27 luglio, 2022

VI PARLO DI ME

 Gaetano Zingales

Vi parlo di me

con testimonial

fotografici, di stampa e sillogi di

poesie













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Copyright 2022 by 

Gaetano Zingales















































SOMMARIO   


7 - Incipit

9 - LONGI: Errante, tra nidi, paesi e poltrone

L’ adolescenza

La vita nel Collegio salesiano di Palermo

Le partite al calcio

Le esperienze teatrali

La partenza da Longi

La storia della farmacia e gli inevitabili strascichi

21 - Ricordi messinesi

L’Università

                La mia prima moglie e l’umile lavoro

                Il Sindacato

    La politica

33 - Le mie donne

39 - Il mio soggiorno romano

Alla corte di Avaldo Sarti

L’incontro con la dolce Lilly

L’improvviso arrivo di mia moglie a Roma

Il ritorno a Messina

43 - Cefalù mon amour

La C.S UIL

Rosalinda

51 - Palermo - La costituzione della Segreteria regionale della UIL-Post di Sicilia

La seconda moglie

59 - L’incompiuta riforma del Comune di Longi

ovvero Io sindaco a metà

Il fallito tentativo di mettere insieme una lista di candidati al C.C.

I debiti del Comune

Il “comizio-denuncia”

Il referendum per la mia rimozione

Il rimpianto per i mancati progetti

L’ultima battaglia: il Teatro di Pietra

83 - A volo di memoria

Da un “cuntu” tutto luncitanu

La “fuitina” di mia madre col giovane che è divenuto mio padre

Il mancato trasferimento di mia madre

87 - Da chierico servente messa in latino divenni ateo

91 - Vidi morire mia madre

95 - Sillogi: Moti dell’anima – Ode a Longi – Ode a Giò                        107 -Appendice

  Album fotografico

  Alcune lettere

  Dagli organi stampa

  Testate giornalistiche da me curate

161- A volo d’aquila      

205- Poesie

223 - Commenti su alcune poesie 

227 - Mia gestione del Comune di Longi: fatti e riflessioni 

243 - E per finire….alcune notizie “shakerate”

247 – Biografia - Pubblicazioni






















Incipit

Nel testo parlo di alcune condizioni e riflessioni inerenti il mio periodo di gestione, ma anche dopo, del comune di Longi, parlo di “amori” (coloro che hanno lasciato una traccia profonda nella mia vita) e di “amore” (quello verso la mia terra natia). Ho aggiunto, anche, strofe intimistiche, che riguardano diversi miei stati d'animo durante la mia lunga esistenza perché pur esse hanno scandito i battiti del mio cronografo mentre essi accadevano. Tutto ciò fa parte integrante della mia storia di vita.

Il testo di alcune poesie “sensibili” è stato scritto in diversi periodi e fanno parte anch’essi della mia storia. La quale, verosimilmente, è stata caratterizzata da una personalità complessa e speciale ( così definita da altri personaggi che sono entrati in contatto, anche se per breve tempo, con me), i cui sentimenti erano mossi da un intimo, latente pathos, “quello spirto guerrier ch'entro mi rugge “, per dirla col Foscolo, nella ricerca del nuovo e dello sconosciuto futuro, attraverso il romanticismo dei sentimenti, la ricerca della serenità, l'incontro con i canoni della bellezza greca perfetta nelle forme e nel volto, seppure nel divenire estetico, moderno e contemporaneo.

Il mio ispirato scrivere in versi, spesso, è scaturito dal pessimismo leopardiano e, per i problemi di natura sociale e che riguardano, innanzitutto, il vivere civile dell'uomo, mi veniva in mente la penna romantica foscoliana quando inneggiava alla libertà ed alla giustizia, ovviamente senza averne eguagliata la loro statura culturale nella forma e nello stile. Quelle d’amore, dedicate a..., sono versi sciolti di ovvia ispirazione sentimentale, in un mix di stili ispiratori :da Paul Eluard all'ermetismo di Ungaretti.

La mia vita è stata travagliata, tormentata e che, purtroppo, non mi ha dato una famiglia “normale”. La qualcosa mi ha portato a non essere un buon padre e, probabilmente, neanche un marito passabile, al di là dei torti ricevuti. Sono caduto diverse volte, ma mi sono rialzato grazie alla mia forte volontà.

La storia della mia vita non è bella a leggersi perché pochissimi sono gli avvenimenti lieti; ma, ripeto, è la mia storia.

Come in un revival, ho acceso un vecchio proiettore per fare scorrere nella mia mente, ancora lucida, malgrado il peso di parecchi anni sul groppone, le tante diapositive che hanno tipizzato il mio vivere, dall'infanzia ad oggi e che ho affidate alla sapiente penna del giornalista.

In precedenza ebbi ad affermare: quando una persona si avvicina alla fine del suo cammino, si siede su un virtuale grosso sasso e va col pensiero ai fotogrammi disseminati lungo la sua lunghissima strada.

 Il Presidente Sandro Pertini ebbe ad affermare che, se fosse stato necessario, era disposto a ripercorrere quel suo stesso cammino in quanto non si era pentito di niente. Del Comandante Partigiano Socialista conosciamo la sua vita di antifascista, che lo portò ad essere segregato nelle carceri di Mussolini, ma anche quella di esule in Francia e di muratore per necessità.

Io non posso affermare che sarei disposto a ripercorrere il medesimo mio cammino perché ho commesso, nella mia vita, alcuni errori, in buona fede e ritenendo che non fossero tali ma che lo erano invece per il mio bene; però, ho fatto anche cose belle, che rifarei. Quali? Occorre saper leggere tra le righe... di filmati e scritti, che riguardano gli ottanta anni e passa della mia vita, alcuni dei quali di “lotta”, altri di “governo”, altri ancora dedicati allo scrivere in prosa ed in versi.. 

Il mio vissuto è dedicato, anche, al mio paese natio, Longi, che, pur non essendomi stato concesso di viverci stabilmente, l'ho sentito a distanza, l'ho servito, quando vi sono stato chiamato, perchè profondo è il mio amore per la terra mia e dei miei avi.

In questo mio racconto ho inserito alcuni capitoli tratti dal mio libro “Il romanzo della vita di un errante” corredandoli con foto, documenti e strofe, attinenti agli eventi descritti e che accompagnano lo scorrere delle pagine. 



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Longi


Errante tra nidi, paesi e poltrone




Anni ‘50




















La mia biografia cruda odissea di un’incompiuta, dove per compagna ho avuto la solitudine. 


