezzandolo Beatrice Ci alternavamo con Mario e con gli altri sopravvissuti – rispose Alberto - a far riposare gli arti sulla piccola piattaforma costituita dal portello in quanto, per stare attaccati ad essa, dovevamo sottoporci ad uno sforzo, anche se non eccessivo, ma che in quelle condizioni si decuplicava. La notte era lunga ed avevamo veramente paura di non farcela: temevamo soprattutto il sonno. Escogitammo di parlare senza sosta, raccontandoci le nostre vicende, fatti che conoscevamo, barzellette; parlammo di sport, di politica ed affrontammo anche discorsi di contenuto sociale e, quando la tensione o la veglia cominciavano a diminuire, ci autorizzammo vicendevolmente a scambiarci sonori schiaffoni in volto o a pizzicarci fortemente le braccia o le gote. Meno male che le tue risorse, soprattutto discorsive, considerato il tuo bagaglio culturale, non sono limitate – interloquì la donna. Alla quale Alberto subito puntualizzò: Furono tremende le ultime ore della notte, prima dell’alba: ci demmo legnate a non finire per stare svegli, ma le nostre membra intorpidite non sentivano il dolore, tant’è che arrivammo a tirarci forte i globi delle orecchie e ad esercitare una pressione sugli occhi. Eravamo veramente allo stremo delle nostre forze e stavamo per dare l’addio alla vita quando, qualche ora dopo il levarsi del sole, fummo avvistati dal potente binocolo di un ufficiale, in servizio sulla plancia di una nave della nostra Marina Militare, che ovviamente era stata messa in stato di allerta per la ricerca in zona. Alberto, dovresti ringraziare l’Ufficiale di turno sulla nave, per avervi salvata la vita; e, se non sarà possibile rintracciarlo, andremo a porgere i nostri ringraziamenti al Capo di Stato Maggiore della Marina o al Ministro della Difesa. Certo, cara, lo faremo insieme. – E Alberto continuò nel racconto-: Mario, che era disteso sull’improvvisata “piattaforma”, forse per la gioia, perse i sensi, mentre io e gli altri cominciammo a fare segni con le braccia per richiamare l’attenzione dei soccorritori. Poco dopo fummo tirati a bordo della nave per i primi soccorsi e, indi, vennero chiamate le eliambulanze Tutto il resto è a te noto. Povero, amore mio, posso intuire quale carica di dolore e di paura, per il rischio di dover lasciare ciò che ti è più caro, ti abbiano procurato quei momenti, portandoti allo stremo delle forze. Se ti avessi perduto, come avrei fatto senza di te? - Mentre diceva ciò, Beatrice teneva stretto tra le sue mani il volto di Alberto scrutandolo come se volesse accertarsi che egli era ancora accanto a lei; proseguì: Vorrei non lasciarti più, tesoro, ora che ti ho ritrovato: ti amo troppo e tanto, Alberto, e non saprei immaginarmi una vita senza di te. Ormai ti ho dato l’intera me stessa ed appartengo solo a te ed assieme a te voglio affrontare tutti i giorni della mia vita futura. Anch’io voglio tutto ciò, cara; programmeremo il nostro immediato avvenire appena sarò uscito dall’ospedale. Si appressava il tramonto e Alberto pregò Beatrice di rientrare al pensionato. L’indomani, dopo le dimissioni dal nosocomio, i due presero alloggio in un piccolo hotel, vicino al pensionato universitario, per trascorrervi la settimana di riposo prescritta al paziente. Al mattino, Alberto accompagnava la sua ragazza all’università, assistendo con lei alle lezioni del giorno, perché non voleva lasciarla nemmeno per un istante, tranne quei pochi minuti in cui lei saliva nella sua cameretta, al pensionato, per cambiarsi d’abito; nel pomeriggio, andavano in giro per la città oppure ad assistere a qualche spettacolo. Alberto le comunicò le emozioni, provate nell’ammirare i paesaggi delle isolette siciliane, visti dall’alto, ma espresse anche la costernazione ed il dispiacere per avere perso, nell’incidente aereo, tutto il materiale del servizio giornalistico. Le narrò anche alcune storie che i naufraghi avevano raccontato per tenersi reciprocamente svegli.   Tra queste, la confidenza fatta da Mario, il fotografo, il quale, essendo certo che sarebbero morti tutti, dichiarò che non aveva senso mantenere un segreto, che si era portato silenziosamente addosso per tutta la vita. Prima di morire, Mario intendeva liberare il suo animo da quel macigno e riferì, quindi, che, in un momento drammatico di scontro verbale con sua madre, aveva saputo da costei di non essere il figlio dell’uomo, suo marito, del quale Mario portava il cognome, bensì di un suo amante, molto più anziano di lei, col quale aveva avuto dei rapporti sessuali dopo aver generato tre figli legittimi.   Alberto, proseguendo, asserì che il giovane concluse il suo racconto, invero dal contenuto drammatico, dichiarando di perdonare sua madre per averlo generato “bastardo” e fece professione di affetto nei confronti di colui il quale gli aveva fatto da genitore, inconsapevole vittima di un tradimento da parte della sua donna. Quell’atto, vile, consumato dalla madre, a parere di Mario, rivelava il classico caso del torbido comportamento in presenza di una conduzione bugiarda del rapporto a due, quando quest’ultimo non si poggia sulla limpidezza e lealtà reciproche. Principi, questi, sempre secondo Mario, che dovrebbero essere presenti soprattutto quando si afferma, per una vita intera, di amare il proprio partner col quale, peraltro, vengono generati più figli.   In quella settimana affrontarono anche l’argomento, lasciato in sospeso, della loro intenzione di stare insieme. - Al punto in cui siamo -introdusse il discorso Alberto -, io credo che possiamo parlare, per il momento, non di matrimonio purtroppo, ma di convivere insieme. Per me non esiste problema alcuno: in Italia od anche all’estero, a me stanno bene entrambe le soluzioni. Credo, invece, che gli ostacoli esistano per te. Non sarà facile, infatti, convincere mia madre sapendo già come la pensa su di te; ma, a parte ciò, non appena saprà che tu sei separato ed aspetti la legge sul divorzio per sposarti, sarà la guerra totale. Mi rendo perfettamente conto della situazione. Ed allora, ascolta bene la mia proposta. Io chiederò al direttore del mio giornale, che, come tu sai, fa parte di una grande azienda editoriale ed ha corrispondenze anche all’estero, di essere inviato per alcuni anni in una capitale europea, laddove possa svolgere il lavoro di corrispondente. Conosco l’inglese ed il francese, e, quindi, potrei essere accontentato. Inoltre, mi adopererò per dare lezioni private d’italiano. Chiederò di rientrare in Italia quando avrò maturato le condizioni perché io possa chiedere il divorzio. D’accordo, ma io cosa dirò ai miei? -lo interruppe Beatrice. Tu potrai dire alla tua famiglia – spiegò Alberto - di volerti trasferire presso un’Università estera per apprendere meglio le lingue, magari quelle di un altro indirizzo, francese od inglese od anche russo oppure slave, non necessariamente quelle del tuo attuale indirizzo di studio. Manterrai, però, la tua iscrizione presso l’Università della città dove andremo a risiedere, o qualcuna vicina, sempre in Lingue Orientali. La tua laurea potrebbe tardare di qualche anno, ma io guadagno a sufficienza per entrambi, se non ci diamo alle spese eccessive. Mi potrebbe stare bene tutto ciò, ma resta insoluto il problema “genitrice” – lo interruppe Beatrice-... Tua madre, in tutti i casi, anche quando saremo nella situazione di poterci sposare legalmente, - riprese Alberto - resterà il problema principale. Dovremo sposarci, quindi, anche contro il suo volere con tutto quello che ciò comporta in termini di rapporti futuri. A proposito, perché tua madre, non conoscendomi, né sapendo alcunché di me, non mi vuole accettare? Non è la tua persona fisica, che peraltro non ha mia vista, che le è ostile, ma la tua estraneità al nostro ambiente, ai nostri usi e costumi, alla nostra religione. Gli arberesche hanno mantenuto, nonostante i cinquecento anni trascorsi da quando sono andati via dall’Albania, un profondo sentire della propria origine ed un forte attaccamento ai loro principi morali. C’è in essi una presenza spirituale comune nel richiamarsi ad una ben definita identità orientale, che si sostanzia attraverso la conservazione delle variegate espressioni culturali, della lingua, delle tradizioni, soprattutto quelle religiose, profondamente radicate nella loro coscienza, e che trovano un chiaro riscontro nel mantenimento della religione cristiana, ma con il rito greco-ortodosso. Ma, Beatrice, sono trascorsi cinque secoli e tutto questo è semplicemente assurdo – proruppe nel dialogo Alberto -. La donna, però, continuando, sottolineò: Com’ebbi a dirti, mia madre è molto legata a quelle tradizioni, a quel mondo “orientale”; oltre tutto, lei è una discendente, attraverso un ramo collaterale, dell’eroe albanese, che guidò i fuggitivi dalla loro terra, invasa dai turchi, verso i lidi del meridione d’Italia; ritiene, quindi, di essere moralmente investita della difesa dei valori albanesi, pur rappresentando una piccola minoranza linguistica e religiosa in questa terra di Calabria. -Tua madre ha quindi una discendenza nobiliare, ma dimostra anche una…, consentimi il termine, amore, …scarsa sensibilità sociale, essendo ormai cittadina italiana; e, oltre tutto, protende verso forme di razzismo. Ebbene, non te lo volevo dire, ma ora è il caso di comunicartelo, anche se non serve a niente; il qui presente Alberto Montemylè appartiene ad una Casata nobiliare, decaduta, ma pur sempre nobile: i Baroni di Mangalavite. I ruderi dell’avito castello esistono ancora sui monti Nebrodi, in Sicilia, non molto distante da Castel Lungo, il mio paese natio. Sono lieta di fare la sua conoscenza, signor Barone, - lo interruppe Beatrice con un sorriso e con un garbato inchino, celiando il cerimoniale in uso tra l’antica nobiltà -. Ed io sono felicissimo di amarla, mia Signora, - e, nel baciarle la mano, l’attirò a se per stringerla tra le braccia. Le loro labbra si unirono e furono portati ad interrogarsi se il sapore dei baci, scambiati tra nobili, sia lo stesso di quello tra borghesi o tra proletari e se le sensazioni dell’amore siano identiche in tutti i ceti sociali, dal povero a quello d’alto lignaggio. Convennero che, almeno in questo, non esiste alcuna differenza. Ritorniamo alle cose serie, amore, anche se i nostri baci lo sono certamente. Intendo dire - proseguì Beatrice - agli argomenti di cui discutevamo prima. Io credo che la soluzione, da te proposta, vale a dire di trasferirci per alcuni anni all’estero, sia quella più opportuna. Ci avviciniamo alle vacanze natalizie ed io debbo rientrare a casa: affronterò, quindi, lo spinoso problema in quei giorni, con determinazione, e, se tu sei d’accordo, tesoro, comunicherò a mia madre che molto presto metteremo in atto tutto ciò che abbiamo discusso e stabilito. Lo sono senz’altro, amore mio… Sono disponibile – proseguì con enfasi la donna - a portare avanti il nostro intendimento sino all’estremo limite, sino cioè alla deprecabile ed eventuale rottura d’ogni rapporto con mamma. D’altronde, con la maggiore età ho raggiunto anche l’indipendenza economica essendo entrata in possesso della quota parte d’eredità lasciatami da mio padre. La cui rendita annua è abbastanza consistente e mi consente di vivere con sufficiente autonomia. Non ci sarà bisogno, quindi, che tu dia lezioni private d’italiano, laddove andremo a vivere. Mi auguro, anche se è un’utopia, che tua madre possa comprendere... l’armonia e la pace sono due beni preziosi, cui ciascun individuo non dovrebbe rinunciare, anche alla presenza di taluni principi personali, che oggettivamente sono in conflitto con i processi evolutivi e con gli stati di fatto e che, pertanto, non possono essere assoluti; quando queste, chiamiamole “verità soggettive”, sono motivo di conflittualità, vuol dire che qualcosa non funziona e che, quindi, vanno sottoposte ad un processo di revisione sostanziale. Alla mia ancor giovane età ho già appreso che la vita, perché possa essere vissuta con equilibrio, è una condizione soggetta a compromessi: nulla è immodificabile, tutto, o quasi tutto, è in divenire. Quanta saggezza c’é nel cervello del mio filosofo...! – e con un sorriso di compiacimento Beatrice chiuse fra le sue braccia Alberto stringendoselo al petto come un caro cucciolo -. Sabato sera, un giorno prima del rientro a Roma di Alberto, cenarono a Mergellina e chiusero la giornata in un night ove, oltre che ballare ed ascoltare buona musica, a notte inoltrata vennero allietati da un cast di artisti, che si esibirono in uno spettacolo di varietà. O meglio, la giornata non vide la sua conclusione al night, ma fu costretta a continuare, in albergo, dove, dopo tanti giorni di astinenza ed avendo Alberto recuperato appieno le sue energie fisiche, i due giovani si lasciarono trascinare dagli impulsi naturali che coesistono in un rapporto d’amore.   Giacquero insieme provando le medesime sensazioni di una coppia nuda di giovani sposi che viene sommersa da cascate di acque montane, le quali, penetrando oltre l’epidermide, inondano lo spirito di tersa frescura; così, il loro atto di amore, mai stantio, ma sempre rinnovato, guariva le ferite inferte dagli eventi dolorosi.   I giorni, che li separarono dalle cosiddette vacanze natalizie, li videro trascorrere la fine della settimana, come il solito, insieme. Venne, indi, il tempo della battaglia, venti giorni di scontri tra Beatrice e sua madre, la quale s’attestò, com’era scontato, sul fronte del no assoluto. Beatrice anticipò di alcuni giorni il rientro a Napoli considerata la situazione di insostenibile convivenza che si era venuta a creare in famiglia e sentiva, quindi, il bisogno del solidale amore del suo uomo per continuare nella battaglia per l’amore e per la vita. Queste lotte guerreggiate non possono essere affrontate da soli, ma si vincono se si sta accanto sostenendosi vicendevolmente. E Beatrice a casa sua era sola. I due decisero che avrebbero realizzato il loro proposito subito dopo il mese di giugno di quell’anno per avere tempo di organizzare il trasferimento all’estero, iniziando dal rilascio dei passaporti. Per intanto, Beatrice continuava a frequentare l’Università.   L’anno ’68, noto per i cambiamenti che produsse, caratterizzò l’attività professionale di Alberto, facendone emergere le attitudini e le capacità del bravo cronista. La rivoluzione sociale, che cambiò il mondo, per alcuni anni costituì l’alimento principale, di cui si cibò, a piene mani, la stampa. Non c’era contestazione studentesca, non c’era assemblea di fabbrica o di universitari, non c’era sciopero operaio, in cui i giornalisti non fossero presenti; e non erano assenti quando le sfilate degli operai o degli studenti tracimavano, purtroppo, in fatti di una certa violenza. Alberto era sempre in prima linea per riportare i fatti, per informare; sui tafferugli, sugli scioperi, sulle guerriglie, sulle occupazioni di fabbriche e delle Università di Roma, Milano, Napoli, Torino o Palermo i suoi articoli conobbero l’onore della prima pagina. Le sue note erano seguite, ed attentamente lette, perché egli riportava i fatti con puntualità e con obiettività, senza indulgere a commenti di parte, ideologici o politici. I servizi, nelle diverse città, laddove più clamorosa era la contestazione da parte del movimento, studentesco o della classe lavoratrice, oltre la cronaca, fornivano comunque gli elementi per lasciare al lettore una approssimativa interpretazione sociologica e politica del fenomeno. Questi “pezzi” fecero salire il giovane cronista nella scala redazionale: Alberto, infatti, ebbe conferiti incarichi via via sempre più importanti. Sino ad essere inviato in medio-oriente. L’anno precedente c’era stata la “guerra dei sei giorni”, tra Israele contro l’Egitto, la Siria, la Giordania e l’Iraq, a conclusione della quale Israele occupò l’intera Palestina. Fu l’inizio dell’escalation del terrorismo arabo, dello stato di permanente conflittualità in quei territori, della formazione di gruppi armati estremisti, che spesso sfuggivano al controllo politico degli stati. Il giornale di Alberto ritenne di dovere svolgere una serie di corrispondenze da quelle terre irrequiete per cercare di far capire ai propri lettori quali avvenimenti stessero travagliando quei popoli. Il giornalista, che di solito veniva incaricato per l’estero, in quel periodo era ammalato, e lo sarebbe rimasto per un lungo periodo; si pensò, quindi, a Alberto. Il quale fu convocato dal suo direttore: sarebbe dovuto andare in Israele e da lì muoversi nei territori circostanti per incontrare gente, fare interviste, assistere a fatti e ad eventuali azioni tra opposte fazioni per poi trasmettere, quasi ogni sera, il pezzo alla redazione romana. Alberto ne rimase allettato perché solleticava la sua passione e l'ambizione professionale, quella di fare l’inviato speciale, soprattutto dall’estero. Approfittò dell’occasione per informare il direttore della situazione in cui si trovava per poter sposare a tempo opportuno la sua donna; gli chiese, quindi, di essere trasferito, dopo il suo rientro da Israele, in un paese europeo quale corrispondente, per alcuni anni, del giornale quotidiano e della rivista. Il capo promise il suo interessamento per venirgli incontro. Quel fine settimana, per i due fidanzati, non fu gioioso come gli altri. Alberto comunicò a Beatrice l’incarico che il suo direttore gli aveva conferito, ma anche l’impegno che aveva preso. Sul momento, ne fu contrariata, o, meglio, amareggiata, ma la donna intuì quanto sarebbe piaciuto al suo uomo potere svolgere quella corrispondenza estera. Dirgli di no, sarebbe significato tarpargli le ali, dal punto di vista professionale oltre che interiore; e lei non voleva arrecare dispiacere alla persona che tanto amava. D’altronde, doveva rassegnarsi se così era il lavoro di Alberto. Inoltre, la promessa che il desiderio di entrambi, di trasferimento all’estero, avrebbe potuto trovare accoglimento, la indusse ad essere più comprensiva e disponibile. Dalla risposta di Beatrice, Alberto si sentì sollevato e se ne rallegrò per il modo con cui lei sapeva trovare un accomodamento alle loro necessità nel ménage di vita che stavano per intraprendere. A metà giugno, Alberto atterrò all’aeroporto di Tel Aviv. Si mise in contatto con l’Ambasciata italiana per avere consigli, notizie ed indirizzi. Noleggiò un veicolo con autista che gli facesse anche da guida. In quindici giorni, sottoponendosi ad un giro di tappe forzate, andò in lungo e largo per il Paese. Toccò i confini di Israele con il Libano, l’Egitto, la Siria e la Giordania; soggiornò a Gerusalemme, Haifa, a Tel Aviv-Jaffa, Hebron, Nablus, Gerico; visitò i territori occupati, Gaza, i Kibbutz; incontrò parecchia gente, israeliti e palestinesi, interrogò uomini politici e dirigenti di entrambi i popoli presenti sul territorio, ascoltò rappresentanti e semplici praticanti delle religioni ebraica, musulmana, cristiana, drusa. Ogni due giorni, all’incirca, inviava al giornale la nota del servizio realizzato e, subito dopo, scriveva una lettera a Beatrice, che riusciva ad avere notizie su Alberto telefonando al direttore del giornale; con questi l’“inviato” scambiava le sue impressioni sulla situazione che emergeva per riceverne indicazioni e direttive su come procedere. Le cause dello scontro, quelle palesemente note e che apparivano essere d’ostacolo alla realizzazione del processo di pace fra israeliani e palestinesi risiedevano nel controllo della città santa di Gerusalemme e nell’opposizione, da parte d’Israele, affinché circa un milione di profughi palestinesi tornasse alle proprie case; inoltre, la gestione delle risorse idriche, di vitale importanza per quelle zone carenti d’acqua, era un’altra delle cause principali del conflitto. Dopo la”guerra dei sei giorni”, Israele, nei territori occupati, ebbe ad espropriare parecchia terra ai legittimi proprietari per assegnarla ai propri coloni allo scopo di conseguire l’obiettivo di controllare le principali fonti di reddito economico della regione: la terra e l'acqua. Dall’uno e dall’altro fronte di ostilità era invocata una vera pace, una voglia di normalità, la fine della più che pluriennale conflittualità tra i due popoli, ciascuno dei quali, ovviamente, rivendicava il riconoscimento di propri diritti esponendone le relative ragioni. Nella complessa ed ingarbugliata situazione, frange di terroristi, che sfuggivano ad ogni direttiva, politica e militare, appesantivano ancor di più il fosco quadro dello scontro. Il corrispondente annotava con grande interesse ed attenzione gli argomenti e le notizie, di cui veniva a conoscenza e che poi sintetizzava nei suoi articoli, cercando di essere il più imparziale possibile. Beatrice leggeva, sul giornale, le corrispondenze del suo uomo per sentirsi a lui vicina e per provare la sensazione di udire la sua voce. Alla fine quasi del suo soggiorno in quella martoriata terra d’oriente – era già a Gerusalemme, da dove sarebbe dovuto rientrare in Italia - , Alberto si trovò al centro di uno scontro a fuoco tra soldati israeliani e un gruppo di uomini armati, non ben individuati in quanto avevano il volto coperto, ma, senza dubbio, di terroristi. Il giornalista si stava intrattenendo con alcuni giovani, in una delle strade alla periferia di Gerusalemme, quando da una macchina scesero tre uomini che, imbracciando fucili mitragliatori, cominciarono a sparare contro un posto di blocco di polizia militare, lì vicino, che controllava macchine ed uomini sospetti; ovviamente i militari risposero al fuoco. Nel fuggi-fuggi generale, che ne seguì, ad una giovane madre scappò dalla mano il bambino di circa quattro anni, il quale, nella corsa, andò a sbattere contro un palo e si trovò, ahimè, steso per terra, ma in mezzo al fuoco incrociato delle armi degli avversi gruppi armati. Alberto, non curandosi del pericolo, si portò strisciando accanto al bambino. I proiettili dei mitra rimbalzavano attorno a loro; stringendo tra le braccia il bambino, l’uomo strisciò sino ad un moncone di muro, dietro al quale si riparò; una granata, esplosa poco distante, lo costrinse a cercare un altro rifugio: correndo a zig-zag, raggiunse la carcassa di un camion rovesciato. Vi si acquattò sotto assieme al bimbo, aspettando la fine del conflitto a fuoco. Gli uomini col volto coperto, soverchiati dalle armi dei soldati israeliani, fuggirono, ma qualche militare ed un civile rimasero uccisi. Il bambino e Alberto non riportarono alcun graffio, e la madre, che prima piangeva per la disperazione, tramutò le sue lacrime in pianto di gioia quando Alberto le consegnò suo figlio. Quella sera, in hotel, Alberto scrisse l’ultima delle lettere, inviate a Beatrice dalla terra di Israele, qualche giorno prima di quella che doveva essere la data del suo rientro in Italia.   “Mia amata, oggi ho nuovamente rischiato di non poterti più abbracciare. Mi sono trovato, infatti, nel mezzo di un conflitto a fuoco tra terroristi, probabilmente, musulmani, e militari israeliani, in una zona abitata della città di Gerusalemme. La gente fuggiva per cercare di salvarsi dalle armi micidiali che crepitavano a più non posso facendo volare centinaia di proiettili verso obiettivi che non era facile colpire. Vidi in mezzo a quest’inferno un bimbo di pochi anni, che, essendo sfuggito alla presa della mano della madre, piangeva: le lacrime mi hanno sempre rattristato, ma quelle degli innocenti mi procurano un dolore indicibile. Mi sei venuta in mente tu, che hai perso un figlio nostro, anche se ancora in embrione, pochissimo tempo addietro. Come puoi annotare, la cosa la do per certa. Questa visione ha fatto scattare in me la molla di gettarmi a capofitto, noncurante del pericolo, per salvare quel bambino: non è stata un’azione eroica - così invece definita dal comandante militare del presidio-, ma semplicemente un gesto d’amore, che può compiere solo chi è inondato da un simile sentimento. Ed io lo sono perché ho te.” “Sapessi quanta e qual è stata la gioia di quella giovane madre quando le consegnai il suo figlioletto, vivo. In quel volto, un bel volto di donna orientale, vidi te, mia fanciulla, illuminata da quella bellezza, che ancora di più s’accentua quando sorridi di felicità; vidi te, madre, stringere tra le braccia una nostra futura creatura; vidi te, donna, esprimere la tua gioia per la luce d’amore che t’investe, che insieme c’involge. La gratitudine, che il volto di quella madre, non so se ebrea oppure palestinese, voleva esprimermi, non permettendole il suo stato emotivo di potere articolare una parola, mi fu manifestata con una fugace carezza, con la quale lei ha voluto gratificare la mia guancia. Ed adesso, non ti fare prendere dalla gelosia per quel che ti dirò: in quell’istante, ancora sotto la scarica di adrenalina, il brivido che intimamente ho percepito non è stato quello, a me già familiare, e più gradito, della tua mano, che mi viene trasmesso quando tu mi guardi intensamente, fisso, negli occhi, bensì un’intensa gioia per aver restituito ad una madre la felicità, prima smarrita”.   “ A mente fredda, mi chiedo cosa avresti fatto tu se io, in quell’azione, diciamo pure di guerra, fossi rimasto gravemente ferito e menomato fisicamente o, peggio ancora, se ci avessi rimesso le penne. Al di là di un’intima reazione, che, nella ipotetica circostanza, si sarebbe potuta scatenare in te, quello su cui mi sono soffermato è il tuo futuro. Nella cui visione, il solo pensiero che tu potessi essere toccata fisicamente da un altro uomo mi ha sconvolto. Come sarà bello, invece, fra pochi giorni, essere nelle braccia l’uno dell’altra.”   “Credo che non sia noioso, né retorico ripetere che non esiste niente di più bello dell’amore tra due esseri: quando questi aspirano ad elevare, nel medesimo istante, la propria mente dalla quotidianità del contingente per godere insieme il tuffarsi del sole nell’orizzonte marino; quando, la mano nella mano, percorrono un viale dove si susseguono le immagini dei loro progetti; quando reciprocamente sanno ascoltarsi con umana comprensione e partecipare personalmente alla soluzione dei problemi che investono ognuno di loro due; quando insieme sanno gioire e soffrire stando l’uno accanto all’altra”.   “In questi giorni, interminabili perché lontano da te, e senza il conforto di poter ascoltare la tua dolcissima voce, ho riscoperto - come se ce ne fosse ulteriore bisogno- quanto è profondo il mio amore per te; tale sentimento, infatti, mi porta ad esternarti le cose dette, il come io ti amo e come intendo amarti, nonché quali principi, secondo me, devono convivere in colei che mi dovrà stare accanto in maniera coinvolgente.”   “Questa nota ti arriverà dopo il mio rientro in Italia, ma ho voluto egualmente spedirtela perché tu possa sapere come il mio cuore si nutre da quando pulsa per te. Fra cento anni, se tu potessi rileggere queste mie parole, nulla sarà mutato e sentirai nelle orecchie il suono millenario, che ha incantato ed incanta miliardi di esseri umani: ti amo, mia dolce compagna. Quel suono avrà però, ancora, il tono della mia voce, così come oggi lo senti”.   “Inviarti un solo bacio, è poca cosa; stringerti fra le braccia, ancor meno. Tu vivi già insieme alla mia anima, che, in simbiosi con la tua, si ciba di quelle ininterrotte sensazioni profuse dallo scambio di una miriade di baci. Tuo, sino a quando esisterà il mondo, Alberto”.     Alberto, qualche giorno appresso, ritornò in quella zona della città antica, dove si era trovato in mezzo allo scontro a fuoco. S’intratteneva a parlare con alcuni passanti interrogandoli sugli avvenimenti di quei giorni per riportarne traccia nella sua ultima corrispondenza da quella regione, quando, all’improvviso, due granate ad alto potenziale scoppiarono accanto ad una casa sventrandola; ad esse seguì un crepitare di armi. Alberto si buttò, per ripararsi, in un fossato e da lì seguiva la cruenta scena di guerra. Una decina d’uomini, con il solito volto coperto da passamontagna, strisciava sparando verso la casa sventrata, che era l’abitazione di un dirigente politico, del quale Alberto ovviamente sconosceva l’esistenza; così come non gli era noto il fine di quell’attacco. Una donna anziana, tenendo sul braccio destro un pargolo di qualche anno d’età e porgendo la mano sinistra ad una bambina di circa cinque anni, si affacciò da un’apertura della casa invocando aiuto: fu colpita alla fronte, da un proiettile, e cadde riversa all’indietro tra le urla dei bimbi. Alberto ne rimase sconvolto e dimenticò di essere un cronista, in terra straniera. In quel momento era semplicemente un uomo, che sentiva di non poter rimanere indifferente e sordo alla richiesta d’aiuto da parte di altre creature umane, un uomo che aveva il dovere di correre incontro a due bimbi innocenti, in pericolo di vita e le cui grida soverchiavano il frastuono delle armi. Il pianto di un bambino, eguale in ogni angolo del mondo, è il suono che non si vorrebbe udire e che, più di qualsiasi altro, intenerisce l’animo, anche il più insensibile. Una jeep di soldati israeliani, richiamata dagli spari, comparve in fondo alla strada sparando contro gli ignoti terroristi. Alberto si trovò tra i due fuochi. Non lontano da lui, vide un mitra accanto al corpo esanime di un uomo caduto nello scontro. Rammentando le nozioni apprese durante il servizio militare circa l’uso delle armi, dopo essere riuscito a raggiungere quel corpo sul selciato, senza vita, s’impossessò del mitra cercando di avvicinarsi all’obiettivo dei probabili terroristi per trarre in salvo i bambini. Nell’effettuare il pericoloso percorso, fermandosi a tratti dietro ripari occasionali, fu costretto a sparare qualche raffica per conquistare le posizioni di avvicinamento alla casa; vi era quasi giunto, ma l’intensificarsi dei proiettili, che gli fischiavano attorno, lo inchiodavano dietro il muretto dove si era rifugiato. Le urla ed il pianto dei bimbi laceravano sempre più la scena di morte. Il cuore di Alberto era al massimo delle pulsazioni sopportabili, le scariche di adrenalina avevano invaso il suo corpo, le tempie sembravano volere scoppiare. E’ quello il momento in cui l’incoscienza travolge la paura ed un uomo, non pavido, compie un gesto, che suole definirsi atto di eroismo. Alberto balzò fuori dal suo riparo per correre incontro ai due bambini: col mitra sparava, per avere una copertura, nella direzione da cui provenivano i proiettili verso di lui; abbatté due incappucciati, ma una granata, lanciatagli contro da un guerriero, lo fermò, a pochi passi dalle creature che voleva salvare, dilaniandolo in diverse parti del corpo. Ebbe la forza di continuare a sparare contro coloro che lo avevano colpito. I soldati israeliani, approfittando dell’improvvisata copertura, proveniente dalle raffiche del mitra di Alberto, uscirono allo scoperto; in pochi secondi accerchiarono i terroristi intimando loro la resa. Questi risposero col fuoco e furono abbattuti. I due bambini, rimasti in lacrime accanto al corpo della propria nonna uccisa, furono messi subito in salvo. Alcuni militari soccorsero Alberto, svenuto ma ancora vivo, per trasportarlo d’urgenza all’ospedale. Le sue condizioni erano disperate. Fu sottoposto ad un lungo intervento chirurgico per cercare di salvargli la vita; gli furono estratte una decina di schegge da diverse parti del corpo, una delle quali aveva leso profondamente un polmone. Ma il povero giovane aveva perso parecchio sangue e l’emorragia all’interno del polmone aveva già prodotto i suoi danni. Fu ricoverato in “rianimazione” e messo sotto la tenda ad ossigeno. I medici, nel comunicare al Consolato italiano la presenza di Alberto presso l’ospedale, non si pronunciarono sulle possibilità di vita del paziente e si riservarono la prognosi.     Il direttore del giornale di Alberto fu informato attraverso il Ministero degli Esteri di quanto era accaduto. Beatrice lo apprese soltanto l’indomani; partì immediatamente per Roma ed andò a trovare il direttore pregandolo di metterla in condizioni di poter raggiungere Alberto. Nello stesso tempo, informò sua “suocera” in Sicilia, rassicurandola che il suo figliuolo era ancora vivo e che sarebbe partita per assisterlo e da Gerusalemme avrebbe fatto avere loro le relative informazioni. Dell’accaduto e di quanto aveva intenzione di fare, Beatrice diede notizia a sua madre, la quale manifestò, com’era attendibile, il suo forte dissenso, tramutatosi peraltro in divieto, alla partenza della figlia; ma la determinazione della donna, già del tutto legata al proprio uomo, non si fermò di fronte alle argomentazioni imperiose della madre. Era già uscita dal guscio ovattato della piccola comunità, che l’aveva cresciuta e difesa dalle insidie del mondo; che adesso, però, la trascinavano via. La fanciulla, ingenua e senza esperienza di vita, divenuta donna, si apprestava ad indossare le vesti del “coraggio” per affrontare ciò che a lei era sconosciuto. Ed il paese, dove si recava, non era certamente dei più tranquilli, bensì in continuo stato di guerra. Nel volgere di qualche giorno, il direttore riuscì – invocando la grave emergenza – a far partire Beatrice, che fece accompagnare da un suo funzionario. Ad accoglierli, al loro arrivo a Gerusalemme, trovarono il Vice Console Italiano ed un alto funzionario del Ministro degli Esteri Israeliano, il quale, a nome del Governo, manifestò la riconoscenza del proprio Paese ed espresse il ringraziamento, anche a nome dei familiari dei bambini, per gli atti di eroismo posti in essere dal giornalista, per ben due volte nel giro di pochi giorni, nel tentativo di salvare delle vite umane di cittadini israeliani. Beatrice fu introdotta nella stanza dell’ospedale in cui era ricoverato Alberto, il quale, ancora sotto la tenda ad ossigeno, alternava uno stato d’incoscienza con momenti di lucidità; in uno di questi ultimi, appena la vide e la riconobbe, non potendo né muoversi, né parlare, le manifestò, attraverso il linguaggio degli occhi irrorati di lacrime, i propri sentimenti del momento, che andavano dal ringraziamento per la sua presenza ad un silenzioso messaggio d’immenso amore. Beatrice, trattenendo a stento il pianto per le condizioni disperate del suo amato, ancora in prognosi riservata, gli sussurrava dolcemente: “Ti amo” ed avrebbe voluto aggiungere “sino al limite estremo d’ogni mio atto”, ma trattenne per sé questo suo sentire. La giovane prese alloggio, ospite del Ministero degli Esteri Israeliano, presso un hotel accanto all’ospedale e durante il giorno, tranne la notte, fu autorizzata a stargli accanto per assistere quell’uomo, che era – così com’ebbe a dichiarare alle autorità ed ai medici – il suo compagno di vita, con il quale conviveva “more uxorio”. Ma le condizioni di Alberto permanevano sempre gravi sino a quando la sua coscienza non mostrò più di potere uscire dal profondo torpore. Complicazioni di natura circolatoria e polmonare, nel volgere di un paio di giorni, lo fecero entrare in coma e tutti i tentativi dei medici, ivi compreso un delicatissimo intervento ai polmoni, si scontrarono contro la decisione che già era stata presa dal crudele destino. Alberto, qualche minuto primo di spirare, riprese conoscenza e, volgendo lo sguardo, l’ultimo, al volto amato, articolò le labbra: il suo cuore si fermò con l’immortale: “Ti amo”. Quello sguardo e l’attimo estremo della vita del suo “compagno” accompagnarono Beatrice per tutto il corso della propria esistenza. Rimase pietrificata, i suoi occhi, senza lacrime, non si potevano staccare da quel volto, ancor bello nel sinistro sonno della morte. Un volto che non avrebbe più accarezzato! Solo quando gli operatori sanitari iniziarono i preparativi per trasferire il corpo esanime di Alberto dal lettino della corsia alla bara mortuaria, Beatrice vi si avvinghiò, gridando: “Non mi lasciare, vita mia, ti prego, non andare via; resta con me, Alberto”. “Alberto, – urlò – io non potrò vivere senza di te; non ti lascerò mai…mai… l’ho giurato…spero di raggiungerti presto…Addio, mio infinito amore!”. Chiese, indi, un paio di forbici e pregò un’infermiera di tagliarle i lunghi capelli; dopo averne fatta una treccia, la legò al polso sinistro del suo uomo, al cui anulare sarebbe dovuta andare la fede nuziale. Gli mise fra le mani congiunte un piccolo Crocifisso, che le fu dato dal prete cattolico, che aveva impartita l’Estrema Unzione al defunto, e baciò, per l’ultima volta, le labbra di Alberto rimanendovi attaccata per non meno di un minuto, malgrado fossero già fredde. A forza la staccarono dalla morsa con la quale aveva circondato quel corpo che le era appartenuto. Il funzionario del giornale, che l’aveva accompagnata, avendola vista del tutto assente, dovette assisterla e guidarla sino alla partenza per l’Italia, che avvenne l’indomani: Beatrice vegliò ininterrottamente la bara di Alberto rifiutando il cibo, bevendo solo qualche bicchiere d’acqua e sorseggiando qualche caffè. All’aeroporto di Roma Ciampino, ad attendere la bara con il corpo di Alberto c’era la madre, Angela, la nonna Nunziatina ed il direttore con i redattori e funzionari del giornale, un eminente rappresentante italiano del Ministero degli Esteri, l’Ambasciatore israeliano, il quale, a nome del suo governo, consegnò alla mamma del defunto, alla memoria, una medaglia d’oro al valore civile per “l’atto eroico nel tentativo di salvare le vite di alcuni bambini israeliani, trovatisi al centro di azioni terroristiche”. Egli era caduto in una guerra che non gli apparteneva! Affettuosissimo e carico di tensione emotiva fu l’incontro tra Beatrice e la mamma di Alberto. La quale, essendo a conoscenza delle loro intenzioni di volersi sposare e dei sentimenti che il figlio nutriva verso di lei, le regalò, abbracciandola, la medaglia d’oro di Israele perché ne fosse legittima custode. Un successivo aereo portò il feretro ed i congiunti di Alberto all’aeroporto di Catania, laddove era ad attenderli un carro funebre per il trasporto della bara al cimitero, presso il paese di residenza della famiglia. Beatrice si fermò, per qualche giorno, a Castel Lungo, ospite di colei che sarebbe dovuta diventare sua suocera; a lei promise che sarebbe tornata a pregare sulla tomba del povero Alberto. Rientrò a Napoli portandosi dietro una fotografia recente dell’immagine sorridente del suo Alberto, che Angela le volle regalare ed alla quale disse che ne avrebbe fatto un ingrandimento per tenerlo sempre nella sua camera da letto. Dal momento in cui Alberto pose per l’ultima volta il suo sguardo su di lei, la risoluta donna non riuscì a versare una lacrima perché un ammasso di nebbia ghiacciata era penetrato nel suo corpo. Nel chiuso della sua stanza, però, a Napoli, essendo scemata la tensione nervosa di quei giorni, con in mano la foto del suo uomo, finalmente si sciolse il blocco lacrimale: un pianto inarrestabile e convulso scosse per circa un’ora il suo corpo. Esausta, prima di addormentarsi, trovò la forza di rivolgere il pensiero a Dio in modo per lei inusitato: “Cosa ti abbiamo fatto il mio Alberto ed io perché Tu ci abbandonassi? E’ giusto quanto a noi è accaduto? Rispondimi, Tu, che sei fonte di Giustizia e di Misericordia, rispondimi, prima che smarrisca la ragione del mio credo”. Ma Dio, in quei giorni, forse era assente! Era già luglio inoltrato e Beatrice rientrò a casa sua.     Nelle giornate, che seguirono, assieme all’indescrivibile dolore per la perdita di colui il quale lo aveva ispirato e scatenato, il grande amore fu l’ombra sempre presente di Beatrice. Arrivata al paese, si trasferì in campagna rifuggendo ogni compagnia; o meglio, la sola che volle fu un pastore belga, nero, di due mesi, che comperò presso un allevamento di cani, vicino al luogo in cui abitava. E lo chiamò Black: un ricordo del passato, che voleva mantenere vivo. Conseguì la patente e si comprò una macchina per potersi muovere da sola tra la campagna ed il centro abitato. L’unica persona, della quale gradiva la compagnia, era la sua amica Gemma, che di tanto in tanto andava a trovarla. Solo a lei confidava il proprio stato d’animo ricevendone, a sua volta, parole di conforto; il prete del paese, che vi si recò in visita, fu trattato con freddezza, anche se con il rispetto che da sempre Beatrice gli aveva riservato: le sue parole non riuscirono a procurarle sollievo. La donna, anzi, si allontanò dalla chiesa, che prima frequentava assiduamente, e dai sacramenti. Dopo alcuni mesi di quell’isolamento pensò di andare a trovare il frate cappuccino, padre Giovanni, che, in compagnia di Alberto, aveva conosciuto in quel convento, sulla Sila, quando vissero la loro stagione d’amore. Egli, nel rammentarsi dei due giovani, ascoltò tutta la storia, che Beatrice concluse con queste parole: o    Padre, io sono, o forse ero, una fervida credente, ma, dopo quello che è accaduto, sto perdendo la fede; sono arrivata al punto di mettere in discussione la stessa esistenza di Dio e se sino adesso non sono arrivata al rifiuto di essa, lo devo alla mia solida cultura religiosa di base, che mi ha accompagnato sin da bambina. Dio, però, non doveva riservarmi questa sorte: farmi conoscere il grande amore e, poi, privarmene per sempre in maniera così tragica. Sono avvenimenti che segnano una vita umana. o    Le mie parole non credo che ti saranno di grande aiuto – rispose il sacerdote -, comprendo perfettamente il tuo stato d’animo e quanto in te si agita, e dal punto di vista dei sentimenti, e da quello religioso. La risposta non ti potrà venire dagli uomini, ma la devi trovare in te stessa scavando nel tuo animo, nella tua conoscenza dell’Ente Supremo. Egli esiste e, prima o poi, si manifesterà: allora capirai qual è stato, ed è, il Suo progetto. Padre, c’è un grande silenzio spirituale dentro il mio animo…   - Ti comprendo – soggiunse il religioso- ma un solo consiglio posso darti. Anche se non ti sentirai di frequentare i sacramenti e la chiesa, non recidere nettamente il legame con Dio, ma, la sera, prima di addormentarti, fatti il segno della Croce: basterà solo questo a Dio. Se Egli vuole la tua salvezza spirituale, non ti abbandonerà nella disperazione, non ti lascerà sola, ma arriverà il momento in cui sentirai la Sua mano tirarti dal baratro in cui sei sprofondata. Con queste parole di speranza, Beatrice si avviò al suo rifugio di campagna ed ogni sera volle mettere in pratica il consiglio del cappuccino: dopo aver rivolto l’ultimo pensiero della giornata al suo uomo, si segnava e cercava di addormentarsi. Non sempre, però, riusciva a chiudere occhio; talvolta, non venendo il sonno, leggeva sino a notte inoltrata. Malgrado gli inviti pressanti, da parte della madre e di Gemma, a riprendere gli studi universitari, Beatrice li abbandonò pur avendo desiderato di apprendere le lingue orientali. “Non ho cosa farmene di una laurea – diceva- che mi porterà lontano da questa casa, da questa piccola parte del mondo, in cui mi sento protetta; il mondo, che è là fuori, è pieno di cattiveria ed io non voglio conoscerne di altra. Mi è stato sufficiente ciò che tragicamente mi ha colpito”. Spesso, si ritrovava, distesa nella sua poltrona, guardando l’orizzonte, a sfogliare l’album di immagini memorizzate dentro di sé, che le ricordava Alberto: la circostanza in cui lo conobbe, il successivo incontro presso il Santuario vicino, che li indusse a decidere di continuare la loro storia d’amore, le giornate sulla neve e le domeniche a Napoli; i suoi ventun anni, la loro settimana sulla Sila, costellata di avvenimenti e di significati, determinante per gli eventi futuri; gli incancellabili momenti sul mare di Maratea. Ai ricordi, dolcemente penetranti il suo essere, subentrava subito dopo il tormento più straziante per la felicità perduta, nel considerare che mai più avrebbe rivissuto quei giorni, quegli istanti, quelle sensazioni dell’animo e del corpo, che il suo Alberto le aveva fatti assaporare o, meglio, vivere con intensa emozione. L’assenza fisica del suo uomo le aveva fatto idealizzare un nuovo compagno: il vuoto. Attraverso il quale ella, in un dialogo immaginario, si univa a lui rammentandone l’affinità spirituale condivisa, i lunghi momenti in cui dialogavano soltanto con i loro sguardi, per mezzo dei quali riuscivano a trasmettersi pensieri e percezioni sensoriali. Un vuoto, che accresceva ancor di più la voglia di distacco dalle cose che la circondavano. C’era in lei uno stordimento procurato da questa assenza, ma era uno stordimento cosciente, vissuto istante per istante, che aumentava il suo costante tormento. “Assenza e Tormento” divennero i nuovi, sgraditi compagni per la solitaria, bellissima Beatrice. Tormento, tragico stato che s’insedia dentro un individuo distruggendone l’animo e la sua stessa vita. Nessun farmaco, se non il tempo, poteva lentamente lenire la profonda ferita di Beatrice. Ma, la convalescenza si annunciava molto lunga perché la figura non materializzata del suo uomo non lasciava i suoi pensieri. E, quando la stanchezza cedeva al sonno, Alberto era sempre lì, nel sogno che sopraggiungeva: le parole e le tenerezze, che si scambiavano, spesso finivano con un atto d’amore, che bagnava d’intimo umore l’infelice, giovane donna. Svegliandosi, ella sprofondava, di nuovo, nel vuoto in cui languiva. Talvolta, chiamava Iddio invitandoLo a liberarla da questa condizione, che peraltro minava il suo fisico e la sua mente. Riusciva a lenire questo stato dell’animo affidando i suoi pensieri alle pagine di un diario perché coltivava la convinzione che quella scrittura potesse essere letta, nell’aldilà, dal suo destinatario: lei credeva, infatti, nella continuazione della vita, almeno spirituale, in quell’altro mondo; credeva nell’immortalità dell’anima, la quale seguitava ad animare la facoltà percettiva di quel soggetto, facendolo partecipe di tutto ciò che a lui era sensorialmente indirizzato. Questo era il credo di quella donna e, probabilmente, ciò la salvò dall’uscire di senno.     Scrisse nel suo diario: “CHI HA CREATO IL DOLORE? Quale nefasta influenza si aggira intorno a questo vecchio, decrepito mondo? La gran moltitudine della gente perché non può condurre una vita normale? Quale malvagità soprannaturale impone il suo dominio al destino dei popoli disseminati su tutto il globo terrestre? Non c’è angolo dei continenti che sconosca il dolore. Tsunami, terremoti, conflitti, tempeste violentissime, ere glaciali, fame, pestilenze, povertà, genocidi, distruzioni di vario genere non sono stati risparmiati nei millenni di esistenza di questo pianeta.   Alcuni di questi eventi luttuosi e devastanti trascendono dalla volontà umana, ma altri, tanti, sono inferti dalla malvagità e dall’egoismo umano da “Qualcuno” inoculati nella mente di siffatti portatori del male. Non voglio, né posso convincermi che quel “Qualcuno” esista per ordinare lutti, pathos e pianti. Se altri mondi gravitano nell’ignota galassia di questo immenso universo, mi chiedo se anche ivi è di casa il dolore. Oppure, esso è un convitato permanente su questo pianeta donatoci dal lontanissimo Big bang? Per la cui presenza, potenti e miserabili, poveri e ricchi, padroni e vittime di conflitti sono impotenti. Un mondo nato dalla conflagrazione primordiale di minuscole particelle non può che generare dolore nei suoi variegati aspetti. Ed ecco gli esodi biblici di interi popoli, omicidi bellici di innocenti creature, sismi devastanti, povertà, per citarne solo alcune forme. Anche il parto, da cui nasce, tra spasmi ed urla della partoriente, una nuova vita, è una “creatura” che discende da quella lontanissima esplosione! Ritengo che altra cosa sarebbe stata se la “partenogenesi” dell’universo fosse avvenuta dalla riproduzione di quella piccolissima particella iniziale in maniera indolore e pacata. Un mondo creato male – per usare un eufemismo – e lasciato alla casualità della natura presente nella struttura terrestre, nell’atmosfera e nella mente umana”.   Copiò il testo su un altro foglio di carta e spedì la lettera al suo padre spirituale, il cappuccino P. Giovanni. Il quale immediatamente le rispose: “ Il dolore è la nota dominante della nostra breve permanenza sulla terra e l'unico Essere che ne dà senso è Gesù Cristo che al cristiano ha permesso di trovare dentro il dolore la gioia e la speranza. Tutto è dolore anche la terra che stritola e geme anche quelle pietre che gemono nella polvere ma possiamo dire anche che tutto è amore. Amore e dolore stanno in reciprocità . Se si ama diminuisce il dolore ( sembra un paradosso ma è così) se si resta chiusi nel proprio io e nelle proprie domande aumenta il dolore. Quando mi pongo dal punto di vista esclusivamente algebrico resto muto ma se vedo il mondo e l'universo in continua trasformazione allora mi spiego anche il dolore. Alcuni credono che il mondo è, e resta tale e quale come nel giorno del fiat lux. Da allora il mondo è stato in continua trasformazione e con esso l'uomo. Dio ha dato l'imput ma ha anche chiamato l'uomo a collaborare alla permanente creazione che trasforma continuamente l'oggi in passato ma anche il cielo con i suoi astri. Partecipare alla creatività ' o meglio farsi creatori produce sofferenza così come succede all'artista ed anche a te come donna sensibile . Esaminato quando scrivi, il prodotto emotivo di una creazione è come il dolore di un parto. Ma esaminato anche dopo che lo hai realizzato, è gioia, appagamento, soddisfazione. La vita è tutta così:non ci dà gioia senza dolore .Entrambi esistono nella trasformazione che permette un passaggio continuo dalla Morte alla Resurrezione e viceversa. Cristo sulla Croce, che i musulmani non vogliono vedere, è Questo e non è Maometto calamitato verso l'alto. Il Nostro non è un Essere moralistico e moraleggiante; è Uno che è venuto a spiegarci con sacrificio personale come funziona il mondo ma non solo questo........... e per spiegarci questo, cioè il disegno del Padre doveva essere in contatto con il Padre. Se si crede in questo, si crede anche nella divinità di Gesù e nella sua potenza, Potenza che possiamo spiegarcela anche attraverso la storia se consideriamo che quattro ebrei che hanno creduto al loro maestro hanno fatto precipitare l'impero romano, ossia l'impero più potente del mondo, in pochi anni. Hanno buttato dai loro piedistalli tutti gli dei del tempo ed hanno messo in ginocchio intoccabili imperatori. Ho dato in passato una guardatina alle altre religioni ed ho trovato che soltanto il Cristianesimo è una religione in movimento e quindi la più difficile. Ho espresso quel che penso e, credo senza avere la pretesa di voler convincere qualcuno. non mi sento capace.”   E Beatrice, di rimando: “Nel “panta rei” dell’Universo avanza in ordine sparso il mosaico della vita, che racchiude le tessere di un tessuto pluricellulare le cui trame contengono il DNA dal quale hanno avuto origine. Nel divenire evolutivo del mondo, mentre alcuni aspetti hanno cambiato in meglio la qualità della vita, altri componenti unicellulari sono rimasti immutati e protetti da coriacee membrane che lasciano il varco ad umori virali intrisi di veleno. Perché è proprio un veleno ciò che colpisce il genero umano, quello che è definito come stato doloroso, come piaga che si abbatte negli anfratti di questa terra. Il veleno, per venire propinato in una dimensione globale, deve essere “somministrato” da Qualcuno o da Qualcosa. Da chi? E perché? Con quali vantaggi? Io non mi richiamo a nessuna corrente di pensiero, ma, oggi, alla luce dei fatti che mi hanno investita, mi rivedo in quella illuministica cercando di capire con la ragione il perché delle cose. Sfugge, pertanto, al mio raziocinio tutto ciò che si basa su ragionamenti immateriali e ideologie empiriche.   Trae vantaggio dal dolore, fisico e spirituale, il Male , che con le sue ali invisibili volteggia, tra l’altro, sulla mente degli uomini e nel pulviscolo impalpabile che ammanta la terra e penetra nella cellula umana. Si sentiva la necessità, quindi, di dar vita a quella su richiamata tessera del dolore? Considerato che il Bene ed il Male – secondo il mio punto di vista - sono stati originati dalla brodaglia cosmica originaria, che tutto, ma proprio tutto conteneva “in nuce”, secondo lei, è una forma di Creato perfetta? Se non fosse stata generata questa forma emblematica del Male, non si sarebbero avuti i tanti Caini che hanno calpestato la crosta terreste, le miriadi di guerre luttuose, sempre ingiuste da qualsiasi parte esse si osservino, la sopraffazione di interi popoli, gli atti terroristici, i massacri antichi e recenti di innocenti creature, i martiri della libertà e della criminologia mondiale, i martiri delle ideologie cristiane, laiche e di pensiero; ed ancora, gli ebrei massacrati dal nazismo e le migliaia di bimbi, uomini e donne, in fuga dal povertà e dalla guerra civile. E per concludere, ma non per finire il richiamo ad una lunga lista di disperati, se non fosse stato “regalato al mondo il Male” non avremmo assistito impotenti allo strazio di milioni e milioni di essere umani che finiscono i loro giorni tra indicibili sofferenze, cui la scienza non può alcun rimedio. E’ umanamente accettabile e giusto tutto ciò? I profeti, uomini dotati di grandissima intelligenza, hanno svolto il loro ruolo di grandi pensatori, predicando il bene, l’amore e la giustizia, ma sono rimaste vittime del loro pensiero; il proprio sacrificio, voluto dalla società malata e incrudelita, non è servito a cambiare le cose del mondo. Chi ha creduto e crede in essi può trarre sollievo spirituale nel momento in cui accetta il dolore quale componente integrata nel destino degli uomini cercandone, pur tuttavia, la levità di sopportazione attraverso il dialogo a distanza con un immaginifico Essere sovrannaturale, pur sempre invisibile e muto interlocutore. La mia spiritualità materializzata non mi consente di giustificare il male, dispensatore del dolore. Io non mi richiamo a nessuna corrente di pensiero, ma mi rivedo in quella illuministica cercando di capire con la ragione il perché delle cose. Sfugge, pertanto, al mio raziocinio tutto ciò che si basa su ragionamenti immateriali e ideologie empiriche.   Quando mi estraneo da questo mondo, attraverso una sorta di levitazione, e scrivo sul mio diario – che è divenuto un romanzo, il romanzo della mia vita -, mi sforzo di atterrare poi su un campo, al quale consegno un messaggio che rispecchi, in positivo, il mio stato d’animo. Creo, sofferente, ma non dispenso altro dolore.   La ringrazio, Padre, per il conforto che le sue parole sanno trasferirmi e per la sua pazienza nell’”ascoltare” il mio stato d’animo .”       Intimamente, Beatrice si sentiva in uno stato vedovile perché, di là dell’atto formale non celebrato, ella già si considerava, di fatto, la sposa di Alberto. Il giuramento di sangue, che li aveva uniti quando congiunsero carnalmente, per la prima volta, i loro corpi era divenuto, per lei, un atto in tutto identico a quello che si compie poggiando la mano sul Vangelo mentre si manifesta il proprio fermo proposito di essere un coniuge fedele. Giuramento, che volle onorare!   Come aveva promesso a se stessa ed alla mamma di Alberto, il giorno del primo anniversario della sua morte, depose il proprio cuore sulla sua tomba affidandone il messaggio ad una sola rosa rossa, il cui significato s’identificava nell’unicità di quel fiore: espressione di quell’amore singolare, il suo primo e solo, vissuto senza “se” e senza “ma”, che continuava con la pari intensità di prima. Chiese alla “suocera” di lasciarla sola a pregare; dopo di che, uscì dalla borsa il suo diario e rilesse, inginocchiata dinnanzi a quel loculo, rivolgendosi al suo uomo, la pagina che scrisse pochi giorni dopo la sua morte:   “ Marito mio, o    così che voglio chiamarti perché tale tu sarai per me sino alla fine dell’universo: lo sei divenuto dal momento in cui mi sono unita a te. La firma sull’atto pubblico serve soltanto a dare un’immagine di perbenismo e a salvaguardarti dalle maldicenze della gente; la cerimonia, alla presenza di un prete, ti giustifica con gli amici ed i parenti”. “Quello che conta, però, è il dialogo che tu apri con il Dio-Gesù perché sia il vero testimone delle intenzioni che hanno indotto due esseri di sesso opposto a dar corpo alla loro unione. Ed Egli sapeva!”. “ Dopo la morte, dovrebbe esserci il silenzio assoluto. Ma non è così, amore mio, perché io ancora ti sento accanto a me e dentro di me; sento anche la tua voce che mi sfiora l’udito nell’assicurarmi che il tuo spirito vive accanto al mio corpo”. “A qualcuno potrà venire in mente che io soffra di allucinazioni: che lo creda pure perché non potrà mai capire l’intensità ed il molteplice manifestarsi di un sentire, di un sentire un rapporto, definiamolo pure platonico, la cui essenza è riservata a pochi esseri mortali, che non so se considerare fortunati, privilegiati oppure predestinati a eventi di infelicità. Io ho vissuto, ma lo vivo ancora, vita mia, un amore sublime ed è quello che mi tira fuori dal silenzio in cui dovrei trovarmi”. “Può darsi che tutto ciò, un giorno, condurrà il mio cervello a viver fuori dal mondo. Ma non credo, in quanto sono convinta che esista una logica nella mia mente, che rifiuta l’invito a dimenticare per vivere la vita e che m’induce invece a conservare viva una <>, da me deposta nella sacralità di un altare”. “ I monaci, i preti, le monache di tutte le religioni, e, magari in diverso modo prima ancora della nascita di Cristo, le sacerdotesse dei templi consacravano e consacrano la loro vita all’Ente Supremo. Lo Sposo delle monache, ad esempio, è Gesù Cristo. E’ un “matrimonio” spirituale il loro, ma è pur sempre un vincolo che unisce un essere vivente ad un’Entità, che “abita lassù”. “C’è, quindi, qualcosa di strano o d’irrazionale in quello che io penso e dico? Non sono una religiosa e tu non sei Gesù; ma cosa cambia, sul modo di condurre la propria vita immateriale, tra una persona laica ed una religiosa, quando amano entrambi una presenza spirituale? Io continuo ad amare te, mio dolce Alberto, non più col corpo ma con il mio spirito, che vive dentro il mio corpo. Ed io voglio augurarmi che possa conservare per sempre nello scrigno del mio cuore il percepire o, meglio ancora, il vivere questo grande Amore. Che io ho avuto la gioia di conoscere soprattutto nella sua purezza. Io, che ho provato la vera felicità, non cerco, nella realtà del quotidiano, un suo surrogato”.     Chiuse le pagine dell’albo e si sedette sulla tomba, rivolta verso dove poteva esserci il volto del defunto: “ Amore, ti racconto un fatto, - proseguì Beatrice - che alla fin fine tanto strano non è, come invece all’inizio avevo creduto. Mi hanno detto che quando un forte legame d’amore viene spezzato dal destino, esso continua a rimanere latente in un angolo del nostro subconscio. Io credo che ciò sia vero. Infatti, durante quest’anno che è decorso, sono dovuta andare tre volte a Napoli per motivi vari. Ho preso il treno a Paola e, dopo un po’ mi sono addormentata; giunta a Maratea, mi sono svegliata, agitata e madida di sudore: stavo sognando di fare l’amore con te. E ciò si è ripetuto per tutte e tre le volte. Ricordi quella notte, cuore mio, …”? Si fermò a guardare la foto sulla lapide per alcuni istanti. Indi, riprese: “Alberto, sto cercando di individuare un modo di venirti a trovare più spesso, sto studiando un piano per trasferirmi in un paese, il più vicino possibile al tuo. Se non fosse per certi principi religiosi inculcatimi, già ti avrei raggiunto per starti accanto, laddove tu sei. E vivrò nel desiderio che ciò possa accadere al più presto, ma secondo il volere di Dio”. Due grosse lacrime, senza il sussulto del pianto, bagnarono in silenzio le sue gote. Dopo essersi ripresa, nel congedarsi, sospirò: “Adesso ti debbo lasciare, sposo mio, ma prima, con la forza della mia mente, voglio penetrare questa glaciale barriera di marmo che ci separa per sfiorare il tuo bel volto con il palmo di queste mani, che bruciano del desiderio di te. Nella tua ultima visione dell’immagine di questo mondo, avendo ripreso momentanea coscienza, ti sei portata dietro l’intensa espressione dei nostri sguardi silenziosi, illuminati dalla fiaccola di una sublimità interiore: quell’incancellabile fotogramma vive nella mia memoria”. Così dicendo, adagiò il volto sulla lucida pietra, che cinse con entrambe le braccia. Si avviò, indi, verso la casa della madre di Alberto. Dopo averla abbracciata, espose il suo proposito. Era propria intenzione prestare la sua opera d’insegnante elementare presso un collegio gestito da monache; in sostanza divenire una suora secolare, senza contrarre i voti religiosi, di un Ordine monacale, esistente nei dintorni e che gestisse un Istituto scolastico per ragazze. Espresse, inoltre, il desiderio, quando sarebbe arrivato il proprio momento, di essere sepolta accanto a Alberto; a tal riguardo, col suo consenso, avrebbe voluto costruire una piccola cappella a due posti dove poterlo realizzare. L’anziana Angela, con le lacrime agli occhi per la commozione, cercò di dissuaderla: “Figliola, è veramente toccante quanto tu mi stai manifestando, ma t’invito a riflettere. Tu sei ancor giovane e bella, hai tutta una vita davanti e col tempo potrai dimenticare il legame, che ancor oggi senti nei confronti del tuo e mio Alberto. Potrai farti, quindi, una vita tua, crearti una tua famiglia”. Non esiste in me alcuna di queste intenzioni - replicò Beatrice in maniera decisa -. Abbracciare la vita monacale è un disegno che ho accarezzato poco tempo dopo che Alberto è andato via; oltre tutto mi piace trasmettere sani principi educativi alle ragazze, che ancora sono nella fase della loro adolescenza. Da secolare, pur all’interno di un Ordine religioso, non sarei vincolata dalla rigidità delle regole, cui le religiose devono invece sottostare; potrei più spesso, quindi, rispetto ad oggi, andare a pregare sulla tomba del mio uomo se il Collegio di Suore, che ho già individuato, è disponibile ad accogliere la mia richiesta. Beatrice cara, se questa è la tua volontà, io ti verrò incontro e farò tutto ciò che sarà necessario per accontentarti. Ma ti rinnovo l’invito a riflettere bene prima di fare questo passo, - disse Angela. Mi sento di avere maturato, accanto a Alberto quand’era fisicamente al mio fianco, - proseguì Beatrice - ma anche dopo, abbastanza esperienza da capire – e mi auguro di non sbagliarmi - quello che sia giusto e razionale. Un frate cappuccino, che Alberto ed io insieme abbiamo conosciuto, mi disse non molto tempo addietro che prima o poi Dio mi avrebbe dato la Sua mano per tirarmi fuori del baratro in cui stavo sprofondando. Io ritengo che quel sant’uomo abbia intravisto abbastanza chiaramente il mio futuro. Spesso, nel silenzio della notte, da desta, sento una voce venire da lontano, che mi chiama: è Alberto che mi vuole accanto a sé. Un lungo abbraccio concluse il loro commovente incontro. Dopo mezz’ora Beatrice era alla presenza della Madre Superiora del Collegio, che le era stato indicato: espose il suo desiderio facendolo seguire dal titolo di studio ed, a conclusione di un approfondito colloquio, ottenne il placet affinché lei potesse entrare a far parte dell’Ordine religioso, assegnata a quell’Istituto con l’incarico di insegnante elementare; ricevette, inoltre, tutte le informazioni di carattere, diciamo burocratico, per potere essere accolta in quella grande famiglia. Rientrata a casa, informò la madre circa le sue intenzioni di ritirarsi in un educandato gestito da religiose; avendo conosciuta la determinazione della figlia, la donna non poté che prendere atto di quella decisione. Dopo qualche mese, Beatrice si trovava già ospite della Casa madre dell’Ordine per svolgere il suo periodo di noviziato quale monaca laica. Aveva assunto il nome di sorella Albertina. Superfluo dirne la motivazione!     L’anno successivo era già, definitivamente, nella cittadina non lontana dal luogo dove il corpo di Alberto dormiva il sonno eterno. Dal collegio aveva una mezza giornata libera a settimana, dopo la scuola, che utilizzava per andare al cimitero e poi per far visita alla Baronessa Angela, che peraltro la considerava come una seconda figlia. Ottenne l’autorizzazione a costruire, nel piccolo cimitero del paese, un sepolcro, che accogliesse i resti mortali del suo “sposo” e, successivamente, quelli suoi. Il tempietto, riservato esclusivamente ai loro due corpi, venne innalzato con la pietra rustica, che tale rimaneva sia all’esterno che al suo interno, estratta da una cava non lontana.   I loculi furono scavati nel pavimento di modo che entrambe le bare potessero essere messe a dimora l’una accanto all’altra; erano coperte da una spessa lastra di vetro, infrangibile, protetta da una grata di ferro, lavorata artisticamente ed adagiata sui bordi del fossato, che era lastricato con la stessa pietra adoperata per i muri. Questi ultimi, in altezza, adempivano la funzione di dare forma ad una casetta in miniatura, che riproduceva quella, in legno, del villaggio della Sila, che li accolse quando trascorsero insieme la loro prima notte d’amore.   Le finestre erano a forma di croce, i muri, all’interno, senza alcun rivestimento, ad eccezione della parete posteriore, decorata con un’icona mosaicata, raffigurante Gesù alle evangeliche nozze di Cana. I personaggi del quadro furono raffigurati con le vesti dell’epoca ad eccezione dei due sposi, che furono effigiati, invece, con i volti ed i corpi di Beatrice ed Alberto in abbigliamento moderno.   Al tetto, in legno massiccio, era appeso con una robusta catena un Cristo in Croce, anch’Esso di ferro lavorato, che scendeva verso il basso sino a toccare la grata sul pavimento. Chiudeva l’ingresso una robusta porta di legno della Sila Greca, quasi a voler proteggere la privacy di coloro che, all’interno, avrebbero dormito il sonno eterno; era una controtendenza, rispetto alle altre cappelle cimiteriali, che, attraverso i vetri o le grate del cancelletto d’ingresso, mostravano ciò che dentro era custodito. Sulla porta, venne scolpita la scritta: “Alberto e Beatrice Montemylè di Roccalunga”.   La bara di Alberto, presenti anche Angela e Nunziatina, venne trasferita alla nuova “residenza”. Sulla lastra di marmo che la coprì, Beatrice volle deporre un’ immagine figurata che lei si era fatta di Alberto: fece scolpire le parole di una poesia scritta da “Mala”, uno pseudonimo di una giovane poetessa, che aveva dedicate a Alberto quelle rime. Beatrice non provava alcuna gelosia nei confronti di colei che idealizzava come artista, e non come donna che aveva amato il suo Alberto ventenne, perché aveva voluto fare proprio il quadro dipinto in rime: vedeva Alberto mentre coglieva il fiore che lei gli aveva donato. Oltre tutto era fermamente convinta che l’uomo, sin da quando si conobbero, appartenne soltanto a lei:   “Di te non credente m’illumino   quando cogli sul mio capo i fiori d’un’inesistente primavera; quando poni le rondini nei miei occhi d’infantile marea; quando calpesti i roveti   insieme ai miei piedi che sanguinano di te io m’illumino”   Alla cerimonia volle presenziare anche la madre di Beatrice, che aveva ceduto a deporre l’ascia di guerra, facendosi accompagnare, per l’occasione, dall’amica Gemma. Il “nido funerario” dei due amanti, nella sua semplicità geometrica, assunse i contorni di un manufatto artistico, tale voluto da Beatrice per onorare la memoria di colui che lei considerava il suo grande uomo, che le aveva donato l’essenza di un idillio non comune. Quelle mura, oltre tutto, sarebbero divenute la loro unica casa quando, insieme, avrebbero passeggiato lungo i giardini dell’Eden. Alla madre, che le rimproverava di aver speso un patrimonio per realizzarla, ella rispondeva che l’unica “cosa bella” della propria vita meritava quel “monumento”; soggiungeva di non rimpiangere la somma spesa perché non aveva eredi diretti a cui lasciare i suoi beni e lei stessa non avrebbe avuto alcun bisogno, considerato il suo sistema di vita nell’educandato dove viveva ed insegnava. Ogni settimana, tranne altri impegni o impedimenti, Beatrice andava ad “intrattenersi con il suo Alberto” ed osservò questo rituale appuntamento per circa quindici anni. A quarant’anni, pur conservando la bellezza del suo volto, che si portava dietro l’impronta secolare dei tratti e dello sguardo profondo delle donne d’oriente, era divenuta magra, quasi una larva d’individuo. Da qualche anno era stata aggredita da un male cattivo: un tumore al cervello. Inutili furono tutte le terapie specifiche ed un delicato intervento, cui i medici vollero sottoporla. Alla sua sofferenza interiore, già carica di quindici lunghi anni, aggiunse la sofferenza fisica per il dolore che il male le procurava.   Affrontò quest’ultimo in silenzio, senza lamentarsi. Trovava questa forza nella preghiera e nell’accostarsi ogni giorno a Dio attraverso i Sacramenti: in quei momenti, il volto contratto per il soffrire allentava la sua morsa e lei appariva serena e distesa, come se quei mali, interiore e fisico, si fossero definitivamente allontanati da lei. Una sua consorella ebbe a riferire alla Madre Superiora d’averla vista genuflessa dinanzi al Cristo in Croce e, pregando intensamente, levitarsi da terra, con il volto estatico, mentre protendeva le braccia distese verso Gesù.   Solo una donna simile poteva avere amato nel silenzio di tutti quegli anni, e sempre con tenace intensità, un uomo dal quale, mentre era vivo, era stata amata ed il cui sentimento lei aveva ricambiato con slancio, con dedizione e con la pienezza dei sensi.   Beatrice, dopo aver ricevuti gli ultimi Sacramenti sacri, chiuse gli occhi implorando il perdono da Dio per i suoi peccati e, nel momento in cui l’anima stava staccandosi dal suo corpo, la videro sorridere e guardare verso l’alto; tentava di tendervi il suo corpo come se volesse incontrare qualcuno che aveva intravisto e che, forse, le allungava la mano per raggiungerlo. Una moltitudine, -migliaia tra giovani donne, ragazze, ed i loro genitori-, accompagnò il feretro, la cui cerimonia funebre si tenne all’interno della chiesa del Convitto; in centinaia andarono sino alla piccola sua “casa” in quel cimitero solitario di un borgo siciliano. Era molto amata dalle sue alunne, cui aveva donato non solo i propri insegnamenti, sia culturali sia morali, ma anche la sua bontà dell’animo, il conforto soprattutto spirituale nei momenti in cui alcune ragazze si trovavano ad attraversare particolari e delicati passaggi della loro vita. Negli anni successivi alla sua morte, ebbe a circolare la voce che nell’ultima domenica d’ogni mese di settembre, intorno alla mezzanotte, nei pressi del cimitero dove “abitavano” Beatrice e Alberto, scendesse un venticello che modulava le note di una musica sconosciuta, quasi celestiale. Forse, era la stessa melodia che ebbe ad accompagnare la loro prima notte d’amore, lassù, in quella baita sui monti della Sila Greca. Si dice anche che qualcuno dei più coraggiosi si sia spinto a girare tra le tombe per tentare di individuare la fonte di quella musica. Essa proveniva dalla “casetta” di Beatrice e Alberto Montemylè, Baroni di Mangalavite e di Roccalunga.                    BIOGRAFIA Nacqui a Longi (ME), il 4 dicembre 1938. Già giornalista pubblicista, iscritto all’Ordine regionale dei Giornalisti di Sicilia. Corrispondente per la Sicilia del “Lavoro Italiano”, organo della UIL confederale; Redattore capo di “Risveglio Postelegrafonico” della UIL-Post nazionale; Fondatore e Direttore responsabile di “PT Sicilia” (1978-’93) e de “Il Corno” (1963-’72), organi della UIL-Post, rispettivamente regionale e provinciale di Messina; Redattore capo di “Coerenza”, organo della Federazione Psdi di Messina (1969-’70). Su proposta del Presidente del Consiglio Bettino Craxi, il Presidente della Repubblica Cossiga, mi ha conferito l’onorificenza di Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana. Commissario nazionale UIL-Post per la riforma dell’azienda P.TT.; Segretario confederale della UIL di Cefalù; Consigliere nazionale del Dopolavoro Centrale delle P.TT.; Segretario regionale della Uil-post Sicilia: Sindaco di Longi; Coordinatore regionale dell’Associazione angioedema “Melchiorre Brai”; Presidente del Centro Studi Castrum Longum; Segretario regionale organizzativo del Partito Socialista Siciliano. PUBBLICAZIONI: Bastardo – zibaldone di racconti, poesie e altro – Prefazione di F. Cannizzaro, Commento di N. Vicario – Giugno 2021 Il Canto dell’Emigrante - Poesie Demenna, l’impatto saraceno - Romanzo, 1. ediz. I Castelmalè - Quadrilogia, saga di una famiglia nobile dei Nebrodi Tra Krastos e Demenna - Saggio, ricerca documentale, con prefazione di Luigi Santagati La leggenda di Demenna - Romanzo storico, con prefazione di Fara Misuraca Inchiostri - Poesie Quando il destino bara - Storie d’amore Alle pendici delle Rocche - Storia ed altro su Longi Voci dal cuore - Poesie Non ho mai amato nessuna come te - Viaggio nella solitudine, romanzo - Romanzo L’ultima baronessa - Romanzo Quel borgo baciato dalle acque del Mylè - Storia di Longi Il romanzo della vita di un errante PREMI 1° premio: VI edizione Concorso di poesia “Bonsignore-Basile” 2011, con la poesia “Vorrei” Premio “Auser” 2015 per la poesia “Il Vento del mondo” Inoltre: Ho scritto articoli per vari organi di stampa e agenzie on-line, nonché relazioni su diverse tematiche. Curo i blog Rocche del Crasto e il Nibbio                       Mio curriculum culturale     Sono nato a Longi (ME), il 4 /12/1938 Ho studiato al liceo classico ed ho frequentato la facoltà di Medicina e Chirurgia, senza conseguirne, però, la laurea per sopravvenute difficoltà personali.   Già Giornalista Pubblicista, iscritto all’Ordine Regionale dei Giornalisti.   Ho pubblicato:   “Il Canto dell’Emigrante” , poesie – Pubblisicula Editrice “Tra Krastos e Demenna”,saggio,ricerca documentale – Edizioni “ilmiolibro” “inchiostri” , poesie – Edizioni “ilmiolibro” “alle pendici delle Rocche”–Antologia pluridisciplinare e “frammenti” di Storia longese – Armenio editore “alle pendici delle Rocche” II edizione, Longi, cavalcata attraverso i secoli – edizioni “ilmiolibro” “Voci dal cuore” Poesie - Edizioni “ilmiolibro” “Non ho amato mai nessuna come te” – Viaggio attraverso la solitudine – Romanzo – Leucotea edizioni Tra Storia e leggende con immagini diLongi,Cefalù,Camarina, Taormina Tutto Longi- Storia di Longi on.line Quel borgo baciato dalle acque del Mylè - Saggio storico   Ho vinto il I premio della VI edizione del concorso di poesia “Bonsignore – Basile”, con la poesia “Vorrei” - Coppa del Presidente della Regione Siciliana - Anno 2011   Premio Auser 2015 per la poesia “Il vento del mondo”   Terzo classificato al Premio Letterario di Narrativa- maggio 2013 - U.T.L.E Publio Virgilio Marone – Palermo - Università Europea del Tempo Libero   Finalista del Concorso di narrativa e della poesia, indetto da “IoRacconto” di Pesaro -2013-.             Nota. Mi scuso per eventuali imperfezioni di impaginazione =================================================================================================================================================== Prima parte - Gaetano Zingales Quell’estate a Mangalavite - Storie di armi e di amori