Dal primo respiro a diciassette anni 


Ebbi l’onore di nascere nella via, a gradoni, percorsa ogni domenica di Pasqua, da Maria ammantata con un drappo nero, per perpetuare “U scontru” con Suo Figlio Risorto: una tra le più toccanti, e cariche di significato umano, manifestazioni religiose della Sicilia. L’evento avvenne una domenica di dicembre del 1938 nel paesino che, nei 700/800 anni del suo attuale insediamento, ha avuto attribuiti diversi toponimi per, poi, vedersi aggiudicato quello finale di “Longi”. Il fratello di mio padre, per festeggiare l’avvenimento con gli amici presso “a putia di vinu du Lallà”, dirimpetto a casa sua, impegnò una consistenza fetta delle entrate mensile del suo genitore.  

Era l’anno in cui moriva Gabriele D’Annunzio, poliedrico personaggio del 1800 e dei primi decenni del 1900. Non è un accostamento irriverente al “Vate d’Italia”, di cui ho apprezzato la geniale versatilità, ma una citazione di un “Uomo”, con la u maiuscola, di cui appresi la vasta cultura e le gesta eroiche. Egli, infatti, è stato scrittore, giornalista, poeta, drammaturgo, tragedo, politico, Ufficiale dell’Aeronautica, dongiovanni famelico di sesso, protagonista di storie intessute anche con le migliori attrici di teatro e di nobildonne, tra cui la siciliana Maria Gravina; temperamento ambizioso e privo di inibizioni, non alto, non bello ma dalla voce suadente e seduttrice, ondivago tra talami e residenze, Medaglia d’oro al V.M ed altre d’argento, la francese Gran Croix de guerre. 

Lo cito perché ne rimasi affascinato dalla lettura, in gioventù liceale, di alcuni suoi libri, nonché della variegata biografia di fatti, eventi eroici, storie d’amore, e succedersi di pubblicazioni letterarie e di vario genere culturale.

Mio padre, che aveva conseguito la laurea in filosofia e pedagogia “magna cum laude” e diritto alla pubblicazione della tesi, fece pervenire quest’ultima all’eminente endocrinologo, prof.  Nicola Pende, accompagnandola con una domanda di insegnamento presso uno dei suoi esclusivi istituti magistrali per ragazzi portatori di handicap. Pende, nell’accogliere l’istanza, lo destinò ad una sua scuola di Nicastro, in Calabria. Ma, il “cavaliere Benito” interruppe questo rapporto di lavoro chiamandolo a servire la Patria nella “sua guerra” a fianco dei nazisti. Me lo restituì in una bara avvolto nel tricolore. A poco meno di tre anni ero “figlio della lupa “, da me… non richiesto, ed orfano di guerra.  

Eravamo in guerra, e mio padre stava seguendo il corso per ufficiale. A seguito di una estenuante marcia, sotto la pioggia, febbricitante venne ricoverato presso l'ospedale militare di Udine in quanto era stato colpito da un ascesso dentale, che si tramuto in un edema della glottide. I medici militari non seppero ridurre l'edema per cui il paziente morì soffocato. Bastava una fiale di adrenalina oppure l'applicazione di mignatte all'esterno della gola (così come venne risolto, qualche tempo dopo, un analogo incidente occorso a sua sorella). Ma si sa che presso gli ospedali militari i reparti vengono lasciati in mano a medici freschi di laurea senza alcuna esperienza medico-chirurgica. In tempo di guerra, poi, gli ufficiali medici di grado superiore hanno altri grattacapi cui dedicarsi. Il soldato Carlo Zingales venne sepolto nella nuda terra, il cui loculo era segnato da un cippo in pietra. Mio nonno dovette intraprendere una lunga e fastidiosa odissea burocratica per potere riesumare il corpo del figlio, che riuscì ad avere dopo un anno circa dalla sua morte. Io avevo già circa quattro anni e mi rimase impressa la scena dell'arrivo della bara ed il pianto di mia madre e di mia nonna. Ne ricevetti un trauma, che mi portai dietro tutta la vita. Infatti, a periodi intermittenti, da ragazzo, venni colto da balbuzie. Che superavo quando ero sottoposto ad un maggiore stress emotivo: negli interventi in pubblico e nei comizi. Non me lo sono mai spiegato. 

Appresi le aste e le vocali dalla nonna, la dolcissima maestra Caterina Mondì, la quale mi avviò agli studi presso il prestigioso Collegio Salesiano Don Bosco di Palermo. Alle elementari ebbi, come educatore, il buon ed ottimo Maestro Leone Carcione. Del quale non dimentico, tra le altre cose, un “10” in un tema che scrissi in memoria del mio più caro amico di giochi, Gianni, figlio di Elena Fabio, morto a soli 9 anni a seguito di una grave malattia.  

Venni introdotto all’attività…sessuale molto presto. Avevo circa dieci anni e la cameriera di allora – ne avemmo altre in seguito -, che praticamente mi accudiva, quando eravamo soli, mi faceva sedere accanto a lei, sul divano, ed introduceva la mia manina tra le sue gambe sino ad arrivare al pube. Io non capivo, ma lei gioiva...trasformandosi in volto. Aveva circa venti anni ed in un paese degli anni quaranta, soprattutto per una domestica, contadina e senza cultura, quegli atti potevano sembrare una ribellione alle convenzioni sociali. Ma le spinte erotiche interiori non conoscono barriere né ceto sociale e non posso essere represse; se non si ha un “partner”, ci si aiuta da soli…Lei, però, il suo innocente trastullo lo aveva trovato. 

Quando venni eletto Sindaco, quella donna festeggiò con me l'evento. Mai, però, per pudore, ebbi a rammentarle quel lontano episodio tra noi. 


Galati M. - Longi 0-1

Al paese giocavo a football con i compagni, allenandomi, presso la ex chiesa di San Salvatore oppure al “chianu da Nunziata”. A 16 anni sfuggii al controllo rigido di mia madre e, con i compagni, a piedi, attraversando il fiume Fitalia, raggiunsi Galati Mamertino per l’annuale sfida calcistica. Per la prima volta, vincemmo l’incontro grazie a qualche goal da me segnato. Sotto la “Santuzza” sfuggimmo al solito lancio di pietre, da parte dei perdenti, affidandoci alle nostre buone gambe. Rientrato a casa, venni castigato e legato ai piedi del robusto tavolo da pranzo. Ma, la nonna, la mia buona nonna Caterina, corse a liberarmi.  