Alla mia “Itaca” - Il libro contiene episodi estratti da altri testi, rimodulati , collazionati ed adattati per farne una edizione non editata, stampata in numero trenta copie, numerate per festeggiare i miei anni ottanta. - Recensione di Nino Vicario QUELL’ESTATE A MANGALAVITE, è un “ripasso” di “storie nella Storia” partorito dalla “penna” di Gaetano Zingales che, pur avendo affermato (amaramente?) in un suo post su Fb che “…da quel momento decisi di non pubblicare alcun mio lavoro”, io – al contrario dell’Autore – spinto dalla curiosità, non ho voluto perdermi l’occasione di non leggere quanto, che per la “penna” longese, era l’ultimo suo lavoro pubblicato. Posso dire, così come per altri 29 amici di Gaetano, omaggiati il giorno del suo 80. genetliaco, di una copia (la mia è la 22.) di quello che “il Longese” ama chiamare la “mia ultima fatica letteraria, (omettendo volutamente? forse!) la necessaria puntualizzazione: in ordine di tempo”. Io lo spero che non sia l’ultima, perché quella dell’Autore è “una penna” non meritevole di essere riposta in fondo ad un cassetto. La trama è già tutto un romanzo da leggere nei riflessi di uno specchio (Zingales…) rivolto al passato che anela un ritorno ad “Itaca” (alla “sua” Longi ?), quando bambino, in compagnia della madre, si recavano a Crocetta, allora popoloso villaggio in agro longese. L’Autore, nelle cui vene scorre la poesia, va oltre il ristretto confine della laboriosa comunità’ e nei riflessi di quello specchio si scorge fanciullo a cavalcare Mangalavite, amena località dove superba, sorgeva l’antica masseria sede estiva feudale del barone Averardo Montemylè. Nell’ebrezza della cavalcata, il fanciullo che vive in lui, viene pervaso dalla musa e scrive su fogli che il tempo non ha ingiallito: ”Riempiono le valli di odorose resine / quei monti verdi cingenti la declive pianura / da cui s’alzano rocce alpine.” E’ da quest’incanto della natura, che l’Autore ci fa conoscere i personaggi che calcheranno le scene negli intrigati fatti del racconto il quale va avanti piacevolmente per 244 pagine, dove baroni, marchesi, baronessine, marchesini, farmacisti, sindaci, preti, carabinieri e, intraprendenti fattori tra feste, festini, “scappatelle” e magnum sbafatorie a base di maccheroni fatti in casa al sugo di suino dei Nebrodi, di gustoso castrato cotto sulle braci e libagioni di “rosso” nostrano, Zingales ci “racconta” di una borghesia non “matrigna”, bensì accondiscendente e godereccia, circondata da “sevitù” tutto-fare e, all’occorrenza, devota amante di virili virtù. Infatti, Zingales, nel divenire della storia di “Quell’estate…” non paventa un “ritorno” di quel feudalesimo sempre pronto a rinascere nelle forme più audaci ed oppressive che le sono proprie, al contrario mette sulle labbra dei protagonisti “struggenti dialoghi amorosi” che non conoscono soluzione di continuità, quell’amore che l’Autore “ricama” dipingendolo quale sentimento essenziale nella vita dell’uomo. Ed è proprio nel raccontare l’ultimo “amore” della storia, che Zingales si manifesta quale “puro cantore di vicende umane”, sviluppatesi tra amore platonico pronto ad esplodere e struggenti desideri volutamente non appagati giacché frenati da sentimenti religiosi e timori di ripercussioni familiari. Ma, una volta rotti gli argini, l’amore prende il sopravvento e i due protagonisti – una bellissima ragazza calabrese Beatrice, studentessa di lingue orientali presso l’università di Napoli, di famiglia dalle origini albanesi, e Alberto, siciliano di nobili discendenze, giornalista di un quotidiano romano che si trovava in Calabria, per una cura idropinica nelle vicine terme del paese della ragazza – è tutto un divenire di vicende e di dialoghi, pregnanti di teneri sentimenti e di amplessi che nella descrizione dell’Autore-poeta, se non “raggiungevano” il paradiso, di sicuro lo “graffiavano”. In conclusione, ho ragione di pensare, che in Gaetano Zingales, autore e poeta, in “Quell’estate a Mangalavite” il tema ricorrente è quello dell’amore. Difatti, in chiusura della bella favola che vive e si consuma in ben 100 pagine, fa dire a Beatrice rivolgendosi al “suo” Alberto, un “non credente“: “Di te non credente m’illumino / quando cogli sul mio capo / i fiori d’un’inesistente primavera; / quando poni le rondini / nei miei occhi d’infantile marea; / quando calpesti i roveti / insieme ai miei piedi che sanguinano / di te io m’illumino”. NINO VICARIO - CAVALCANDO MANGALAVITE - Riempiono le valli di odorose resine quei monti verdi cingenti la declive pianura da cui s’alzano rocce alpine. Tra la melodia dei merli ed il fruscio di fronde cadono sul crine piume di limpida brezza, colonne di faggi guardano dall’alto il lucido agrifoglio picchettato di rosse drupe; s’insinuano tra le rocce grigie le acque pellegrine dall’alta vetta per andare incontro alle greggi sature d’erba; grugnisce la nera scrofa al ritrovare di ghiande chiamando a raccolta la figliolanza mentre il toro maestoso assapora la siesta disteso all’ombra del frassino. Spengono la loro sete nell’antico fontanile i bradi cavalli bruni e più in là fiutando la preda va la martora tra i ruderi del casale baronale. Sul fondale lontani fasti rivivono mentre scende la visione d’un amore estivo: riecheggia il rimpianto dell’imberbe signore per la ninfea bellezza nata dal gagliardo massaro. Si ferma il pastore immergendo le narici nella natura per rimirare sul prato di primavera le viole nate tra ciclamini sposi di candide margherite. Danzando in su i rami di occhieggianti gemme il fringuello assapora le seducenti movenze della pettirossa in un concerto di allodole e del fluire di ruscelli che cercano il loro laghetto. Si ferma e s’acquieta in sì sublime creato il passo errante dell’animo in tempesta. Longi, li 1 novembre 1999 - . ANGELA E TURI Correva l’anno in cui s’insinuava nella mente di Mussolini il mutamento del suo percorso politico: da socialista a dittatore. Nel luglio afoso di quell’anno, una cordata di cavalli e muli dalla marina s’inerpicava verso i Monti Nebrodi procedendo in fila indiana lungo la trazzera, che portava nell’entroterra. Aveva dato il benvenuto agli illustri viaggiatori Turi Vinicio, il fattore, che aveva condotto, con l’aiuto di un “vurdunaru” (conducente di dieci animali, tra cavalli e muli . N.d.A), le bestie per il prosieguo del viaggio dei padroni, che erano sbarcati, da un treno a vapore , alla stazioncina ferroviaria di Zappala, provenienti da Palermo:“Vossia benedica, Eccellenza, baciamo le mani Signora Baronessa e signorina baronessina”. Il fattore precedeva la carovana, e, dopo di lui, seguivano il barone Don Averardo Montemylè, Barone di Mangalavite e di Roccalunga, la baronessa Donna Matilde con la giovane figlia, Angela Maria Elena. Dalla città si trasferivano, per l’estate e parte dell’autunno, in pratica per il periodo del raccolto delle derrate, nelle case della loro tenuta montana. Seguivano il gruppo i due cani, Nerone ed Agrippina, il gatto Felix ed il pappagallo “Stattizittu” in due gabbie separate . Avevano lasciato nel palazzo di città quattro canarini e due cardellini, un merlo, una tartaruga ed una vasca di pesciolini, che li avrebbero raggiunti, in un secondo momento, con le vettovaglie, scortati dal gruppo dei famigli, guidati dall’Amministratore. Dopo un paio di ore di arrampicata sui monti, erano giunti a Portella Vina e si muovevano verso il paese di Castel Lungo per raggiungere, indi, la masseria del feudo di Mangalavite e Botti. Prima dell’ultimo tratto del percorso, la comitiva fece tappa a Castel Lungo in quanto il Barone voleva salutare il Marchese, suo amico; la servitù, con i bagagli e gli animali, proseguì il viaggio verso la masseria mentre la famiglia Montemylè rimase ospite di Don Pietro Dellosso Lanzetti, Marchese di Castel Lungo, cui seguivano una serie di altri titoli nobiliari. Il fattore Turi, che avrebbe dovuto guidare qualche giorno dopo i suoi padroni verso il luogo di villeggiatura, fu alloggiato nell’ala riservata ai domestici. Il Marchese Dellosso Lanzetti, venuto a sapere che Angela avrebbe compiuto, dopo un paio di giorni, ventuno anni , pregò gli ospiti di rimanere con lui sino ad allora ed organizzò, presso il castello medievale, una sontuosa cena in onore della festeggiata invitando, tra l’altro, i maggiorenti del paese. Oltre a solennizzare la bella età della baronessina Angela, il Marchese volle dare il benvenuto ai Montemylè per augurare loro una buona e lunga permanenza nella estesa tenuta di Mangalavite e Botti. Alla fine della cena, il Marchese donò alla giovane un bracciale in oro, cesellato finemente, il Sindaco e le altre autorità civili del paese le regalarono un artistico ventaglio legato ad una catenina d’oro mentre l’Arciprete, a nome del capitolo sacerdotale, le consegnò un libricino di preghiere con la copertina in madreperla. I genitori le avevano comprato, in città, una collana con tre giri di perle. Un grammofono, attraverso un megafono, graffiando su un disco in gommalacca a 78 giri, diffuse pezzi di piacevole musica classica, durante la cena e, dopo il pasto, alcune canzoni del momento, che venivano commentati dagli ospiti. Donna Matilde, che coltivava l’hobby della musica e del bel canto, si esibì al pianoforte cantando dei pezzi in voga. Angela aveva raggiunto i ventuno anni trascorrendo la sua vita presso il migliore educandato palermitano, per potere conseguire una cultura ed una educazione adeguate al suo rango, ed in seguito frequentando i salotti dei nobili e le loro feste. In quegli anni , non aveva ancora incontrato l’amore, se non qualche flirt non impegnativo. I Montemylè trascorsero cinque giorni a Castel Lungo, durante i quali il Marchese Dellosso Lanzetti cercò di rendere loro piacevole il soggiorno ed organizzò, tra l’altro, una battuta di caccia nella sua tenuta di Mueli, che si estendeva attorno all’esteso casale, in parte utilizzato per ospitare i proprietari, i contadini che lavoravano nel possedimento e come deposito delle derrate. La seta ha caratterizzato per alcuni secoli la ricchezza principale della Sicilia. Questa attività è stata una coltura trainante, merce di scambio sul mercato sia locale sia internazionale. Ma la coltura dei gelsi rappresentava una risorsa ancor più importante in quanto le foglie venivano sfruttate per nutrire i bachi, i quali, attraverso i bozzoli, fornivano il filo per la seta. Il Marchese Dellosso, a Mueli ed in altre tenute, curava una vasta estensione coltivata a gelsi. In un’ala del casale, in ampi locali, c’erano i telai per la lavorazione dei fili della seta, cui le maestranze attendevano per la realizzazione del prodotto finale. Gli ospiti trascorsero una piacevole giornata: gli uomini andando a caccia di pernici mentre le donne occuparono le ore facendo delle lunghe passeggiate sino ad arrivare al fiume sottostante, dove entrarono in acqua per rinfrescare le estremità. Il giorno dopo, il Marchese volle salutare gli amici aprendo il salone delle feste del suo castello ad un ballo, cui fece onore la migliore gioventù del paese. In quelle giornate, Angela si vide accanto, quale cavaliere, il Marchese Roberto, giovane figlio venticinquenne dei Signori Dellosso Lanzetti, chiamato il marchesino per distinguerlo dal padre. Il barone Montemylè, nel prendere commiato dal Marchese e ringraziandolo per l’amena accoglienza, lo invitò a trascorrere, assieme alla famiglia, alcuni giorni di villeggiatura in montagna, presso le sue case di Mangalavite. Il mattino successivo, di buon’ora, i nobili palermitani imboccarono la trazzera che s’inerpicava verso la montagna; fecero sosta, dopo qualche ora, per rinfrescarsi presso la sorgente di acqua fredda in contrada Fontanelle. Ripresero il cammino, ma, nell’affrontare la difficoltosa “muntata” (salita), il cavallo di Angela s’imbizzarrì tentando di disarcionare la sua amazzone facendole perdere l’incollatura con il pomello poggia-gamba della sella. Il bardo, realizzato specificatamente per il gentil sesso affinché entrambe le gambe pencolassero da un solo lato, consentiva di inserire un piede in una staffa e poggiare l’altra gamba in un supporto curvato e foderato in pelle attaccato all’arcione. Ma guai a lasciare l’incollatura alla sella. Turi procedeva a piedi e, trovandosi dietro la cavalcatura della donna, fece appena in tempo ad accoglierla fra le sue braccia. La donna, bionda, con gli occhi castani che si affacciavano su un sorriso luminoso, i cui contorni erano dati da labbra turgide e sinuose che invitavano al bacio, indossava una camicetta bianca, che faceva risaltare il seno non giunonico ma modellato dalla natura a somiglianza di quello della famosa statua di Afrodite, scolpita da Prassitele, ed una larga gonna azzurra che arrivava alle caviglie. Dopo aver superato lo spavento tra le possenti braccia di Turi, questi con un sorriso mascolino, ma al contempo dolce, le disse:  Vossignoria si scantò? Pi furtuna mi truvava vicinu e a potti aiutari ( Vossignoria si è spaventata?Per fortuna mi trovavo vicino e l’ho potuto aiutare) .  Si, ho avuto paura, Turi, - rispose Angela ringraziandolo. Il fattore consigliò agli altri cavalieri di scendere dalla cavalcatura, per prudenza, e di affrontare quella erta salita a piedi per rimontarvi “du Stazzuni” in poi. Laddove, a metà della contrada, presso “u tabacchinu di ‘gnura Anciulina” ( la rivendita di tabacchi della signora Angelina), il barone e Turi comprarono dei sigari Toscanelli ed una dozzina di gassose con la pallina colorata dentro la bottiglia. Proseguirono, godendo il verde dei noccioleti e rispondendo agli ossequi dei contadini. Sui “bisoli”(sedili in pietra) ai fianchi della porta d’ingresso delle povere case, le donne essiccavano al sole sulle cannizze (stuoia di canne intrecciate) rubicondi e grossi pomodori, curati con concime stallatico, aperti a metà e fichi maturi, bianchi e neri, coperti da un velo per evitare che le api e le mosche si depositassero su di essi. Una chioccia con i suoi pulcini razzolava sulla spianata attorno alla casa mentre una coppia di oche sguazzava in una vasca adiacente. Poco distante, sotto l’ombra di un fico, un gallo faceva il “galletto” corteggiando una pollastra: girava attorno ad essa mostrando il collo rigonfio e punzecchiandola col becco, indi, “chicchirichì” zac… zac…e divenne candidata a fare la chioccia. Giunti “a Crucetta”, passando davanti ” a putia di gnura Nunziata” (la bottega della signora Nunziata) , la moglie del barone, Donna Matilde, fu colta da un’improvvisa necessità di fare un bisognino, piccolo, ma sempre “ di fattura nobile“ era. ‘Gnura Nunziata si trovò nei guai perché, a quei tempi, le famiglie contadine o si servivano dell’aria aperta oppure, i più attrezzati, avevano un buco“’nto catoiu”( stanza sotterranea, dispensa), dove depositavano gli avanzi del sostentamento quotidiano. Imbarazzata, la proprietaria della bottega, guidò la nobildonna nella propria camera da letto e la invitò a sedersi su un cantaro; poi, conclusa l’aristocratica seduta, scusandosi per non avere potuto offrire un servizio adeguato al rango, pregò le nobildonne di accettare una tazza di latte di capra appena munto, nonché “ tagghiarini fatti cu pastareddu” (tagliatelle fatte in casa con lo strumento apposito, un piccolo torchio) , che aveva comperati, quel giorno, da‘gnura Cuncetta (signora Concetta) , moglie di mastru Ciccio u craparu (maestro Ciccio il capraio). Della quale elogiò l’originale ricetta perché erano tagliatelle di farina di rrobba forti (una pregiata qualità di grano), frumento proveniente dalla soleggiata Jazzana, di coltivazione biologica, impastata con acqua limpida appena attinta alla sorgente ed amalgamata con uova fresche di galline ruspanti, olio della zona, dal gusto robusto tipico delle olive collinari, e con un’aggiunta di cacio vaccino grattugiato; il tutto veniva immesso nell’impastatrice casalinga, un torchio nel quale si inseriva un apposito dischetto forato, a secondo del tipo di pasta che si voleva realizzare, dopo, però, averne lubrificato le pareti interne con un salmoriglio di olio, prezzemolo ed aceto di mele. “Cunzati ca sarsa fatta ‘n casa chi nostri pumadoru sunu a fini du munnu” ( conditi con la salsa fatta in casa con i nostri pomodori sono la fine del mondo), esclamò convinta ‘gnura Nunziata. La baronessa si commosse per l’evidente impaccio e la generosità di quella donna e, nel congedarsi, la volle abbracciare. Gesto, che non era usuale da parte degli aristocratici nei confronti della povera gente. Abitava quelle contrade, soprannominate genericamente anche “u locu”( il luogo, dal lat:.podere), parecchia gente in permanenza ed altra, in quella stagione, vi si trasferiva per raccogliere i gelsi ed utilizzare le foglie per il baco da seta, che assicurava una produzione serica, abbastanza fiorente in quelle zone , anche se, per i più, a livello familiare. A quell’appuntamento agreste seguiva, qualche mese dopo, la raccolta delle nocciole, fonte di reddito per le famiglie, il cui ammontare era proporzionale all’estensione dell’ impianto coltivato. Era un evento festaiolo la fase della raccolta, divisa in tre tornate. Al mattino, all’alba, il padrone chiamava a raccolta le persone che dovevano procedere all’ abbacchiatura. Uno o due uomini cu rumazzuni (lunga pertica) colpivano i rami facendo cadere sul terreno le nocciole, che venivano raccolte dalle donne, ciascuna delle quali aveva un panaru (paniere) che svuotava, una volta colmo, in appositi sacchi di iuta. A mezzogiorno, la moglie del mezzadro chiamava a raccolta i lavoranti per il desinare: un pentolone contenente patate e fagiolini freschi bolliti insieme erogava in un piatto una ricca porzione nella cui brodaglia veniva inzuppato il pane di casa, cui seguivano formaggio pecorino ed olive, il tutto innaffiato dal buon vino locale. Dopo cena, amici e parenti aiutavano a patellare i nuciddi (sgusciare le nocciole dalla brattea) per stenderle al sole ad asciugare. Era una festa allietata da racconti, da dolciumi accompagnati da vino e gassose o aranciate fatte in casa con le bustine e si scambiavano mottetti tra i giovani; qualche bella voce intonava canti popolari. La raccolta e la fase di sgusciatura si ripetevano una seconda, e talvolta, una terza volta. Poi, seguiva, da parte dei più poveri, la ricerca delle nocciole tardive rimaste sul campo, chiamato “u biscugghiu”. (libera traduzione: raccogliere un’altra volta). La famiglia D’Abrera era tra le più benestanti e vantava ascendenti tra i familiari del barone spagnolo venuto al seguito dell’aragonese Re Martino; uno dei quali, facendo parte della corte del feudatario locale, si stabilì a Castel Lungo. A quell’epoca era Sindaco di Castel Lungo, Don Angelo D’Abrera, che aveva una villa, immersa tra i noccioli “du Cantales”, contrada ricca di acqua potabile freschissima. Egli era il farmacista e l’agronomo del paese ed aveva sposato, in età avanzata, una ricca vedova. Dalla carnagione rossiccia, con una corporatura di due metri che sprigionava una possente forza, non aveva paura di alcunché ed era temuto, ma anche stimato per la sua generosità e bontà d’animo. Emanava un suo fascino e le donne del paese gradivano qualche scopata, che egli piacevolmente assecondava mantenendo, però, la sua libertà in quanto la materia prima, dal punto di vista sessuale, non gli mancava. Per le ragazze perdere la propria verginità con quel “fimminaru” era un onore sia per la sua prestanza fisica sia per ciò che rappresentava nella scala sociale, oltre che una forte esaltazione dei sensi. Se, poi, le non più vergini dovevano salire all’altare, facevano in modo di presentarsi immacolate; parecchie, infatti, tra le benestanti, ricorrevano ad un ostetrico per farsi riparare l’imene. Il suo alone di uomo eccezionale era stato creato anche da fatti di cui era stato protagonista. Uno fra tutti. La trazzera che conduceva alle contrade passava di fronte al cimitero comunale, un po’ distante dal paese e di notte la gente aveva paura a transitarvi perché temeva di imbattersi con gli spiriti dei morti, con i fantasmi insomma. Angelo, in estate, dopo aver chiuso la farmacia, si recava a cavallo presso la sua casa di campagna. Giunto di rimpetto al cimitero, nel chiarore lunare, vide un’ombra aleggiare sulle tombe. Scese da cavallo, si diresse verso il “fantasma” e l’apostrofò: < si si’ omu, si’ un cornuto, si si’fimmina, si’ na buttana; nesci fora>. (non occorre traduzione).Venne subito riconosciuto ed apparvero un uomo e una donna imploranti il suo perdono in quanto temevano una scarica di legnate. Gli dissero che erano poveri e, mentre il marito rubava l’uva nel campicello adiacente al luogo sacro, lei, la moglie, aveva il compito di simulare la presenza di un fantasma facendo salire e scendere un lenzuolo bianco issato su una lunga pertica. Per allontanare eventuali passanti. Quell’omone li perdonò perché sapeva il limite di miseria in cui essi vivevano, disse che non li avrebbe denunziati ma se li avesse sorpresi di nuovo a rubare lo avrebbe fatto. All’inizio del secolo XX, a Castel Lungo, si fronteggiavano due schieramenti politici: da una parte, i Monarchici, capeggiati dal Marchese Dellosso, dall’altra c’erano i Democratici Nazionalisti, che facevano capo ai fratelli D’Abrera, otto maschi guidati dal farmacista, dott. Angelo. Ai primi del ‘900, il livello di vita degli operai italiani era molto scadente; la giornata lavorativa era in media di 12-13 ore. Anche la condizione dei contadini era sempre dura. Nei latifondi dell'Italia meridionale gli affittuari dovevano consegnare al proprietario fino a 3/4 del raccolto. Nei piccoli borghi, dove i contadini senza terra si stipavano in misere casupole assieme al loro bestiame, regnavano la miseria, l'ignoranza, le malattie. In quel primo decennio del 1900, dopo che s'era diffusa la notizia di uccisioni di operai in Sicilia e in Sardegna ad opera della polizia, fu indetto lo sciopero generale. Anche a Castel Lungo, dove c’era una forte presenza di socialisti, si fece sentire la protesta dei contadini, i quali reclamavano la terra richiamandosi agli “usi civici”, ma protestando anche per le condizioni disumane di vita e di sfruttamento lavorativo cui erano costretti a vivere. Gli “usi civici” furono oggetto di una lunga “querelle” tra i baroni locali ed i contadini, rappresentati – non sempre-dall’Amministrazione in carica. La fine dello sciopero vide migliorare le condizioni lavorative dei contadini, ma non ottenne i risultati sperati. In occasione del primo sciopero in quel territorio, da parte dei contadini, per giustificare l’azione di protesta, circolava il detto rivolto ai giovani: “Vidi, figghiuzzu miu, chista è a terra di to nunnavi” (questa è terra del tuo bisnonno. Nda). Il 5 agosto 1914 ebbe inizio la prima guerra mondiale. L’Italia decise di entrare in belligeranza contro l’impero austro-ungarico il 24 maggio 1915. Ma le cose si misero male sin dall’inizio e si cercò di ricorrere ai ripari. Una innovazione tattica fu la costituzione, dei primi "Reparti d'assalto", una specialità dell’arma di fanteria del Regio Esercito, i cui membri furono noti come "Arditi": il loro compito era quello di aprire la strada alla fanteria verso le linee nemiche con la totale conquista di queste ultime. Per fare ciò, venivano scelti i soldati più temerari, che ricevevano un addestramento molto duro, con l'uso del lancio di bombe a mano e con l’addestramento al combattimento corpo a corpo. Gli Arditi agivano in piccole unità assalendo le trincee nemiche con granate e pugnali, Il tasso di perdite era molto elevato in quanto avanzavano con il lancio di bombe a mano sfidando le mitragliatrici nemiche. Angelo D’Abrera, richiamato alle armi come ufficiale, fece istanza per essere arruolato tra gli “Arditi”. Cos’altro ci si poteva aspettare da un uomo temerario? All’ordine urlato “fuori”, usciva dalla trincea esortando il manipolo di coraggiosi sotto il suo comando; con l’iniziale copertura dell’artiglieria italiana, gli arditi sfidavano le mitragliatrici nemiche procedendo con brevi percorsi a zig-zag e sostando per qualche istante al riparo di fossi naturali. Appena cessava il bombardamento delle linee austriache da parte dei cannoni di montagna, il Capitano D’Abrera incitava i suoi arditi all’attacco delle trincee contro le quali venivano lanciate bombe a mano e, con il pugnale tra i denti, si lanciavano nel corpo a corpo con i fanti austriaci. Per aprire la strada ai commilitoni della sua divisione di fanteria, fu costretto, quindi, ad uccidere quei nemici che ingaggiavano con lui la lotta per la sopravvivenza. Angelo fu, pertanto, uno dei pochi fortunati riusciti a sopravvivere ai cruenti assalti alle trincee austriache. Dopo Caporetto, il suo reparto fece da retroguardia alle truppe che ripiegavano verso il Piave. Congedato, con medaglia di bronzo al Valore Militare ed il grado di Maggiore, mostrando il pugnale con il quale andava all’assalto delle trincee nemiche, raccontava che si lanciavano dalle loro trincee in 200 uomini, gridando “Savoia”, e vi tornavano in 50. Trascorsi gli anni della guerra in prima linea, per il suo comportamento eroico e per la statura corporea gli fu proposto di continuare la carriera militare quale Ufficiale superiore dei Corazzieri del Re. Rifiutò, preferendo tornare tra la povera gente della sua terra ed accanto a suo padre, rimasto vedovo in quanto la falcidia della pestifera Spagnola gli aveva strappato la sua compagna, che tanto amava ed a cui Angelo non aveva potuto dare il suo ultimo bacio nel letto di morte. Questa dura esperienza bellica forgiò ancor più il suo carattere temprandolo ai successivi eventi della sua vita. L’onore, l’amore per la Patria e per il suo paese natio, il senso della giustizia e della solidarietà, l’abnegazione nello svolgere il suo ruolo istituzionale e l’impegno per risolvere i problemi del suo paese, che volle fare uscire dall’oscurantismo ereditato dalla gestione della “res pubblica” borbonica, cui seguì quella savoiarda, lo accompagnarono nel corso della sua vita, breve ma intensa. L’uomo era molto legato alla sua mamma, dalla quale, ed insieme al padre, aveva ricevuto un’educazione ferrea e timorata dei valori cattolici. Ma dopo le atrocità della guerra e la prematura perdita della madre, la sua fede cominciò a vacillare: ne determinarono il tracollo altri dolorosi eventi familiari. Perse, nel fiorire della loro gioventù, una sorella, a seguito di grave malattia, unica donna di famiglia a sostegno del padre vedovo, ed un fratello rimasto vittima di un agguato, presumibilmente mafioso, mentre attendeva ai suoi doveri lavorativi, in quel di Palermo, ed era prossimo a sposare una bellissima ragazza. Inoltre, un’altra sorella, sposata con due figli, dopo l’assenza del marito arruolato d’ufficio durante la prima guerra mondiale, era stata indotta a vivere in solitudine e tra ristrettezze economiche in quanto il suo uomo, reduce e senza lavoro, fu costretto ad emigrare negli USA, laddove vi rimase per ben quindici anni. Rientrato in Italia, dopo pochi anni di sollievo avendo trovato un lavoro grazie all’intervento del suocero, colpito da grave malattia, lasciò la moglie ed i figli in ambasce e tra notevoli difficoltà di sopravvivenza: a quei tempi non esisteva il sistema pensionistico. Nell’incomprensione di questo accanimento di dolorosi eventi, che erano in palese contrasto con i principi sbandierati dall’umanesimo cristiano, nel tempo, Angelo pervenne alla conclusione della non esistenza di Dio pur rispettando, da ateo, il credo e le tradizioni di coloro che praticavano il cristianesimo. Anche da Sindaco, in occasione di eventi religiosi, non venne meno ai suoi doveri istituzionali nei confronti della comunità che rappresentava. In quegli anni, all’inizio del ‘900, erano ammessi al voto per eleggere gli amministratori civici soltanto chi sapeva leggere e scrivere, con esclusione delle donne. Angelo fu Sindaco per ben quindici anni, ma in una di quelle tornate elettorali, nell’individuare i suoi elettori certi si accorse che perdeva per soli due voti. Scelse due artigiani noti per le simpatie politiche nei confronti del suo avversario e li invitò ad eseguire dei lavori presso la sua casa di campagna – guarda caso – nel giorno delle votazioni. La fame era tanta ed il lavoro molto scarso per cui i due malvolentieri accettarono ripromettendosi di andare egualmente a votare accelerando i tempi per la realizzazione del lavoro loro ordinato. “U locu” si raggiungeva a piedi o a dorso d’asino e distava dal centro un’ora circa. A mezzogiorno, Angelo D’Abrera inforcò il cavallo ed a galoppo si recò in campagna per controllare i lavori; indi, sedette a pranzo assieme a quei “maestri” dopo aver spillato dalla botte, nella sua cantina, alcuni litri di vino. Al convivio, il padrone di casa invitò anche i mezzadri e la domestica, che sin dal mattino aveva raggiunto il podere per aiutare in cucina, per cui il pranzo si preannunciava abbastanza allegro. Alcuni giorni prima aveva inviato un messaggio, tramite la sua domestica, alla moglie del suo “mitateri” (mezzadro) che coltivava le terre di famiglia, di fare un’infornata di pane, il giorno stabilito, e di cucinare sulla brace costate di agnello, maccheroni e cannoli fatti in casa. Si diede inizio al desinare con una focaccia di pane appena sfornato condita con olio, origano, formaggio pecorino e peperoncini piccanti sotto salamoia; il tutto accompagnato da un colmo bicchiere di vino. Seguirono le altre portate. Il bicchiere degli ospiti era costantemente riempito del buon vino secondo gli ordini che erano stati precedentemente e di nascosto impartiti alla cameriera. Le portate abbondanti, il peperoncino sui maccheroni, i dolci e le allegre battute tiravano uno dietro l’altro i bicchieri di vino. L’ultimo dei quali accompagnò una improvvisata “chianota” ( canto popolare) quando vennero offerti i cannoli. Alla fine del pranzo, i lavoratori erano totalmente ubriachi per cui crollarono in un sonno profondo. Si svegliarono nel tardo pomeriggio e quando raggiunsero il seggio elettorale, al paese, lo trovarono chiuso in quanto il nuovo Sindaco era stato proclamato nella persona del farmacista , dott. Angelo D’Abrera. In un altro rinnovo del civico consesso, quando il D’Abrera perse le elezioni comunali e l’esponente della lista vincitrice veniva accompagnato, in corteo, alla sua abitazione con ovazioni di giubilo e con rilevanti espressioni irrisorie e di scherno rivolte agli sconfitti, Angelo intercettò il corteo avversario in una via del centro; i vincitori, ivi pervenuti, si videro apostrofare con la seguente lapidaria e "storica" frase: "Cento pecore accompagnano un somaro". La pesante espressione lasciò attoniti ed esterrefatti i suoi avversari politici, i quali, psicologicamente sopraffatti, ma anche per la corporatura gigantesca del personaggio, sciolsero mestamente e silenziosamente la manifestazione, miseramente fallita. Questi ed altri episodi di intrepido coraggio contraddistinsero la vita di quell’uomo. L’ironia del destino volle che Angelo D’Abrera – che aveva voluto difendere la sua libertà sino all’età matura – sposasse, dopo lo “sfarfallio su diverse corolle fiorite”, la sorella del suo avversario politico, una vedova con figli che lo zio arciprete aveva arricchito essendo divenuto benestante anch’esso carpendo il pezzo di terra ai contadini che gli avevano chiesto un prestito in denaro ma che poi non avevano potuto onorare con la sua restituzione. Avendo saputo che il barone Montemylè, quel giorno, sarebbe passato da quelle contrade ed appreso che egli era amico di un Senatore del Regno, il Sindaco decise di non aprire la farmacia per approfittare, da buon politico, dell’occasione al fine di perorare un intervento del barone presso quel Deputato, per la concessione, da parte del governo romano, del finanziamento relativo alla costruzione della strada che congiungesse la marina al paese. Invitò, quindi, quegli illustri viaggiatori a sostare nella sua villa montana per bere una bibita rinfrescante all’anice. - Il signor Barone ha visto quale percorso bisogna fare per raggiungere Castel Lungo; è pesante viaggiare su una trazzera, per giunta sconnessa e, d’inverno, impraticabile. Per quanti come il signor Barone, che abitano lontano ma hanno interessi in questo territorio, sarebbe provvidenziale una strada carrozzabile, che almeno arrivi al paese – dichiarò il Sindaco- Per le contrade, poi si vedrà…Sono a conoscenza che lei è amico di un Senatore. Potrebbe interessarlo per fare finanziare il progetto di costruzione della carrozzabile che dalla riviera arrivi sino a Castel Lungo?  Si, sono in ottimi rapporti col Senatore Vincenzo Bafumo, il Marchese di Boscogrande. Non potrò parlare col mio amico – rispose il nobiluomo- prima della fine dell’anno, quando, cioè, sarò rientrato a Palermo.  Se Ella vuole, potrei andare a trovarlo personalmente, a Palermo o a Roma, con una sua lettera di presentazione con la quale caldeggerebbe la costruzione dell’arteria – incalzò il Sindaco -Caro dottore, preferisco parlarne io direttamente al “pezzo grosso” per convincerlo. Le prometto che farò tutto il possibile- s’impegnò il barone – anche perché, come ha detto, la cosa mi interessa personalmente e le farò sapere ciò che riuscirò ad ottenere. Seguirò la vicenda in prima persona.  Da poco abbiamo messo il servizio telegrafico in paese – proseguì il Cavaliere Angelo D’Abrera – eventualmente può inviarmi un telegramma per qualsiasi comunicazione.  Sindaco, stia tranquillo che otterremo la somma necessaria, il Senatore è una persona degna ed io, oltretutto, sono un suo importante elettore, che gli assicura parecchi voti- concluse il Montemylè, apprestandosi a congedarsi dal farmacista. Il Sindaco si complimentò con Angela per la sua bellezza e propose agli ospiti di fermarsi per il pranzo. Ma il barone fece notare che avevano ancora parecchia strada da fare. Ringraziò per il rinfresco e, dopo avere porto gli ossequi alla moglie del farmacista, si avviò con i suoi familiari verso la meta. Il Sindaco, a sua volta, presentò i propri omaggi alle signore accompagnandole con l’usuale baciamano. Si fermarono per rifocillarsi “a bbarracca da Purtedda Jazzana ” (casa di legno alla portella Gazzana), dove Mastru Ciccinu e ‘gnura Cuncetta offrirono un bicchiere di vino con l’aggiunta di una frizzante gassosa. Il barone ringraziò e ricambiò il gesto ordinando l’ottima salsiccia di suino nero dei Nebrodi, che consumò sul posto facendola cucinare alla brace. E comprò anche quella essiccata. Pane nero, patate al forno e vino della casa, curato personalmente da Mastru Ciccinu attraverso le viti del suo podere nella soleggiata Gazzana, completarono il veloce pranzo della comitiva. Il Barone invitò la famiglia dell’oste a sedere alla sua tavola e don Ciccinu, ringraziandolo per l’onore, brindò alla salute del nobiluomo e della sua famiglia con l’usuale, per lui, “trink di win”- appreso durante la sua permanenza all’estero quale giovane emigrante- ogni volta che alzava il calice. Uno, due, tre o quattro bicchieri, ma quel simpatico campagnolo rimaneva sempre lucido. Prima dell’imbrunire erano già alla masseria di Mangalavite che includeva un grande complesso di case, per i padroni, per i contadini e per eventuali ospiti. L’Imperatore bizantino Michele il “Paphlagone” conferì il titolo di Manglabites, cioè Ufficiale della sua guardia scelta, ad un certo Harald, che combatté valorosamente a Rometta ed a Troina contro i musulmani al fianco del Generale Giorgio Maniace. E’ verosimile, però, che il feudo di Mangalavite sia sorto con i normanni quando liberarono la Sicilia dagli arabi, assegnandolo al nobile bizantino che si era stabilito nell’isola, il quale continuò a combattere i saraceni al servizio del Conte Ruggero d’Altavilla. E, con il feudo, ebbe il titolo nobiliare. Attraverso vari passaggi, nei secoli, di compra- vendita tra feudatari e nobili, il feudo di Mangalavite e Butti era stato acquistato dai Montemylè, i quali già in possesso del titolo di Barone D’Anca, aggiunsero quello di Barone di Butti e Mangalavite. Erano ad accoglierli, sull’aia antistante il caseggiato, i contadini e la servitù, i quali si premurarono di offrire i propri servigi ai loro padroni. Nelle terre del feudo vivevano stabilmente cinquanta lavoranti, che, assieme ai loro familiari , arrivavano ad oltre duecento persone. A costoro erano da aggiungere le presenze estive tra domestici e lavoratori stagionali. Avevano preparato l’acqua calda per un bagno ristoratore ed approntata la cena con maccheroni fatti in casa e castrato sulla brace, accompagnati da formaggio pecorino locale e dal sincero vino della contrada, con una gradazione alcolica intorno ai tredici gradi. Il Casolare di Mangalavite risaliva ad una costruzione del 1600. Al piano superiore c’erano le stanze da letto per i signori, per gli ospiti, il salone per il pranzo ed un angolo soggiorno. Ambienti senza pretese, ma decorosi e comodamente abitabili; c’erano anche i servizi igienici indispensabili con l’acqua da versare da una brocca. Al piano terra, da una parte c’erano gli alloggi per gli impiegati, dall’altra la foresteria. Ad un estremo delle case sorgeva la chiesetta, dedicata alla Madonna Addolorata. Un corpo a parte, poco distante, inglobava un ricovero per viandanti attrezzato con forno a legna, abitazioni per i campieri, alloggi per i contadini ed un locale, chiamato “zaccano”, dove venivano trattenuti gli animali trovati a fare danno. Più in là, il grande recinto per gli animali da allevamento, suddiviso in scomparti ove, di sera, venivano rinchiuse le varie razze: pecore, capre, suini, vacche, cavalli, galline con le oche e i tacchini, muli, asini e c’erano anche alcuni pavoni. In una uccelliera svolazzavano i volatili presi nei nidi della tenuta: merli, cardellini, ghiandaie, usignoli e pettirossi. Una colombaia, accanto, ospitava centinaia di colombi, che venivano sacrificati soprattutto durante i pranzi di un certo tono E parecchi erano i visitatori che andavano a trovare il barone. Nel feudo di qualche migliaio di ettari pascolavano gli animali di allevamento, i cui prodotti venivano, in gran parte, venduti; il formaggio pecorino, per il suo particolare gusto, veniva esportato anche a Malta. Percorrendo la strada da Portella Gazzana alla masseria di Mangalavite avevano attraversato le terre coltivate a grano: era stata già effettuata la mietitura ed i covoni erano allineati sull’aia, accanto alle case, in attesa dell’arrivo del barone. Per la trebbiatura veniva utilizzata una pariglia di buoi, i quali, trascinando una grossa pietra a scanalature e calpestando i covoni con gli zoccoli, facevano uscire il chicco di grano dalle spighe. Seguivano altre operazioni con il tridente per separare, tra l’altro, il frumento dalla paglia e si procedeva all’insaccatura del cereale. Infine, veniva trasportato nei granai della fattoria. Al contadino, per il lavoro prestato dalla aratura del terreno, alla semina, alla falciatura ed alla trebbiatura, su venti salme prodotte ne spettavano quattro. La stagione aveva profuso grano in abbondanza per cui, dopo tre giorni di “pisari” (trebbiare nda), favoriti da un venticello, su un’assolata ed ampia aia, il padrone organizzò una festa. Inviò a Castel Lungo il suo fattore per invitare il Marchese, il Sindaco, l’Arciprete, alcuni notabili e dei suonatori. Al mattino della domenica successiva, l’arciprete Don Ignazio e il sacerdote Don Lio, concelebrante quest’ultimo dall’incomprensibile salmodiare in latino, celebrarono messa nella chiesetta ed a mezzogiorno la comitiva, compresi gli impiegati ed i contadini, si ritrovò all’ombra della grande quercia prospiciente la casa e si accomodò attorno ad una lunga tavolata posticcia, imbandita per l’occasione. La cuoca Rosalia, collaborata da alcune donne della tenuta e sotto la guida della baronessa madre, Donna Matilde, aveva preparato un saporito menù, che comprendeva tocchi di “fuazza”, cioè pane nero ancora caldo condito con olio, pecorino ed origano (peperoncino a richiesta), maccheroni caserecci ed agnello cotti al forno, colombi farciti, fichi, prugne, pere e, per dessert, granita di limone ottenuta facendo girare una pentola immersa nella neve contenuta in un capiente recipiente, che era stata conservata, durante l’inverno, in un’apposita neviera; come dolce, ramette con le nocciole dell’anno precedente. Il tutto innaffiato da vino generoso e forte, figlio dell’uva montana della zona. Dopo il pranzo, gli anziani si misero a giocare “a briscula ”. Il Sindaco in coppia con l’Arciprete mentre il Comandante dei Carabinieri, maresciallo De Benedictis, aveva come compagno Padre Don Lio, il quale balbettava e, prima di chiamare una carta, si …”faceva sera”. Quando non rispondeva, invece, alla carta chiamata dal suo compagno, veniva apostrofato ed il bonaccione, paonazzo in volto, esclamava: “si iò bababa… bastuni un ci nnaiu chi ci popo… pozzu fari…( se io bastoni non ne ho, cosa ci posso fare?) “; al che il graduato si lasciava sfuggire un’imprecazione del tipo “santu diavoluni”. Ma subito veniva redarguito aspramente dall’Arciprete, che faceva seguire una giaculatoria ed il segno della Croce. Padre Don Lio era un curato di campagna. Teneva messa, infatti, nelle chiesette delle borgate dove abitava gran parte dell’anno, ad eccezione dei mesi freddi. Alle sue messe faceva tutto lui in quanto non aveva chierici che lo servivano: alla Comunione del celebrante, anziché qualche dito di vino riempiva il calice sino alla metà; il latino salmodiante diventava incomprensibile e l’unica parola che si capiva era “amen”. Essendo stonato come il muggito di una mucca, le sue messe cantate erano un vero supplizio; ma ciò malgrado, le donnette affollavano le sue cerimonie religiose, che escludevano i panegirici a causa della sua difficoltà ad esprimersi regolarmente. Era un appassionato della caccia, a causa della quale perse un occhio essendogli scoppiata tra le mani la doppietta mentre cercava di colpire un coniglio sui campi di neve; da allora, non faceva fatica a puntare la preda in quanto aveva un occhio già chiuso. Era un brav’uomo, ma, non si sa come, era diventato benestante pur essendo, i suoi parrocchiani di campagna, povera gente che non sapevano come mettere insieme colazione, pranzo e cena. A quei tempi, “andavano di moda”, per lo più, pane nero con olive e cipolle; la carne era un lusso, la pasta, fatta in casa, solo alla domenica; gli ortaggi li assaporava chi coltivava l’orticello, il latte, invece, o lo si comprava dal capraio che girava per le strade oppure lo si toglieva alla produzione di cacio da parte di coloro che allevavano animali da latte; qualche piccione , qualche coniglio, raramente qualche agnello erano scannati per festeggiare un avvenimento. Povera gente che viveva di stenti ma che sapeva fare anche qualche elemosina od aiutare i più bisognosi. I matrimoni venivano festeggiati in casa con biscotti caserecci, tra cui le famose “ ramette”, quelli ad S e le giammellotte, nonché rosolio curato dalla mamma della sposa; si chiudeva con calia (ceci), semi di zucca e nocciole abbrustolite, fave infornate accompagnati da buon vino; le uniche cose che venivano comprate, presso i negozi, erano il tessuto per l’abito da sposa, il velo, la corona con i fiori d’arancio ed i confetti che gli sposi distribuivano agli invitati (pochi) facendone entrare cinque in un apposito cucchiaio, talvolta d’argento, fattosi dare in prestito da qualche benestante. Il Barone aveva fatto venire dal paese un’orchestrina, composta da musici che strimpellavano chi la chitarra, chi il mandolino ed un altro la fisarmonica. Tornando alla festa sull’aia prospiciente la masseria di Mangalavite, i giovani organizzarono le danze nel pianoro accanto , senza distinzione di ceto, al suono del “complessino musicale” e di un friscalettu (flauto) rustico ed intercalando, nell’intervallo tra un ballo e l’altro, le “chianote” (canti popolari). Turi, che per l’occasione aveva indossato il suo migliore abito di panno nero, con cravattino rosso e gilet anch’esso nero, chiese il permesso al barone di potere invitare sua figlia Angela per qualche ballo. Vorticarono insieme in danze popolari scambiandosi anche alcune battute sulla giornata trascorsa spensieratamente e con un’atmosfera festaiola. Negli stacchi delle danze, si volle esibire anche Donna Matilde che cantò, con la sua voce da soprano, due canzoni popolari siciliane, accompagnata dai suonatori di chitarra e fisarmonica: “E vui durmiti ancora ! e “ Mi votu e mi rivotu”. I fans della briscola in quattro interruppero il meeting del gioco per ascoltare la bella voce della donna. I fringuelli ed i merli tacquero, riprendendo il loro canto quando grandi applausi accolsero l’esibizione estemporanea della nobildonna. Nel complimentarsi con lei, il marito, assieme al baciamano, volle darle un bacio sulle labbra; mentre, gli altri, gli ospiti di rango, si diffusero in complimenti accompagnati dal solito baciamano. Angela strinse la mamma tra le sue braccia baciandola sulle gote; Turi, nel fare la riverenza, le disse: “Cu pirmissu di Voscenza, ci vogghiu diri chi ristau affascinatu da so bedda vuci” ( Col permesso di Vostra Eccellenza, le voglio dire che sono rimasto affascinato dalla sua bella voce n.d.a). Donna Matilde, nel ringraziarlo, trattenne a lungo la sua mano in quella del fattore. Un gesto da nobili democratici. Il Marchese Dellosso, volendo contribuire alla gioiosità del pomeriggio, invitò Don Angelo D’Abrera ad emulare la Baronessa in quanto aveva assistito alle esibizioni canore del Sindaco durante alcune celebrazioni della messa domenicale. Egli, infatti, aveva ereditato dal padre una voce da tenore e continuò la tradizione, interrotta dal vecchio genitore per l’età avanzata, di cantare, come voce solista, in occasioni di alcuni importanti eventi religiosi. Don Angelo, dapprima si schernì, ma, dietro le insistenze del padrone di casa, si decise a cantare l’Ave Maria di Schubert ed, a seguire, “Si maritau Rosa”. Anche per lui, grandi applausi ed un bacio in fronte da parte della spigliata Angela. Grande giornata festaiola, che fece la gioia dei padroni di casa ed allietò ospiti e lavoranti del feudo, accomunati dal libero agire di un patrizio devoto della democrazia. Principi, che aveva trasmesso a sua figlia, la quale li praticava aggiornandoli attraverso l’evoluzione del suo pensiero che si nutriva di letture di ispirazione illuministica. Il capo della masseria, Turi, era un uomo che da poco aveva superato i 28 anni, dallo sguardo magnetico, con un fisico asciutto e muscoloso, abbronzato, alto. Egli si era rifugiato nei boschi di Mangalavite perché aveva deciso di porre fine alla “sua guerra” con gli austriaci, sulle Alpi. Chiamato alle armi in occasione della prima guerra mondiale, dopo essersi salvato dalla disfatta di Caporetto, tornò a casa in licenza e stabilì di non raggiungere il suo reparto, né di chiedere, successivamente, per questa sua “mancanza", il perdono attraverso lo strumento dell’amnistia, fiero ed orgoglioso com'era e personalmente convinto, peraltro, di essere nel giusto in quanto aveva già servito la Patria. “N’avanza e ni suverchia”, diceva. Aveva maturato questa decisione dopo che, durante un bombardamento nemico, venne ferito gravemente. Dall’ospedale militare fu dimesso con una convalescenza di sessanta giorni. Alla fine dei quali, essendo peraltro un semi-anarchico, politicamente inteso, anche se con limiti culturali, che si erano fermati alla quinta elementare, stabilì, in cuor suo, che era meglio violare la legge e starsene al paese. Fu dichiarato, quindi, disertore. Quando i carabinieri si presentarono alla sua porta, Turi aveva già preso la strada dei boschi. Incontrando fortuitamente il barone Averardo che ispezionava i lavori nel suo feudo, gli offrì i propri servigi. Il nobiluomo, dopo un periodo di prova, avendo notato l’intelligenza dell’uomo che accompagnava ad un carattere tenace e volitivo nonché autoritario, lo assunse affidandogli la conduzione della masseria. Turi divenne il fidato fattore del barone Montemylè negli anni subito dopo la prima guerra mondiale. E seguenti. Qualche mese dopo, una soffiata fece inerpicare i carabinieri di Castel Lungo sino a Mangalavite, dopo avere percorso a piedi un cammino di circa quattro ore. Ad uno dei contadini, che abitava ai confini del feudo prossimi alla trazzera che proveniva dal paese, era stato ordinato di stare sempre all’erta; avendo avvistato i militi a distanza, inforcò un cavallo e corse ad avvertire il capo della fattoria. Turi divenne, per qualche giorno, “uccel di bosco”. I carabinieri non tornarono più. Dopo la guerra e l’amnistia che ne seguì per i reati ad essa connessi, l’uomo, informato dal barone, scese in paese. Per l’occasione, indossò un completo di velluto nero a righine, sopra un gilèt di egual colore in cui faceva bella mostra una catenina d’argento legata ad un orologio da taschino, anch’esso in argento; con calzoni da cavallerizzo e relativi stivali cavalcava un imponente baio. Attraversando la strada principale del paese destava ammirazione e, tra le donne, giovani e meno giovani, suscitava desideri nascosti. Era temuto perché ritenuto un mafioso. Ma non lo era. Anzi, si professava socialista. Non era disposto, però, a farsi passare , come si suol dire, una mosca sul naso. Turi non poté ottenere la licenza del porto d’armi per il fucile in quanto il reato di disertore rimaneva sempre scritto nella sua cartella penale: infatti, gli era stata condonata soltanto la pena ad alcuni anni di carcere. Ma egli andava a caccia ugualmente, nascondendo in qualche macchia di arbusti la sua doppietta se avvistava il guardia caccia o i carabinieri, ed era il migliore cacciatore della zona. Il giovane Roberto Dellosso Lanzetti, che era ancora scapolo, aveva espresso al padre il desiderio di volersi fidanzare con Angela per sposarla. Il Marchese Pietro, quindi, si fece carico di chiedere al Barone Averardo la mano della figlia per conto del suo figliolo, come si usava a quei tempi. Il Montemylè rispose che lui personalmente ne era onorato e che ne avrebbe parlato con la ragazza ed avrebbe dato la risposta in breve tempo. Nel frattempo, Roberto si premurava di corteggiare Angela intrattenendola a conversare e facendola volteggiare nelle danze campestri. Le raccontò che aveva compiuti gli studi presso la scuola Militare della Nunziatella di Napoli ed aveva frequentato l’Accademia Militare di Cavalleria, a Pinerolo, uscendone con i gradi di Ufficiale, ma, alcuni anni dopo, a seguito di una caduta da cavallo, era rimasto immobilizzato nell’Ospedale Militare per due mesi e ne era stato dimesso con la diagnosi di impossibilità temporanea a potere continuare il servizio militare in quanto era stata compromessa la colonna vertebrale. In pratica , venne collocato in aspettativa per un anno. Era, quindi, rientrato a casa e si dedicava alla conduzione delle centinaia di ettari dei loro terreni, allorché gli aristocratici affidavano questo incarico – assieme a quello di farsi spennare – agli amministratori. Era un banale essere umano, non bello né brutto, di media statura, insignificante sotto il profilo sensuale. Dalla sua parte aveva la gioventù, molte tenute e parecchie centinaia di migliaia di lire nella valuta corrente dopo la prima guerra mondiale. Dopo la cena, alla luce di alcuni lumi a petrolio, tra un cordiale e l’altro, Don Averardo intrattenne gli ospiti leggendo il diario di un suo antenato, che egli custodiva gelosamente. Prese un libretto, rilegato in pelle, che conteneva fogli di carta vergati a mano ed ingialliti dal tempo, lo aprì e cominciò a leggere: “Lettera dal Deserto è il titolo del diario. La strada provinciale si allargava in una curva, dopo gli stretti tornanti che portavano su verso la montagna. Iniziava il piano prima della discesa che portava al paese: Roccalunga. Da circa un’ora, un uomo, seduto su una grossa roccia al limitare esterno della curva, volgeva lo sguardo tutt’intorno soffermandosi a rimirare gli angoli della natura, che il tempo non aveva cancellati. Per venticinque volte l’inverno aveva coperto con la sua coltre nevosa quei monti, quelle case, quegli alberi. Nulla era mutato. Venticinque anni addietro, quell’uomo, ancora fanciullo, aveva riempito lo scrigno della sua memoria con le immagini colorate della terra natia: suo padre lo accompagnava al Real Collegio Militare alla Nunziatella di Napoli. Compiuti gli studi liceali, era passato direttamente al Collegio Nautico ed, indi, sulle navi da guerra della Real Marina Militare Borbonica. La flotta del Regno delle Due Sicilie era la maggiore tra quelle militari degli stati italiani prima dell’unità e si collocava al terzo posto nel Mediterraneo, dopo quelle dell’Inghilterra e della Francia. L’ultimo vascello, che lo aveva visto quale suo comandante in seconda, fu il Sannita. L’ufficiale veniva inviato in convalescenza a seguito della frattura dell’omero sinistro e tornava nella sua terra per un lungo periodo di riposo. Aveva chiesto di essere esonerato per un anno dal prestare servizio nella Marina. Ma, allo scadere dell’esenzione, ripresentò l’ istanza per un ulteriore periodo di dispensa. Capitano di vascello della marina borbonica, apparteneva ad una casata nobile siciliana, fedele ai Borbone del regno delle Due Sicilie. A quei tempi era considerato un grande onore, per gli appartenenti alla nobiltà, servire il re nella qualità di Ufficiale sostenendosi peraltro con il proprio patrimonio. Trentasette anni, alto, bruno, asciutto, di bell’aspetto, ma con un’intensa sofferenza interiore, che traspariva dallo sguardo mesto e talvolta assente, il marinaio, dopo venticinque anni di girovagare per i mari, tornava a casa. I genitori, però, se n’erano già andati verso la pace eterna. Fugacemente, in tali eventi, era andato al paese. Il suo sguardo scorreva lungo la gola sino al letto delle acque montane, da cui improvvise e ripide s’alzano verso l’alto le sponde sino a divenire monti. Monti, interrotti da penduli pianori, che balzano a picco sul fiume, e su cui sono accolte le case del borgo; oltre di esse, sotto la linea dell’orizzonte, tetti sparsi in piccole contrade punteggiano la campagna. Con le spalle al lontano tratto di mare, che fa capolino tra due cime delle sponde che accolgono lo scorrere del fiume verso le acque salate, l’uomo posava gli occhi carezzevoli sui fianchi delle montagne, ora scoscese pur nell’abbarbicarsi delle liane, ora pascoli per le capre, sino ad incontrare il grigio delle rocce, da cui si diparte l’ondulare di passi che portano alla vetta. Quale antico maniero, che si isola dalla terra per svettare verso il cielo, essa, cima solitaria, tra l’azzurro, ne eguagliava il fascino. Avrebbe vista la croce di ferro, piantata sul suo picco se avesse avuto un cannocchiale; rammentandola attraverso un percorso all’indietro dei suoi ricordi, rivisse l’emozione provata, durante una scalata al monte con i compagni d’infanzia, quando potè toccarla con le proprie mani. Attorno ad essa i ruderi millenari che testimoniano l’esistenza di un passato storico. Quell’uomo ero io: Massimiliano Montemylè, Barone di Mangalavite. Giulia mi fu presentata la sera stessa del mio arrivo da ‘gnura Ciccina, moglie di massaru Peppe. A loro mio padre ed io stesso avevamo dato incarico di badare alla casa in nostra assenza e di curare le terre. Praticamente, erano le nostre persone di fiducia. Con Giulia abitavamo vicino; avevamo, quindi, l’opportunità di intrattenerci spesso a colloquio. In poco tempo, si era instaurata una sorta di amicizia, la cui piacevolezza consisteva nello stare insieme a discutere; la donna ascoltava con attenzione gli episodi che avevano arricchita la mia vita. Dopo essersi assentata per due giorni, rientrata al paese, Giulia venne a trovarmi. La invitai ai piedi del mio letto in quanto stavo poco bene. Fu il principio di un inconscio inizio di un intimo conversare. Qualche notte dopo, lei bussò alla mia porta per pregarmi di andare a chiamare d’urgenza il medico in quanto sua madre, molto ammalata, era improvvisamente peggiorata. In quelle ore, insieme sino all’alba, i nostri sguardi s’incontrarono muti, ma consapevolmente inquieti, per interrogarsi lungo parecchi secondi. Si avviava, attraverso un percorso impervio, un sentimento d’amore che sarebbe divenuto intenso e si sarebbe incuneato nell’animo trasformandosi in solco indelebile. In quello scorcio d’estate, altre immagini meravigliose si mescolarono a quel primo sguardo; momenti vissuti, sul finire del settembre ed in una campagna che si avviava al torpore dell’inverno. Gustavamo insieme, dal medesimo bicchiere, il mosto appena spremuto; ci attardavamo, nell’incipiente sera e mentre la prima luna s’alzava dietro il colle, intorno al fuoco acceso sotto il pino e vi abbrustolivamo le pannocchie, ancora tenere. Non s’udivano parole, ma, tra incontri cercati, innocenti atti erano un lieve preludio ad una condizione, nuova, di reciproche intense emozioni. Passo dopo passo, si cancellava l’aridità del mio animo, da tempo silente. Poi, negli ultimi giorni del primo autunno, il forzoso rientro a casa per gli impegni di ciascuno; ma, prima del saluto, ci scambiammo la promessa di incontrarci. Le scrissi una lettera, dopo qualche giorno, invitandola a pranzo. La risposta fu positiva. Andai a Catania per incontrarla: pranzammo in un ristorante sul lungomare. Giunti al dessert, liberai il mio animo dal peso che mi aveva tormentato in quei giorni di solitudine. Un sentimento d’amore, limpido, era tornato ad invadere il mio intimo, malgrado, sin dall’inizio, avessi cercato di soffocarlo. Glielo confidai, ma le raccontai anche la mia vita passata.  Sono padre di un ragazzino di dieci anni, - le dissi - nato da una mia relazione con una nobildonna veneziana, la baronessa Maria Luisa Horm di Bellonazzo, la quale morì durante il parto. Ho conosciuto la donna a Vienna, laddove lei abitava assieme al marito, alto dignitario dell’amministrazione dell’impero austriaco; presso la cui corte ero stato assegnato, quale addetto militare, essendo stato chiamato a far parte del corpo diplomatico del Regno delle Due Sicilie. Intraprendemmo un rapporto adulterino, che ci portò, però, ad innamorarci reciprocamente. Resi gravida la mia amante, la quale, ingenuamente, riteneva di non correre rischi perché era senza figli: la sterilità, invece, era del marito. Quando cominciò ad approssimarsi l’evidenza del suo stato materno, la donna con una scusa si allontanò dal consorte e rientrò in Italia per confidarsi con la madre. Quando partorì, io ero accanto a lei. Ma le cose non andarono per il verso giusto.  Il marito non seppe mai del parto- continuai nel mio racconto - : gli si comunicò che la moglie era morta, durante un intervento urgente, per un improvviso attacco di peritonite, che i chirurghi non erano riusciti a risolvere; nè, in occasione dei funerali, venne a conoscenza della presenza del bambino in casa della suocera essendo andato ad alloggiare presso un hotel, del quale fu ospite soltanto per qualche giorno. Alla nonna la creaturina venne affidata e con essa crebbe. L’austriaco non andò mai a fare visita alla suocera. Io andavo a vedere mio figlio Ruggero ogni mese quando non ne ero impedito dal mio lavoro. Dopo laboriose pratiche per la sua adozione, grazie alle mie amicizie a “Palazzo Reale”, riuscii a dargli il mio cognome. Giulia mi seguiva con molta attenzione, senza interrompermi. Mi fermai qualche istante per mandare giù un sorso di vino. Ripresi il mio discorso, confidandole:  Ho paura di dar vita ad un nuovo legame affettivo. Ma, ahimè, quel sentimento, che io avevo relegato in fondo al mio animo, è riemerso e la voglia di amore è stata più forte della paura. Io ti amo, Giulia, come può amare chi per lungo tempo non ha più rivissuto questa emozione. Con l’esplosione di forti sentimenti. A parte la graziosità e l’avvenenza della donna, trasparivano dai suoi comportamenti mitezza, umanità e senso dell’equilibrio proprio dell’età matura, malgrado i suoi venticinque anni. Questi aspetti, emersi durante i nostri incontri in montagna, mi avevano spinto ad aprire quella valvola, con la quale, da un decennio, tenevo incatenati i sentimenti più reconditi del mio cuore. Dopo sì lungo tempo, io proferivo ancora la parola: “ti amo”. Giulia mi ascoltò con molta attenzione, disse di essere a conoscenza del fatto che io avevo un figlio a Venezia in quanto mia madre lo aveva confidato ad un’amica. Ma si sa come vanno le cose nei paesi: l’amica aveva affidato il segreto ad un’altra amica e questa ad altra ancora e così via, sin quando la notizia divenne nota all’intera comunità. Dopo una lunga pausa, la donna mi disse: “sono certa di amarti anch’io”. Giulia apparteneva ad una di quelle famiglie, che, con la ventata di liberalismo di cui si era permeato il risorgimento italiano, a giusta ragione, tentavano di accorciare le distanze tra i ceti sociali provando ad abbattere gli steccati attraverso il tentativo di affrancarsi dai lavori umili, di dotarsi di una cultura scolastica e di un miglioramento del proprio tenore di vita. Propositi del tutto condivisibili. Ma, alla positività del progresso non seguiva, di pari passo, soprattutto tra la gente del sud, il superamento di taluni pregiudizi di ordine sociale, ma, ancor più, culturale. Tra questi, quello che non lasciava spazio alla libertà dei sentimenti e al rifiuto dei condizionamenti per una visione più umana della vita. Questo limite ebbe ad escludere, per parecchi decenni, intere generazioni di contadini, di artigiani e di operai – ma invero non solo di essi - da una evolutiva apertura mentale per un cambiamento di se stessi nell’accogliere il pensiero della società che ineluttabilmente progrediva. Il riscatto di quelle classi sociali dalla tipica rassegnazione della loro secolare condizione sociale a fatica si era potuto concretizzare, subendone, però, spesso l’influenza delle fasce conservatrici, anche acculturate. Era rimasta, pur tuttavia, una sorta di incrostazione mentale che tarpava il pensiero ed impediva di abbattere pregiudizi per accogliere ciò che di buono i fermenti della collettività offrivano. Cioè, il progresso sociale. La consapevolezza di essere in presenza di una simile condizione, mi spinse ad invitare Giulia a riflettere bene sulle conseguenze e sulle difficoltà, che avremmo dovuto affrontare; avvertendola, altresì, che, una volta che esse sarebbero state accettate consapevolmente, avremmo dovuto procedere con perseveranza fino al raggiungimento dell’obiettivo, che ogni sentimento di amore si prefigge. E le rammentai il quadro che si sarebbe delineato agli occhi dei benpensanti: nobile, quasi quarantenne, padre di un figlio e, in più, ateo, io; lei, figlia di contadini, che lasciarono la terra per divenire operai, cattolica praticante, con una richiesta di matrimonio da parte di un operaio. Nel ribadire il mio nuovo sentimento, ancora all’inizio, prima di mollare i freni, mi resi conto che sarebbe stata opportuna, da parte di entrambi, una maggiore riflessione. Dopo, e soltanto dopo, nel caso di decisione ad andare avanti, avremmo potuto coinvolgere i nostri sensi. Eravamo consci pur tuttavia della dura prova che avrebbe segnato ciascun istante della nostra vita. Quel giorno ci lasciammo con la promessa che la riserva, in un senso o nell’altro, Giulia l’avrebbe sciolta dopo alcuni giorni di solitaria meditazione. Arrivò la lettera tanto attesa: quella creatura deliziosa mi invitava ad incontrarci in quanto era prevalsa la volontà di alimentare sempre di più la fiammella, che era pronta a diventare un rogo devastante. Iniziarono così i nostri incontri, per lo più a Catania, laddove Giulia abitava essendo il padre operaio presso un’azienda, intervallati da una corrispondenza epistolare. Io ero andato ad abitare a Messina, per potere seguire mio figlio negli studi, ed avevo l’intenzione di stabilirvi il mio domicilio invernale. Lì, oltretutto, abitava una mia sorella sposata, senza figli. A Roccalunga, nostro paese di origine, Giulia si recava in estate. Io vi mancavo, invece, da venticinque anni, ma adesso avevo l’intenzione di soggiornarvi spesso. Scoprivamo, attraverso le lettere e nelle poche giornate che potevamo trascorrere insieme, comuni aspirazioni e reciproca comprensione. Il nostro amore si alimentava di queste assonanze e cresceva nell’ipotetica scala che misura l’ intensità del sentimento. Avevo conquistato quella certa serenità d’animo, che prima non c’era, mentre lei diceva di sentirsi tranquilla e sicura accanto a me. Mi ripeteva spesso che non voleva “vedere più così tristi i miei occhi” e che pregava spesso Iddio perché operasse in me un cambiamento per quanto riguardava il mio credo religioso, o meglio l’assenza di esso. Come ho detto, mi ero allontanato da Dio fino a diventare un convinto ateo. Nel continuo sublimarsi di stati di animo, in cui nessuna nube venne mai ad oscurare quel felice orizzonte, il momento più stupendo ed incredibile fu quello in cui, in una indimenticabile alba, all’improvviso mi trovai ai confini dell’estasi: sentii una coscienza nuova, non più arida e fredda, un sentimento indescrivibile, etereo, ed una voce uscire dal profondo del mio corpo: “Dio esiste”. Inaspettato ed incomprensibile si compiva quel miracolo, che Giulia tanto aveva invocato. Da quel momento, l’incalzare degli eventi fu tale che venimmo travolti da essi, ma volutamente, in quanto la nostra coscienza era sempre vigile ed attenta. La purezza e l’intensità del nostro amore avevano raggiunto un tale livello da fare dichiarare a Giulia che, se per un motivo qualsiasi, non ci fossimo potuti sposare, lei sarebbe andata via dall’Italia per diventare missionaria tra la gente del terzo mondo, dove la povertà e l’assenza di Dio rappresentavano il pane quotidiano. Non avrebbe potuto concepire una vita diversa da quella che volevamo costruirci. Quel Capo d’Anno ci eravamo dati appuntamento a Roccalunga per trascorrere insieme la festività. Lei si era conquistata una certa libertà di movimento in quanto, frequentando già una scuola di danza classica a Catania, desiderava lavorare come ballerina nei teatri dell’opera: sarebbe stata costretta, quindi, a girare con il corpo di ballo e con gli altri artisti se la rappresentazione in calendario veniva portata in tournèe. Di tanto in tanto, pertanto, si sarebbe dovuta allontanare dalla famiglia. Dopo qualche giorno dal nostro arrivo, il paese e le colline intorno si ammantarono di neve; per fortuna, le strade rimasero percorribili per la scarsa quantità dei fiocchi caduti. Pregai, pertanto, massaru Peppe di approntarmi un calesse con la capote e di raggiungermi con sua moglie presso il casale di campagna, dopo avergli consegnato una nota di alimenti, per due o tre giorni, da caricare sul suo carro. Passai a prendere Giulia all’uscita del paese e percorremmo la strada dei campi per arrivare laddove era la casa: essa sorgeva al centro della mia tenuta, su un’altura, cinta da un muro, che delimitava il cortile. Ove si affacciava una chiesetta dedicata a Maria S.S. Ausiliatrice e che un filare di querce collegava al portico della villa. Peppe, appena giunto, accese il grande camino del saloncino, mentre varie stufe a legna erano dislocate negli ambienti di soggiorno. La moglie, ‘gnura Ciccina, si era assunta l’onere della cucina. Con la loro assistenza, Giulia ed io decidemmo di trascorrervi l’ultimo giorno dell’anno, nonchè il successivo, il primo di quello nuovo. La cena, al cui tavolo invitai Ciccina e Peppe, fu deliziosa. Giulia preparò dei cannoli facendoli accompagnare da Malvasia e mise al forno biscotti di mandorle e pistacchi per mangiarli durante la nottata e l’indomani. A mezzanotte, brindammo al nuovo anno e, poco dopo, marito e moglie, stanchi della fatica dell’intera giornata, si congedarono da noi augurandoci una felice notte. Dinnanzi al fuoco scoppiettante del camino, intrecciammo il nostro conversare facendo sogni per il nostro futuro. Vennero le carezze, i baci, i desideri d’amore. Ma ci contenemmo, cercando, invece, di sublimare quei momenti. Lessi qualche poesia d’amore, del Petrarca e di Dante, e recitai alcune strofe composte da me. Le raccontati alcune vicende vissute come marinaio sulle navi della flotta borbonica. Prima che il fuoco si spegnesse, caricai il camino con altra legna. Qualche ora prima dell’alba, misi sulla brace un paio di fette di pane per abbrustolirle. Le indorammo con un filo d’olio e li accompagnammo con castagne, anch’esse abbrustolite, e con noci. Il tutto innaffiato con un buon bicchiere di vino dei miei vigneti. In pratica, facemmo la colazione del mattino...con il vino... ma era un giorno particolare. Ci addormentammo, l’uno accanto all’altra, dinnanzi al camino, distesi per terra su un tappeto coprendoci con alcune coperte. Fuori, i pini attorno alla casa avevano indossato l’abito bianco: la neve copriva il paesaggio attorno lasciando intravedere soltanto lo squarcio dove l’acqua del ruscello spezzava il candido manto incanalandosi verso valle. Di tanto in tanto, una spruzzata di fiocchi bianchi attraversava il cielo. E la neve cadde anche sui nostri corpi, che, destatisi, vollero assaporare l’evento mostrandosi sul terrazzino, sopra il portico. Stretti nell’abbraccio, in cui scorreva amore, affrontammo il freddo del mattino di quel Capo d’Anno. Maccheroni, usciti dalle mani di Ciccina, conditi con il sugo di lepre amalgamato con un paio di gocce di piccante “olio santo”, e ricoperti con il pecorino locale; bocconcini di patatine intere ed un ruspante tacchino rosolati al forno, cui si aggiunse un terzo piatto con le lepri abbattute con il fucile da caccia di Peppe, “riscaldarono”, assieme al solito vino, il nostro pranzo di Capo d’Anno. Che venne concluso con i dolci rimasti dalla nottata precedente. Nel pomeriggio, avendo smesso di nevicare, ed essendo il cielo terso, ci facemmo sellare i cavalli per una passeggiata costeggiando i filari degli alberi che delimitavano i vigneti più prossimi alla villa. Per fortuna, la neve non era molto alta ed il freddo non riusciva a penetrare il nostro abbigliamento appropriato alla temperatura del periodo. Mi ero portato dietro il fucile da caccia ed ebbi la fortuna di imbattermi in due conigli. Ci allietarono il pasto serale. Giocando a scacchi, dopo cena, gustammo le fragole sciroppate di Ciccina, che lei aveva preventivamente sgocciolate, accompagnate da un paio di bicchieri di champagne, tenuto a freddo in un catino con la neve ghiacciata. Un’esibizione di danza classica di Giulia, con il sottofondo musicale della mandola da me strimpellata, si concluse in “un corpo a corpo” delizioso sull’impiantito del saloncino. Ancora una volta, fummo costretti a tirare i freni per vincere la tentazione, con notevole sforzo di autocontrollo, di abbandonarci all’amore completo. Anche se ci aggirammo nei pressi. Quella notte, per evitare ulteriori tentazioni, decidemmo di dormire in stanze separate. All’alba, ci scambiammo il buongiorno sotto il tepore delle coltri del mio letto... Dopo,ma ancora vergine, Giulia mi recitò, con la sua voce dolce e suadente, il “Cantico delle Creature”. Fu allora che io emisi quel suono: “Dio esiste”. La neve cominciava a sciogliersi e, subito dopo mezzogiorno, sulla strada era alta solo pochi centimetri. Decidemmo di rientrare al paese. Alla fine della settimana, durante la quale trascorremmo insieme parecchio tempo, Giulia rientrò a Catania ed io a Messina. Nella prima lettera, dopo quei giorni indimenticabili, le scrivevo: “Ti amo per quella che sei e come sei, ti amerò ancor di più per quella che saprai essere per me in quanto moglie, amante, sorella, amica e madre dei nostri figli; ti amo perché voglio essere tuo marito, il tuo amante, tuo fratello, il tuo amico, il padre dei tuoi figli. Il mio pulsare per te proviene dalla culla dove Amore ha deposto la sua essenza; ti amo come posso amare la mia( e tu non sai quanto l’ami), la nostra terra; ti amo come amo il ricordo della mia fanciullezza spensierata tra gli affetti a me più cari; ti amo come gli uccelli amano la primavera; ti amo in un concerto di violini attorno al crepitare di un fuoco acceso sull’imbrunire; ti amo come amo l’aria della brezza serale che cala sulle valli inondandole del profumo della candida zagara; ti amo come vorrò amarti in un’eterna notte lunare tra i nostri monti”. Si susseguiva l’intreccio della corrispondenza. “Il tuo nome sussurrato sulla riva deserta del mare al tramonto accarezza l’idillio di un bacio. Che non ha termine. Un bacio, che non è solo sensuale, ma è anche tenerezza infinita ed ineguagliabile, è unione di due spiriti nella volontà di appassionarsi alla vita, è sublime sintesi di un’estasi in un mondo convulso, diventa analisi interiore per il raggiungimento della reciproca, intima comprensione, per denudare l’animo del proprio partner. Un serrarsi di labbra per formare un unico gruppo scultoreo, nel quale l’anima vive ”. E continuavo: “…dammi la mano e vieni con me verso la felicità: raramente conosciuta,ma bene prezioso, che, se riesci a trovarlo, devi serrarlo in uno scrigno d’oro”. In una successiva missiva, le dichiaravo: “ Sei tu che allontani la solitudine, in cui vivo, con la tua voce, quando sei con me, e, quando non lo sei, con il tuo scritto, laddove c’è l’espressione più alta di un sentimento coinvolgente, d’uno stato d’animo travagliato dall’amore. Sono le tue lettere tanto appassionate e tanto tenere – che io leggo e rileggo per convincermi sempre di più che tu veramente mi ami nella maniera in cui io ho sempre inteso l’amore – che io attendo con ansia perché possa dire di non essere più solo…Potessi almeno vederti per un’ora al giorno, sarebbe più sopportabile questo nostro distacco…Sino adesso sono riuscito a superare le delusioni e le avversità della vita. Le quali mi hanno portato, però, ad una forma di scetticismo, non disgiunto da stoica sopportazione, nell’affrontare la vita in sé stessa, che è dominata da un destino personale. Adesso, accanto a me ci sei tu, con il tuo amore, con le tue convinzioni, che io rispetto, anzi adoro, perché sono espressione genuina di un animo non toccato dal male; essa trova radici in un’educazione interiore molto rigida; ci sei tu, dicevo, che mi dai più spinta, più ragione d’essere, più volontà di vivere; ci sei tu, che hai compreso il mio animo, mi hai dato la tua amicizia, il tuo affetto, il tuo amore. Voglia il destino tenerci sempre assieme nei momenti belli o brutti, che verranno”. Riempivamo il vuoto delle giornate affidando il nostro sentire ad un foglio di carta. Attraverso il quale continuavo ad esprimere il mio pensiero: “E quando ti dico che ti amo vorrei che tu sentissi questa parola con la dolcezza di una musica angelica, con la struggente attrazione di una notte che si perderà nella profondità dei secoli, con il suono eterno dell’acqua del ruscello che scorre nel suo letto, con il pulsar del cuore di un innocente usignolo. Vorrei, Giulia, che tu sentissi questo mio grido d’amore tra il silenzio della foresta di fiaba, ma anche tra il nitrire dei cavalli all’aura del mattino. Vorrei che tu chiudessi gli occhi per sognare tra le cime ove occhieggiano le stelle alpine, tra le foglie che, ondeggiando, si tuffano nello stagno, tra il canto gioioso delle cicale. Vorrei che tu leggessi queste mie note e ti inondasse il profumo dei gelsomini d'oriente. Affida, indi, il tuo pensiero alla visione di fiocchi di neve sui tetti rosati, alle viole posate sul muschio, all’ascolto di cornamuse nella notte, alla danza delle farfalle sul nettare degli dei. Vorrei, Giulia mia, che tu ascoltassi questa dichiarazione d’amore, che proviene dalle vette del cielo, raccolta in preghiera innanzi ad un presepe, dove, in quel paesaggio, unico al mondo, un bimbo appena nato ti porta in un mondo, che sublima l’essenza del vivere”. In un’altra ancora, soggiungevo: “Amore, non come momento fuggevole, sensuale e condizionato, bensì Amore come stato d’animo che esplode in una miriade e complessa tempesta di sentimenti, che trova sempre e comunque la sua volontà suprema nel “volere”. Quel volere che vuol dire sofferenza e gioia, passione e tenerezza; quel volere, che ti fa ricercare, nell’oscurità della vita, la “voce amica”; quel volere, che riempie l’amaro del vuoto se l’essere che ami ti è accanto col candore del suo animo, nel quale il tuo riflette la propria immagine speculare. Volere vuol dire conquista, giorno dopo giorno, della volontà d’amore e dello stesso amare. Così è il mio “volere” l’Amore. Che fugge dal materialismo terreno per trovare sito laddove “regna Amore”. Pur trascorrendo insieme alcuni fine settimana, non avevo voluto affrettare il momento di prendere la sua verginità. L’evento doveva maturare come l’uva al sole dell’estate. Intenso, però, era il desiderio di stare fisicamente insieme. Decidemmo di abbattere la barriera invocando Dio di unirci anche nella vita futura. Giulia si apprestava a donare a me, avendo deciso che sarei stato io il suo compagno per sempre, anche l’intero suo corpo. Le sue gote pallide, non ricolorate nemmeno da una coppa di vino dell’Etna, sembravano immacolate farfalle quando avvenne il “salto del fosso”: finiva un giugno solare, tra il profumo delle rose e del gelsomino. Taormina, terrazza sul golfo di Naxos, ci intrattenne con meravigliose giornate, intense di atti d’amore e di piacevole conversare godendo l’incanto del paesaggio. Notti di note musicali sotto la pergola di un locale da ballo volavano verso l’alto assieme alle parole d’amore sussurrate nell’intrecciarsi delle labbra. Qualche giorno dopo, feci pervenire queste parole a colei che mi si era donata. “Se il distacco è un’ingiustizia, in questa svolta della nostra vita, se la lontananza forzata di oggi ci fa soffrire, saremo certamente inondati di tanta gioia, domani, perché i nostri intenti discendono da quell’amore voluto dal Signore ed a noi profuso. Dolcissima donna mia, ti ho ancora negli occhi col tuo candore nella tua “prima notte”, con il trepidare di quegli istanti incancellabili, col tuo pudore, col tuo sguardo vellutato, implorante tenerezza ed “una mano lieve nel cogliere il tuo fiore”. Non avrà, la nostra vita, attimi eguali a quello in cui mi apparisti pronta al bacio d’amore. Ricordi? La commozione, il battito forte dei nostri cuori, il tremore dei nostri corpi in quell’amplesso…Grazie, Dio, ma anche a te, mio “ tutto”, per il sorriso che avete saputo far tornare sulle mie labbra. Non lasciare la mia mano: in essa è il segreto dell’Amore. In occasione del suo 25° compleanno, le regalai un libretto, rilegato in pelle, che conteneva versi e prose, che durante quell’anno avevo scritto, dedicandoli a lei. UNO SGUARDO, UNA CAREZZA Odori di un profumo a noi noto ondeggiavano sulle valli amiche quel vespero sereno di fine agosto; un petalo di rosa soltanto separò il palmo delle nostre mani nel primo saluto. Era bello incontrarsi all’ora del tè o per scambiarsi un sorriso innanzi la porta di casa. I nostri occhi, spesso, s’intrecciavano dando inconsapevolmente inizio ad un eterno loro accarezzarsi . Ricordi il dì del caro settembre in cui ti invitai a respirare l’odore della terra, tramandatami dai miei avi? Bevemmo il mosto, quel giorno, poggiando le nostre labbra sul medesimo angolo del bicchiere: era il primo bacio con il marchio del fuoco sotto il gelso, accompagnato dalle pannocchie abbrustolite. La luna vespertina rischiarava la cresta dei monti, mentre gli uccelli emettevano un lieve cinguettio prima di notte. Da quei pastelli fu dipinto. L’eco del futuro - Ho bevuto i sorsi della tua sete tingendo il mio animo di rosso; ho atteso il tuo sorriso tra gli spalti d’un castello diruto cinto da gabbiani in volo. Finì l’estate e venne la partenza, ma il distacco durò pochi giorni: a quel pranzo ti dissi del mio amore per te. La fine di una vita, fatta di assenze, mi portò a cantare la gioia del nostro futuro insieme. I nostri incontri, le nostre lettere aprivano, però, l’animo alla certezza di un amore profondo, che cresceva sempre più e, dai versi disperati, passai a quelli che sgorgavano dal desiderio di stare insieme attorno al focolare della nostra casa, la cui fiamma fosse alimentata dal calore dei nostri cuori. Quando fui certo del dono avuto, dal destino o forse da Dio, del tuo volere divenire la compagna della mia vita, volli cingere il tuo anulare sinistro col pegno di un lucchetto d’amore. In quella occasione, ti dissi che ”eri la prima cosa bella della mia vita”. In una ascesa verso la vetta, alla conquista dei gradini del tenero sentimento, a Capo d’Anno, volgendo il pensiero ai nostri luoghi natii, laddove tu ti trovavi, scaturì Al di là dei monti Tu calpesti il candore che vien giù dal cielo sul manto dei ciottoli natii: ma, tu non odi accanto alla tua la mia voce, tu non stringi la mia mano, tu non vedi il faro dei miei occhi. Tu sei sola. Il silenzio di un bacio la solitudine attraverso la finestra son colpi di scure dentro il mio cuore pur solo. Seguì, a distanza di alcuni giorni, l’inno ai momenti insieme Sotto il gelso Sotto la tua ombra amore trovai tra il calore del fuoco: la luna già filtrava il suo chiarore sulle stelle del volto a me vicino e, mormorando, le foglie accompagnavano i battiti del cuore. Che questo nostro legame sia santificato da quella quiete in fondo all’animo, che scende in chi crede fervidamente nell’amore come dedizione e donazione continua di se stessi. Sarà meraviglioso se il nostro animo non conoscerà l’amarezza della delusione poiché ritengo non giusto che la vita mostri, per gran parte di essa, questa sua faccia. Che lentamente uccide l’anima ed il corpo. Ed io vorrei tornare, accanto a te, a La luce Nella murmure preghiera della notte frusciavano i castagni antichi mentre, tu, trepidante e pallida, m’apparivi porgendo il tuo virgineo fiore. “Amo ed accarezzo i tuoi begli occhi, sognanti e profondi come stellata notte nei giardini d’un emiro; bacio i coralli delle tue morbide labbra sino a non potere più contare le migliaia di volte, per succhiare il nettare del paradiso terrestre; stringo il tuo cuore al mio per sentire il calore della tua anima e l’ebbrezza del tuo corpo; appoggio il mio viso sul tuo candido seno per racchiudere in me, in quell’istante, la felicità del mondo. Principessa dei miei pensieri, nella ricerca dell’armonia e nella carezza del nostro sguardo, che da solo ed in silenzio ci dice tante cose, noi dobbiamo cercare la sublimazione del nostro amarci. Semmai qualche volta una nube od anche una burrasca dovesse offuscare il nostro domani, guardiamoci negli occhi, così come ci guardiamo adesso: sapremo tornare ad essere quelli che siamo ora, sapremo ritrovare la nostra gioia di vivere insieme un amore così splendido. Accarezziamoci con gli occhi, cara, uniamoci nel nostro forte abbraccio e diamoci la mano avviandoci a percorrere insieme il lungo cammino della vita. Ricordati sempre che ti amo con il cuore, con i sensi e con la mente. Ricordati che ti cerco come un viandante nella notte cerca un lume, come le farfalle rincorrono il polline odoroso dei fiori, come un naufrago nel deserto alla ricerca di un’oasi.” I nostri incontri si susseguivano in posti diversi: talvolta a Catania, tal’altra a Messina, spesso presso il casale della mia tenuta, a Roccalunga. Una tempesta improvvisa, però, si abbatté su di noi nella primavera successiva. Colui il quale voleva sposare Giulia chiese la sua mano ai genitori di lei. Da qui, ebbero inizio scoramenti da parte della donna, che veniva sollecitata in tal senso dai suoi. Non rimaneva altro che stringere i tempi e sposarsi regolarmente. Ma lei si oppose, tergiversando. Dovetti allontanarmi dalla Sicilia, per una quindicina di giorni, avendo dovuto accompagnare a Venezia dalla nonna, la baronessa Elena, mio figlio Ruggero per trascorrervi l’estate. In quell’arco di tempo non feci venire meno a Giulia il conforto epistolare. Al mio rientro, però, la trovai cambiata. Seguirono giorni di tremenda tensione, giorni in cui si giocava il destino di entrambi. Il nostro rapporto, che si basava su una assoluta lealtà, conobbe la bugia da parte di lei. All’incontro, in occasione dell’anniversario di quel giorno di fine giugno di un anno prima, in cui ci unimmo carnalmente, Giulia non venne trovando una scusa: si trattò di una menzogna. A distanza di alcuni giorni c’incontrammo per l’ultima volta. Era pallida, smunta, nervosa, dai lineamenti tirati, lo sguardo non brillava più ma si posava intorno distrattamente; i suoi discorsi si contraddicevano continuamente, sembrava invasa da un male demoniaco; era senza volontà di agire, ma disse che era meglio uccidersi insieme; affermò – incredibile – di non credere più in Dio. Tentai ancora di convincerla a venire con me, ma inutilmente. Le ribadii che nessuna altra scelta poteva operarsi di fronte ad un amore, vissuto all’apice dell’intensità delle pulsazioni spirituali e fisiche. Nel bene e nel male, il sentimento tra due esseri che si amavano, come noi due, poteva essere ucciso solo da un tornado devastante, ma non dal soffiare di un vento, anche se impetuoso. Cosa era accaduto in lei? Aggressioni morali continue, ricatti, minacce, divieti nella libertà di movimento o – ma è forviante