                            !953. Al Don Bosco di Palermo nel ruolo di centravanti







Ritentai questa mia evasione dal paese, per rincontrare la squadra di Galati Mamertino, l’anno appresso. Eravamo in piazza con la squadra pronti a partire quando, a distanza, vidi mia madre che, con fare minaccioso, mi veniva incontro. Non certo per farmi carezze. Capii le sue intenzioni e fuggii dalle sue grinfie per rintanarmi a casa di mia nonna Caterina, dove mi barricai in una stanza. Mia nonna, ovviamente, difese l’ingresso: per due giorni dormii presso i miei nonni e rientrai a casa dopo i vari tentativi di mia nonna per farmi perdonare da mia madre. Che nei miei confronti adoperava un pugno di ferro dal punto di vista educativo. Ah, se avessimo insegnato un’educazione rigida ai nostri figli! 

A Longi, ai tempi, non avevamo campo sportivo, giocavamo nella chiesa sfasciata o al “chianu da Nunziata”. Prima con una palla di pezze arrotolate e legate, poi mio zio Nino e padrino mi regalò un vero pallone di cuoio. Che nel tempo andò perso. La mia formazione calcistica e sportiva avvenne, però, presso il collegio Don Bosco di Palermo, dove i miei mi inviarono per frequentare le superiori perché al paese si arrivava sino alla V elementare.

Rammento che il mio insegnate di ginnastica ci incitava agli esercizi ginnici con il colorito epiteto “pecoroni avanti o altro simile … invito”.  Per questa mia passione del calcio, in V ginnasio, con la squadra in cui giocavo vinsi il campionato di serie B, interno al collegio Don Bosco. Vennero i giocatori del Palermo calcio a premiarci con la medaglietta ed il capitano ci consegnò l’attestato del Centro sportivo italiano. 








Dal convitto me ne uscii perché non sopportavo i troppi castighi, cui ero sottoposto, per la mia condotta per niente irreprensibile. Ma, oggi, ringrazio quei colti e rigidi sacerdoti che mi trasmisero ottimi insegnamenti ed una buona educazione, nonché una solida formazione culturale. Ricordo con piacere il mio rigoroso professore di latino e greco, don Visalli, che tanti castighi mi inflisse – quanti giri del grande cortile oppure di  guardia ad un albero (detto palo) o, altrimenti, attraverso un serrato interrogatorio per qualche mia malefatta, mi stritolava tra le sue dita del pollice e indice la tenera pelle sotto la gola (che dolore!)-  ma che, già vecchio, dopo quaranta anni, mi rintracciò per dirmi che il mio assistente, don Lo Paro,  originario di Cesarò, del quale ero il discepolo prediletto, era morto. Don Visalli era uno sportivo: un ciclista ed un bravo calciatore. Rammento anche il magnifico don Rizzo, eroe della Resistenza, insignito con medaglia d’oro, mio professore di italiano, che era talmente legato a me da perdonarmi un brutto scherzo che gli tirai nella nostra sala cinematografica: gli tolsi la sedia di sotto mentre stava per sedersi. Mi pentii subito del gesto, ma era troppo tardi. Mi tolse la parola per circa una settimana; ero tormentato dal rimorso, gli chiesi di confessarmi e tutto tornò come prima: d’altronde era un sacerdote “vero”! 

In quel periodo imparai a servire messa come chierico, pregavo parecchio, anzi ci furono degli spazi di crisi mistica che attraversarono le mie giornate sino all’isolamento da ciò che mi circondava e ad essere trasportato in una sensazione di levitazione pregando dinnanzi all’altare maggiore, dietro il quale c'era (e c'è) un grande e bellissimo dipinto coinvolgente sul piano spirituale. La chiesa del Collegio di via Sampolo era stata costruita di recente, con il contributo anche dei fedeli; io la sentivo, in piccola parte mia, perché mia nonna Caterina aveva donata la somma necessaria per la realizzazione dell'altare dedicato a San Giuseppe, che era stato raffigurato con un quadro in mosaico. 

Nel corso degli anni, però, a causa delle traversie subite, malgrado le preghiere imploranti, maturai una evoluzione del mio pensiero religioso ed un personale convincimento su Dio. Pervenni alla conclusione che Egli esiste, si, ma, come un Monarca Assoluto, non pratica le “relazioni sociali” e determina il corso dell’esistenza degli uomini secondo un criterio imperscrutabile e, quindi, soggettivo. Ma, come tutte le decisioni prese in solitudine sono destinate ad essere criticate  ove si ritengono sbagliate; quella divina, relativa alla mia, errata la fu, sin dalla nascita, in quanto  sul mio capo non poteva abbattersi nessuna condanna per eventuali misfatti commessi da miei  antenati ( “le colpe dei genitori ricadono sui figli”, suole dirsi, ma ho visto figli che non hanno  pagato alcunché per comportamenti di grave danno, da parte dei loro genitori, procurato a propri  simili,) , né ero in presenza di una colpa personale. I greci lo chiamavano “fato”, o meglio Fato. Ma chi è che determina il fato, che ti accompagna per tutta la vita, se non Dio? Ove veramente esista. Determinanti furono i fatti dolorosi, e talvolta tragici, della mia vita – non cercati ma improvvisamente abbattutisi – affinché arrivassi alla conclusione di cui sopra. Da cattolico sono passato ad agnostico, che è la porta dell’ateismo. A cui sono pervenuto!

Un teatro alla buona

Riuscii a trasformare i magazzini della casa dei miei nonni paterni in una sala di rappresentazioni teatrali, la cui trama era inventata da me, ed assieme ai miei compagni recitavamo dei drammi invitando, con un vecchio megafono di grammofono, i compaesani ad assistervi. I quali ben volentieri, alla fine, ci regalavano 5 o 10 lire, con la cui somma – al massimo 50 lire raccolte -  organizzavamo scorpacciate di genuine stigghiole. Una volta, mio zio Nino, l'avvocato, fece venire chitarra, mandolino e fisarmonica e, quella sera, Albina Guarnera, una bella ragazza dalla voce altrettanto bella, intrattenne gli spettatori, negli intervalli, con le canzoni dell'epoca. Che serate, fatte con poco o niente ma indimenticabili. Avevamo anche due attori comici per le farse (Nino Vitanza ed Emilio Bellissimo) , ma anche una cavia , Pietro Schillirò (mio fraterno amico), che si  prendeva pedate nel di dietro anche quando aveva un ascesso: ed erano veri dolori e vere grida.  Ovviamente, io ero l'attore principale, specializzato in parti drammatiche; mi faceva da spalla Ciccino Bellissimo. Ma c'erano altri, Peppino Bartolo, che ci procurava le stigghiole fresche perché suo padre era macellaio, Gino Lazzara, Nino Imbrigiotta, timido quanto mai perché studiava in seminario, Carlo Miceli, (1), Nuccio Zingales e Nuccio Spampinato. 