il pensiero da parte di un essere culturalmente evoluto - pozioni drogate? Non potei mai saperlo. Né alcuna giustificazione, tra quelle passate al vaglio, mi sembrò mai plausibile. Alla fine, la maledissi ma mi pentii di averla maledetta e la perdonai; ritornai a maledirla dopo pochi giorni per l’immensità del dolore che aveva procurato, non solo a me, ma anche a se stessa. Infatti, in un estremo atto disperato, Giulia mi scrisse per dirmi di essere giunta al limite della sopportazione della convivenza familiare, tant’è che aveva deciso di andarsene lontano da casa; soggiunse che non mi avrebbe rivisto mai più e chiuse la lettera affermando di odiare la vita ed i suoi affetti più prossimi. Mi confessò di avermi tradito con colui il quale le chiedeva di sposarlo! Rimasi pietrificato ed a quel punto capii che era in corso il dispiegarsi di una tempesta di sentimenti o forse di una tragedia: la disperazione aveva invaso la mente di quella donna. In un estremo tentativo di salvarla, mi rivolsi ad un detective privato per farla cercare, con una scusa, a casa sua e consegnarle un messaggio perché ella non andava più al “fermo posta” a ritirare le mie lettere. Non la trovò ed invitai quell’investigatore di appostarsi per un paio di giorni all’angolo della strada dove abitava. Di Giulia, però, non c’era più traccia. Dal comune amico Antonio, venni informato – forse nel tentativo di lenire il mio tormento – di alcuni fatti che riguardavano il comportamento dell’agnellino ingenuo, che io aveva creduto di possedere interamente e per primo. E seppi di ambigui comportamenti che Giulia usava attivare nell’intrecciare volubili rapporti amorosi ora con l’uno ora con l’altro dei suoi spasimanti. A quel punto, mi chiesi: prima che ci investisse la tempesta, lei fu mai sincera con me dicendomi di amarmi intensamente? Oppure, la sua, fu una profonda infatuazione, che la portava ad una forte attrazione fisica sino a desiderare il rapporto sessuale per un mero soddisfacimento dei sensi e non, invece, per la simbiosi col puro sentimento? All’odio, subentrava lentamente un disgusto ed un disprezzo verso quella donna, mentre la memoria, bella, del nostro passato venne uccisa da una sorta di crudeltà mentale, che trasformò la nostra storia in dozzinale rapporto tra amanti. In tutta la triste, amara vicenda rimase, però, in me qualcosa di veramente spirituale: la mia ritrovata fede in Dio. Quella fede, che fa riflettere sull’ineluttabilità della via già tracciata, la quale, quando Iddio la indica, con ogni mezzo la fa percorrere. La catarsi di un ateo spesse volte passa attraverso il dolore per il consolidamento di un legame tra l’ ”agnello smarrito”, che ritorna all’ovile, e Dio. Per un intero anno, non riuscii a dare un senso alla mia vita. Dopo la cocente delusione subita, che seguiva a quell’altro dolore della perdita della donna, che dieci anni prima mi aveva dato un figlio, decisi di affidare quest’ultimo all’unica mia sorella sposata, Lucia, e andai via dalla Sicilia. Girovagai per l’Italia e, conoscendo l’inglese e francese, visitai alcune città europee. Rientrato in Sicilia, a Roccalunga, seppi che Giulia era stata ricoverata in un ospedale psichiatrico. La sua ragione non aveva retto… Una lettera col sigillo della Real Casa di Borbone mi attendeva: il Ministro della Guerra mi comunicava che un’operazione di pirateria s’era abbattuta sul Regno delle Due Sicilie attraverso l’occupazione della mia isola. Uomini armati, in spregio alle più elementari norme del diritto e con l’intenzione di abbattere un’istituzione di uno Stato sovrano, erano sbarcati a Marsala e marciavano verso Palermo. La missiva si concludeva invitandomi a rientrare in servizio al comando di una nave militare per intercettare i vascelli che, dal Nord d’Italia, trasportavano uomini per rafforzare le truppe d’invasione, guidate dal generale Garibaldi, che avrebbero dovuto cacciare l’esercito regolare borbonico. Avevo saputo che la Real Marina si stava disgregando e che i grandi proprietari terrieri armavano i propri uomini per dare man forte all’insurrezione nella speranza di conservare i privilegi, che i Borbone avevano loro concessi. Successivamente, avevo appreso anche che il “dittatore” Garibaldi, insediatosi a Palermo, aveva sciolto il gruppo dei”picciotti” e denominato Esercito Meridionale la compagine di uomini armati che lo seguivano. Man mano che occupava il territorio siciliano, con la qualifica attribuitasi di Dittatore, aveva imposto la ferma militare obbligatoria per sette anni e disatteso le speranze dei contadini siciliani che chiedevano la ripartizione, tra loro, e la conseguente assegnazione delle terre dei latifondisti; inoltre, aveva imposto nuovi balzelli e “requisito” il denaro depositato presso il Banco delle Due Sicilie. Le proteste venivano respinte mentre le rivolte, come quelle di Bronte, Biancavilla e Siracusa, erano state soffocate nel sangue: oltre settecento siciliani - contadini, braccianti, borghesi, preti, campieri e le loro famiglie – furono orribilmente massacrati attraverso la fucilazione di massa. Nino Bixio, nel proclama indirizzato ai rivoltosi di Bronte, scrisse: “Con noi poche parole; o voi rimanete tranquilli o noi, in nome della giustizia e della patria nostra, vi distruggiamo come nemici dell’umanità” Chiaro invito, da parte del sorgente Stato italiano, verso i ricercati traguardi di democrazia e di libertà! Da allora, cominciarono ad organizzarsi bande armate, la mafia si insinuò nella nuova realtà politica siciliana. Eppure, venne affermato da stranieri che visitarono le contrade del regno che i Borbone ebbero “il merito di rendere le strade della Sicilia sicure come quelle del Nord Europa”. Fui tentato di accogliere l’invito del Ministro della Guerra, ma preferii invece inoltrare richiesta di dimissione dai ranghi della Marina Militare. Scrissi, invece, all’aiutante di campo del Re una lettera con la quale, nel pregarlo di ribadire a Sua Maestà la mia fedeltà e di comunicarGli la mia decisione di dimettermi dal servizio militare, chiedevo di essere messo in contatto con il comandante, nella Sicilia orientale, dell’esercito per potere essere utile in qualche modo. La risposta non tardò a venire. Mi fu inviata una credenziale per il generale Beneventano del Bosco. Egli era uno dei più valorosi ufficiali dell’esercito reale. Dopo avere sconfitto l’esercito borbonico, a Milazzo, i garibaldini erano attesi a Messina. Presso la cui Cittadella mi presentai chiedendo di essere messo a rapporto con il generale del Bosco. Egli aveva fama di battersi in prima linea incitando i suoi uomini a combattere valorosamente malgrado il micidiale sole estivo siciliano. Esauriti i convenevoli, l’alto ufficiale borbonico, avendo letto il mio stato di servizio, mi chiese se mi sentivo di assolvere ad un incarico rischioso. Da parte dei “servizi segreti borbonici” gli era stato riferito che a Punta Faro, vicino Messina, si stava concentrando l’artiglieria garibaldina. Che doveva essere utilizzata come copertura alle navi che avrebbero traghettato, dalla Sicilia al Continente, le “camicie rosse” ed i volontari del savoiardo Barone di Cavour per proseguire la loro marcia verso Napoli; la capitale del regno, infatti, doveva essere occupata per cacciare il Re ed il governo meridionale. I cannoni piemontesi, quindi, avrebbero dovuto bombardare le navi della Marina borbonica, che pattugliava lo Stretto di Messina. A seguito del mio assenso, il comandante Beneventano del Bosco mi comunicò che era sua intenzione organizzare un atto di sabotaggio nei confronti dei reparti dell’artiglieria nemica. Mi manifestò, indi, l’intenzione di volere affidare a me la missione con il supporto di una squadra di artificieri, scelti tra gli uomini più coraggiosi. Avrebbe voluto guidare personalmente l’azione “dinamitarda”, ma gli era stato proibito dal comandante in capo della piazzaforte di Messina. Accettai l’incarico. Mi vennero presentati i dieci uomini che avrebbero formato il gruppo dei sabotatori: quella notte stessa bisognava far saltare in aria l’artiglieria nemica con relative munizioni. Era urgente, pertanto, stendere i piani di intervento e di ritirata, nonché discutere i dettagli tecnici . Con il buio serale ci attendevano, all’uscita della fortezza, le cavalcature assieme al carro con la polvere pirica e la miccia. Nei pressi di Punta Faro, ci appostammo dentro la villa di un patrizio fedele ai Borbone, a poche centinaia di metri dall’attendamento garibaldino, ed attendemmo la mezzanotte. Fu necessario eliminare fisicamente alcune sentinelle, ma in tre ore di lavoro, l’intervallo di un cambio della guardia, riuscimmo a piazzare bombe, innanzitutto, al deposito delle munizioni ed a parecchi pezzi di artiglieria. Al mio segnale convenuto, vennero accese le micce: si scatenò l’inferno. La gran parte dei cannoni divennero inservibili. L’allarme diede la stura al fuoco dei fucili e di pistole d’ordinanza. Iniziammo la ritirata, ma alcune fucilate colpirono due miei compagni: ce li caricammo sulle spalle per portarli in salvo. Giunti alla villa, non potemmo che constatare il loro decesso avvenuto durante il tragitto poiché entrambi erano stati colpiti mortalmente. Nei pochi giorni che seguirono, mi furono affidate altre azioni, tra cui quella di far saltare in aria un vascello pronto per il traghettamento dei garibaldini all’altra sponda dello Stretto. Constatai nel contempo che non aveva senso inseguirli poiché i soldati del regio esercito non erano nelle condizioni di sbarrare loro il passo: in preda allo sconforto, chiesi al generale Del Bosco di lasciarmi libero da altri impegni militari. Non ero più, peraltro, un ufficiale in servizio della Real Marina Borbonica, ma un semplice siciliano. Il valoroso generale volle conoscere il motivo di questa mia decisione repentina. Poiché avevo stima dell’uomo, gli confidai il mio stato d’animo di quel periodo. Mi comprese e mi lasciò libero con un salvacondotto redatto su carta con lo stemma reale borbonico e firmato dal comandante delle truppe asserragliate a Messina Mi recai a casa di mia sorella per salutarla e raccomandarle mio figlio, che abbracciai, ed al quale feci le raccomandazioni di circostanza avendogli comunicato che intendevo partire per un lungo viaggio all’estero. Chiesi asilo politico al comandante di una nave militare francese, alla rada nel porto di Messina, e, dopo una settimana, venni sbarcato, dietro mia richiesta, a Marsiglia. Ero stato, nella Real Marina del regno delle Due Sicilie, il pari grado di un colonnello. Se fossi rimasto in servizio nella nuova Marina Militare Italiana, probabilmente avrei raggiunto i più alti gradi dell’ammiragliato. Preferii, invece, restare fedele al mio re ed alla patria nella quale la mia famiglia aveva servito: la Sicilia, un regno del Regno delle Due Sicilie. Decisi di arruolarmi nella Legione Straniera quale semplice soldato, vestendo un kepi nero, una marsina blu e pantaloni cremisi. Uscendo nel deserto, appresi le insidie della guerriglia, la strategia usata dal nemico. Imboscate ed incursioni venivano accompagnate da manovre di sganciamento, la cui caratteristica era la rapidità di esecuzione. Prima di dar corso all’ennesima svolta della mia esistenza, distrussi le lettere che Giulia mi aveva inviate e le scrissi l’ultima, dal titolo: Lettera d’amore ad una omicida. “Mia dolcezza, oggi ricorre il tuo compleanno, ma il mio augurio non ti raggiungerà perché questa lettera non sarà mai spedita. Essa, a distanza di tanto tempo, è la testimonianza della lealtà dei miei sentimenti, profondi e sinceri. Che tu dicevi di contraccambiare, ma che pur tuttavia hai deciso di sopprimere. E’ possibile, mi sono chiesto, che in uno stesso individuo possa coesistere l’aspetto angelico e, nel contempo, quello demoniaco? La bontà, la serenità del pensiero, l’altruismo possono essere cancellati dall’egoismo, dalla irrazionalità, dalla crudeltà? Non ho potuto né dare una logica spiegazione al tuo repentino cambiamento, né saperne, da te, il motivo. C’era un legame spirituale, oltre che fisico, che ci univa nella maniera, che mi era sembrata, indissolubile; esso era stato voluto da Dio e tu ne conoscevi la finalità. C’era tutto quanto un uomo ed una donna possano desiderare perché l’amore li potesse unire sino alla fine dei loro giorni, ammesso che essi finiscano con la morte. Sei entrata nella mia vita con la levità di una piuma, mi hai trasportato sulle nubi dei sogni più belli, ne sei uscita come l’aspide di Cleopatra. Cosa augurare ad una omicida dell’amore? Potrò mai odiarti ricordando quanto ci siamo amati? Addio, donna; adesso sei un numero della mia “collezione privata” Finita la lettura, l’uomo continuò col dire: Nella cassetta dei suoi effetti personali, in una custodia impermeabile, trovarono, vergata a mano in cento fogli, la sua storia, questa, con Giulia e due fotografie: quella di suo figlio e della donna, che odiava, ma che, invero, inconsciamente amava ancora. Il comando della Legione Straniera in Algeria spedì il tutto a suo figlio assieme ad una medaglia d’oro al valore militare alla memoria del legionario. Che, alcuni anni addietro, era stato il capitano di vascello Massimiliano Montemylè, Barone di Mangalavite. “… per aver compiuto atti di eroismo consentendo ai suoi camerati di mettersi in salvo in occasione di un servizio di pattugliamento, durante il quale fu tesa un’imboscata dai ribelli; dopo aver fatto in modo che i suoi compagni si mettessero al riparo mentre egli li copriva con le armi in suo possesso, esaurite le munizioni del fucile e del revolver, in un corpo a corpo abbatté con il suo pugnale alcuni guerriglieri. Ne venne, però, sopraffatto da altri, sopravvenuti più numerosi, che lo uccisero con numerose pugnalate. Inoltre, in altri accesi conflitti a fuoco contro alcune bande armate, dedite a rapine e saccheggi, dimostrò coraggio e senso della solidarietà di corpo soccorrendo i suoi commilitoni in pericolo e salvando la vita ad altri legionari feriti negli scontri. Era divenuto un mito tra i legionari ed era odiato dai nemici, che cercavano di ucciderlo attentando alla sua vita anche quando il suo battaglione era acquartierato. Algeri, 28 luglio 1867. Il Comandante del Reggimento firmato: illeggibile” Volgeva al tramonto il 28 giugno del 1867: Massimiliano Montemylè cadeva sotto i colpi di cinquanta pugnali arabi, in un fortilizio ai margini del deserto del Sahara. All’incirca alla stessa ora di tre anni prima, Giulia gli donava la sua verginità. “Noi eravamo nel fortino, i guerriglieri, fuori, a cavallo, riescono a penetravi dopo aver sfondata la porta con un barile di polvere da sparo. Esauriti i proiettili, Massimiliano si scaglia contro i musulmani e comincia a menare colpi col calcio del fucile; glielo strapparono, ma egli ingaggia un corpo a corpo facendo lavorare il pugnale. Fu sopraffatto dai numeri”. Questa notizia venne data al figlio ed alla sorella del barone, dal suo amico e compagno d’arme, Ivan, al quale Massimiliano aveva raccontata la propria storia con Giulia. Il legionario, sopravvissuto grazie al coraggio di Montemylè, congedatosi dalla Legione Straniera, giunse appositamente in Sicilia dalla Lombardia, per conoscere i congiunti del suo amico e per farli partecipi delle gesta compiute da Massimiliano. Il 28 giugno di ogni anno, per volere di Ivan, che voleva tenere viva la fiamma del ringraziamento per avergli salvato la vita, una rosa rossa veniva deposta dinanzi la stele di Massimiliano, nella cappella di famiglia. Il suo corpo, però, era sepolto nel deserto. Alla fine della lettura, con vera commozione, l’uditorio applaudì. Si concessero un intervallo gustando qualche biscotto accompagnato da un rosolio. Il Marchese Dellosso Lanzetti si sentì in dovere di intervenire e diede la stura, quindi, alla sua erudizione raccontando la storia del territorio e soffermandosi, indi, sulle gesta dei suoi antenati: “Dopo la distruzione, sui monti intorno, di un’antica città bizantina ad opera dei Saraceni, la popolazione scampata all’eccidio avrebbero fondato, nel tempo, il centro abitato di Castel Lungo. Carlo d’Angiò, subentrato agli Svevi, nella riorganizzazione territoriale ed amministrativa della Sicilia, trasformò il dominio di Castel Lungo in feudo. Nelle alterne vicende, che videro il succedersi di feudatari, il primo Signore del luogo prese possesso delle terre e dei casali con un editto dell’Imperatore Federico II. I feudatari di Castel Lungo, negli anni, trasformarono il casale in castello feudale. Era, quindi, una fortezza costruita per la difesa e l’avvistamento, tant’è che le sue mura, nella parte più antica, superano i due metri e mezzo di spessore. Allora, era isolata, libera da case attorno, essendo appunto un fortilizio. Era attrezzata con locali sotterranei, destinati alle carceri baronali. Solo successivamente divenne casa nobiliare: vennero costruiti saloni affrescati, si acquistarono arredi sontuosi, sino a divenire un “palazzone” residenziale . Il regime feudale fu instaurato dai Normanni. Il Barone , in tempo di guerra, forniva al Re il “frodo” – frumento, orzo, montoni, porci, vacche e vino - per vettovagliare l’esercito. Ma, attraverso l’ ”adoa”, il servizio militare poteva essere convertito in denaro. Si faceva altresì l’obbligo – angariae - agli abitanti di prestare la loro opera per costruire e riparare le fortezze e le muraglie. I militi in servizio per la Guardia Nazionale erano sette, mentre, per la mobilitazione, il paese doveva essere presente con sessanta soldati più sessanta di riserva: in pratica, una mini-compagnia militare formata da tutti gli uomini abili. Presso l’ospizio basiliano, i monaci offrivano ospitalità e praticavano l’assistenza agli infermi. Altra bellissima usanza era quella di coprire gli sposi, sui gradini dell’altare, per sottrarli allo sguardo della folla, con un velo di seta bianca, detto “pallium”, quale segno di castità. Questo, allora! Se poi gli sposi volevano avere benedetto l’anello nunziale, dal Vescovo, dovevano pagare un tarì. Il Consiglio comunale era formato da cinque persone ed era presieduto dal parroco, che lo convocava presso la Chiesa Madre. L’Universitas – l’antico Comune – era affidata per la sua gestione ad un baiulo nominato dal barone; i suoi compiti erano quelli dell’esercizio dei poteri di giustizia e di amministrazione ed era coadiuvato da un giudice e da un maestro notaro. “Homines jurati” era il loro appellativo ed insieme formavano la corte baiulare . Dal Re Federico III, nel 1324, vennero sanciti i loro compiti: “spendere per comune utilità gli introiti, mettere le mete alle cose venali, sorvegliare i pesi e le misure dei venditori, impedire che si fabbricasse in luogo comunale, riunirsi ogni venerdì per esaminare e decidere sugli affari dell’Universitas……, far nettare la città, provvedere agli edifici che minacciavano rovina, conoscere e decidere controversie sulle gabelle comunali, sulle siepi, confini e divisioni delle vigne, delle case e di altri possessioni”. (Allora, come oggi? N.d.a) La “domus iuratorum”, realizzata molto tardi, custodiva le scritture; prima, venivano depositate nell’archivio della Matrice. In entrambi i casi, si perse tutto: per incuria, per strafottenza e per ignoranza delle “necessità storiche e culturali”. Per le cause civili e per i crimini il potere era in mano ai baroni, i quali esercitavano anche la “gladii potestas”, che consentiva loro di elevare “furcas et perticas”; ancor oggi, il relativo sito viene rammentato come Piano della Forca. Esistevano tre Monti frumentari, la cui funzione era quella di limitare i disagi dei consumatori nell’acquisto del grano. Questo cereale veniva comprato quando il prezzo era meno caro, indi immagazzinato e distribuito ai contadini per la semina. Costoro lo restituivano al Monte con un modico interesse – misura colma anziché rasa – per sopperire alle spese dello stabilimento. Erano stati fondati due istituti: l’uno per la distribuzione del pane ai poveri e l’altro per l’istruzione degli uomini (sic!): probabilmente, la cultura somministrata si fermava nel sapere leggere e scrivere. Infatti, sino a qualche secolo addietro, molti non conoscevano i rudimenti di un’istruzione scolastica. Le donne del XVII secolo e di quelli precedenti dovevano rimanere …”ignoranti”…! (Benvenuta civiltà! N d a) Quando il barone passava “a miglior vita”, si formava un corteo che dal Castello si recava, per nove giorni consecutivi, in chiesa per partecipare alla messa in suffragio del defunto. Per siffatta cerimonia, i cittadini che partecipavano al corteo ricevevano le vesti da lutto dalla cassa del Comune o da quella del nobile defunto. Tutti gli uomini, ad eccezione dei pubblici ufficiali e degli ecclesiastici, traevano la loro qualifica dal terreno posseduto o coltivato: “burgenses” – abitanti dei borghi – erano i proprietari di terreni , mentre i villani che coltivano la terra ed i servi facevano parte di un elenco denominato “platiatavole”. L’industria, rappresentata dalla lavorazione della canapa e del lino tramite appositi telai, era concentrata nella corte feudale, nelle abbazie, nelle masserie e nelle case dei borghesi e vi lavoravano i servi per conto del domino. Il villano che lavorava a giornata era indicato col termine “affannaturi”. Non occorrono spiegazioni! I forni per la vendita del pane al pubblico erano di proprietà baronale così come i mulini e le neviere; questi ultimi “opifici” venivano dati anche in affitto. Questo era stato il territorio feudale prima dell’attuale periodo”. Proseguendo nella sua narrazione: < La casata dei Dellosso Lanzetti era tra le più potenti e ricche famiglie della Sicilia godendo del prestigio di essere discendente da un fratello di Bianca Lancia, ultima moglie dell’Imperatore Federico II di Svevia, Re di Sicilia e di Gerusalemme, Re dei Romani, detto “Stupor Mundi”. Durante la lunga dominazione spagnola, vi furono rivolte, carestie e venne istituito il tribunale dell’Inquisizione, ma, a Castel Lungo, grazie alla munificenza ed alla magnificenza dei Baroni, miei antenati, si ebbe un fiorire nelle arti, nella pittura e nell’architettura: le chiese, le statue ed i dipinti sacri vennero realizzati da quei Signori; la costruzione della chiesa Madre viene fatta risalire alla fine del 1300. < Quando il maniero di Castel Lungo di origine araba venne assimilato ai marchesi Dellosso Lanzetti, - proseguì il nobile - essi edificarono, accanto ad un’ala del castello, una chiesetta dedicata a S. Caterina di Alessandria. Era, questa giovane donna, una principessa egiziana, martirizzata dall’imperatore romano nel 310 d.C. Si racconta che il suo corpo sia stato trasportato sul monte Sinai, laddove fu costruito un monastero, a Lei dedicato, appartenente ai monaci della Chiesa Greco-Ortodossa. La Sua iconicità nacque, quindi, come emanazione bizantina. Ma la Sua devozione si espanse, nel Medioevo, dall’oriente cristiano all’occidente. In parecchi centri e dimore patrizie Le vennero dedicati luoghi di culto e chiesette, mentre gli artisti, tra i quali Raffaello Sanzio e Caravaggio, dipinsero la Sua immagine raffigurante la novella del Suo martirio. Caterina di Alessandria era un fanciulla di notevole intelletto, di chiara bellezza e di intemerata grazia; veniva invocata dagli ammalati e dalle ragazze in attesa di matrimonio; era considerata Patrona dei mugnai, degli artigiani, delle sarte, nonché dei filosofi. Essa li rappresentava in quanto, tra l’altro, aveva chiesto a Dio di concedere, a chi si sarebbe ricordato di Lei, l’abbondanza del pane e del vino, la salute del corpo, il servizio degli animali, l’assenza di carestie nella città e nel paese, nonché il Paradiso per coloro che l’avessero invocata nell’ora della loro morte. E’, quindi, comprensibile il motivo per cui la venerazione della Martire Caterina, in quel periodo gramo, si sia divulgata nell’emisfero cristiano, compresi i territori della baronea dei Dellosso Lanzetti. Parlando della santa, in riferimento alle attribuzioni per le quali era invocata, anche come Patrona, Essa ha continuato a vivere tra la gente del luogo, pure se con qualche categoria di fedeli in meno, non più esistente tra gli artigiani del luogo. Come cronaca pettegola, - concluse il Dellosso Lanzetti- so che un antenato fece ipotecare, nel 1403, terra e castello per potere dotare la figlia, mentre ad un Manfredi , nel 1345, re Ludovico aveva dato in dono il feudo di Bronte, che comprendeva il Castello di Maniace (o meglio, l’Abbazia di S. Maria di Maniace). Gli annali della mia famiglia scrivono che i Dellosso perdettero castello e feudo perché uno di loro – forse Manfredi stesso - se li giocò a carte. Il feudo di Bronte, com’è noto, da Ferdinando di Borbone, alcuni secoli dopo, verrà regalato all’ammiraglio inglese Orazio Nelson per l’aiuto che egli diede al Re delle due Sicilie, in occasione della Rivoluzione Napoletana contro il monarca. La tenuta divenne l’immensa Ducea di Nelson, confinante con le terre di Barillà.> Ed infine: La memoria orale racconta che il territorio, in un ceto periodo, era infestato dai banditi, i quali, provenendo dall’interno del feudo, appena apparivano in vista del paese, suonavano il corno per avvisare i cittadini della loro presenza ed indurli, quindi, a rintanarsi nelle loro case per non essere visti nelle loro scorrerie e ruberie. Si parla di un’agghiacciante tragedia avvenuta ai danni della coppia dei proprietari del castello per opera di una banda di predoni: il barone fu denudato e cosparso di lardo incandescente ed olio caldo, mentre la baronessa ebbe le mammelle tranciate dal pesante coperchio di una enorme cassapanca. Morirono tra stenti indicibili. Per vendetta? Atto di killeraggio, visto che si parla di cassapanca, dove si conservava il grano, per mancato pagamento del pizzo? La storia locale parla di una vendetta da parte di un uomo, cui i conti uccisero l’innocente figliolo, al servizio dei signori. Il duplice omicidio, dalla cronaca corrente, venne attribuito al feroce bandito Testalonga, che mozzava le orecchie e il naso alle sue vittime, che si diede alla macchia vivendo di estorsioni, di furti di mandrie e che applicava la legge del taglione: ricatti e sequestri furono le sue armi più usate per colpire potenti e ricchi commercianti. C’è da dire che il Castello venne abbandonato a cavallo tra il XVI ed il XVII secolo. Probabilmente per questa tragedia. Tornò ad essere abitato verso la fine del millesettecento. Per dovere di cronaca, Antonio Di Blasi, detto il Testalonga, catturato dal principe Giuseppe Lanza di Trabia, incaricato dal re quale comandante dell’esercito appositamente approntato, ebbe mozzata la testa senza che abbia avuto il tempo di confessare in un pubblico giudizio i nomi dei suoi protettori, che il Lanza peraltro conosceva. Egli buttò l’acqua sporca e salvò il bambino. Che, cresciuto, si fece mafia. Anche questa volta, nutriti applausi accompagnarono la fine del racconto. Ma il marchese proseguì: A distanza di qualche secolo, un’altra tragedia ebbe ad investire il castello. La cameriera dell’allora duchessa, di nome Giulia, si suicidò buttandosi nella cisterna dalla quale, nel cortile, si attingeva l’acqua. Il suo corpo non potè essere estratto il quanto il pozzo era molto profondo e si preferì murarne l’ingresso. Si racconta che Giulia si sia innamorata di un giovane,non si sa se nobile o plebeo, che la mise incinta, e che, negando il fatto, si rifiutò di sposarla. Per la vergogna e la disperazione, la giovane preferì darsi la morte. E lei, Sindaco, cosa ci racconta quando venne chiamato al fronte, durante la guerra mondiale? “Ero un ufficiale in congedo della fanteria – iniziò il suo racconto Angelo D’Abrera - quando, allo scoppio della prima guerra mondiale, venni richiamato alle armi. Inviato al fronte col grado di capitano, chiesi di far parte del corpo degli Arditi. Essi erano famosi per la loro temerarietà ed erano equipaggiati con fucile, pugnale e bombe a mano. Dopo un periodo di addestramento venni destinato ad una compagnia formata da duecento uomini; una daga romana attorniata da fronde di quercia e d'alloro, con il motto sabaudo Fert, era il nostro distintivo . Erano compiti degli Arditi le imprese più audaci per aprire, tra l’altro, la strada alle truppe ordinarie; le terrificanti bombarde vomitavano quintali di esplosivo per aprire il varco nei reticolati e per rendere inoffensivi i nidi di mitragliatrice, ma spesso capitava che bisognava farsi strada, dopo il fuori dalla nostra trinca al grido di “Savoia”, strisciando sul terreno a zig zag, sotto l’imperversare delle mitragliatrici nemiche, procurarsi un varco tra il filo spinato e piombare nella trincea avversaria con il pugnale tra i denti, dopo un lancio di bombe a mano. Molto spesso, si arrivava al corpo al corpo e si aveva la meglio se si riusciva a piazzare il pugnale nel corpo del nemico. Io stesso fui costretto ad uccidere giovani vite austriache. Parecchi erano coloro che, tra i nemici, si arrendevano e venivano fatti prigionieri. Gli assalti, spesso, erano preceduti da perlustrazioni notturne. Una pattuglia di pochi uomini usciva in silenzio e strisciando per terra si portava sotto le trincee austriache; aggrediva alle spalle col pugnale le sentinelle e si rendeva conto del dislocamento e delle trincee nemiche per poi riferirne al comando, il quale preparava con un piano ben preciso il prossimo assalto. Ebbi l’onore di guidare un paio di volte quelle pattuglie e , poiché precedevo il gruppo, fui il primo ad affondare il pugnale nel costato della sentinella tappandogli la bocca: eravamo bene addestrati in questo genere di contatto ravvicinato e mai venne dato l’allarme per un nostro intempestivo atto o errore. Ci si lanciava in duecento fuori dalle trincee, ma spesso ci si tornava in cinquanta. Il nostro battaglione di seicento uomini subì parecchie perdite , ma le unità venivano rimpiazzate dalle giovani leve. Io fui tra i più fortunati avendo riportato solo qualche ferita. Sulle mie spalle ho le battaglie del Carso e del Trentino e partecipai alla battaglia finale sul Piave. Conservo ancora nel mio portafogli il pezzo scritto da un corrispondente di guerra. Eccolo: “Alle ore 21,55 comincia improvviso e subitamente tempestoso il tiro delle nostre artiglierie e delle nostre bombarde contro la prima linea per rompere i reticolati. Tre minuti dopo, la prima ondata di arditi esce dalle nostre linee di Casa Bressanin, strisciando curvi fra i reticolati sotto il fuoco. Questa prima ondata è su cinque colonne di pochi uomini: hanno il fazzoletto bianco al braccio per distinguersi nel buio. Due minuti dopo si stacca la seconda ondata. Sono duecentocinquanta arditi fra tutti. Di rincalzo stanno pronti nelle nostre linee reparti di bersaglieri. La prima trincea che si stacca dal Piave Vecchio è appena a nove metri dalla nostra. I due reticolati si confondono. Qui la vicinanza rende impossibile l'uso delle bombarde. Per aprire i varchi entra in funzione un drappello di lanciafiamme. I lunghissimi mordenti guizzi delle vampate si avventano contro la trincea, mentre più a sud gli arditi dell'ala destra si slanciano di volata sui cinquanta metri di terreno che in quel punto separano la nostra linea da quella avversaria. Al quinto minuto gli arditi della prima ondata hanno già scavalcato la prima trincea supplementare, attraverso i reticolati rotti, e si sono impadroniti delle prime poche vedette. La loro azione è così fulminea e così ben concordata con l'artiglieria, che arrivano sulla trincea quando ancora il terreno è sconvolto dalle ultime bombe. Ricevono sulla persona zaffate di terriccio. Subito le artiglierie allungano gradualmente il tiro. Con bombe a mano, con lanciafiamme, con pistole mitragliatrici, gli arditi irrompono nella trincea, urlando il loro grido di guerra e la loro parola di riconoscimento che stavolta è Roma. Li guida un giovane maggiore toscano. Tutti gli ufficiali sono alla testa dei loro reparti. L'assalto procede fulmineo, regolato minuto per minuto come una gara sportiva. Nove minuti precisi dopo il principio dell'azione anche la seconda linea è conquistata. Si fa il primo centinaio di prigionieri si prendono tre mitragliatrici. Un bottino presto destinato a diventare più consistente". Alla fine della guerra venni congedato col grado di maggiore ed una medaglia di bronzo. Portai a casa il pugnale e la pistola d’ordinanza in dotazione agli ufficiali”.  Signor Sindaco, cosa si prova nell’uccidere un uomo? – gli chiese Angela  In quel momento non si pensa a niente se non a sopravvivere. – le rispose il farmacista- E’ la guerra, mia cara baronessina  Dopo, non si vive di rimorsi? - incalzò la donna- Restano nell’animo le atrocità delle scene a cui si è dovuto partecipare?  Per quanto mi riguarda, nessun rimorso perché occorre vincere sull’avversario in qualsiasi modo: cruento o meno. - replicò Don Angelo – Certamente, gli scenari bellici rimangono per sempre nella mente del soldato, ma occorre farsene una ragione in quanto la guerra è morte, dolore ed il segno delle ferite rimane per sempre. L’indomani, partiti gli ospiti, Don Averardo, dopo la siesta pomeridiana, assieme alla moglie riferì ad Angela il messaggio del Marchese Dellosso Lanzetti indorando la proposta di fidanzamento: << il marchesino Roberto è un giovane di bell’aspetto, di alto lignaggio e con titoli nobiliari che risalgono ad alcuni secoli addietro, e , poi, è ricchissimo e, aspetto ancor più importante, è senza fratelli né sorelle >>  Padre, accettando il fidanzamento – rispose la giovane - e, quindi, da sposata, dovrei trasferirmi al paese andando ad abitare con i suoi genitori, presso il loro castello; dovrei, quindi, rinunciare alle amicizie ed alle feste dei nobili palermitani. Sinceramente non mi sento di cambiare radicalmente la mia vita.  Angela, noi non navighiamo nell’oro, come si suol dire, - replicò il barone - il nostro sostegno economico proviene da queste terre, da quello che riusciamo a produrre. Un giorno, tutto ciò sarà tuo; aggiungendo questo feudo a quelli del Marchese, che sono tre o quattro, potrete costruire la base di una grande ricchezza.  Potrei accettare di sposarmi con Roberto se egli sarà disposto a trascorrer tra queste montagne soltanto i mesi più caldi, ad esclusione quindi di quelli invernali. Ma, in questo momento, non mi sento di dare una risposta definitiva per un fidanzamento ufficiale. Ci voglio pensare sopra - soggiunse la donna.  E’ ragionevole quanto tu dici, Angela- esclamò Donna Matilde. Continuarono la conversazione parlando di questo nuovo avvenimento, sul probabile futuro fidanzamento e la nuova vita che la Baronessina avrebbe dovuto affrontare una volta divenuta Marchesa Angela Dellosso Lanzetti e Baronessa di Castel Lungo. Don Averardo inforcò l’occhialino, mise mano a carta, penna e calamaio per comunicare al Marchese Pietro che la figlia era onorata della richiesta di fidanzamento col suo figliolo, il Marchesino Roberto, e che essa voleva avere un po’ di tempo per riflettere. Il giorno appresso, la missiva era nelle mani di Don Pietro Dellosso Lanzetti. La Baronessa Montemylè, donna Matilde, come tutte le donne siciliane timorate, innamorata da sempre del marito, era piena di attenzioni verso il suo uomo. Il rito quotidiano cominciava sin dal mattino: cambiava giornalmente e metteva sul letto gli indumenti intimi, si premurava affinché facesse la doccia e la rasatura del viso, ad esclusione dei baffi, e preparava con le sue mani la colazione su una tavola che ella stessa imbandiva ed attorno alla quale genitori e figlia iniziavano la giornata dopo la recita della preghiera. Dopo che il Barone congedava le sue donne, Donna Matilde passava in cucina per dare le disposizioni relativamente ai pasti del dì, osservando le tradizioni culinarie siciliane. Ogni fine pasto, la nobildonna chiedeva al marito se il desinare era stato piacevole; gli concedeva un bicchiere del vino della sua terra e, solo nei giorni festivi, il pranzo era allietato dal dolce tipico, cannolo o cassata siciliana, accompagnato da un buon amaro locale. Il Barone ricambiava le sue attenzioni concedendole di frequente i piaceri del letto, i quali però non vollero saperne di accrescere la prole, soprattutto attraverso un maschio, al quale l’uomo teneva per perpetuarne la stirpe. E si dovettero accontentare della bella Angela. Il nobiluomo si concedeva, di tanto in tanto, qualche divagazione sessuale ove si veniva a creare la circostanza. C’era tra i lavoranti delle sue terre, confinata in un casolare isolato, una ragazza bellissima, prosperosa e sensuale, che era arrivata al venticinquesimo anno d’età senza conoscere il palpito del cuore innamorato, né il piacere fisico d’un rapporto sessuale. Isolata dal mondo, non aveva amicizie da frequentare se non i genitori e, di tanto in tanto, i fratelli che lavoravano in altri poderi o in compiti diversi. Tra questi ultimi, Turi Vinicio. Nunziatina- così si chiamava la donna – appena giorno, si alzava da letto ed aiutava la madre nelle faccende domestiche; a metà mattinata raggiungeva il padre e lo collaborava sino all’ora di pranzo; nel pomeriggio, se il tempo lo permetteva, passeggiava tra i sentieri del bosco, talvolta faceva visita alle cugine che abitavano in un altro casolare, distante un paio di chilometri oppure ricamava o rammendava. Il Barone aveva deciso che quel frutto doveva essere colto. Visitando i lavori nei campi, a cavallo, spesso s’intratteneva a parlare con Nunziatina e non mancava di offrirle cioccolatini e caramelle. In effetti, la donna era ammaliata da quell’uomo ancora prestante. Un pomeriggio, le disse che l’indomani mattina voleva andare a caccia nel bosco e le chiese di accompagnarlo per allestire il pranzo nel casino di sosta. La donna accettò ben volentieri. Dai genitori le vennero impartite le solite raccomandazioni di stare allerta in quanto, anche se il padrone, quegli era pur sempre un uomo. La cacciagione andò bene: due pernici ed una lepre era appese al carniére. Molto prima dell’ora di pranzo, don Averardo rientrò dalla battuta, la quale fu oggetto di conversazione.  Nunziatina, tu mi piaci tremendamente e voglio fare l’amore con te>- si azzardò l’uomo.  Signor Barone, pirchì mi dici sti cosi? Iò non sacciu fari nenti. E poi, voscenza è maritatu> ( nda. Signor Barone,perché mi dice queste cose? Io non so fare niente. E poi, vossignoria è maritato)  L’amore non conosce barriere; non c’è niente di male se ci amiamo; nessuno saprà mai niente. Io ti voglio> Nunziatina di rimando: < Pi diri a virità , puru iò sentu qualcosa dintra di mia; mi piacissi abbrazzarivi> (nda. Per dire il vero, anch’io sento qualcosa dentro di me; mi piacerebbe abbraccìarvi). Averardo si avvicinò alla panca dov’era seduta la donna e la sollevò in piedi abbracciandola e, poi, coinvolti entrambi dalla passione, si fecero trascinare dal piacere dei baci. Lentamente si denudarono e si stesero sul giaciglio. Nunziatina ben volentieri gli donò il fiore della sua verginità, anche se la rottura dell’imene le procurò un forte dolore fisico. Nei giorni seguenti, gli incontri furtivi proseguirono nei posti più disparati ma sempre nascosti alla vista di altri. In autunno inoltrato, Nunziatina si trovò con la pancia aumentata di volume. Inutili furono i tentativi di Turi e del padre per sapere chi era stato il donatore dello sperma. La donna non disse mai il nome dell’uomo del quale segretamente era innamorata. Dopo una gravidanza normale, nell’aprile dell’anno successivo, una mammana l’aiutò a portare alla luce una bimba cui venne imposto il nome di Rosa. Il Barone sentì il dovere di provvedere, di nascosto, al mantenimento di quel suo frutto extraconiugale. Ma, secondo l’antico codice d’onore, in vigore in quei tempi, nessun uomo “deve” sposare una ragazza madre e, pertanto, malgrado la sua bellezza, Nunziatina rimase nubile. Venne agosto. Angela amava dipingere: s’era portata dietro una buona scorta di tele e colori. Si spostava spesso in diversi posti della tenuta per ritrarre gli angoli più suggestivi che la natura offriva. L’accompagnava Turi, facendole anche da guida. I laghetti, la cerreta, fiumiciattoli, la faggeta, splendidi agrifogli, i sentieri tra frassini, il rarissimo tasso baccato, capace di vivere per duemila anni, detto anche “albero della morte” per via delle sue foglie velenose, ed aceri furono immortalati sulle tele della giovane artista. Mentre lei dipingeva, l’uomo preparava la colazione con la selvaggina cacciata: lepre o coniglio o quaglie; ed ammirava, ammaliato, il corpo della donna che trasformava, tra l’altro, l’espressione del volto in una suggestione ieratica perché l’oggetto del dipinto si trasferiva nella sua spiritualità. Ella, mentre creava, si estraniava da tutto ciò che la circondava; e Turi controllava affinché nessun animale strisciante potesse arrecarle nocumento.  Vossignoria diventa nautra quannu pitta (vossignoria si trasforma quando dipinge)– si fece sfuggire Turi-. Vossignoria è bedda, ma ‘nta sti momenti diventa ancora cchiù bedda, pari na Madonna (vossignoria è bella, ma in questi momenti diventa ancora più bella, sembra una Madonna).  Grazie, Turiddu, – rispose Angela- ma non è che mi vuoi fare la corte…?, - si fece sfuggire la donna chiamandolo con un vezzeggiativo.  Non mi permettu, signurina Angela, ma saccio distinguiri, quannu mi trovu ‘mprisenza di na donna, s’è bedda o brutta pirchì (non mi permetterei, signorina Angela, ma so distinguere, quando mi trovo in presenza di una donna, se è bella o brutta perchè) – affermò con ingenuità Turi – quannu fici u surdatu quarchi fimmina a canusciu (quando ho fatto il soldato qualche femmina l’ho conosciuta).  E perché non ne hai sposata una? – soggiunse Angela con fare provocatorio.  Pirchì eranu fimmini a pagamentu, m’avi a scusari, buttani insomma, chi vosiru na lira pi starici vinti minuti curcati ‘nsemula (perché erano donne a pagamento, mi deve scusare, puttane insomma, che hanno voluto una lira per starci venti minuti coricati insieme) – rispose arrossendo l’uomo. Ma beddi comu a vossia non n’aiu vistu mai ( ma belle come lei non ne ho mai viste)- e sentì di essersi tolto un groppo che lo bloccava. Un grosso serpente, che Turi affrontò con la “scupetta”(schioppo), interruppe il loro dialogo; ed anche il dipinto. Mentre rientravano alla masseria, Angela disse :  mi piacerebbe salire a Monte Soro.  Un jornu p’acchianari, pittari e turnari non ci basta e non c’è unni dormiri, dda supra ( un giorno per salire, dipingere e tornare non basta e non c’è dove dormire, lassù) – disse Turi, di rimando- A meno che, vossia, non s’accuntenta di quarchi pagghiaru di carbunari ( a meno che lei non si acbaronenta di qualche capanna dei carbonai).  Mi sta bene- acconsentì la donna – vivrò in mezzo alla natura selvaggia per alcuni giorni, senza agi né raffinatezze. Tra i boschi ed il silenzio della montagna. Mi piacerà senz’altro. Il padre di Angela espresse il suo diniego al proponimento della figlia, ma lei era ostinata nelle sue determinazioni ed una ribelle alle convenzioni di vita del suo rango. Nè volle nessuna servitù al seguito ad eccezione del suo cane, Nerone. Ovviamente, genitori e figlia litigarono. Ma Angela fu irremovibile; d'altronde era maggiorenne e sarebbe stato impossibile vietarle il contrario. La donna preparò con Turi l’escursione che doveva durare cinque giorni. Partirono prima che spuntasse il sole, a cavallo, mettendo le provviste, le coperte ed il necessario per dipingere su altre cavalcature. Nei giorni scorsi, Turi le aveva insegnato il modo corretto di cavalcare per cui la donna era divenuta una mezza amazzone. Oltre tutto, aveva abolita la gonna per indossare pantaloni da cavallerizza e stivali per potere montare a cavalcioni sulla sella. In effetti, Angela si ribellava a tutto ciò che la opprimeva e la costringeva a vivere rinunciando ad essere libera nel fare ciò che sentiva giusto potesse essere fatto; e precorreva i tempi senza saperlo. Mentre procedevano tra il canto degli uccelli che si svegliavano al nuovo giorno, Angela sentiva di essere attratta fisicamente da quell’uomo che l’accompagnava; temeva quello che sarebbe potuto accadere, ma era convinta che non avrebbe saputo respingerlo. Però non faceva trapelare alcun segnale di ciò che sensualmente s’agitava dentro di lei. Per allontanare la morbosità –così lo riteneva allora - del pensiero spronò il cavallo al galoppo. Ebbe inizio, quindi, l’avventura verso Monte Soro e verso il destino di entrambi. Fecero colazione presso la riva del lago Biviere ed Angela decise di fare tappa per un giorno. L’acqua del lago in estate si colora di rosso per la fioritura di una microalga. Ed in essa si rispecchia l'imponente mole dell'Etna, da cui affiorano i pesci tipici del lago montano, alimentato dalla sorgente naturale detta “Acqua Fridda”. Meravigliosa visione. Che la pittrice fissò su un paio di tele, assieme ai cespugli di more intrecciatisi con la selvatica rosa canina, che fiancheggiavano l’acqua. Poco distante, pascolavano un branco di suini neri allo stato brado ed una mandria di vacche. Alcuni suini attaccarono la postazione dell’artista, ma il sempre vigile Turi li fermò con una schioppettata. A colazione mangiarono pesce del lago arrostito sulla brace: buonissimo. La notte la vide ospite di una capanna di carbonai nel vicino bosco. I quali, assieme a Turi, si sistemarono in giacigli di paglia e foglie secche attorno al pagliaio. A notte alta, Angela si svegliò ed uscì fuori, all’aria aperta. Uno spettacolo raro, da lei mai ammirato, si offrì alla sua vista. Il cielo era terso ed illuminato da una gioiosa luna piena attorno alla quale si intratteneva la luminosa Via Lattea; Sirio, lassù tra i monti, lontani dal mondo, era di uno splendore unico ed induceva alla illusione di poterlo toccare con una pertica: tanta era la sua lucentezza. Chiome di comete cadenti danzavano nel chiarore dell’oscurità e, guardando la coda luminescente, si aveva la sensazione di udire il grido con cui si staccavano dalla loro genitrice. La civiltà, lì, era lontana migliaia di anni: quello spicchio di mondo s’era fermato al tempo in cui Iddio l’aveva creato. Neanche Turi poteva dormire; si alzò e s’incontrarono in un angolo di una macchia di rovi carichi di more già mature, che raccolse ed offrì alla donna dicendole:  Mancu, vossia , rinesci a dormiri (nemmeno lei riesce a dormire)?  Non ho mai visto niente di simile. E’ uno spettacolo sublime e mi attira lo splendore di Venere, già pronta all’alba - rispose Angela e, nel pronunciare quel nome, sentì il cuore balzare in gola e, nel baronempo, una mano accarezzare i suoi capelli. Era Turi, che aveva saltato l’ostacolo… La nobildonna si girò ed offrì le sue labbra alla voluttà. Un lungo bacio, cui seguì il languido desiderio foriero di altri piaceri. Si distesero sull’erba secca e si abbandonarono all’ardore dei baci seguito da carezze sempre più intime. Quella notte Angela offrì la sua purezza a Venere. Non era amore ma il risveglio dei sensi in una donna che si affacciava alla vita permettendoglielo adesso la sua raggiunta maggiore età; ma era anche il ritorno ad un desiderio a lungo represso da parte di un uomo, prestante ed ancor giovane, che aveva scelto di rinunziare al contatto femminile attraverso una decisione, a lungo travagliata.  Si ricorda quannu vossia sciddicò da sedda e cascò ‘nte me brazza ‘nta cchianata di Funtaneddi ( si rammenta quando lei è scivolata dalla sella e cadde tra le mie braccia nella salita della contrada Fontanelle)? - sussurrò Turi mentre insieme godevano il momento dell’estasi dopo aver fatto l’amore – D’allura, vossia trasiu ‘nte me vini e u me sangu divintava cchiù caudu ogni vota ca ‘ncuntrava. E mi scurdava c’avia decisu di non disidirari nudda fimmina (da allora lei è entrata nelle mie vene ed il mio sangue diventava più caldo ogni qualvolta la incontravo. E mi dimenticavo che avevo deciso di non desiderare nessuna donna).  Turi, anche tu mi sei piaciuto sin da quando le tue braccia mi accolsero nella caduta da cavallo- gli bisbigliò in un orecchio Angela – ma so di già che la nostra strada non ha traguardo alcuno e che arriverà il momento in cui dovremo interrompere questo sogno d’estate. Ma io ti voglio amare, adesso, senza nulla importarmi del dopo. Oggi ho scoperto i piaceri della vita e li voglio godere sino in fondo…  Signurinedda, m’avi a pirdunari pi chiddu chi fici ( signorinella mi deve perdonare per quello che ho fatto)–l’interruppe Turi – ma u profumu du so corpu mi fici perdiri u controllu. Puru iò ci vogghiu tantu beni, non sacciu comu diciriccillu…(ma il profumo del suo corpo mi ha fatto perdere il controllo. Anch’io le voglio tanto bene, non so come dirglielo…)  Turiddu, non devi avere alcun rimorso, l’abbiamo voluto entrambi. E finiscila di chiamarmi con il vossia, siamo amanti e dobbiamo entrare nell’intimità del “tu”- lo redarguì la donna, e proseguì- : mi sembra di vivere la storia di Lady Chatterley, è incredibilmente bello ed avventuroso.  Cu è chista? (chi è costei?) -rispose Turi, adombrandosi.  L’amante di un guardiacaccia, una nobildonna inglese che, ribellandosi alle convenzioni di casta, si diede ad un uomo del popolo e si amarono con voluttà e senza inibizioni, - tentò di spiegare Angela.  …ah!…, e dopo una pausa: ma s’u baruni, to patri, l’avissi a scupriri mi licenzia e iò non sacciu unni iri, ( ma se il barone, tuo padre, lo dovesse scoprire mi licenzierebbe ed io non so dove andare) -soggiunse l’uomo.  Non ti devi preoccupare, non saprà niente, ma se lo dovesse scoprire io gli impedirò di cacciarti via – lo rassicurò la donna.  Comunque, iò aiu rimorsu versu to patri p’un debitu di riconoscenza quannu mi sarvò da galera ammucciannumi ‘nte so casi du feudu e dannumi un travagghiu ( comunque, io ho rimorso nei riguardi di tuo padre per un debito di riconoscenza quando mi salvò dalla galera col nascondermi nelle sue case del feudo e dandomi un lavoro) – soggiunse il fattore.  Turi, mi assumo io ogni responsabilità. Se colpa c’è, è mia dal momento in cui ho voluto te, da solo, per guida e compagnia nelle mie passeggiate o escursioni. All’alba si inerpicarono verso Monte Soro, una delle cime più alte della Sicilia, dirimpettaia dell’Etna. Le falde del monte erano coperte da un bosco di faggi e vi si poteva ammirare, salendo, un monumentale acero montano, noto come “Acerone”. Angela dipinse tutto il giorno. Tre tele, da diverse angolazioni, accolsero l’ineguale paesaggio che aveva coinvolto la sua ispirazione di artista. Tra l’altro quel giorno, erano visibili anche le isole Eolie. Lo sguardo spaziava, quindi, dallo Ionio al Tirreno. Che spettacolo! Che incantevole visione! Turi, come al solito, procurava la carne per la colazione con qualche scoppiettata e cucinava anche la pasta che si erano portati dietro: insomma , preparava un pranzo completo. E, per frutta, dolcissimi gelsi neri che avevano intercettato salendo. La baronessina volle rimanere per la notte sulla montagna. Turi approntò un “pagghiaru” (capanna) con rami tagliati nel bosco e per giaciglio sparse sul terreno foglie ed erba secche. A quella quota – anche se in agosto – durante la notte scendeva il freddo. Che affrontarono con un paio di coperte e stando abbracciati, ed ovviamente facendo l’amore. Fu una notte in bianco. Il sole alto li vide nella pausa del sonno ristoratore. Nel pomeriggio tornarono al capanno dei carbonai, nel bosco, i quali mostrarono stupore nel vederli dormire insieme ma tacquero zittiti dal timore riverenziale nei confronti della nobildonna, nonché dal rispetto che portavano al fattore del barone di Mangalavite. (Picciotti, per quello che avete visto in questi giorni ed in queste notti non deve uscire da questo capanno nemmeno mezza parola. Ci siamo capiti?) disse Turi a quegli uomini con la mano appoggiata sulla fondina della pistola e con lo sguardo torvo. < Vossia po' stari tranquillu. Nenti vistumu e nenti sapemu> ( Vossignoria può stare tranquillo. Non abbiamo visto niente e niente sappiamo) , rispose il più anziano e gli altri annuirono col capo. Il giorno appresso, dopo aver ringraziato i boscaioli, si diressero verso la masseria del barone di Cesarò, proprietario anche del lago Biviere. La strada per il ritorno alle “Case di Mangalavite” fu intrapresa il giorno successivo. Pochi furono i quadri dipinti, ma abbondante fu l’amore sparso tra i boschi, sui monti, in riva al lago, sotto l’inimmaginabile, ed invitante, cielo stellato, la loro coltre in quell’ansa dei Nebrodi. Nelle settimane seguenti, la pittrice si cimentò a trasportare sul cavalletto le prospicienti Rocche del Crasto, presso le quali, pur tuttavia, volle fare un’escursione assieme all’inseparabile Turi. Dalle falde ritrasse i suggestivi contrafforti della Rocca di Calanna, che inquietava per le leggende che le si attribuivano, essendo stata teatro di cruenti avvenimenti bellici, svoltisi parecchi secoli addietro, a seguito di uno scontro tra indigeni e saraceni. Mentre Angela era intenta a dipingere, Turi esplorava l’area circostante. Rovistando tra un mucchio di pietre, che aveva attirato particolarmente il suo sguardo, vide un oggetto coperto di fanghiglia. Lo ripulì e scoprì trattarsi di un monile antichissimo, in oro. Era risaputo che parecchi reperti erano stati trovati nella zona e trafugati dai cosiddetti tombaroli. Lo regalò alla sua donna invitandola a non disfarsene mai per ricordare il loro amore impossibile. In quell’atmosfera magica, i due amanti festeggiarono l’assenza dell’occhio del barone per darsi ancora ai piaceri dell’amore. Ed ogni volta scoprivano aspetti nuovi dello stare insieme su un giaciglio improvvisato, su un talamo sotto il nudo cielo. A ferragosto, si teneva, nella Contrada “du locu”, la festa della Madonna Assunta. Don Angelo D’Abrera pensò di fare cosa gradita nell’invitare, per l’occasione, presso la sua villa, le due famiglie aristocratiche. Per l’ora del pranzo, attorno alla tavolata imbandita sotto il pergolato sedevano i Dellosso Lanzetti ed i Della Corte con i padroni di casa, l’Arciprete ed il comandante dei Reali Carabinieri ed altri invitati tra le persone più rappresentative di Castel Lungo. Due agnelli, ancora in giovane età, cotti al forno e maccheroni casarecci allietarono, assieme ad altre leccornie locali, il palato dei commensali. Padre Don Lio, che giocava in casa, delegato dal suo capo, Don Ignazio, introdusse il convivio con un affrettato segno della Croce ed una incomprensibile giaculatoria. Don Angelo aveva fatto venire dal paese alcuni musici con chitarra mandolino e fisarmonica per un sottofondo musicale durante il banchetto. Don Angelo, indi, invitò gli ospiti a gustare un rosolio al gusto di nocciole, messe a macerare nell’alcol assieme a qualche stecca di cannella ed alcumi chiodi di garofalo per un intero anno, che egli chiamava il “il nocciolino di Cantales”. Sedettero sotto il pergolato in attesa della processione e diedero corso ad una piacevole conversazione sulla politica in generale. Fu lì che il Sindaco si giocò tutte carte e, rivolto ai due gentiluomini, lì invitò a fare due doni al paese : “ Lor Signori sanno che le strade del borgo, la notte, sono al buio totale e non sempre vanno in giro brave persone. Sarebbe opportuno che venissero installati dei lampioni con lumi all’acetilene, almeno nelle strade principali. Inoltre, ancor oggi i contadini contano le ore guardando il sole, che però non sempre è visibile. Perché non installare un grande orologio comunale sul campanile della chiesa madre? “ I due patrizi capirono l’antifona e promisero di farsi carico della relativa spesa. Il marchese Dellosso s’impegnò a finanziare l’illuminazione pubblica, mentre il barone Montemylè diede incarico al Sindaco di ordinare l’orologio. Nel giro di un anno, Castel Lungo ebbe le strade illuminate con lampioni ed un orologio che, oltre a diffondere le ore, batteva cento colpi alle otto e trenta, per indicare l’inizio della scuola elementare e la colazione mattutina, ed a mezzogiorno per il pranzo. Don Angelo, quella notte, per festeggiare l’evento, fece l’amore con sua moglie. Mai processione pomeridiana, in quelle località, vide la presenza congiunta di così illustri personaggi. A sera inoltrata, al lume delle lanterne, le cavalcature condussero i festaioli alle rispettive abitazioni con la scorta di uomini armati per evitare spiacevoli tentazioni da parte di malviventi dediti a scorribande notturne in cerca di denari e di quant’altro di piacevole potesse assecondare la loro bramosia, anche dal punto di vista dello stupro femminile. Giunse settembre. A Castel Lungo, nella prima domenica del mese, la comunità celebrava solennemente il Crocifisso, ma diventava la più grande festa dell’anno in quanto uscivano in processione anche San Leone, il Protettore del paese, e la Madonna Imacolata. Il Marchese Dellosso Lanzetti invitò la famiglia del barone Montemylèa trascorrere quei due giorni festivi al suo castello. Il barone Averardo, in presenza dell’invito, convocò figlia e moglie, e subito disse: << Credo sia opportuno, Angela, che tu sciolga la tua riserva e dia una risposta alla richiesta di fidanzamento del marchesino Roberto Dellosso>> La ragazza, che stava vivendo la sua prima esperienza sessuale attraverso l’intensa relazione con Turi Vinicio, dribblò la risposta ed asserì :<>. I genitori non poterono che convenire con il ragionamento e la volontà della loro figliola. Il dì della celebrazione della messa solenne, a mezzogiorno, il sagrestano Calogero Bòtolo si divertì a salire e scendere aggrappato alla corda dell’immenso manufatto in bronzo degli artigiani di Tortorici facendo diffondere sino alle contrade il suono piacevole delle campane a festa della Chiesa Madre. Lo collaboravano, per le altre campane, alcuni ragazzi appositamente addestrati. Dal Duomo uscirono le vare del Protettore e del Crocifisso e s’incontrarono, in piazza, con quella della Madonna, proveniente dalla Chiesa della SS. Annunziata. Il Gonfalone con il Sindaco e la Giunta, assieme al Marchese Dellosso Lanzetti, erano lì ad accogliere i Santi, mentre la banda di Calcara adempiva al suo dovere di allietare l’evento con le note musicali dei maestri concertatori. Il corteo iniziò la sfilata, che si apriva con i ”fratelli” ed il labaro della Confraternita del SS. Sacramento, cui seguiva quella del Sacro Cuore; indi, le statue dei Santi. Che venivano accompagnati dal Capitolo collegiale della comunità con in testa l’Arciprete, ammassato sotto un baldacchino mobile portato dai “fratelli” del SS. Sacramento. Seguivano le autorità civiche e quelle militari , le quali ultime, però, si spostavano per assicurare l’ordine pubblico. Spighe di grano intrecciate andavano a formare dei mazzi che, legati al fercolo di San Leone, la agghindavano per l’occasione festaiola ma rappresentavano anche un atto di devozione per grazia ricevuta o per propiziarsi la benevolenza del Patrono. Taluni invocavano la Sua protezione facendo sedere accanto alla statua i propri figli. La pesantissima vara era portata a spalla nuda da robusti giovanotti, ma anche da uomini maturi che così assolvevano ad un voto, mentre, di converso, le donne scioglievano una promessa votiva seguendo il Protettore scalze, in silenzio e coperte da ruvidi mantelli di feltro sul corpo privo di vestiti; variopinti lazzuna (cordoni), tirati da devote donne, arricchivano la originale scenografia religiosa. I sacerdoti accompagnavano il rito sacro salmodiando, cui facevano riscontro giaculatorie e canti da parte del coro delle pie donne. Un susseguirsi di “Viva, viva San Leone”, cui faceva eco “ Viva il SS. Crocifisso” venivano gridati dagli uomini sotto le vare (fercoli). Il corteo, giunto dinnanzi al castello, venne fatto fermare in quanto il Marchese offrì ai portatori delle statue ed ai musicanti un bicchiere di vino; analogo rituale si svolse presso l’abitazione del Sindaco: egli invitò quegli uomini, alcuni dei quali avevano già la spalla sanguinante, ad accomodarsi presso “a putia du vinu du Lallà” ( la bottega di vino di Lallà). Già in precedenza, dopo avere percorso “i vaneddi du sdirupu (i vicoli del rione Dirupo)”, un’altra tappa era stata fatta “ a porta ranni” (l'antica Porta Grande di accesso al paese quando questi venne fondato), il luogo dove era stato ritrovato il tesoro rubato a San Leone: lì, dopo le preghiere di rito, alcuni cittadini consorziati, diedero da bere agli uomini delle vare. Qualcuno si chiederà se tutto questo alcool ingurgitato sortisse qualche effetto di ubriachezza nei bevitori. No, perché le calorie e l’alcoolicità venivano smaltite dall’enorme sforzo cui si sottoponevano coloro che stavano sotto le statue dei santi, che, si ripete, erano abbastanza pesanti. Pur tuttavia, succedettero alcuni episodi incresciosi. L’unica banda musicale, che accompagnava i santi, era quella di Calcara per cui, quando essa si fermava per riposarsi, anche le vare venivano fatte stazionare. E si incavolavano i portatori se al grido di “musica, musica” i suonatori continuavano a prendere fiato. Non si partiva se la musica non tornava a farsi sentire. L’atmosfera si faceva incandescente: protestavano i portatori, l’Arciprete tentava di sedare gli animi, davano segni di insofferenza coloro che stavano dietro alla processione perché la lungaggine dei tempi andava oltre al consentito ed al lecito: quattro ore circa per completare il giro del paese e saltava il pranzo della festa. Da clima festaiolo si passava a “giornata da dimenticare” per molte persone, malgrado la devota sopportazione. Superati l’area du Buriu-Funtana- Vignalazzo (borghi) e la salita dei “due canali”, che sfiancò gli uomini sotto la vara di San Leone, essi si fermarono per bere altro vino presso la bottega esistente al pianterreno della casa della famiglia Iofrida; ogni volta, con loro bevevano anche i musici, i quali, al contrario dei portatori, subivano gli effetti dell’alcol. E fu qui, che successe il fatto spiacevole. I musicanti non volevano riprendere a suonare e gli uomini “dalla spalla sanguinante” non si volevano muovere di un passo. L’Arciprete chiese l’intervento del Sindaco e del Comandante dei Carabinieri. Costoro, dopo essersi consultati, decisero di fare intervenire i militi: qualcuno dei più renitenti fu temporaneamente arrestato mentre altri vennero “scudisciati” nelle gambe dalla sciabola (per fortuna non tolta dalla guaina) del Maresciallo De Benedictis. Il Sindaco, Don Angelo D’Abrera, fu costretto ad intervenire con la sua autorevolezza per convincere gli uomini a riprendere la processione. Angela e suo padre assistevano con ripugnanza a quanto stava accadendo e Don Pietro cercò di rasserenarli spiegando loro che questi episodi erano di ordinario accadimento durante quella processione annuale. Il pranzo ormai era andato. Dopo qualche ora, nella tensione generale e nella stanchezza, vissute con cristiana rassegnazione, la manifestazione religiosa pervenne a conclusione con il panegirico, a Cruci du Serru, dinnanzi al magazzeno di S.Antonio, tenuto dal cappuccino Padre Calogero. Alle quattro del pomeriggio, i cittadini di Castel Lungo poterono consumare il pasto preparato il giorno precedente e riscaldato sul momento. Ma la fede faceva sopportare il pesante sacrificio di rinuncia alla goduria delle proprie papille gustative.  Caro Marchese, non ho mai visto nulla di simile – sbottò Don Averardo – A Palermo, le processioni si svolgono nel pomeriggio e procedono senza proteste. Eventuali liti vengono subito represse dagli addetti al mantenimento dell’ordine.  Ormai è una tradizione che la processione si svolga in questo modo – incalzò Don Pietro -, la gente si è abituata, si lamenta ma sopporta perché, secondo loro, la tradizione è da rispettare.  Ed io sono d’accordo affinché le cose rimangano così – intervenne nella discussione la moglie del Marchese, Donna Maria Grazia .  Le tradizioni possono essere rispettate, modernizzandole per non recare fastidio alla gente, - intervenne Angela. - In effetti, bisognerebbe capire che, essendo un giorno di festa, esso va ricordato, oltre che sotto l’aspetto religioso, anche dal punto di vista sociale- interloquì Roberto -. Infatti, in questo giorno si appronta un pranzo un po’ particolare e parecchie famiglie hanno anche ospiti o parenti che vengono da fuori.  Non è corretto costringere la gente a consumare il pasto riscaldato ed in un orario inusuale – aggiunse Donna Matilde, che era una buona forchetta.  Occorrerebbe proporre all’Arciprete di spostare la processione nel pomeriggio, - riprese il discorso Angela . La tradizione si può rispettare facendo uscire i Santi dalla Chiesa Madre a mezzogiorno per portarli alla Chiesa della SS. Annunziata, da dove, intorno alle quattro, si potrebbe dare inizio ad una imponente cerimonia lungo le strade del paese. La sera erano in piazza per accogliere il Crocifisso e San Leone, che rientravano alla loro Casa. Fu uno spettacolo, che trasmise i brividi, quello della acchianata ( erta salita di una scalinata) della maestosa e pesante vara di San Leone, che affrontò di corsa lo scalone di ingresso alla Chiesa Madre tra scoppi di mortaretti, la marcia della banda musicale composta in onore del Santo e gli applausi degli astanti. La scena era illuminata da torce e candele nelle mani della gente. I fedeli sostenevano che San Leone, consentendo quel pericoloso rituale della salita della scalinata, compiva annualmente un miracolo perché nessun incidente mai si era verificato. Se ciò malauguratamente fosse accaduto, le decine di trasportatori sarebbero rimasti schiacciati sotto il pesante fercolo. La grande devozione verso il Santo era giustificata , altresì, dal miracolo operato quando, nel marzo del 1851, Egli salvò il paese da una frana che minacciava di distruggerlo, e quando, ancora, alcuni fedeli sognarono il luogo dove avrebbero ritrovato l'oro e tutti gli oggetti preziosi che al Santo erano stati rubati . Il dì di festa si concluse con i fuochi d’artificio sparati nello spiazzale antistante la Chiesa Annunziata: “ruote pazze” multicolori e scoppiettanti e bengala che, in discesa, sembrava stessero cadendo sulla testa degli spettatori, i quali urlavano per la paura. Anche Angela fu presa dal panico e, per un attimo, si trovò aggrappata al braccio di Roberto. Che subito lasciò in quanto il suo cavaliere le indirizzò parole di conforto e di tranquillità. Alcuni strumenti dei musicisti alcaresi, però, tentavano di creare un’atmosfera allegra eseguendo canzonette popolari. Il dialogo fra i due giovani, in quei giorni, fu circoscritto agli avvenimenti del momento. Nessun accenno ai sentimenti che albergavano in ciascuno di essi. Roberto non si lasciava sfuggire l’attimo in cui potere posare il suo sguardo sul bel volto di Angela. Lei , però, non lo ricambiava. Non una parola d’amore, né cenno alcuno ad un ipotetico fidanzamento. Angela, in cuor suo ringraziò Roberto per questo comportamento da vero gentiluomo in quanto non l’aveva messa in imbarazzo per una risposta che, in quel periodo, poteva compromettere l’evolversi del loro rapporto futuro. L'indomani, all'alba, i Montemylè rientrarono a Mangalavite. Per ricambiare l’ospitalità di quelle giornate, Don Averardo invitò il Marchese e la sua famiglia a trascorrere alcuni giorni nei loro possedimenti poiché la domenica successiva avrebbero festeggiato la Madonna dell’Addolorata, essendo quella data dedicata a Lei. Iniziava, in montagna, l’autunno e le giornate si facevano uggiose. Angela ed il padre, quando il tempo lo permetteva, andavano a cavallo per controllare le mandrie al pascolo: qualche centinaio di mucche ed una decina di tori, trecento pecore, maiali allo stato brado, ed, inoltre, capre, muli ed asini e cavalli. Quando Roberto era presente si univa anch’egli al gruppo e, poiché era un esperto di allevamenti e di agricoltura, su richiesta del Barone, dispensava qualche consiglio. Nel corso della stagione estiva, il Barone aveva dato inizio ad una serie di lavori . Sopra i 1300 metri di altezza s.l.m., egli incrementò l’area destinata a bosco piantando più di mille alberi tra faggi ed abeti; inoltre, fece costruire piccole dighe per la raccolta delle acque ed abbeveratoi per il bestiame. Per questi interventi si avvalse della consulenza di Don Angelo D’Abrera, il quale, oltre che farmacista, era anche agronomo. Questi gli fu molto utile perché, oltre tutto, seppe individuare una rara malattia che colpiva i faggi distruggendoli e consigliò, indi, al Barone di effettuare una particolare ed accorta potatura. L’intervento, a tappeto, che richiese due mesi di lavoro, riuscì a salvare questi alberi e, quindi, lo stesso bosco di Mangalavite. Bosco, che, nelle pubblicazioni specializzate, veniva indicato come unico veramente bello ed imponente della Sicilia nebroidea. Si estendeva, infatti, per 980 ettari. Le specie arboree presenti spiegavano un ventaglio che andava dai tassi ai frassini al pungitopo, dagli aceri agli agrifogli alle antiche faggete. Era attraversato da parecchi corsi d’acqua, ruscelli e torrenti che davano vita a stagni ed abbeveratoi. Vivevano in libertà sul suo territorio parecchie specie animali, tra cui martore, poiane, cornacchie, merli acquaioli, ghiri, gatti selvatici, donnole e scriccioli. Un museo all’aperto, ricco di colori e di impercettibili suoni, che ammaliava gli appassionati delle escursioni alla ricerca del silenzio della natura e gli ospiti della proprietà, che venivano accompagnati, nelle visite, da esperte guide locali. C’era infatti pericolo che, da soli, gli escursionisti potessero perdersi: soprattutto coloro che andavano a caccia di funghi. Il Barone, peraltro, consentiva la raccolta di porcini per uso personale sotto il controllo dei campieri. Accanto alle case, il proprietario realizzò un ricovero per viandanti, attrezzato con forno a legna, ed un locale, chiamato zaccanu (luogo di ricovero per pecore e capre), dove venivano trattenuti gli animali estranei alla proprietà, trovati a fare danno; restaurò anche le abitazioni per i campieri e gli alloggi per i contadini. Ne fece, in effetti, un’azienda modello. Laddove era parecchio ammirato il grande cerro, vicino le case, di antichissima età e lussureggiante bellezza. Quella domenica di metà settembre assistevano alla messa, presso la chiesetta delle Case, i lavoranti nel feudo ed alcuni cittadini, devoti della Madonna, venuti da Castel Lungo. Celebrava, come di consuetudine nelle contrade, Padre Don Lio con il suo incomprensibile latino cui faceva da intermezzo, però, un sentito panegirico che l’Arciprete si era riservato di tenere. La famiglia del Barone Montemylè, alla quale si unirono Roberto, alcuni residenti ed i devoti venuti dal paese, si accostarono al Sacramento della Comunione. Con l’”ite, missa est” la cerimonia ebbe termine. La cuoca di casa, la palermitana Rosalia, al suono della campana della chiesetta, invitò gli astanti ad accostarsi alla tavolata imbandita nel cortile per servirsi da se ( la parola self-service non si poteva pronunziare in quanto il Fascismo proibiva l’esterofilia) il cibo cucinato. Il menù era in parte palermitano, in parte di cibi del luogo. Antipasti di salame e formaggio locali, olive greche, insalata di riso con pezzetti di tonno sott’olio e sott’aceti, carne di capretto e di agnello, cucinata sulla brace, le cui budella erano state prelevate per farne delle gustose stigghiole (budelle di carne di agnello o capretto) fritte. Nocciole verdi, calia, vino e gassose. E come dessert, la famosa cassata siciliana. La cuoca palermitana, Rosalia, collaborata da altre ragazze del luogo, era riuscita a preparare tutto quel bendidio per duecentocinquanta persone. A fine banchetto, Don Averardo volle raccontare un fatto portentoso accaduto qualche secolo prima. << Infestava questa zona una banda di ladri. Un giorno, essi si presentarono alle Case ed intimarono la consegna di averi, soldi ed animali. Di fronte alle armi spianate, gli aggrediti non poterono fare altro che ubbidire. Ma quei manigoldi rivolsero lo sguardo verso alcune giovani donne presenti e, con fare minaccioso, si apprestavano a violentarle>>. << Nessuno le difese?>> -disse Roberto - <>. <> << Il cielo era terso, - incalzò Don Averardo - ma all’improvviso si coperse di nuvole ed un fulmine colpì il gruppetto che si affannava per potere entrare nel luogo sacro per stuprare quelle adolescenti. Alcuni di essi furono buttati a terra, altri vennero uccisi dalla saetta. I sopravvissuti fuggirono, lasciando ovviamente il… bottino>> . << Quindi, avvenne un miracolo?>>- esclamò Angela - <>. Il giorno di festa si concluse con un brindisi collettivo, per augurare una abbondante prossima vendemmia, e tra “chianote” (canti popolari locali), intonate dagli uomini di bella voce. Alcuni degli intervenuti presero la strada del ritorno appressandosi l’imbrunire, altri rimasero ospiti di alcune famiglie di contadini mentre la famiglia del Marchese, il Sindaco e l’Arciprete, considerate le ore occorrenti per giungere al paese, trascorsero la notte nelle Case del Barone per intraprendere all’alba la strada del ritorno alle loro abitazioni. In quei due giorni, Angela sfuggì ad ogni tentativo di Roberto per una conversazione lontano dalle orecchie degli astanti perché si sentiva sotto controllo visivo, a distanza, da parte di Turi. Non intendeva compromettere quegli ulteriori giorni di piacevole soggiorno montano intuendo, nel suo intimo, che mai più avrebbe vissuto un’avventura forte e selvaggia. Il barone Averardo aveva comprato alcuni anni addietro un esteso vigneto, con annessa fattoria, non molto distante da Mangalavite, in territorio di Calcara. La famiglia vi si trasferì, quindi, per alcuni giorni per procedere alla vendemmia. Don Averardo non era riuscito ad onorare il suo debito col contadino che glielo aveva alienato, al quale aveva già corrisposto la metà dell’importo richiesto e pattuito. Quest’ultimo, dopo tanta insistenza e non vedendosi tra le mani la somma mancante delle centinaia di lire (qualche paio di milioncini dell'era moderna, prima dell'euro) ancora dovutegli, consigliato da un prete locale, si rivolse al magistrato. Era in corso, quindi, una causa che il barone aveva già persa in primo grado ma che continuava avendo fatto ricorso contro la sentenza. La lite era stata portata, quindi, al giudizio della Corte d’Appello. Ma, per intanto, il barone procedeva al raccolto dell’uva. I “cufini” (cesti) pieni d’uva venivano svuotati dalla ciurma nella vasca del “parmentu” (palmento), laddove i “pistaturi” (pestatori), dopo avere fatto un accurato pediluvio, cantando canzoni popolari, pigiavano i grappoli per farne uscire il mosto, che veniva raccolto nella “tina” (tino). Laddove, a contatto con bucce e raspi, fermentava per una giornata per essere travasato, indi, nelle botti. Le altre operazioni, relative alle “fezze” (fecce), alla vinaccia venivano eseguite necessariamente da operai esperti. La vinificazione era uno spettacolo cui Angela volle partecipare; dopo essersi sottoposta al bagno dei piedi, si mise in fila con i “ pistaturi” per saltare sui grappoli d’uva. Trascorsa qualche ora, l’esalazione dei vapori del mosto aveva fatto il suo effetto: erano allegri, molto allegri tutti quanti, quasi ebbri. Cantavano ballando nella vasca del palmento. Era uno spettacolo di gioia. L’annata fu ottima ed il barone volle festeggiare l’abbondanza di uva facendo scannare un vitellino, che, rosolato sulla brace di legna locale ed accompagnandolo con pane appena sfornato, venne onorato da invitati, operai, impiegati e dai suoi familiari con assaggi di mosto, necessariamente contenuti per evitare effetti collaterali. Poiché la stagione si manteneva ancora su temperature calde, il padrone di casa fece approntare una pentola di acqua e limone da fare roteare in un capiente recipiente di ghiaccio prelevato dalla neviera, realizzata, come detto, durante la stagione invernale nei dintorni delle case di Mangalavite. Alcuni, per smaltire i bollori, consumarono doppio bicchiere di granita. La festa continuò nel cortile interno della fattoria con danze alla luce di lanterne e torce. Angela e Turi presero parte ai balli popolari cantando le canzoni vendemmiali. I loro sguardi compiacenti, il conversare con i corpi ravvicinati tradivano un rapporto esistente tra Angela e Turi, sul quale già sommessamente si vociferava. Qualcuno dei boscaioli l'aveva confidato a qualche sua comare, che aveva passato la notizia ad altre donne, raccomandandone il silenzio. Ma si sa come vanno questa cose: il tacito passa parola diventa il tam tam della giungla. Gli unici a non avere intuito alcunché erano i genitori della ragazza. Dopo i baccanali, i due amanti si diedero appuntamento nell’attiguo pagliaio. -Signurinedda, quant’eri provocanti mentri ballavi, mi veniva vogghia d’isariti ‘nte me vrazza e cummigghiariti di vasuna ( signorinella quanto eri provocante mentre ballavi, mi veniva voglia di alzarti tra le mie braccia e coprirti di bacioni)– le si rivolse Turi stringendola a sé non appena s’incontrarono. - Ed io avevo voglia di fare l’amore con te lì, subito, quando sentivo il tuo braccio cingermi forte e la tua mano che s’intrecciava con la mia. Ed il tuo sorriso, dolce ed invitante, è una rosa profumata da baciare. Turi, prendimi… - le sussurrava la ragazza mentre lo copriva di baci. Si distesero su un giaciglio di paglia e mollarono i freni al loro desiderio. Alternando conversazioni e lunghi amplessi, fecero giorno. Non poterono andare a letto perché il barone ordinò il rientro alla masseria di Mangalavite. Gli incontri tra i due amanti, quando non effettuavano qualche escursione, avvenivano nelle ore notturne in una stanza della foresteria. Che, non essendo abitata, accoglieva con discrezione la loro intimità. La raccolta delle castagne era prossima ed i due sapevano che il loro idillio avrebbe avuto termine. Dieci “vurdunari” (mulattieri), alla fine del mite autunno, guidarono una fila di cento animali da soma carichi di sacchi contenenti grano, castagne e formaggio pecorino sino ai carretti che li attendevano all’incrocio della regia trazzera per conferire, alla marina, ad una nave di medio tonnellaggio, la mercanzia che, assieme a quella del Marchese di Castel Lungo, doveva essere scaricata presso il porto di Palermo. Dove erano in attesa i compratori. Angela, prima del rientro in città , volle organizzare l’ultima escursione con Turi. Le Case di Ferrante, nei pressi di Portella Gazzana, rappresentavano il frutto di una trasformazione incompiuta, nei secoli addietro, da parte del feudatario del luogo. L’immobile era stato, nel XII secolo, un cenobio dipendente dall’Abbazia di Fragalà, abitato da monaci, che pregavano e tenevano messa nella incorporata chiesa dedicata a Santo Ippolito. In seguito, il cenobio venne abbandonato per cui venne acquisito dal barone di quelle terre volendolo egli destinare ad una struttura militare. Ma non è dato sapere il motivo per cui la trasformazione del complesso religioso si arrestò e, nel tempo, solo i muri resistettero. Un’ala, però, era coperta ed offriva riparo, anche se precario, per qualche notte. Vi si diressero essendo a conoscenza di Turi il modo con cui potere entrare e sistemarsi per alcune ore. Fecero colazione presso la “baracca di Gazzana “, gironzolarono nei dintorni sino a mezzogiorno quando giunsero all’improvvisato “hotel montano” con due conigli e quattro beccacce abbattuti dallo schioppo dell’uomo “senza licenza per la caccia”… Alla “biviratura” (beveratoio) vicina rinfrescarono i cavalli e fecero provvista di acqua freschissima per le loro esigenze presso il luogo che li avrebbe ospitati per la notte. Nel pomeriggio, la pittrice volle ritrarre il suo uomo: ne venne fuori una tela, di stile astratto, che non tracciava le vere sembianze di Turi, bensì i connotati del suo volto maschio, della sua prestanza fisica tratteggiata in un torace nudo su arti inferiori muscolosi, ricoperti da pantaloni e stivali da cavallerizzo. Questo quadro accompagnò per tutta la vita la sua creatrice. Né mai alcuno seppe la vera identità del modello. -E’ stato bello, Turidduzzu, amarti senza vincoli né promesse future in questo paesaggio da favola. Non ci sarà un seguito perché non è possibile, per