(1)  addetto al megafono per annunciare al paese la rappresentazione della sera, mentre gridava con quel trombone da grammofono un compagno, credo il povero Nino Vitanza, gli buttò dentro un pugno di terra che gli invase la bocca; imprecando aggredì Nino dicendo che se avesse ingoiato la terra gli poteva venire ....il tifo ( era studente in medicina) .  Ovviamente, dividemmo, con fatica, i due litiganti. Da allora, Carlo, per gli annunci, lo feci salire sino all’abbaino della casa dei miei nonni e, facendo uscire dalla finestre il megafono, gridava: “questa sera, alle ore 21, ecc ecc”

La compagnia dell’Asso di coppe

Eravamo in dodici. Tutti quanti formavamo la “Compagnia dell'Asso di Coppe” (la coppa raffigurava le bevute di buon vino che accompagnavano le nostre serate). 

Tra le altre iniziative da ragazzi, facemmo una escursione alla Grotta del Lauro (Rocche del Crasto), ispezionandola con le torce, fatte di strisce di copertoni, che ci annerivano il volto. Attraversammo carponi uno stretto cunicolo sulla cui roccia c’era scolpita una croce e sotto: “questa è croce vera”. Corremmo due volte alcuni rischi: all'interno di essa, Emilio stava per sprofondare in una voragine di cui non si vedeva il fondo ed a mala pena riuscii ad afferrarlo per tiralo su; volendo cambiare percorso per il ritorno, per arrivare al Pizzo di S. Nicola e rientrare al paese da C. Filipelli, facemmo l'arrampicata, legati con le corde (senza l'esperienza dei rocciatori) lungo una parete rocciosa il cui fondo valle era a 300 metri circa più in basso. Ci andò bene. Ma eravamo dei temerari spinti dalla giovane età.

Bellissima fu la gita a Monte Soro ed al lago Biviere. Partenza alle quattro del mattino con un asino sul quale caricammo vettovaglie e coperte. Non conoscevamo la strada, ma l'asinello si; infatti, arrivato ad un certo bivio, noi non sapevamo quale strada sterrata prendere, ma l’animale, senza tentennamenti, proseguì per una certa direzione e noi lo seguimmo. Ci portò al Biviere. Infatti era una bestia da soma che trasportava frequentemente il carbone dal bosco al paese: pertanto, conosceva a memoria la strada da percorrere.

La notte dormimmo all'aperto, l'uno accanto all'altro per riscaldarci, avvolti nelle nostre coperte, anche se eravamo in pieno agosto ma ad un'altezza montana di circa 1500 metri. Verso le tre del mattino assistemmo ad uno spettacolo irripetibile: in alto nel cielo, ma molto vicina a noi, splendeva Sirio come un lucente e potente faro. Su Monte Soro, spettacolo da mozzafiato con l'Etna di rimpetto, i carabinieri di guardia al potente ripetitore della RAI, ci proibirono di fare fotografie.  Ma riuscimmo a distrarli ed a farne qualcuna. 


Gita al lago Biviere ed a Monte Soro.



La battaglia delle “stigghiole”

Memorabile fu la stigghiolata a casa di Ciccino ed Emilio Bellissimo, in piazza. Un gruppo di ragazzi più grandi di noi, che noi chiamavamo “i ranni”, ebbe sentore della “manciata” e voleva entrare a qualsiasi costo in casa. Diversi furono i tentativi: assalti alla porta, penetrazione con sfondamento del balcone facilmente raggiungibile dalla strada; interruzione della corrente elettrica attraverso il corto circuito della valvola esterna (allora si usava così). La battaglia per respingerli fu accanita: alla fine, l’area adiacente era stata lavata dai secchi d'acqua che rovesciammo dal terrazzo. Per fortuna, allora, l'acqua corrente nelle case era erogata notte e giorno. Respingemmo gli assalitori, che dovettero rincasare per togliersi di dosso gli abiti inzuppati. Comandante del campo venne nominato Turiddu Fabio, detto “u struncaturi”, che dal terrazzo dirigeva la…. Battaglia di secchi d’acqua, mentre i bravi cuochi, Emilio e Nino Vitanza preparavano le stigghiole; il vettovagliamento, compreso il beveraggio, fu affidato a Peppino Bartolo. Abbandonato il “triclinio”, dopo aver gustato le ottime stigghiole accompagnate da non parsimoniose libagioni, ci trasferimmo nel salone per i canti, danze (tra maschi) e facezie varie. Io vi venni accompagnato, ma, quando fui lasciato in piedi, caddi per terra “come corpo morto cade” a causa di un giro di testa, ma vivo. 

Eravamo in piena estate ed il paese, che s’incamminava verso le prime ore dell’alba, era silenzioso e deserto. Finimmo i bagordi notturni, sino al primo chiarore, presso la fontana dei “Due Canali” per smaltire le abbondanti libagioni, dopo esserci “confrontati”, Ermanno ed io, attraverso una benevola scazzottata, nella piazza del Monumento ai caduti. Quella fu la mia prima ubriacatura. 



da dx, io, Carlo Miceli; sotto, Ciccino Bellissimo ed il piccolo Ettore Carcione

A 16 anni avevo già letto tutti i classici ed i romanzi esistenti presso la nutrita libreria dei nonni paterni. Quei testi formarono la mia cultura di base ed arricchirono il dono della mia fantasia.  

Il primo amore  

Giocavamo insieme, Tania (pseudonimo) ed io ancora fanciulli, al “dottore e la paziente”; oppure, mettevamo in piedi piccole recite ed io e lei interpretavamo le parti di marito e moglie scambiandoci qualche tenera, ma innocente, effusione. Già ragazzi, passavamo le vacanze estive tra passeggiate pomeridiane lungo il tortuoso stradale e silenti notti a contemplare il cielo mentre le nostre famiglie s’incontravano per ammazzare il tempo. Ci amavamo come si possono amare gli adolescenti di quell’età.  

L’unico vero bacio ce lo demmo, prima che io partissi per l’università, nel buio autunnale dello stradale deserto nei pressi del “ponte”: lei aveva 16 anni ed io quasi 18. Le promisi che l’avrei raggiunta nella sua città, Palermo. Fu una promessa da marinaio, non volutamente non mantenuta, però, perché mia madre scelse Messina in quanto riteneva di potere raggiungere più facilmente il paese con l’autobus giornaliero. A Longi, infatti, lasciava i suoceri, la casa ed i terreni. 

Quando la rincontrai, al paese, ero già sposato ed avevo una bimba. Mi disse: “ti ho atteso per tanti anni. Sei uno spergiuro”. Quello fu il mio primo errore …d’amore. Dopo oltre cinquant’anni, scrissi per lei una poesia dal titolo “Avevamo diciott’anni”.