ovvi motivi di classe sociale, che tu comprenderai. Ma è certo che non potrò mai dimenticare questi giorni, questo nostro rapporto così intenso, mentre il desiderio del tuo bel corpo mi accompagnerà sempre. Forse, tra cent’anni sarà possibile che una tizia di sangue blu possa stare insieme con un operaio. Oggi, no! Con queste parole Angela strinse a sé l’uomo della sua prima stagione d’amore e si scambiarono un lungo forte abbraccio. - Ianciuluzza mia (Angeluzza mia) – riuscì a chiamarla finalmente Turi – campau vintisei anni senza pinsera di famigghia e senza amari nudda fimmina. Da quannu sugnu cu tia pirdivu u sonnu e a paci intra di mia. Non sacciu comu sarà a me vita futura senza di tia… ( ho vissuto ventisei anni senza pensieri di famiglia e senza amare alcuna donna. Da quando sono con te ho perso il sonno e la pace dentro di me. Non so come sarà la mia vita futura senza te…) -Bisogna farsene una ragione, Turidduzzu, - lo interruppe la donna -Quannu eru disirturi e to patri ‘mmammucciò ‘nte so terri, cà a Mangalavite, mi capitò di fari all’amuri cu qualcuna di muggheri di cuntadini mentri iddi travagghiavanu e iò stavo ammucciato ‘nte so casi . Ma non vosi bene a nudda di iddi. Dopu, quannu divintai u capu di dipendenti du feudo, grazie o signor baruni, non desi cchiù cunfidenza a nuddu, né masculi né fimmini, pi farimi rispittari. E ci rinisciu (quando ero disertore e tuo padre mi nascose nelle sue terre, qui a Mangalavite, mi capitò di fare l’amore con qualcuna delle mogli dei contadini mentre essi erano al lavoro ed io stavo nascosto dentro le loro case. Ma non ho voluto bene a nessuna di esse. Dopo, quando sono divenuto il capo dei dipendenti del feudo, grazie al signor barone, non ho dato più confidenza ad alcuno, né uomini né donne, per farmi rispettare. E ci sono riuscito). -Turi, ti voglio regalare uno dei miei quadri che ho dipinto su Monte Soro, dopo che abbiamo fatto all’amore per la prima volta – gli disse la donna – così non ti dimenticherai mai di me. -E’ stata na stagiuni che non pozzu scurdari, chi finiu chi castagni- replicò Turi . Iò non pozzu vuliri beni quantu a tia a nudda fimmina e sarà difficili chi mi spusu. Tu mi resti pi sempri ‘nto me cori (è stata una stagione che non potrò scordare, che è finita con la raccolta delle castagne. Io non potrò volere bene a nessuna donna quanto a te e sarà difficile che mi sposi. Tu resterai per sempre dentro il mio cuore). Dopo la cena comparve sul precario desco un dolce alle castagne, raccolte personalmente da Angela, che lei aveva preparato per l’occasione ed una bottiglia di ottima Malvasia. Brindarono a sé stessi nella penombra delle candele ed innanzi ad un fuocherello che Turi aveva acceso sull’ impiantito in terra battuta di un vano riparato dagli spifferi della notte. Ad un tratto, Turi uscì fuori dal suo tascapane, un ricordo soldatesco, un fruscalettu ( uno zufolo siciliano) ed intonò un’antica nenia, interrotta da alcuni versi : ”i to labbra sunnu cchiù duci du meli di me api, i to minni sunnu cchiù janchi du latti di me pecuri, i to carizzi sunnu cchiù liggeri di l’ali di farfalli, i to baci ciaccanu a catina di la vita, u to corpu mi fa sciddicari ‘nmezzu e limpidi acque du lagu du Biveri” ( le tue labbra sono più dolci del miele delle mie api, i tuoi seni sono più bianchi del latte delle mie pecore, le tue carezze sono più lievi delle ali di farfalle , i tuoi baci spezzano la catena della vita, il tuo corpo mi fa guizzare tra le terse acque del lago Biviere ). Alternava alle invitanti strofe la musica dolcissima dello zufolo. Angela fu totalmente presa da quell’improvviso incanto, uno spettacolo per lei sconosciuto: si mise a danzare lentamente attorno al fuoco divenuto, nel frattempo, un falò che emanava tepore e che, assieme al dolcissimo suono, penetrava nel suo intimo. In maniera del tutto naturale, cominciò a liberarsi dei vestiti. Danzava nuda ed invitava Turi a fare altrettanto. Egli, recitando quei versi, si presentò ad Angela come Adamo ad Eva. Riprese a diffondere le struggenti note e ballarono sfiorandosi con i loro corpi. Sino a giungere all’apice del desiderio che li fece sdraiare, per sublimare la loro passione, attorno al fuoco scoppiettante. Esausti, un rustico pagliericcio li accolse e si coprirono con alcune coperte. Quella notte si amarono ancora con foga intensa e si unirono più volte. Fuori, un’upupa diffondeva il suo canto cupo ed un forte vento soffiava sulla incompiuta rustica casa. Sbattevano alcuni infissi non chiusi facendo sobbalzare la donna che si stringeva al suo uomo. Poi, sul fare del mattino, cessando il vento, una pioggerellina deterse il nerume della notte. I due amanti uscirono allo scoperto, nel cortile interno, sotto la pioggia e, nella nudità integrale, rotolarono per terra abbandonandosi ancora all’ultimo amplesso d’amore, intenso e profondo, il cui urlo di piacere infinito echeggiò per quelle antiche mura, un tempo sacre. Poi, abbandonarono quel luogo che li vide insieme per l’ultima volta. Per salutare i suoi dipendenti, il barone li riunì nell’aia nel pomeriggio antecedente la partenza ed offrì loro nocciole infornate, ramette e caldarroste, accompagnati dal vino novello. Turi volle portare di persona un bicchiere di vino ad Angela, che bevvero metà per ciascuno. All’alba, la famiglia del barone Averardo si avviò per il rientro in città. Turi fece sapere che stava poco bene per cui fu esonerato dall’accompagnare la carovana. Angela, durante il percorso, non vista, versava lacrime silenziose. Qualche mese dopo, durante una cavalcata nei viali del Parco della Favorita, la baronessina Angela cadde da cavallo e si trovò le parti intime e le gambe piene di sangue: era un aborto. Non tornò più a Mangalavite. Almeno per molti, lunghi anni. Il motivo è chiaramente intuibile dopo ciò che lei aveva dichiarato a quel magnifico uomo che le aveva fatto assaporare i piaceri del sesso. Il contenzioso in corso tra il barone ed il venditore del terreno ebbe a complicarsi ancora di più in quanto l’Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano espropriò l'ex feudo di Butti e Mangalavite; la relativa motivazione venne fondata sulla necessità di coltivazione dei campi di Maniace con il bestiame allevato in quelle terre ma, in effetti, il governo di Mussolini volle colpire il Barone perché era antifascista dichiarato e sospettato di avere dato copertura ad alcuni socialisti che si opponevano al regime e che, per sfuggire alle galere mussoliniane, egli aveva ospitato nei sotterranei della sua abitazione palermitana quando la Milizia li inseguiva per arrestarli. Ma i gerarchi locali mai poterono incastrarlo cogliendolo sul fatto in quanto l’accesso alle segrete dell’antico palazzo era ben camuffato e solo i familiari ne conoscevano l’esistenza. Nel frattempo, la Corte d’Appello di Messina aveva emeso la sentenza di condanna del barone chiamandolo a risarcire il contadino ed al pagamento delle spese processuali del primo e secondo grado di giudizio. Don Averardo fece appello e trasferì il contenzioso in Cassazione. Presagendo, però, l’ulteriore sconfitta giudiziaria, preferì affidare la gestione dei beni feudali ad un amministratore, il quale corrispondeva annualmente al barone quanto gli spettava dal raccolto, tolte le spese. Ma sarebbe più giusto asserire che gli utili si assottigliavano di anno in anno ed il barone incamerava, senza battere ciglio, ciò che l’amministratore riteneva opportuno recapitargli. La Cassazione ci mise parecchi anni prima di emettere la sentenza definitiva. Una somma enorme da corrispondere alla controparte, che il patrizio non aveva. Per cui venne riconfermata la procedura di esproprio della masseria di Mangalavite con tutto il bosco ed i terreni coltivati, che fu incamerata tra i beni demaniali mentre al contadino venne restituita la quota del suo terreno che comprendeva il vigneto ed il casolare, nonché, a titolo di risarcimento dei danni subiti, gli vennero assegnati alcuni ettari di terreno seminativo. Ebbe così miseramente fine il secolare feudo di Mangalavite e Butti, dall’ultimo imperatore di Bisanzio conferito, con il titolo baronale, ad un valoroso generale dell’esercito dell’Impero Romano d’Oriente, di stanza in Sicilia. Turi Vinicio continuò a lavorare presso il feudo, ma da responsabile dell’azienda, fu retrocesso a campiere, guardiano dei beni divenuti demaniali. Nelle notti stellate d’agosto, i due ex amanti, negli anni futuri, incrociavano il loro pensiero mirando la luminosa Sirio e si univano ancora in un amplesso virtuale a distanza. Ma era un piacere amaro! Fu amore vero quello di Angela o una primitiva esplosione dei sensi nell’incontro con un bell’uomo, dal fisico perfetto ? Che non dimenticò mai, però. Turi, invece, amò veramente la donna e le rimase fedele. Quando i marchesi Dellosso Lanzetti andavano in città, venivano invitati a pranzo dal barone Montemylè. A Natale, le due famiglie nobili si scambiarono gli auguri tramite missive, che precedettero uno scambio di doni inviati con pacco postale. Roberto aveva ripreso servizio a Napoli, sede del suo reggimento; presso il quale presentò domanda per essere trasferito a Palermo. Che riuscì a raggiungere dopo sei mesi di attesa. Nel frattempo, aveva avuto conferiti i galloni di capitano del reggimento Savoia Cavalleria. Sul finire dell’estate, il Principe Mirto aprì i saloni del suo palazzo in occasione del ventunesimo compleanno del figlio Romano. Alla festa notturna furono invitati quasi tutti gli aristocratici ed i notabili della città. Ma non solo di Palermo. Angela rincontrò Roberto, anch’egli invitato assieme al padre quale appartenente ad una delle più nobili casate di Sicilia. Il Marchese Pietro, indisposto, non potè essere presente. L’ufficiale indossava la elegantissima divisa di gala della cavalleria dell’esercito italiano. Si salutarono; ad un baciamano dell’uomo la donna rispose con un abbraccio amichevole. Il Barone Montemylè tratteneva a stento la sua felicità per quell’incontro improvviso e, tra una tartina ed un bicchiere di champagne, tra un dolcetto ed un liquore, chiedeva notizie dello stato di salute dei genitori di Roberto, degli avvenimenti ultimi a Castel Lungo; alla fine, venuto a sapere che era stato destinato di stanza a Palermo, concluse l’incontro con l’invitare il giovane a pranzo a casa sua. Roberto accettò. Angela e Roberto fecero insieme alcuni balli conversando piacevolmente. A chiusura della serata, il marchesino chiese alla baronessina se poteva avere l’onore che lei gli facesse da guida nelle visite ai luoghi più interessanti della città. Angela glissò la risposta, che però diede, in maniera affermativa, il giorno dopo al pranzo, cui Roberto partecipò. In mattinata, ebbe la signorile accortezza di inviare un bouquet di fiori alla Baronessa, donna Matilde, ed una corbeille di rose rosse ad Angela, che si accompagnava ad un cofanetto di marron glacè francesi. Il messaggio era chiaro. Concordarono di impegnare le giornate, i due giovani , visitando le opere d’arte della città, frequentando concerti, facendo qualche escursione nei dintorni. Roberto manifestò direttamente ad Angela, questa volta, il suo sentimento dichiarando la sua volontà di sposarla. La donna cedette le armi. Per annunziare il fidanzamento di Angela e Roberto, i conti Montemylè organizzarono una serata di un certo tono. Angela invitò due compagne di collegio, con le quali aveva mantenuto un legame di amicizia, mentre il padre volle onorare i fidanzati con il fior fiore dei giovani aristocratici, che vennero presentati dai rispettivi genitori, invitati direttamente da Don Averardo. Naturalmente, vennero dal paese i Marchesi Don Pietro e Donna Maria Grazia Dellossso Lanzetti. La festa s’inoltrò sino a notte avanzata, tra danze nel salone della magnifica abitazione dei Montemylè, illuminato a giorno, e dolci, il cui ricco buffet era stato preparato dalla pasticceria Caflish, famosa per i cannoli e le cassate siciliane. I migliori cabernet siciliani accompagnarono la serata, che si chiuse con una coppa di champagne per un brindisi augurale ai futuri sposi. Angela sfoggiava un décolleté rosa adornato dall’anello regalatole da Roberto e dalla collana in perle, donatale dei genitori. Al polso, il bracciale d’oro dei futuri suoceri, avuto in occasione dei suoi ventun anni a Castel Lungo. Era stato invitato anche il Sindaco, Don Angelo D’Abrera, il quale peraltro si recava sovente a Palermo per i suoi affari e per qualche pratica del Comune ed andava ad alloggiare ad Uditore dove lo zio, il Dott. Luigi Mondio, era il farmacista della contrada. Venne presentato al Marchese Bafumo, Senatore del Regno d’Italia, al quale il Barone Montemylèfece presente l’esigenza del collegamento viario di Castel Lungo alla marina. L’uomo politico ascoltò attentamente il Sindaco e si riservò di fornire una risposta al diretto interlocutore. Il giovane Barone Tancredi Villafranca di Gattamelata volle ricambiare l’invito del Montemylè dichiarandosi onorato se i due fidanzati avessero voluto partecipare ad una battuta di caccia, organizzata da lui presso il reale Bosco della Ficuzza. A distanza di una settimana, gli ospiti vennero accolti alla "Casina Reale di caccia" edificata da Ferdinando I delle Due Sicilie presso il borgo della Ficuzza, dove la famiglia del Barone Villafranca era proprietaria di una villetta per trascorrere la villeggiatura; vi soggiornarono per due giorni, di cui uno dedicato alla caccia e l’altro a visitare le bellezze naturali della riserva. Roberto si dimostrò anche un buon cacciatore. Aveva già insegnato ad Angela, quando si era recato a Mangalavite, a sparare col fucile da caccia. Procedevano, pertanto, l’una accanto all’altro; Angela aveva abbandonato, per l’occasione, la gonna ed indossava un paio di pantaloni da cavallerizza con gli stivali. I battitori segnalarono un daino nella boscaglia. I cacciatori si diedero ad inseguirlo, ma Roberto fu il più veloce: due cartucce furono sufficienti per buttarlo a terra. Angela, quale novellina, si diede anch’essa da fare e riuscì a beccare un coniglio. La sera facevano bella mostra nel carniere dei due fidanzati un paio di tordi, una beccaccia, due conigli selvatici ed accanto ad essi un daino. L’intera cacciagione di tutti gli ospiti fu servita al pranzo del giorno dopo preparato dalla servitù del Barone Tancredi. Nel pomeriggio, gli invitati vennero guidati al Borgo, un laghetto naturale in una conca, alla quale si accedeva attraverso un canalone ricco di muschi e licheni e vi poterono ammirare la tartaruga palustre. Attorno, il magnifico bosco di alberi della sughera. Un altro sito particolare visitato fu quello dove videro il Pulpito del Re, un trono scolpito sulla roccia sul quale il re Ferdinando IV di Borbone stava seduto in attesa di abbattere la preda che i battitori spingevano verso di lui. Angela, nei due giorni, cavalcò con disinvoltura ed eleganza accanto al suo fidanzato, felice, almeno in apparenza, di stare assieme a lui. Sul far dell'imbrunire i due giovani decisero di fare una passeggiata. Roberto tirò dalla tasca un piccolo cofanetto e lo porse ad Angela: un gioiello di famiglia, un anello con un brillante di grande valore. Immensa fu la gioia della donna, che volle ricambiare il dono buttandosi al collo del fidanzato. Ma non si baciarono. Riuscirono a superare l’imbarazzo reciproco continuando a passeggiare lungo i sentieri del boschetto mentre Roberto raccontava episodi della sua, pur breve, vita militare. Angela era affascinata dai racconti e, nel guardare in viso il suo fidanzato, inciampò in una pietra e cadde per terra. Venne subito soccorsa ed aiutata ad alzarsi dopo che ebbero ad accertarsi che non c’era stato alcun danno fisico. Si trovarono di nuovo abbracciati. I loro corpi conobbero la vibrazione ed il tremore del primo amplesso. , le disse l’uomo. , rispose Angela mentre i battiti del cuore avevano superato la normale soglia e sembrava che quell’organo vitale volesse uscire dal petto. Erano i loro corpi in tempesta, mentre il pensiero della donna era rivolto a chilometri di distanza. Roberto baciò Angela, per la prima volta. Il sangue giovanile affluì con maggiore intensità al cervello della coppia. Accanto al piacere delle labbra che si scambiavano gli umori profumati dei loro corpi, dell’intrecciarsi delle carezze i due giovani sentivano i loro corpi sciogliersi dolcemente verso un desiderio fisico, che li eccitava ancora di più. Sensazioni già provate da parte di Angela. L’abbaiare continuo di Nerone, che aveva puntato uno scoiattolo, li riportò sulla terra. Sedata la piena dello scorrere del sangue, ripresero la strada per il ritorno. Ma ci provarono altre volte nei giorni successivi. Avevano, però, l’innata forza di bloccare i freni inibitori quando il pericolo di… allarme per la soglia varcata emetteva l’impercettibile …suono. Godevano di una certa libertà nel muoversi da soli perché appartenevano ad un ceto sociale acculturato e più evoluto; gli altri fidanzati delle classi medio- basse avevano il permesso di stare l’uno accanto all’altra quando s’incontravano nella casa dei rispettivi genitori. Per costoro, i baci, le effusioni, l’avvilupparsi dei corpi erano piaceri da rinviare alla loro prima notte di nozze. Così andavano le cose a quei tempi, ed era iniziato da due decenni inoltrati il ventesimo secolo. Il giorno appresso, la ferrovia, costruita dai Borbone, ricondusse in città l’allegra comitiva di aristocratici cacciatori. Angela non rivelò mai a Roberto il rapporto passionale avuto con Turi. Anzi, per non scoprirsi, si sottopose ad un intervento per farsi ricucire l'imene. La cui operazione organizzò con la compiacenza della sua più cara amica, Rosalia, già sposata, la quale le fisso un appuntamento con il suo ginecologo. Questi, a cui Angela raccomandò il più assoluto silenzio, venne pagato ratealmente con la somma di denaro messa mensilmente a disposizione dai suoi genitori per le esigenze correnti della figlia. Fu un carico molto oneroso cui la donna dovette sobbarcarsi. Al teatro Massimo si dava, in prima palermitana, l’Aida. Il Barone Averardo prenotò un palco per la famiglia. Si racconta una leggenda su questo monumento della lirica, che fu edificato dopo avere abbattuto le Chiese delle Stimmate e quella di San Giuliano con l'annesso convento femminile. Si narra, infatti, che una suora detta "la monachella" si aggiri ancora per le sale del teatro e che chi non crede alla leggenda, entrando a teatro, inciampi in un particolare gradino, detto appunto "gradino della suora". Quella sera Roberto inciampò nello scalino. Angela, essendo la sua prima partecipazione ad una rappresentazione musicale di quel livello, rimase entusiasta della bellissima opera di Verdi sia dal punto di vista scenografico che musicale. Prima di assistere allo spettacolo, Angela e Roberto ebbero modo di ammirare il tempio palermitano della lirica, il più grande in Italia, un maestoso edificio in stile neoclassico. Sul frontone della facciata avevano letto il motto "L'arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. Vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l'avvenire". Attraverso la monumentale scalinata, ai lati della quale sono due leoni bronzei con le allegorie della Tragedia e della Lirica, s’inoltrarono all’interno ove, tra l’altro, ammirarono il palco reale, i dipinti e le magnifiche composizioni dei palchi e degli arredi. Vennero colpiti, infine, dalla immensa sala, dall’acustica perfetta, cinque fila di palchi più il loggione. Le cronache dell’epoca, in occasione della sua inaugurazione, riportarono i commenti invidiosi di molti, tra cui la gaffe del Re Umberto, che ebbe a dichiarare: "Palermo aveva forse bisogno di un teatro così Alla fine della rappresentazione, nella piazza antistante il monumento, Roberto scorse il fratello del Sindaco di Castel Lungo, Don Gaetano D’Abrera, il quale aveva partecipato allo spettacolo assieme alla moglie Caterina ed allo zio-suocero, il farmacista di Uditore. Dopo le reciproche presentazioni, il Barone Averardo volle invitare i concittadini del genero in un noto ristorante per concludere insieme la serata con un tono di letizia. Angela e Roberto, nel corso della conversazione, dissero che era loro intenzione celebrare le nozze prima dell’estate del prossimo anno e che avrebbero trascorso la loro esistenza tra Palermo, Castel Lungo e Roccalunga, laddove il Marchese Don Pietro aveva un villa che avrebbe donato ai novelli sposi. < Come sta il Sindaco Don Angelo?> , chiese il Barone. , rispose il fratello, .  Cavaliere, spero che ci darete il piacere, assieme alla sua bella consorte, al qui presente farmacista ed a suo fratello Angelo, di essere presenti al matrimonio di questi due ragazzi>, disse Don Averardo anticipando l’invito.  Ne saremo onorati> rispose Don Gaetano.  Lei come trascorre il tempo a Castel Lungo > chiese Angela a Donna Caterina. La quale, di rimando: < Anche a me piacerebbe fare qualcosa nella vita, oltre la moglie e la padrona di casa> soggiunse Angela < Quando verrò a Castel Lungo incontriamoci, lei è giovane ed, oltre a farci compagnia reciproca, potrà insegnarmi tante cose>  Sarà un piacere , oltre che un onore per me >, ribattè Caterina.  Dottore Mondio, da quanto tempo è ad Uditore?>, chiese Don Averardo.  Da quando, dopo la laurea, ebbi la fortuna di aprirvi la farmacia>, rispose Don Luigi.  E’ palermitano di nascita?> continuò il Barone.  No, sono originario della provincia di Messina, dalla cui città la mia famiglia proviene> di rimando il farmacista.  Non abitava , quindi, a Messina > chiese Angela  No, il mio lontano antenato, un nobile al seguito dei Normanni venuti in Sicilia, sostò per parecchi anni in quella città, laddove ricoperse incarichi politici di rilievo. Così pure i suoi primi discendenti. Nel corso dei secoli, altri si sparsero in diversi centri della Sicilia. I miei nonni ebbero i natali a Sammarco, laddove la mia famiglia possiede parecchi terreni. Per la mia professione, ho scelto di venire a vivere a Palermo>, raccontò il Mondio. < Mia sorella ha sposato il padre dei fratelli D’Abrera >spiegò Don Luigi e proseguì: , proseguì il farmacista, nel ringraziare Don Averardo e prendere congedo dalla sua famiglia, Indi, rivolto al Marchese Roberto: < Anche a lei ed alla sua fidanzata una cavalcata, tra l’odore della zagara, farebbe bene; oltretutto, la baronessina Angela vuole diventare amica di Caterina. Quale migliore occasione per iniziare adesso dal momento in cui mia figlia s’intratterrà con me per tutto il periodo natalizio essendo in vacanza dalla scuola? > , s’impegnò Roberto. Il farmacista, Don Luigi Mondio, era un bell’uomo, di pelo biondo e con gli occhi azzurri. Il suo volto era adornato da una fluente barba, che curava ogni mattina. Insomma, un degno discendente dai normanni; tant’è che, ad Uditore, lo chiamavano l’”inglese”. Portava un cappello nero a larghe falde, che completava un vestito e gilèt prevalentemente in nero, e, quando, con la sua statura possente stazionava dinnanzi alla farmacia, in attesa di pazienti-avventori, sembrava una statua a guardia dell’ingresso. Ma era affabile con tutti e brillante nella conversazione; per questo era amato ma anche rispettato pur essendo un “forestiero” in una contrada laddove giravano indisturbati parecchi mafiosi. Di tanto in tanto, il farmacista partecipava a qualche battuta di caccia. Indossava, quindi, l’abbigliamento adatto con tanto di fucile e cartucciera, ma non sparò mai una cartuccia. Amava gli animali e non sopportava che uccelli o lepri venissero abbattuti per il piacere di … gente senza cuore, come definiva i cacciatori. Egli partecipava a quegli inviti dell’arte venatoria perché, per lo più, provenivano dai nobili locali e si svolgevano nelle loro tenute. Avendo origini dall’entroterra messinese, voleva mantenere i buoni rapporti con quegli eminenti rappresentanti della buona società palermitana. Aveva sposato la sorella del parroco di Uditore per cui aveva fatto amicizia con alcuni prelati della Curia; tramite loro era riuscito ad avere uno spazio presso il cimitero privato di Santo Spirito, che allora era riservato alle classi sociali elevate, e, non molto distante dalla storica chiesa dei Vespri, aveva costruito, assieme al cognato-sacerdote, una sua sepoltura gentilizia. Dove, poi, venne sepolto. Quando Roberto era libero dal servizio, andava in giro per la città accompagnato da Angela. Passeggiando per il centro storico, appresero che la piazza dei Quattro Canti, chiamata anche Teatro del Sole, prendeva il nome dagli angoli smussati dei quattro palazzi barocchi che vi si affacciano e dalle quattro statue che raffigurano le stagioni. Visitarono il Palazzo dei Normanni, una antica fortezza araba che i Normanni trasformarono in dimora reale e l’annessa cappella Palatina decorata con stupendi mosaici e, tra le altre bellezze della città, ebbero modo di ammirare il Convento dei Cappuccini e il Museo Archeologico. Ma, guida alla mano, Palermo non finiva mai di stupire per la quantità e la qualità dei gioielli che vi erano. I siti d’arte, i palazzi storici, le ville, i castelli, i monumenti erano talmente numerosi che i due fidanzati decisero di programmare, una volta sposati, di dedicare qualche giorno a settimana alla loro visita. Ma, per intanto, vollero ammirare le meraviglie del duomo di Monreale, della chiesa della Martorana, che scelsero quale tempio per celebrare il loro matrimonio, e della Cattedrale. Dovettero interrompere, però, le loro passeggiate artistiche poiché Roberto venne raggiunto da un telegramma con il quale il padre lo invitava a rientrare a Castel Lungo in quanto i contadini avevano occupato le terre giustificandone la presunzione di vantato diritto derivante dal fatto che, alcuni secoli prima, il Barone, Feudatario di Castel Lungo, aveva concesso ai loro antenati la possibilità di raccogliere legna e funghi nelle terre baronali. Assieme al marchesino, partirono per il paese Angela e suo padre perché anche alcune terre del feudo di Mangalavite era state invase da contadini. I due nobili, proprietari dei terreni, cercarono di dissuadere bonariamente gli occupanti ad uscire dai loro possedimenti spiegando che nessun diritto di proprietà potevano vantare in quanto essa si realizzava attraverso un regolare atto di compra- vendita. In assenza, si materializzava un vero reato penale di occupazione abusiva perseguibile per legge. Ma, i contadini non vollero recedere dal fatto compiuto. Venne presentata, pertanto, denuncia alla stazione dei Carabinieri, i quali furono costretti ad intervenire. Diedero manforte, nel fare sloggiare dai campi i contadini, i campieri ed i guardiacaccia dei due aristocratici. Ma il fermento continuò a serpeggiare tra quella gente. Sin tanto che ebbe a sfociare in una cruenta rissa, in piazza, tra gli uomini del Marchese e del Barone, affiancati da alcuni fascisti, contro gli aspiranti proprietari abusivi. Se le diedero di santa ragione ed alcuni dovettero ricorrere alle cure del medico condotto per le ferite riportate. Ovviamente, l’intervento dei carabinieri portò alla detenzione dei più facinorosi ed alla ulteriore denunzia alla Autorità Giudiziaria. I congiunti dei detenuti, però, maledissero pesantemente le famiglie del Marchese Dellosso e del Barone Montemylè. Nel tempo, queste maledizioni colpirono duramente i membri delle due casate nobili. Sedate, almeno apparentemente, le acque, il Barone e la figlia rientrarono a Palermo. Li raggiunse, subito dopo, Roberto, il quale, per tenere sotto controllo la situazione, considerata l’età avanzata del suo genitore, era costretto ad affrontare viaggi di andata e ritorno tra Castel Lungo e Palermo sottoponendosi ai disagi del collegamento tra i due centri. Castel Lungo, infatti, era raggiungibile –come già illustrato- dalla stazione ferroviaria, alla marina, attraverso un’antica regia trazzera tra le montagne. Frattanto, il Sindaco D’Abrera era tornato dall’incontro con il Presidente del Consiglio, Mussolini, con la promessa di finanziamento del tracciato viario tra la pianura e la montagna. L’impegno fu mantenuto, ma dovettero passare diversi anni prima che venisse realizzata l’arteria ed Angelo D’Abrera non ebbe la gioia di vederla completata perché fu colpito da un terribile male che lo condusse anzitempo alla tomba. Ma poté chiudere serenamente la sua gestione del Comune in quanto ebbe la gioia di potere realizzare diverse opere, per quei tempi di difficile finanziamento. Grazie all’aiuto disinteressato del Senatore Bafumo. Che, invero, il Sindaco e lo stesso Barone Montemylè ricambiavano con regali: con prodotti delle loro proprietà , ma anche con il sostegno politico, - da parte del Barone, del Marchese Dellosso e del Sindaco D’Abrera, nonchè del farmacista di Uditore-, al partito del Marchese Bafumo, il P.N.F. A giugno, la famiglia Dellosso Lanzetti era alloggiata in un noto albergo di Palermo per il matrimonio dei due promessi sposi. Alla data fissata, le campane della Chiesa della Marturana accolsero i due nobili sposi ed i loro invitati, parecchi dei quali provenienti anche dalla provincia di Messina. In gran parte aristocratici palermitani, ma anche professionisti e proprietari terrieri di censo elevato, amici di entrambe le famiglie aristocratiche che univano i destini dei loro figlioli. Il Duomo era elevato alla dignità di Concattedrale dell' Eparchia di Piana degli Albanesi, diocesi di rito bizantino greco della chiesa cattolica italo- greca in Sicilia. Una chiesa splendida per la ricchezza delle sue decorazioni. Bellissime, in special modo, la cupola, ove è raffigurato il Cristo Pantocratore, e la parte superiore delle pareti che sono interamente rivestite di decorazioni musive di periodo bizantino, ove è possibile vedere, tra l’altro, le raffigurazioni dei quattro Arcangeli, dei patriarchi e degli apostoli. Una specifica curiosità culturale è fornita dalla rinomata frutta martorana, il cui nome venne inventato in occasione della visita a Palermo del re Carlo V, nel 1537. A luglio gli aranci non hanno più frutti; poiché il re doveva recarsi in visita al Convento, fondato da Eloisa Martorana, le monache pensarono di appendere ai rami di aranci del loro giardino dei dolci di pasta di mandorle, cui diedero la forma ed il colore delle arance. Nacque così la “frutta martorana”. Angela indossava un abito da sposa lungo, in organza, bianco e con il velo, sorretto dalle damigelle, che le dava un tocco di romanticismo. Roberto, invece, indossava la divisa da gran gala. La Marcia Nuziale di Mendellsohn accolse l’ingresso degli sposi cui seguirono altri sottofondi musicali nei vari momenti della cerimonia, con l’Ave Maria di Schubert alla Comunione ed, all’uscita degli Sposi, la consueta Marcia Nuziale di Wagner. Un momento suggestivo fu quello dell’invocazione dello Spirito Santo sugli sposi, sotto il velo bianco sorretto dai testimoni, affinché li riparasse dagli spiriti maligni invidiosi. Gli sposi, all’uscita dalla chiesa, mentre scivolavano sotto l’arco di sciabole dei camerati di Roberto, furono inondati da manciate di riso e di petali di bianche margherite; su un landò scoperto, trainato da quattro cavalli bianchi, attraversarono la città e si fermarono, tra l’altro, alla Palazzina Cinese per alcune fotografie. A cena, incontrarono gli ospiti al lussuoso ristorante di Villa Igea. Dopo il viaggio di nozze in giro per i luoghi più suggestivi d'Italia -Napoli, Roma, Firenze, Venezia ed una puntata a Vienna -, rientrarono a Palermo per un soggiorno di 15 giorni continuando a visitare le bellezze artistiche della città e frequentando gli amici. Poi, partirono per la loro residenza estiva, Roccalunga, ove il marchese aveva avuto in dotazione dal padre una villa (un antico palazzo nobiliare della famiglia) al centro di una vasta estensione di terreni. La loro vita si svolgeva tra le loro proprietà ed abitazioni sui Nebrodi, ma per lo più a Palermo, dove Roberto prestava il suo servizio di militare di carriera. I giorni si snodavano frequentando la bella società, le feste, i concerti, le mostre di pittura e gli avvenimenti mondani ai quali erano invitati dalle autorità cittadine e dai nobili. Non ebbero figli, malgrado avessero tentato attraverso anche l’intervento medico di specialisti, ginecologi di Palermo e di Milano. Come anzi detto, dalla relazione tra il Barone di Mangalavite e Nunziatina, la sorella di Turi, era nata la figlia naturale Rosa, per la cui educazione il padre di nascosto provvedeva facendole frequentare un educandato. Poiché era dotata di una certa cultura e di modi affabili, a 16 anni, la Marchesa Dellorto, su segnalazione del Barone Averardo al quale, per una sistemazione, si era rivolto Tuti Vinicio, l’assunse come sua cameriera personale. Trascorsi due anni nella nobile magione, Rosa conobbe il giovane figlio di un fattore della nobildonna, del quale s’innamorò e dal quale era ricambiata. La ragazza comunicò alla Marchesa che Leone, il suo ragazzo, le aveva chiesto di sposarlo e che, pertanto, chiedeva il suo consenso. Donna Maria Grazia, non solo acconsentì, ma volle dotare la ragazza: le donò parecchi ettari di terreno coltivati a noccioleto ed altri alberi da frutto. Nell’atto di donazione, la Marchesa inserì il vincolo che, alla sua morte, Rosa dovesse fare celebrare una messa nell’anniversario del suo decesso ed un’altra il giorno del suo compleanno, nonché deporre mensilmente fiori sulla sua tomba. Ma il matrimonio doveva avvenire con la maggiore età della donna, cioè a 21 anni. Dovevano trascorrere, cioè, ben cinque anni. Troppi per una donna che assaporava il risveglio dei sensi quando incontrava da sola il suo fidanzato. E la passione cresceva. Ma non andavano oltre il petting. Nel frattempo, Rosa conobbe un giovane medico di Roccalunga, Salvatore, figlio di un contadino, che con sacrifici lo aveva spinto a conseguire un titolo accademico; essa, poiché aveva ereditato la beltà della madre, fu oggetto di una fitta corte. La ragazza era indotta a recarsi presso quel paese vicino, laddove i Marchesi avevano interessi economici, per incarichi delicati che la sua padrona le affidava. E soleva capitare di incontrare il dottore. Il desiderio di scoprire il piacere di un incontro sessuale fu più forte della promessa di fedeltà a Leone. Nell’accettare la tresca, nel giro di un anno rimase incinta. Amava Leone, però, e voleva mantenere la promessa che gli aveva fatta. Non potendo più nascondere il suo stato di donna gravida, ahimè, fu costretta a dirgli la verità camuffandola dietro una sofferta dichiarazione di non sentire più alcun sentimento per lui. Ne volle fuori un violento diverbio e volarono appropriati epiteti nei confronti della donna. La quale li subì mostrando una malcelata tristezza. Il giovane, ancora innamorato, dovette, suo malgrado, prendere atto della situazione creatasi per il subdolo comportamento della sua promessa sposa. E, maledicendola, volò via con il suo cavallo. Rosa non amava il medico, ma il suo era un soddisfacimento di un’ambizione interiore che la spingeva a voler riscattare la sua ignota nascita paterna attraverso il giacere nel letto di un uomo che si era elevato nella scala sociale: da contadino a professionista con la prospettiva di una certa agiatezza economica. Sposò il medico, ma la maledizione di Leone la colpì: partorì, dopo un travaglio di due giorni, attraverso il parto cesareo ed il figlio, frutto di un tradimento, nacque senza testicoli, cioè si erano bloccati nel dotto seminale e, per farli scendere nello scroto, nei primi anni della sua vita fu sottoposto ad alcuni interventi chirurgici. A quel bimbo venne dato il nome di Alberto. Rosa continuò a frequentare la casa della Marchesa, e venne elevata a dama di compagnia. Dopo la morte della benefattrice, trascorso qualche anno, Rosa venne meno all’impegno delle messe e dei fiori. La ragazza, ovviamente, era cresciuta in una situazione d’ instabilità interiore nel momento in cui vedeva i suoi coetanei attorniati da entrambi i genitori mentre a lei non era dato sapere chi era il padre. Il quale, peraltro, ricattava Nunziatina con la minaccia che non avrebbe provveduto al mantenimento della ragazza se lei le avesse detto la verità cedendo alle insistenti richieste della figlia di voler sapere il nome del padre. Il trauma se l’era portato dietro tutta la vita per cui il comportamento ed il rapporto con gli altri non era improntato sulla sincerità; mentendo, le piaceva vedere soffrire gli altri e godeva nel momento in cui riusciva a realizzare i suoi reconditi propositi di inganno e di infedeltà. Alla quale non si sottraeva dimostrandosi disponibile a cornificare il dottore. In quegli anni, ad uno ad uno, i genitori di entrambi i giovani coniugi raggiunsero i loro antenati nel limbo e dintorni. Angela fu molto scossa dalla perdita della madre e sentì inconsciamente il desiderio di scrivere una lettera a Turi per comunicargliene la morte: “C’è una forza nella natura che supera quella della gravità terrestre: l’amore verso e dalla mamma. Il nostro sangue è il suo, penetrato nelle nostre vene, mentre ci faceva crescere nel suo grembo, e diventa un solo fiume che noi navighiamo per tutta la vita. Quando il fiume s’increspa e noi corriamo il rischio di precipitare nelle rapide, il pensiero vola a chi ci ha dato la vita. Quando navighiamo le acque tranquille della gioia, accanto a noi vediamo il volto di chi col suo sguardo ci accarezza. E’ un intreccio di fili mai spezzati che ci lega alle sue mani verso di noi sempre protese quando la lontananza ci porta verso i lidi della nostra vita o i nostri occhi si riempiono di lacrime, che Ella amorevolmente deterge. Torna in noi il ricordo delle tante marachelle perdonate, dei dolori procurati, dei castighi o dei rimproveri ricevuti per il nostro bene seguiti sempre dalle sue braccia pronte ad accoglierci sul suo cuore. Lei per noi ha sofferto quando la nostra vita ha conosciuto la tristezza dell’animo e, quando impotenti, nel suo letto di sofferenza non abbiamo potuto alleviare le sue pene. Poi, il silenzio d’una lapide di marmo! Ma il fiume in cui naviga ancora la nostra vita ha il colore del sangue che Lei ha iniettato nelle nostre vene. E vive il ricordo della Mamma, dolce, sereno, forte, indistruttibile. Non tra le lacrime, ma con il sorriso e le carezze della Mamma. Così la rammento, caro Turi. Un abbraccio Angela” Roberto ed Angela erano divenuti più ricchi, ma gli impegni erano aumentati per curare e gestire le loro proprietà. Quando la Marchesa “decise” di passare a miglior vita, Rosa si trovava al suo capezzale, a Castel Lungo, mentre Roberto ed Angela si trovavano a Palermo. La fedifraga conosceva il posto dove Donna Maria Grazia conservava i suoi gioielli. La sua coscienza, non illibata , la spinse ad appropriarsene. Approfittando dell’assenza del figlio e della nuora, col cadavere ancora caldo della sua benefattrice, trovò il modo di fare uscire dal castello gioielli, pellicce ed argenteria, che nascose prima a casa sua e poi nel casolare dove abitava sua madre, nelle terre di Mangalavite. Qualche giorno dopo i funerali, Angela si mise alla ricerca del tesoro di sua suocera. Non trovandolo, chiese a Rosa se fosse a conoscenza del luogo ove si trovava. La risposta che ne ebbe fu quella che i ladri, nottetempo, mentre lei era assente, penetrarono nell’abitazione e rubarono i preziosi della Marchesa. La relativa denunzia non sortì alcun risultato, ma disse di essere meravigliata, la Rosa, per il fatto che la padrona non l’avesse comunicato ai congiunti, che in quel periodo erano fuori dalla Sicilia. Mussolini proclamò la nascita dell'Impero , denominato Africa Orientale Italiana, che comprendeva Eritrea, Abissinia e Somalia Italiana riservando per Vittorio Emanuele III la carica di Imperatore d'Etiopia. Roberto, col grado di capitano, partecipò alla guerra d’Etopia e, durante la battaglia dello Scirè, in una azione di guerriglia fu fatto prigioniero dagli abissini, che lo sottoposero ad enormi torture conclusesi con l’evirazione del prigioniero. L’Esercito italiano riuscì a soverchiare gli etiopi ed a liberare i pochi prigionieri italiani. Per gli atti di valore in battaglia e per il suo fermo ed eroico comportamento durante le sevizie da parte del nemico, all’ufficiale di artiglieria venne conferita dal comando italiano la medaglia di argento al V.M. Ma non potè avere il sospirato erede. Estate 1941. Come tutti i regimi dittatoriali, la mania di grandezza e di potenza di Mussolini lo indusse alla belligeranza. L’Italia, per la seconda volta, è in guerra, quella guerra che distrusse la speranza e la gioia di milioni di spose, di madri e di figli. Nel piccolo paese montano di Castel Lungo, nell’entroterra della Sicilia, molte famiglie hanno i loro uomini lontani, arruolati dal fascismo. Sono rimasti soltanto i vecchi, le donne ed i bambini. Le campagne, arse dal sole di luglio, offrono soltanto quei frutti che non hanno bisogno di coltivazione; sono pochi quegli anziani, ancora in discrete forze, che hanno sostituito i loro figli nei campi. Le strade, con rari passanti, offrono la visione di un borgo quasi abbandonato: qualche donna dinanzi all’uscio di casa intenta a rammendare, qualche anziano di ritorno dalla campagna seguito dalla capra, che dovrà dare il desinare ai suoi cari, alcuni bimbi che, nella loro innocente spensieratezza, giocano a rimpiattino. E’ già l’imbrunire di uno dei tanti giorni di quell’estate di guerra. Lassù, sui monti, non sono ancora arrivati gli echi sordi dei cannoni e dei mitragliatori. Si sentiranno in lontananza, in seguito, quando gli alleati occuperanno la Sicilia. La madre, giovanissima, che prega col proprio figlioletto affinché il marito ritorni dalla guerra, è una delle tanti giovani spose d’Italia che si sono viste strappare crudelmente il proprio uomo per una causa assurda ed ingiustificata: una guerra senza alcun motivo se non quello partorito da una mente malata di grandezza, di gloria e di avido potere. Lei sa che le guerre portano solo odio, calamità, disgrazie e, sentendosi impotente di fronte a tutto ciò, conosce soltanto la speranza della preghiera. Lei, che ama moltissimo il suo uomo, crede che la voce di un innocente, del suo bimbo, possa essere ascoltata da Chi sta in Alto: “Gesù, fai tornare papà dalla guerra; Madonnina, fà che egli sia ancora tra noi per darci gioia e felicità…e per portarmi a passeggio”, aggiunge il bambino nella sua ingenuità. E’ in quella stanza al primo piano adibita a soggiorno, che le due creature si soffermano in preghiera prima di accendere il lume a petrolio per andare, subito dopo, a letto, mentre la vetta del monte, che sovrasta il paese, sta per affondare nel buio della notte e il fiume insonne spinge le sue acque limpide verso il mare lontano. E’ un rituale di ogni sera chiedere alla Madonna, assieme al frutto del suo amore, il ritorno del capo della casa. Un rituale, non di abitudine ma di amore. Quella pace apparente che si spande nelle strade selciate del quieto borgo è uno stridente contrasto con quanto pesantemente aleggia nel chiuso delle case: tristezza, solitudine, apprensione per i propri cari alle armi. Un silenzio che talvolta è rotto da un urlo: è stata consegnata ad una donna la protocollare missiva, spedita dal comando dell’esercito, che il suo “soldato” è morto. “Un soldato”, come tantissimi altri che non volevano essere soldati, divelti dalla propria terra lasciando ai suoi cari nessun sostentamento se non quello proveniente da un pezzo di “roba”, ereditato dal padre. Il cui reddito era insufficiente a coprire i necessari bisogni della famiglia. Al dolore si aggiungeva la rabbia di non essere in grado di mettere in tavola giornalmente l’indispensabile per vivere. E allora, si andava in campagna a strappare alla terra le verdure ritenute commestibili, si coltivava personalmente l’orticello, si conservavano e si risparmiavano i frutti raccolti in quel pezzo di “roba”, le galline servivano alla cova dei pulcini, i quali, divenuti adulti, davano qualche uovo e quando le chiocce diventavano improduttive finivano nella pentola; messe in tavola, la loro carne era stopposa e grassa. Altro che polli teneri di oggidì! La carne di animali di allevamento – mucche, pecore, maiali - era un miraggio. Si sopravviveva con la tessera annonaria del Fascismo attraverso i generi di prima necessità distribuiti attraverso il magazzino dell'Ammasso. I quali, pur tuttavia, erano razionati e insufficienti a sfamare una famiglia. Non diversa, però, era la situazione in tutti i paesi siciliani: stesso dolore, medesima miseria. Leone, l’ex fidanzato di Rosa, durante la II guerra mondiale venne arruolato tra i bersaglieri e destinato alle operazioni militari in Francia. Il suo plotone, durante una perlustrazione, cadde in un imboscata notturna da parte dei partigiani francesi. Strisciando sul terreno coperto da rovi, riuscì a trovare un varco per sorprendere alle spalle quegli uomini. Con un’azione temeraria, fece tacere la mitragliatrice che immobilizzava i suoi commilitoni, i quali si lanciarono in campo aperto contro i francesi, che erano rimasti sorpresi ed immobilizzati dai proiettili sparati dal mitra di Leone. Ed ebbero la meglio. Leone venne insignito con i gradi di caporale. Per un altro atto di coraggio durante uno scontro a fuoco con i tedeschi, laddove con la sua squadra fece prigionieri quei nemici avendoli accerchiati, si guadagnò i galloni di sergente. Leone, oltre che audace, era anche molto intelligente e si era fatta una certa cultura leggendo parecchi libri, presi in prestito dalla biblioteca del Marchese Lanzetti. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, rientrò in Italia. Ma, da fervente socialista, depose la divisa per darsi alla macchia unendosi alla Resistenza. Come partigiano, combattè in Piemonte e in Lombardia al com ando di un plotone della sesta brigata “Giustizia e Libertà”. Tra le numerose azioni in combattimento, cui prese parte, gli venne assegnata, come comandante, la difesa di alcuni presidi, in posizione avanzata e prese parte anche ad una spedizione contro elementi della Zicherait repubblicana e ad altri numerosi combattimenti contro i nazi-fascisti. Con la sua brigata, Leone partecipò all’arresto di Benito Mussolini, camuffato da caporale della Wehrmacht, in fuga verso la Svizzera, assieme ad altri gerarchi fascisti. Dismesse le vesti del combattente, Leone rientrò al paese natio, laddove trovò lavoro come guardia forestale. Durante il rientro notturno da una festa paesana in una località della riviera, nel tragitto lungo la trazzera che dalla marina portava alla montagna, una lupara chiuse la spensierata giornata facendo stramazzare a terra, senza vita, l’invitto partigiano. Venne esclusa la strada di un delitto per vicende amorose in quanto probabilmente inesistenti, ma furono in parecchi a credere nell’ipotesi che esso sia stato messo in atto per una vendetta da parte di elementi fascisti che vollero, in tal modo, vendicarsi uccidendo il partigiano che prese parte attiva all’arresto di Mussolini. Ma, a quei tempi, considerato lo scacchiere politico esistente in Parlamento, per non fare venire a galla un ipotetico scandalo, si decise di interrompere la ricerca della verità. Manon Roland, nel 1793, prima di essere ghigliottinata, passando dinnanzi alla statua della Libertà, disse: « O Libertà, quanti delitti si commettono in tuo nome! ». Scoppiata la seconda guerra mondiale, Roberto Dellosso Lanzetti, col grado di tenente colonnello, chiese di essere inviato al fronte. Venne proiettato in Russia con l'Armata del Generale Francesco D’Abrera, suo concittadino. Col Savoia Cavalleria partecipò alla carica contro i russi nell'episodio di Isbuscenskij, passato agli annali come l'ultima carica della cavalleria italiana nella storia. Le vicende della guerra peggiorarono sempre di più nei confronti delle truppe italo-tedesche, le quali furono costrette ad iniziare la ritirata. Quel che rimaneva dell’Armata italiana ebbe l’ordine di ritirarsi tra inaudite difficoltà e marce forzate. I pochi cavalli del Reggimento, rimasti in vita, furono utilizzati per il trasposto degli scarsi viveri e di qualche mitragliatrice; esaurite le scorte di cibo, uno alla volta vennero abbattuti i pochi cavalli mangiandone la carne e bevendone il sangue. Il Tenente Colonnello marchese Roberto Dellosso, alternandosi con altri commilitoni, partecipò ai turni per trasportare a spalla la mitragliatrice, si caricò sulle spalle uomini esausti e feriti, ma che dovette abbandonare in quanto le sue forze cominciarono a venire meno. Le tormente di neve, le marce ad una temperatura rigida di parecchi gradi sotto lo zero, alla quale il suo fisico, come quello di tutti i meridionali, non era abituato, a digiuno da due giorni e con i piedi grondanti sangue, costrinsero Roberto ad arrendersi al destino. Sedette ai piedi di un albero e si lasciò coprire dalla neve che cadeva abbondantemente; chiuse gli occhi con il pensiero rivolto alla sua Angela ed alla terra natia mentre il corpo andava trasformandosi in una statua di ghiaccio. Angela rimase vedova a 45 anni, ed era ancora una avvenente donna. Ma sola. Un uomo bussò al portone di Angela nella sua villa di Roccalunga: era alto con il fisico asciutto ma muscoloso, il suo sguardo colpiva ancora malgrado i 50 anni da poco superati. Indossava un completo da cavaliere in velluto nero con i consueti stivali e la coppola sulle ventitrè. Era Turi Vinicio. Aveva saputo della disgrazia ed era venuto a porgere le condoglianze alla sua Angiuluzza.. Grande fu la sorpresa di Angela, ma, dopo averla superata, si buttò tra le sue braccia; nessuna lacrima sgorgò dai suoi meravigliosi occhi. Turi la strinse forte a se in silenzio: sentiva di amare ancora quella donna. Ed erano trascorsi circa venticinque anni. << Sugnu cca pi non lassariti cchiù>> (sono qui per non lasciarti più), le sussurrò quell'uomo. sospirò Angela, e lo strinse ancor più forte a se. Qualche giorno dopo, Turi consegnò ad Angela un plico. . Con queste parole l’uomo sorprese la baronessa, e soggiunse: < In un libro ho letto questa poesia e m’è sembrato di rivedere un’analogia con la nostra storia d’un tempo. Ho strappato quelle pagine e le ho conservate. Il destino ha voluto che potessi consegnartele personalmente>. Angela rimase ancor di più senza parole quanto aprì il rotolo e lesse. “ODE AD UN VOLTO SENZA NOME Sul tuo corpo nudo godevi la brezza che montava dal non lontano mare assopita tra la verzura attorno al castello avito solitario sull’alto monte. Non c’era ombra umana attorno a te. Scendevo dal vicino monte di antica gloria portandomi un monile del levante che tolsi da sotto una pietra tombale fregiata di simboli gentilizi. Con un leggero tossicchiare per partecipare la mia presenza impacciata ed indiscreta chiesi di potermi rinfrescare alla vicina fonte: mi porgesti un boccale dopo esserti coperta di trasparente tunica. Calava la sera sul nostro conversare e deponesti sul lungo tavolo del salone delle feste un vassoio di fragole e fichi ed una torta con cioccolato e ricotta che la tua tata aveva messo nella sporta per il tuo solitario weekend. Abbrustolisti fette di pane domestico sul camino acceso per l’occasione malgrado la calura. Il vino forte e scuro curato dalle mani di un cortigiano di Bacco proveniva dai vigneti del tavoliere di famiglia. Sul terrazzo tra le torri merlate ci facemmo accarezzare da una vermiglia luna mentre lo zefiro scompigliava i tuoi lunghi capelli infiltrandosi sotto la trasparente veste e denudando le tornite gambe sino al ventre vellutato. Le immagini che la natura ci donava ed il divino liquore ci invitarono inebriati a giacere insieme nella notte già alta: il talamo principesco adornato con tende e sete realizzate nell’antica città bizantina ci accolse con il lume delle candele. Più e più volte unimmo i nostri corpi sino all’alba che ci colse dormienti in un sensuale abbraccio. Avevi vent’anni: era il tuo primo amplesso e mi donasti il virgineo tuo fiore. Ti diedi in dono l’antico reperto di ellenica fattura. Trascorremmo il dì passeggiando nel bosco ed immergendoci nelle fredde acque d’un laghetto. Tra i zampilli della cascata saltellavano le trote neonate seguendo il passo del genitore e policromi pettirossi danzavano col canto di usignoli. Sulla rena di levigate minuscole pietre asciugavamo i nostri corpi al riparo di verdi giuncaie. Da noi non lontani su arsi pianori belavano gli agnelli del nonno e lo zufolo del vecchio pastore nella sua solitudine estraniata dal mondo diffondeva le note d’un canto antico. Brulicava di innocui insetti l’assolato spazio intorno agli acquitrini dove essi s’immergevano per fuggire la calura. Cogliemmo mirtilli e more che si nascondevano tra rovi spinosi ai bordi di margheritine bianche e gialle e ci deliziammo con la ricotta ancora calda che i tuoi pastori ci offrirono assieme ad un bicchiere di buon vino su fette di pane abbrustolite sulla brace ancora accesa d’un pino odoroso. Fummo felici lontani dall’incognita del mondo. Nessuna voce ci collegava agli eventi sulla terra solo la natura ammaliava i nostri volti. T’inondò una silvana giovinezza quando una folata di vento s’insinuò tra la lunga chioma che riannodai deponendo sulle tue labbra un voluttuoso bacio esaltato dal mistero del tuo sguardo penetrante e selvaggio che faceva vibrare il mio corpo mai sazio d’amore. E quando la bruma ebbe a calare sui tronchi degli alti abeti e dei larici svettanti verso la libertà dell’azzurro affrettammo il passo verso il calore del momentaneo nido ove ascoltammo il “Sogno d’amore” di Litz sorseggiando un vino d’annata. La notte ci donò una cascata di stelle cadenti nel blu terso d’una luminosa volta lunare. E ci amammo sulla nuda terra. Per sette giorni quel giardino quelle mura quei secolari alberi videro i nostri corpi unirsi nell’ardore della giovanile età. C’incamminammo verso il destino sapendo che l’oceano ci avrebbe separati: un uomo ti attendeva in terre lontane per cingere il tuo anulare col simbolo nuziale. Lunghi anni di silenzio calarono tra le mura del maniero accusando l’assenza umana; l’erba del giardino su cui colsi la tua nudità ostruiva financo il viale d’accesso al grande portone d’acero. Ma il tuo mediterraneo fascino di bruna epidermide incorniciata in una lunga chioma corvina era lì innanzi a me. Albergavano ancora nella mente l’estasi notturna di quel dolce agosto d’un lontano anno. E come il sommo aedo interrogai quelle vetuste mura semmai avrei incontrato ancora il magnetico tuo sguardo profondo da cui fui sedotto nel fondale della corona dei nostri monti. Una bianca colomba d’oltreoceano depose tra le mie mani un piccolo papiro: “non ti ho mai dimenticato”. Torno spesso su quei sentieri alpini ed immergo i miei ricordi nelle gelide acque del laghetto. E quando in agosto le chiome lucenti si staccano dalla massa stellare per incontrare il nostro spazio accarezzo la tua aeriforme sembianza affidando ad esse le note di questo canto d’amore. La devastazione del tempo ha reso bianco il crine ma il cuore s’è fermato sulle indelebili lontane ore in cui consumammo un fugace sogno d’amore. Alla fine dei nostri giorni non udremo il silenzio ma nell’eden degli amanti su un cippo staccatosi dal “nostro”castello saranno incisi i nostri nomi. Non seppi mai il tuo nome né tu il mio. Per entrambi eravamo “una driade ed un satiro” d’un bosco nebroideo incontratisi per caso in un indefinito agosto d’un non precisato anno.” < E’una meravigliosa favola> esclamò la donna . proseguì di rincalzo Angela e strinse a lungo tra le braccia quell’uomo, il quale volle baciarla lievemente sul capo. Quando gli Alleati invasero la Sicilia per liberare l’Italia dal nazi-fascismo, la gente cominciò a sperare che le cose cambiassero. Essi, però, si sostituirono agli eccidi dei fascisti e della Gestapo con altri atti di inaudita violenza. Furono conquistatori e non liberatori. Furono passati per le armi soldati italiani nemici, che alzavano le mani per arrendersi, obbedendo all’ordine impartito dal Generale americano Patton: “Niente prigionieri”; ma vennero trucidati anche centinaia di civili, sospettati di connivenza col nemico, sparando ad altezza d’uomo. E non solo. Soldati marocchini delle truppe alleate, ma anche bianchi, aggredirono e stuprarono parecchie donne, senza distinzione di età. Se qualcuno degli uomini presenti – in genere anziani perché i meno anziani erano alle armi – cercava di difenderle, veniva malmenato o addirittura “impalato”. I soldati americani, assieme ad altri militari delle truppe alleate, entravano nelle grazie delle donne regalando loro scatolette di carne, cioccolato o caramelle per poi violentarle. Molti furono i figli di “N N”, cui seguirono, a guerra conclusa, le domande al governo italiano, da parte delle donne, di indennizzo come vittime civili di guerra. C’è anche da dire, tuttavia, che alcune vendettero ai militari-“liberatori” il loro corpo per sopravvivere alla fame più nera ma che venivano “ricompensate” con le AM-lire, la moneta stampata dagli americani. Con essa era pagata la truppa di occupazione per i consumi “extra” e per pagare le derrate acquistate in regime di libero scambio. La lira italiana continuava ad avere corso legale pur essendo inflazionata; infatti, per ottenere 1000 AM-lire occorrevano due mesi di paga in lire italiane, ammesso che sarebbe stato possibile avere un lavoro continuato. Ed allora, si vendeva qualche gioiello di famiglia, qualche coperta del corredo, un paio di lenzuola, un pezzo di terra per comprare, al mercato nero, gestito dalla mafia, il frumento che doveva servire per il pane e la pasta, fatti in casa. E se era impossibile avere farina di grano, si macinavano nocciole, castagne e mandorle per fare il pane. La poca spesa che doveva essere fatta in bottega, si faceva a credito scrivendo le lire dovute al bottegaio in una “libretta” e si pagava quando si aveva qualche soldo, con un interesse occulto, cioè con una maggiorazione del giusto prezzo. E c’era freddo d’inverno, tanto freddo: un po’ di carbone nel braciere non era sufficiente a riscaldare le case dei meno abbienti. A proposito di gioielli, c’è da rammentare che Mussolini, per la campagna etiope, aveva invitato gli italiani a donare “oro per la Patria”. Le donne si spogliarono della loro fede nuziale, ma anche coloro che si consideravano ferventi fascisti donarono oro ed argento. Furono raccolte tonnellate e tonnellate di preziosi, che trasformati in lingotti furono rinchiusi nei forzieri della Zecca di Stato. Ben poco, quindi, era rimasto nelle case del ceto medio - basso. Non si è mai saputo che fine abbia fatto tutto quell’immenso tesoro…! Durante l’invasione della Sicilia, le case di campagne, ivi comprese quelle di Roccalunga, si resero vissute dai cittadini che, per paura, lasciavano i loro centri abitati; vi furono anche abitanti che sfollarono dalle città bombardate per rifugiarsi nei paesi di origine. Dopo l’Armistizio dell’8 settembre ‘43, l’esercito italiano andò incontro allo sbandamento: alcuni soldati siciliani in forze ai reparti del fronte settentrionale disertarono. Certuni si unirono ai partigiani, altri, invece, nascondendosi dai nazi-fascisti, intrapresero a piedi, tra enormi stenti e paura, il cammino per raggiungere il paese natio impiegandovi parecchi e parecchi giorni per attraversare tutto lo Stivale. Rientrarono anche i reduci, prigionieri dei russi, sopravvissuti alle violenze dei soldati bolscevichi, al ghiaccio, alla fame, ai campi di concentramento, prostrati nei corpi e nell’animo. In molti furono dichiarati dispersi tra i ghiacci, altri ancora, scampati alla tragica conclusione della battaglia sul Don, riuscirono a trovare rifugio in qualche casolare russo per poi lasciarlo, ringraziando per l’ospitalità, quando il rigido inverno pose fine alle sue giornate. Talvolta, il soggiorno fu reso piacevole da qualche rapporto intimo con donne sole o ragazze libere facenti parte del nucleo familiare; storia, però, che non andò a buon fine giacché nell’uomo era sempre presente il desiderio di raggiungere la sua Sicilia. La disponibilità delle donne sovietiche era stimolata dalla fama che l’uomo italiano gode, soprattutto quello siciliano, quale prestante amante latino. La tragedia della guerra presentava sul suo palcoscenico innumerevoli vittime, affrante dal dolore per avere perduto i loro cari, assalite dalla miseria e dai lancinanti dolori addominali per non potere assolvere il minimo indispensabile affinché il corpo non s’indebolisse. Dopo la pace mondiale, a cagione delle notevoli ristrettezze economiche, numerose famiglie dovettero vendere i loro beni per sopravvivere oppure emigrare in cerca di un lavoro con cui andare avanti. Altre, che rimasero e che avevano parenti emigrati negli Stati Uniti dopo la prima guerra mondiale, ricevevano da essi pacchi di vestiario, scatolette, dolciumi non deperibili ed altro, nonché alcuni dollari . Questa è stata la guerra di Mussolini! Ma anche dei “liberatori-conquistatori”! I soldati tedeschi e quelli italiani, cacciati, andavano ritirandosi; giunsero a Roccalunga, laddove il Generale di Corpo d'Armata, Francesco D’Abrera, aveva insediato il suo quartiere generale. Durante una perlustrazione da parte di una ronda tedesca, alcuni soldati penetrarono nella villa di Angela uccidendo con il mitra i cani che si erano avventati contro e con brutale arroganza vollero entrare in casa col pretesto di frugare tra le cose alla ricerca di un eventuale documento che incriminasse la donna quale spia degli americani essendo note le sue idee socialiste. Non trovarono alcunché. Ma volendo sfogare il loro livore e la loro datata sete sessuale, colpirono con uno schiaffo la malcapitata e la spinsero su un divano con l'intento di violentarla. Turi, alla vista dei tedeschi, si era nascosto nell'abbaino, da cui, attraverso uno spioncino, seguiva la scena. A quel punto, uscì fuori con una rivoltella in mano intimando le mani in alto ai soldati. Uno di questi tentò di sparargli, ma Turi fu più svelto e lo fece secco. Gli altri tentarono di reagire, ma furono abbattuti dai proiettili dell'uomo di Mangalavite. Gli spari vennero uditi dai tedeschi rimasti nella strada, i quali, ovviamente, si precipitarono nell'abitazione. Intimarono a Turi e ad Angela di arrendersi, e vennero arrestati per essere passati con le armi. I due, in quanto italiani, chiesero di essere consegnati ai soldati del loro Paese. L'episodio, peraltro, era arrivato alle orecchie del Generale D’Abrera, il quale immediatamente ordinò al Colonnello tedesco di consegnargli i ”colpevoli” per affidarli alla Giustizia Italiana. Quando costoro furono in presenza del Generale, quest'ultimo li riconobbe come suoi concittadini dopo che Angela ebbe a dirgli che suo marito Roberto era stato sotto il suo comando nella spedizione in Russia e che purtroppo da lì non era più tornato. Il Generale, dovendo in qualche modo rendere conto agli alleati tedeschi, ordinò, celando le sue vere intenzioni, che venissero arrestati e tradotti in cella. Gli avvenimenti, però, precipitarono e gli alleati italo-germanici dovettero abbandonare precipitosamente il territorio. Una mano “anonima” aprì la porta della cella ed i due “prigionieri” ebbero libera la strada della fuga. Nascondendola sotto uno pseudonimo, si riassume in breve la figura del Generale di cui sopra. Nel “cursus honorum” raggiunse il grado di Generale di Corpo d’Armata, l’apice di una carriera militare in seno all’Esercito, dopo il quale c’è l’incarico politico di Comandante Supremo. Da chi ha scritto su di lui, si stralcia una breve sintesi biografica : “Comandante del XXXV Corpo d’Armata, in Russia, nel dicembre del 1942, per sfuggire all’accerchiamento delle divisioni sovietiche eseguì una rischiosa manovra di disimpegno per uscire dalla sacca in cui i suoi uomini vennero a trovarsi ; diede così inizio alla ritirata delle armate sud fino al Donez e ad alla gigantesca battaglia difensiva sul Don. In Sicilia quando intuì i piani del nemico, concepì ed attuò quell’audace movimento di fianco, sotto la pressione nemica, che consentì il recupero delle divisioni “Aosta” e "Assietta" che stavano per essere tagliate fuori dalle forze corazzate del generale Patton, schierandole su una nuova linea nella Sicilia orientale; una siffatta manovra di recupero non si sarebbe osata imbastire in nessuna scuola di guerra. Egli porta nella tomba – come è stato scritto da chi lo conobbe da vicino - più di un segreto di cui venne a conoscenza quale capo dell’ufficio storico nell’altro dopoguerra: non per niente ebbe ad incontrare diffidenze ed ostilità che molto lo amareggiarono. L’abito del comandante non gli impedì di essere profondamente umano: si commosse sino alle lacrime, a Stalino fra i feriti della Pasubio, la gloriosa divisione che per quattro giorni resistette all’urto di quattro divisioni sovietiche. In Sicilia si preoccupò di assicurare il pane alla popolazione civile, di aiutare famiglie bisognose di funzionari e di insegnanti che da vari mesi non percepivano lo stipendio, di soccorrere gli indigenti”. Mentre era in Sicilia trovò l’occasione per visitare il suo paese natio al fine anche di verificare le condizioni dei suoi concittadini in quel difficile periodo. Avendo saputo che le truppe tedesche avevano piazzato alcune bocche da fuoco ai piedi della montagna sovrastante il centro abitato con l’intento di bombardarlo, riuscì a dissuaderne quel comandante. Si udirono i tuoni dei cannoni tedeschi contro le truppe alleate, e viceversa, ma nessuna bomba cadde né sul paese, né nei dintorni. Durante la guerra Italo-Turca, nel 1912, viene decorato con medaglia d’argento al V.M. perché “Comandante la sezione mitragliatrici seppe con coraggio ed intelligenza far funzionare egregiamente la sezione eseguendo personalmente il tiro nell’ultima fase del combattimento. Quando dovette ritirarsi, mancando il personale, trasportò egli stesso per un certo tratto una mitragliatrice, dando l’esempio della fermezza e dell’energia”. Altra medaglia d’argento gli fu conferita, nel 1916, per “la bella condotta tenuta durante i combattimenti che condussero alla presa di Gorizia ”. Da quanto descritto, risalta una figura eccezionale, che per lunghi anni ha avuto affidati compiti di comando e di grossissima responsabilità operativa. Ci troviamo dinnanzi ad un uomo dotato indubbiamente di un’intelligenza non comune, di capacità imputabili non certamente alla media, bensì di fronte ad un condottiero vero, ad uno studioso di tattica e di strategia militare, applicate con successo, talora per la prima volta, nonché in presenza di un uomo che sapeva commuoversi di fronte al dolore ed essere sensibile ai bisogni della gente, pur nella freddezza del suo temperamento, discendente dal ruolo cui era chiamato, quello del comando. A distanza di parecchi anni dalla sua scomparsa, attraverso la documentazione esistente, a noi viene descritto un uomo che s’impone per la sua statura istituzionale e per la sua personalità di combattente e di servitore della Patria. Quanto scritto sulla sua lapida tombale “…il generale di Corpo d’Armata Francesco D’Abrera qui attende che sia resa giustizia al Soldato d’Italia” è senz’altro una provocazione alla storia contemporanea dell’Italia perché i milioni di italiani che combatterono durante l’ultima guerra mondiale non hanno fatto altro che servire la loro Patria, che li ha chiamati a difenderLa, giusta o sbagliata che fosse la causa. Il cittadino ideologicamente può dissentire, ma il Soldato deve obbedire e difendere i colori della propria divisa, della propria bandiera, del suo Paese. In guerra, i contendenti di entrambe le parti hanno le loro ragioni da difendere: non esiste chi ha ragione e chi ha torto. E’ il rapporto di forza che, alla fine, dà ragione al vincitore. Semmai, sono da condannare gli orrori ed i crimini di guerra. E di queste azioni cruente indubbiamente il Soldato italiano non può essere mai incriminato. Egli ha solo adempiuto ad un dovere: quello del Soldato, quello di Italiano in quel ciclo storico! E’ vero, la conquista, in epoca relativamente recente, della libertà e della democrazia, l’Italia la deve ad altri popoli, che con il loro sangue hanno sconfitto uno dei periodi più bui della storia delle nazioni: il nazifascismo. Ma, ripetiamo, il Soldato in grigio-verde obbediva agli ordini, che ufficialmente la sua nazione gli impartiva. Aveva ed ha ancora ragione, quindi, il generale Francesco D’Abrera nel momento in cui ha fatto incidere sul suo sacello un appello per rendere “giustizia al Soldato d’Italia”, il quale ha sempre onorato la sua divisa. Il Comune di nascita non ritenne di inserire il suo cognome nella targa che commemora la realizzazione del Monumento ai Caduti pur avendo egli fatto pervenire il bronzo di cannone per la fusione con cui venne creata l’artistica statua. “Ingrata patria non avrai le mie ossa”, disse Publio Cornelio Scipione Africano rivolgendosi alla sua Roma. Fu così anche per il Generale Francesco D’Abrera, il quale, dopo la fine della guerra, non andò più al paese natio e fu sepolto a Venezia. Per sfuggire all’ira tedesca, Turi ed Angela, con cavalli veloci percorsero strade dissestate al ciglio di campi abbandonati per rimanere nascosti alla vista di tragitti frequentati per raggiungere i boschi a loro noti. S’inerpicarono lungo sentieri tra i castagni, per poi discendere a valle dove un laghetto montano abbeverò le bestie stremate e dissetò i loro corpi sudati. Un fuoco scaldò la notte trascorsa sotto il calore che emanava dai loro corpi coperti da calde coperte. All’alba attraversarono i campi della Ducea di Bronte per entrare, indi, nei boschi di Mangalavite: gli abeti amici li accolsero per guidarli verso l’abbandonato casale, dove stabilirono la loro provvisoria residenza. Ma vi trovarono degli ospiti. Rosa, la figliastra del Barone Averardo, con il figlio ed il marito Salvatore Bonacura, che era sfuggito alla guerra perché riformato alla visita di leva “per piedi piatti e schizofrenia tipo paranoide”, vi si erano rifugiati occupando un’ala dell’abitazione montana. Convissero per un certo periodo sino a quando gli strascichi dell’evento bellico cominciarono ad attenuarsi. Ma, nel frattempo, nella zona imperversava la “Banda Rossa”, formata da una decina di banditi armati, capeggiata da un certo Porrello. Costoro fecero visita alle Case di Mangalavite ed intimarono di consegnare loro denari e gioielli. Le due donne risposero di non avere seco né oggetti di valore, ma solo poche centinaia di lire. I banditi misero a soqquadro le stanze ed in una nicchia, ben nascosta da un vecchio dipinto, scoprirono il tesoro della Marchesa Dellorto. Angela lo riconobbe, si voltò verso Rosa, apostrofandola: “Ladre e puttana”. Secondo un detto siciliano “ i cosi arrubati non lucino” (ciò che viene rubato non viene goduto. NdA). Uno dei banditi colpì con un pugno Rosa ed un altro diede uno schiaffo ad Angela. Turi reagì per difendere la sua donna ed estrasse la pistola dalla fondina nascosta, a tergo, dalla giacca, ma una sventagliata di mitra lo colpì a morte. Con selvaggia crudeltà, il capo banda prese Rosa, tramortita, la buttò sul letto della stanza accanto, la denudò e la violentò. Indi, invitò i suoi sodali a fare altrettanto: qualcuno di questi praticò lo stupro anale. Salvatore, il medico, per salvare la sua pelle, vigliaccamente non tentò la benché minima reazione, nemmeno con un invito a desistere, per difendere la moglie sulla quale i banditi sfogarono, a turno, la loro pulsione sessuale. Risparmiarono Angela perché il capo banda aveva conosciuto suo padre, il Barone, il quale l’aveva fatto lavorare nelle sue terre. Alla fine, il Porcello, rivolto al marito di Rosa, gli sputò in viso e, ringhiando, gli disse: “ Poiché non sei un uomo, ma un ignobile verme, non meriti di vivere ancora”. Con la lunga lama del coltello a serramanico, lo colpì al torace trafiggendogli il cuore e buttò il suo cadavere sul corpo nudo della moglie. Di questa orrida scena fu spettatore il piccolo Alberto, figlio di Rosa e Salvatore. Che, tenuto a bada da uno dei banditi, rimase impietrito e privo della parola per alcuni giorni. Il trauma subito lo segnò per tutta la vita. Angela, allontanatisi i fuorilegge, raggiunse a cavallo, portandosi dietro il bambino, il casolare più vicino per chiedere aiuto. Uno dei contadini si assunse il dovere di informare Nunziatina, la madre di Rosa. La quale era svenuta e segnata da ferite e sanguinante dalle parti del corpo violentate. Angela e Rosa non sapevano di essere sorellastre; a quel punto Nunziatina, accorsa, svelò il segreto mantenuto per tanti anni e pregò i suoi amici contadini di trasportare la figlia dal medico del paese. La legarono su una cavalcatura ed intrapresero la lunga strada verso il centro abitato. Prima di partire, la nonna Nunziatina pregò Angela, impietrita e sbigottita, di prendersi cura di Alberto, il figlio di Rosa. Giunti al paese, il medico non potè che constatarne il decesso della poveretta, vittima delle percorse, delle violenze sessuali e degli stupri. Angela, il giorno dopo, aiutata dalle donne, diede inizio ai preparativi per la sepoltura del suo Turi e del medico, le cui bare vennero trasportate al cimitero del paese, facendosi carico di tutte le spese. Trascorse alcuni giorni aiutata dai contadini della zona, da quelle stesse persone che avevano lavorato alle dipendenze di suo padre. Alla fine, si decise a rientrare presso la sua casa di Roccalunga, trascorrendo il tempo tra questa dimora e quell’altra di Castel Lungo. Con il consenso della nonna, si fece carico di ospitare a casa sua il piccolo Alberto affidandolo alle cure di medici specialisti. Decise, infine, mossa a pietà per la sorte toccata al bambino, il nipote rimasto orfano di entrambi i genitori, di adottarlo. Essendo anche il nipote del barone, suo padre, iniziò le pratiche per l’attribuzione del cognome ed, a seguito della dichiarazione dei fatti narrati da Nunziatina e del suo assenso, il Tribunale emise sentenza che Alberto, in aggiunta al suo cognome originario, Bonacura, poteva aggiungere quello di Montemylè. In pratica, diveniva l’ erede della Baronessa Angela. Quando il destino gioca con la vita degli uomini! Le lunghe cure, cui fu sottoposto Alberto, soprattutto il suo affidamento ad uno psicologo, che lo seguì con delle apposite sedute per parecchi anni, riportarono alla normalità il comportamento del ragazzo. Il quale riuscì anche a laurearsi in Scienze politiche. Dopo la caduta del Fascismo, l’elettorato attivo e passivo venne esteso ad entrambi i sessi ed al di là del titolo di studio posseduto. Erano trascorsi circa quindici anni dalla prima volta che si era votato dopo la fine della seconda guerra mondiale ed, alla scadenza amministrativa, il Comune di Roccalunga si apprestava a rinnovare il suo Consiglio Comunale, dal quale, a sua volta, sarebbero stati designati il Sindaco e gli Assessori. Il Partito Socialista Italiano locale si trovava in grave crisi per una divergenza politica, al suo interno, tra due gruppi contrapposti. Angela Montemylè si offrì di ricompattare il partito per tentare di mettere in piedi una lista di candidati. La sua mediazione fu accolta da tutti i socialisti presenti alla riunione e le fu proposta la candidatura a Sindaco. Angela era venuta a conoscenza delle difficoltà economiche in cui versava il Comune; ritenne giusto, pertanto, di mettere al servizio del paese le sua persona nel tentativo di poter sanare la situazione. Rimaneva solo poco più di un mese per riuscire laddove altri, conoscitori di uomini e di situazioni locali, avevano fallito: mettere in piedi, cioè, una lista di candidati. Impresa ardua, da far tremare il polso, ma che doveva essere tentata ed affrontata. Spirito d’avventura? Incoscienza? Né l’uno, né l’altra. Semplicemente, consapevolezza di un dovere civico quale ultima erede di due famiglie che avevano rappresentato il potere economico e contribuito – quella dei Dellosso Lanzetti - a fare la storia del paese. La Marchesa Angela accettò, perciò, l’invito del partito a presentarsi candidata a Sindaco a condizione di poter formare una lista civica, che rappresentasse la sintesi delle varie estrazioni politiche presenti nel paese. Il tentativo di una azione unitaria, però, abortì. Ebbe inizio, così, la campagna elettorale di Angela Montemylè Dellosso Lanzetti, a Roccalunga, ispirata ad un nuovo modo di incontrare la gente e facendo dei comizi attraverso i quali essa cercava di sviluppare un ragionamento sulle cose da fare, senza attaccare alcuno, sul piano politico o personale, avendo acquisito la cultura della tolleranza e del rispetto soprattutto delle idee altrui, comprese quelle degli avversari. La Montemylè vinse le elezioni, con un ampio distacco di voti dal suo contendente, Segretario della Democrazia Cristiana locale. Un successo strepitoso. Dopo pochi mesi di rodaggio, avvenne il primo tremendo impatto con le difficoltà, sino allora rimaste sommerse. La novella Sindaca, cingendosi con la fascia tricolore, chiamò in Piazza i suoi concittadini per informarli della situazione amministrativa e finanziaria in cui si trovava in quel momento il paese. La gran parte della massa di debiti, per i quali il Segretario Comunale aveva chiesto la dichiarazione di dissesto economico e finanziario, risiedeva nella mancata accettazione, da parte del Comune, nei termini di legge, dei beni lasciatigli in eredità dall’ultimo Barone di Roccalunga, il Marchese Don Pietro Dellosso Lanzetti, e che furono oggetto di un lungo contenzioso con colui il quale ebbe a rivendicare l’eredità del defunto suo nobile genitore. Angela, visibilmente addolorata nel far rivivere la vicenda, riguardante la collettività ma anche la sua famiglia acquisita, lesse ai cittadini una lettera di parecchie pagine, inviatagli dall’erede del defunto Marchese, vincitore delle cause e proprietario dei beni, che invece avrebbero dovuto essere del Comune, soffermandosi su un passaggio in cui egli affermava che, in effetti, il Comune non aveva perso niente giacché non avrebbe avuto più titolo per richiederne la consegna. L’Ente si era fatta sfuggire l’eredità disposta in suo favore nel momento in cui lasciò scadere i termini perentori, che avrebbe dovuto osservare per perfezionare l’acquisizione della stessa. Alla fine del Comizio, il Comandante della Stazione dei Carabinieri, il maresciallo Cortellesi, si offrì per accompagnare Angela presso il Palazzo Municipale. Un gesto, questo, per significare che un’istituzione dello Stato, la Benemerita Arma dei Carabinieri, era accanto al Sindaco di Roccalunga nella denuncia drammatica che essa aveva fatta delle vicende accadute, in un momento così carico di tensione e di così grossa assunzione di responsabilità nella gestione del passaggio dal dissesto strisciante alla normalità amministrativa e finanziaria del Comune. La richiesta ad un Amministratore novellino di dichiarazione di dissesto del Comune fece trascorrere ad Angela notti insonni al solo pensiero che avrebbe dovuto essere il primo Sindaco, nella storia del paese, a dichiararlo. Disse: no! Quattro anni di gestione, quelli di Angela , vissuti certamente con un forte impegno civico e con grande tensione delle forze psicofisiche, all’insegna della correttezza e della giustizia sociale, del rinnovamento, della trasparenza e dell’imparzialità, pur tra le notevoli difficoltà di non potere portare avanti un programma, soprattutto quelle delle opere pubbliche. Ad Angela è rimasta la grande soddisfazione di essere riuscita laddove altri non hanno neppure tentato: i pesanti problemi economici, e non, del paese vennero eliminati. La sua forte tempra riuscì a sopportare e superare i tristi giorni vissuti come Sindaca, pur non avendo accanto l’uomo che da sempre l’aveva amata. Nel ricordo del quale, pur tuttavia, ella trascorse gli anni che le fu concesso vivere, assieme alle traversie che costellarono il suo percorso di vita. Che fu lungo avendo superati i novanta anni nel rispetto dei suoi concittadini e degli amici che le furono sempre acca Nota . Purtroppo , il blog , nel pubblicare, non rispetta gli spazi tra titoli e periodi esistenti nella pubblicazione originaria.