Patti


Con i miei compagni della III liceo classico.

Nel 1954, mia madre fu costretta ad emigrare da Longi per motivi di lavoro. Dissero temporaneamente. Ma non fu così. Risiedemmo, pertanto, a Capo d’Orlando, poi a Gioiosa Marea, dal cui ridente centro viaggiai giornalmente per raggiungere il liceo classico di Patti. La macchina che ci trasportava, omologata per cinque persone, accoglieva ben otto studenti per cui, sulle mie gambe, toccava fare accomodare il sedere di Caterina o quello di Giovanna con le … conseguenze immaginabili. Ed erano liti giornaliere. Ignazio, che era in soprappeso, si era accaparrato il sedile anteriore, che condivideva però con un altro studente mingherlino, ma aveva il ruolo di imitare la sirena – e lo faceva a perfezione - quando l’autista doveva fare il sorpasso di un autoveicolo che non ci dava strada.  


Liceo classico – Universitari pattesi 4 -1

A Patti, nel 1956, il bollettino della scuola riportò la notizia che l’annuale sfida calcistica “Liceo Classico- Universitari” venne vinta, per la prima volta, dai ragazzi del liceo per 4 a 1: le 4 reti vennero messe a segno dalla mia “scarpa”, non da football, ma una normale calzatura, che alla fine della partita ho dovuto buttare perché la suola si era staccata. 

C’è da aggiungere che ero primo battitore nella squadra di pallavolo ed emergevo in tutte le attività ginniche-

Esami di maturità

Agli esami di maturità, mentre ero in attesa di essere chiamato per gli orali, seduto tra i banchi della classe, la giovanissima professoressa di storia dell’arte mi guardava e tratteggiava, indi, le mie sembianze con la matita. Quando venne il mio turno, mi aprì l’atlante di arte in una certa pagina e mi chiese cosa raffigurasse la foto stampata. Le risposi: “il ratto di Proserpina” e stavo per iniziare la mia esposizione artistica riferita al pittore ed all’immagine, ma lei mi interruppe e chiese chi fossero i personaggi mitologici nudi raffigurati ed il motivo della loro fuga sui cavalli. Dopo aver detto che ci trovavamo in presenza di Giove, che, invaghitosi di Proserpina, la rapì per amore, quella artista-docente mi disse: “anche tu sei un bellissimo modello da rapire per essere ritratto” e mi mostrò l’immagine che aveva trasferita sul foglio da disegno. “Ti vorrei come modello per dipingere il tuo corpo nudo”. Rimasi senza parole. Ero molto timido. L’esame si chiuse lì con un voto alto, credo di ricordare un otto. Ovviamente, non ci fu un seguito in quanto il presidente della commissione esaminatrice, che non aveva udito il dialogo ma visto a distanza la scena, redarguì la docente. Ciò mi fu detto dalla stessa avendola incontrata fuori dall’istituto e che mi congedò con un bacio sulla guancia e con l’affermazione consolatoria: “peccato che sei ancora minorenne”.  A quel tempo, la maggiore età si raggiungeva a 21 anni ed io ne avevo 17 e mezzo.

In effetti, la mia avvenenza adolescenziale e la perfezione di un corpo giovanile mi consentì, durante la mia vita, di avere successi in amore (ma nessuno ebbe un corso fortunato) e in avventure sessuali. Molti anni addietro, quando la mia memoria rammentava volti e persone, mi misi a contare i volti delle donne con cui ebbi ad entrare in contatto fisico: 99, a cui è da aggiungere un no (pentito) ed si platonico. 

Parecchi anni dopo, un alto funzionario del Ministero delle Poste, - una donna, che seguiva i miei articoli sul giornale sindacale da me diretto e gli affondi contro la dirigenza in occasione dei duri confronti verbali -, un giorno disse di me: “un bell’uomo con un volto d’ angelo ed  una lama nella mano destra, da cui guardarsi”. 

Conseguito il diploma di Maturità Classica, espressi il desiderio di frequentare l’Accademia Militare di Nisida per diventare Ufficiale dell’Aviazione Militare Italiana; chiesi il consenso essendo minorenne, ma mi venne negato in quanto mia madre e mia nonna volevano scongiurare il ripetersi di una eventuale tragedia come quella che le aveva colpite con la morte di mio padre. A 18 anni non compiuti, quindi, mi iscrissi a Medicina e Chirurgia presso l’Università di Messina.  















In quell’anno, mia madre lavorava a Patti. Da dove, avendone la possibilità di rientrare a Longi, si vide impedito il trasferimento dal veto opposto da un dirigente locale della potente, allora, Democrazia Cristiana, del quale la mia famiglia era avversaria politica.  Costui era stato, durante il fascismo, Segretario politico del Partito Nazionale Fascista locale e, dopo la guerra, Sindaco democristiano di Longi, l’ins. G: M. Il veto per il rientro a Longi ed il conseguente trasferimento a Messina di mia madre diede origine ad un vero disastro economico: si dovettero vendere le proprietà e la casa del paese. 


Un piccolo passo indietro

Del caporione fascista del paese, alcarese di nascita longese per matrimonio, si raccontano tanti episodi di cattiveria quale capo del fascismo; ma voglio rammentarne uno, di cui fu protagonista mio padre. Il quale era Comandante dei Giovani fascisti di Longi. Ebbene, un giorno, rientrando da Messina, presso il cui Provveditorato agli Studi si era recato per potere avere un lavoro come docente – era laureato in filosofia e pedagogia-, nel cambiarsi d'abito, dimenticò di passare il distintivo fascista del partito all'occhiello della giacca indossata. Venne bloccato da quel signore, Segretario del partito fascista, e gli fu ritirata la tessera. Significava, - per tutti -, senza l'iscrizione al partito, di non potere lavorare in nessuno degli enti pubblici. Lo zio di mio padre, Luigi, era uno dei dirigenti locali del fascio locale. Riuscì a riempire una lunga lista di tesserati al partito, che giravano per il paese, senza il prescritto distintivo. Lista che consegnò al caporione fascista invitandolo a comportarsi nello stesso modo con cui aveva adottato il provvedimento verso il nipote. G. M., al fine di evitare di correre rischi da parte dei tesserati, magari sotto forma anonima, come talvolta si è usato in quel paese, fu costretto a restituire la tessera a mio padre. Ma, allora (solo allora?), l’avversario era considerato un nemico e, come tale, si odiava e si tentava di distruggerlo, anche fisicamente. 

Notizia a parte. Toni Lazzara, di 97 anni, emigrato in California, mi scrisse: “In occasione delle visite al paese dei caporioni fascisti, G. M. faceva scendere anche i contadini dalle contrade, i quali venivano con zappe e picconi e vanghe e bloccavano l’uscita del paese in modo che gli antifascisti, non potendo andare fuori paese, erano costretti a far numero in piazza. Nino rammenta anche le sfilate paramilitari di Avanguardisti, Balilla, figli della Lupa, donne fasciste ecc; rammenta anche che per diventare Balilla occorreva frequentare un corso diretto dal Prof. A. M.

Un altro episodio, che ha avuto come protagonisti i miei antenati ed il maestro G. M., Segretario della sezione del Partito fascista di Longi, fu quello riguardante l’eredità della farmacia del paese al decesso del titolare, Angelo, fratello di mio nonno e di altri prozii. Il quale aveva sposato in seconde nozze la suocera d di quel signore e non aveva avuto figli da questa donna.  L’eredità, pertanto, doveva essere ripartita tra i fratelli e le sorelle del “de cuius e la moglie. Tra i fratelli di Angelo, che era stato anche Sindaco di Longi, ce ne era uno medico, il quale rivendicava la titolarità della farmacia mentre gli altri germani avevano diritto alla parte economica. Eravamo in pieno fascismo – gli anni dopo il 1930 – per cui G.M. arrivò a fare minacciare di licenziamento sia Giuseppe, il medico condotto di San Marco d’Alunzio, che ne rivendicava il diritto, sia Luigi, Segretario Comunale di Longi, rispettivamente dal Medico Provinciale e dal Prefetto di Messina. I due fratelli dovettero cedere le armi per cui la titolarità della farmacia passò alla figlia della moglie del farmacista Angelo, L. S., che nel frattempo aveva conseguito la laurea in farmacia. Fu, grazie al fascista G.M. che i Zingales persero quella eredità, la cui carpetta, alla Prefettura, portò l’intestazione per trent’anni “Farmacia Sirna, già Zingales”. 

Ebbi modo di visionare il suddetto fascicolo, presso l’archivio della Prefettura di Messina, quando, avendo dovuto rinunziare alla laurea in Medicina e Chirurgia, era mia intenzione recuperare le materie date iscrivendomi in Farmacia. Ma il tempo, previsto dalla legge, per aprire un contenzioso era già scaduto. 

Quella farmacia era la trasformazione dell’esercizio di mio bisnonno Antonino, che era l’Aromatario del paese. Il quale, padre di ben undici figli, tutti sistemati (1), era anche un ricco possidente, i cui beni ebbe a quantificare nel suo testamento olografo in ben oltre centomila lire nel 1930. Ma, dopo la sua morte, l’eredità si frantumò tra i suoi eredi ed i figli dei suoi figli. 

Il mio bisnonno Antonino Zingales, negli anni venti del secolo scorso era, tra altro, proprietario terriero di oltre cinquanta ettari, tra Longi e S. Marco d'Alunzio, concessionario della gestione degli uffici postali di Longi, Palermo-Uditore, S.Stefano di Camastra, diretti da alcuni suoi figli.  Anche egli fu Sindaco di Longi. Così come lo fu suo figlio Angelo, un gigante alto 2 m e 5 cm, con una laurea in Agronomia ed un’altra in Farmacia. Un uomo, quest’ultimo, che è entrato nella leggenda del paese per le gesta temerarie compiute, un Sindaco, che, negli anni venti del 1900, realizzò notevoli ed importanti opere pubbliche. Leggi la sua biografia tra gli uomini illustri longesi nel mio libro di storia longese “Quel borgo baciato dalle acque del Mylè”.












                            Cavaliere Ufficiale del Regno d’Italia, Antonino Zingales

Così come ebbe a perdersi l’eredità della farmacia di Uditore, un borgo di Palermo, il cui titolare era Luigi Mondì, originario di San Marco d’Alunzio, padre di mia nonna Caterina. Le sue due figlie femmine, con un diploma di maestra elementare, non ne avrebbero avuto diritto, mentre l’unico figlio maschio, predestinato a succedergli come farmacista, morì in giovane età a causa di un incidente. 

Era destino che le due farmacie non dovessero tramandarsi agli eredi legittimi del ramo Zingales- Mondì. 

(1) Francesco, maresciallo  dei Carabinieri Reali, Giuseppe, Medico Condotto presso S.Marco D’Alunzio, Salvatore, direttore ufficio postale di Uditore, Nicola, direttore ufficio postale di S,Stefano di Camastra, Luigi, Segretario comunale di Longi, Angelo, farmacista di Longi, Gaetano, direttore ufficio postale di Longi; Caterina, sposata col medico condotto di Longi, dr. Sirna, Maria Teresa sposata con  l’impiegato postale Francesco Corrao, Carlo ed Elvira (con i nomi , quest’ultima, anche di Ida, Adelina, Lauretta, Rosmunda, Itala, Libertà, Elena, Beatrice, Adelaide, Vittoria , undicesima) , morti, in giovane età, durante l’epidemia della Spagnola.

Come ebbi a dire, diede una sistemazione a tutti i suoi figli.  Erano tempi, gli anni dal finire del 1800 ad inizio del 1900, in cui il paese non aveva un collegamento viario con la marina in quanto la strada provinciale attuale, promossa da suo figlio Angelo, il Sindaco, venne completata dopo il 1930 quando padre e figlio erano già deceduti. Eppure, tutti i figli maschi conseguirono chi una laurea, chi un diploma di scuola superiore; la stazione ferroviaria di Zappulla era raggiungibile dopo un percorso su una vecchia trazzera, verosimilmente percorribile con il calesse o con il carretto. Il commento lo lascio ai lettori. E’ il caso di rammentare l ‘Alfieri: “Volli, sempre volli, fortissimamente volli”. 

Credo che la mia tenacia derivi dal DNA del mio bisnonno e di suo figlio Angelo.


La famiglia di mia dal madre, a Longi, si trovò, invece, a non possedere più niente - altri poderi erano stati venduti da lei durante la sua permanenza a Messina per potere sbarcare il lunario in quanto il suo misero stipendio era insufficiente vivendo fuori paese dove tutto si doveva comprare ed a cui occorreva aggiungere l’affitto di una abitazione -, se non un terreno che, successivamente, divenne nostro per intero come eredità paterna. Ed è ancora nostro perché mi sono rifiutato sempre di alienarlo. Ma, dopo di me, cosa faranno i miei figli di questa misera eredità, che rammenta la secolare presenza della mia casata? I coloni di quel terreno un giorno mi hanno detto che, quando io non avrei potuto più soggiornare in quella casa di campagna, restaurata con tanti sacrifici economici, i miei figli l’avrebbero fatta coprire di rovi e di erbacce. Sarà vero?  

Io, però, ho apportato miglioramenti, tra cui il locale prima destinato a stalla per i cavalli, l‘ho trasformato in ambiente abitabile, dove ho raccolto tutti i miei ricordi: fotografie dalla nascita ad oggi, le mie pubblicazioni, enciclopedie e libri di genere vario, le targhe e le coppe che ho avute, quadri, medaglie, gingilli vari, antichi e moderni. Insomma, un “sancta sanctorum”! Tutti i miei eredi avranno diritto di accedervi per consultare qualche pubblicazione o semplicemente per guardare le cose ivi raccolte, ma niente dovrà essere asportato. 





























Ricordi messinesi




Nell’angolo di destra della piazza Duomo, c‘era la mia abitazione










Mi è doveroso qui scriverlo che mi ha mantenuto agli studi la mia buona ed indimenticabile nonna Caterina, la madre di mio padre, dalla prima elementare sino al collegio Bon Bosco di Palermo ed anche all’Università in quanto il misero stipendio di mia madre non glielo consentiva. 

A quei tempi, le matricole, per potere accedere all’Università, dovevano essere munite di “papiro”, una sorta di raffigurazione con scritte e disegni osceni, forato da una sigaretta accesa, una sorta di timbro, e da un pass. Senza di quei salvacondotti erano guai e penalità, inflitti dagli anziani: si andava dalla colazione al bar ad un timbro sul sedere denudato “coram populo”, ma anche oltre. Per le ragazze erano problemi non indifferenti. Provvide alla bisogna il figlio, Pippo, di un mio concittadino, laureando in Medicina. Potei, pertanto, accedere serenamente negli ambienti dell’Università di Messina. 

Pippo, mi invitò, per alcune volte ad uscire, durante le domeniche, con alcune ragazze. Una di queste, con la quale flirtavo, non bella ma ricchissima, i cui genitori erano proprietari di una favolosa villa sulla Circonvallazione con vista sullo Stretto, mi invitò alcune volte a casa sua per ascoltare musica. Ma c’era un inconveniente: quando si usciva insieme, si andava al bar a bere qualcosa e, la sera, o in trattoria oppure, bene che andava, ci adattavamo con qualche panino. Ed offrivamo Pippo ed io. A quei tempi non s’usava che la donna potesse offrire qualcosa, anche se era benestante. Di conseguenza, poiché mia madre non poteva togliere settimanalmente dal suo stipendio la somma necessaria per i miei divertimenti – essendo peraltro insufficiente la paghetta che mia nonna Caterina mi passava per le sigarette e qualche piacere, oltre a pagarmi le tasse ed i libri – fui costretto a diradare le mie uscite con Pippo e le sue ragazze. Fino a smettere del tutto ogni rapporto con quella ragazza, il cui nome era Elisa e frequentava il I anno di Lettere. Fu, per me, una grande perdita, certamente per il mio futuro. Ma il mio destino era stato già segnato e proseguiva il suo corso.

Il bell’Adone, come ero definito da giovanissimo, era ammirato con concupiscenza dalle donne, soprattutto se dieci, quindici anni più grandi. Rammento alcuni episodi. A Messina, venivo spesso invitato a ballare. Bianca, una bella donna, figlia dell’Ammiraglio comandante di  MariSicilia, e Maria, entrambe mie amiche, si eccitavano stringendosi a me ballando il tango lento,  guancia a guancia. Ma il tutto si esauriva con la fine della serata: io diciannove anni e loro trentadue. Rosamaria, vedova ma con un amante, sposato, quando questi non era con lei, mi invitava a casa per offrirmi un’aranciata o un succo di frutta, metteva avanti il giradischi prima con i lenti per poi scatenarci in una vorticosa danza spagnola con l’”Espana cani”. Avvinghiati l’uno all’altra da formare un unico corpo in movimento. Era il massimo della goduria, ma ci si fermava a quella forma di …lussuria perché alla nostra danza assisteva un ragazzina, la figlia della trentacinquenne vedova. Ed io ero ancora minorenne, ma non… esentato da reazioni del tipo sessuale…

E tanti altri episodi, di cui non rammento il nome delle protagoniste. 

In Facoltà si studiava, ma si scherzava anche, tra noi studenti di Medicina, con i singoli pezzi degli arti, ricavati dalla dissezione dei cadaveri.  

Giuseppina ed io eravamo alle prese ora con un avambraccio, ora con una tibia e tal altra con gli altri pezzi del corpo umano; si trattava appunto di pezzi e non di parti intere di quei resti umani, per fortuna anonimi, appartenuti a chissà quale essere disgraziato. C’incontravamo ogni giorno alla lezione di Anatomia Umana, a quella di Istologia o di Biologia. Lei aveva qualche anno più di me e veniva da Siracusa. Una sera, accompagnandola a casa, ci sorprese la pioggia. Riparammo in un androne di un portone ed aspettammo che smettesse di piovere. Un tuono, rimbombato nella stretta strada, spinse la ragazza a stringersi al mio corpo; ci trovammo l’una tra le braccia dell’altro, i nostri sguardi si incontrarono con una luce di intensa voluttà e le nostre labbra si unirono per… non udire lo scrosciare della pioggia. Quando Giove pluvio smise di farsi notare, mi disse: “sono fidanzata e ci dobbiamo sposare”. Ci frequentammo sino alla fine di giugno, ma non facemmo mai all’amore, se si esclude il cosiddetto petting. Io avevo diciannove anni, lei venti. Eravamo entrambi appiedati ed i nostri incontri serali si svolgevano all’interno dei giardini deserti, e non illuminati, del plesso centrale dell’Università. A quei tempi il libero amore era nei sogni dei ragazzi ed il ‘68 doveva attendere ancora qualche decennio. 

Al successivo anno accademico, Giuseppina non si presentò. La rividi dopo sei anni, medico al Policlinico, laureatasi presso l’Ateneo catanese. Ed aveva già un bambino. Prendemmo un caffè insieme, ma mi congedò definitivamente perché aveva l’appuntamento con suo marito, il fidanzato di sei anni addietro. Mi confessò che con me aveva trascorso momenti …interessanti e piacevolissimi…Troppo buona! 

Tra le fila monarchiche 

Sin dagli anni del liceo di Patti, seguendo la tradizione politica di famiglia, di monarchia costituzionale, scelsi di fare parte del Movimento Giovanile del Partito Nazionale Monarchico; a Messina, ne continuai a praticare l’ambiente ed a 20 anni venni nominato Vice Segretario cittadino dei Giovani Monarchici.  

Assieme al mio amico Walter organizzammo, in occasione del Carnevale del 1960, un ballo in abito da sera – come si conveniva nell’ambiente di persone di un certo ceto – nel salone di rappresentanza della sede del Partito Nazionale Monarchico di Messina. 

Il messinese on.le Basile, della Camera dei Deputati, venne a porgerci il saluto inviatoci dal Segretario Nazionale del P.N.M., on.le Alfredo Covelli, mentre il colonnello Bellomo ed il giovane notaio Marino, dirigenti provinciali del partito, si congedarono augurandoci buon divertimento. La serata era, tra l’altro, finalizzata alla ricerca di candidati universitari da inserire nella lista monarchica in occasione delle elezioni per il rinnovo del Senato Accademico Messinese. 

La mia ragazza, Maria, per l’occasione, si fece confezionare un vaporoso abito, gonna corta rossa e giubbino nero, e si impegnava in vorticosi valzer alternandoli a romantici tanghi tra le mie braccia.  La musica, più modestamente, era “fornita” da un fonografo per dischi a 78 e 45 giri, in dotazione alla Federazione, con un’amplificazione sufficiente per la grande sala. La dirigenza del partito ci omaggiò di cotillon, stelle filanti, mascherine e di un buffet ordinato preso la pasticceria Billè. 

Le danze, che si protrassero sino a notte alta, si conclusero con l’elezione della reginetta della serata: Gabriella, ragazza bellissima, di alto lignaggio, al terzo anno di Lettere. La candidammo, assieme agli altri giovani universitari, alla competizione sopra citata. Ma, la sua bellezza non fu sufficiente a farci conquistare il seggio, che non conseguimmo per pochi voti, annullatici dal seggio elettorale. Poiché ritenemmo ingiustificato l’annullamento, l’avv.to Fiorello, segretario dell’on.le Basile, redasse un ricorso amministrativo indirizzato alla Commissione Elettorale e lo fece presentare, nella qualità di responsabile della lista monarchica, dal sottoscritto quale elettore studente al secondo anno di Medicina e Chirurgia. La commissione, di cui facevano parte anche docenti di alcune facoltà, respinse il ricorso ritenendo legittimo l’operato del Seggio Elettorale. 

Non molti mesi dopo fummo ripagati, dall’amarezza di avere perso alla competizione goliardica, con una forte affermazione del partito alle elezioni politiche, che vide ai comizi di Piazza Cairoli oratori del calibro di Cesare Degli Occhi, grande invalido di guerra, cieco, del giovanissimo e brillante avvocato Enzo Trantino e del segretario del partito, Alfredo Covelli. 


Grazie alle amicizie elitarie della società frequentata, dopo il primo biennio della facoltà di  Medicina, poiché il mio obiettivo era la cardiochirurgia, ebbi la possibilità di frequentare  informalmente il Reparto di Chirurgia dell’Ospedale Militare di Messina; dopo un anno di pratica, il direttore, il Colonnello Medico (divenuto poi Generale) dr. Mario Lombardi, - poiché mi ero  impadronito dei vari passaggi negli interventi praticati presso il reparto, mi propose di fargli da  assistente ai ferri, nella sua clinica privata, durante le operazioni chirurgiche di ordinaria “routine”.  Peraltro, durante le sue ferie estive, il reparto ufficialmente era gestito dal giovane sottotenente medico; ebbene, il colonnello mi diceva in disparte di seguire particolarmente alcuni casi importanti. Un carabiniere, operato di fistola, non riusciva ad avere rimarginata la ferita; durante una medicazione mattutina, infilando lo specillo nel piccolo buco vidi che sotto si era riformato il pus. Glielo dissi; mi rispose faccia quello che ritiene giusto. Riaprii la ferita, asportai la parte infetta, la disinfettai e la zaffai per bene. La carne crebbe meravigliosamente, nel giro di un mese.  Quando rientrò il direttore, gli raccontai il fatto, assieme ad altri casi seguiti. “Hai fatto bene”, mi disse. Ma il giovane sottotenente medico si incavolò da morire e non mi rivolse il saluto sino al suo congedo. Presso il reparto, dai militari ricoverati, dagli infermieri e dalla suora-infermiera ero considerato “medico”, ricevendone addirittura il saluto militare.  

Mi ero anche fatto qualche “cliente”, che assistevo gratuitamente e con successo, relativamente alle mie conoscenze di pratica ospedaliera. Il ringraziamento era in natura: dolciumi, ortaggi, frutta dalle campagne dei miei...pazienti. 

Mi si stava per aprire una strada che mi avrebbe aiutato nella professione; ma, per un  “incidente di percorso di natura copulatoria”, venni disarcionato, irrimediabilmente, sulla “strada di  Damasco”: fui costretto, pertanto, ad abbandonare i relativi studi di medicina per sopravvenute  responsabilità e necessità familiari.   

Tralascio il racconto sul motivo per cui non divenni medico perché fatti spiacevoli e personali ne determinarono il mancato conseguimento della relativa laurea.


La mia ...carriera di medico “in nuce” presso l’Ospedale Militare di Messina, con il Colonnello Medico, Mario Lombardi (poi Generale), ed il Tenente medico , dr. Oddo


La patente:

A Messina, avevo conseguito la patente di guida ed avevamo una Lancia Aurelia; guidavo benissimo perché il mio istruttore era bravissimo avendo partecipato a gare automobilistiche locali con macchine dell'Alfa Romeo. Ebbene, per sopire la mia sofferenza e le mie frustrazioni, spesso volte, durante la notte, mi trovai a sfidare la morte lungo le strade della riviera messinese.  La mia passione di mancato pilota militare, relativamente alla velocità, aerea o automobilistica, non mi lasciò per tutta vita, se non quando divenni vecchio.


La mia nuova vita: il Sindacato  

Ma incontrai anche il fascino del movimento sindacale e la sua azione. Al cui interno intrapresi la carriera, che, in poco tempo, mi vide salire nei gradini delle diverse cariche: divenni Dirigente Sindacale della UIL.

Nino Interdonato, che conobbi in occasione del mio primo congresso sindacale, al quale partecipavo, fu il mio primo maestro politico. Egli era il Segretario Regionale della UIL Post: dopo 15 anni divenni il suo successore. Oratoria facile, tribunizia, che sapeva penetrare nelle corde più delicate dell’animo umano convincendolo; non era bello di aspetto, ma elegantissimo. Mi fece entrare nell’organismo dirigente del Sindacato ed, avendo scoperto che ero di penna facile e mi piaceva il giornalismo, mi affidò la direzione del giornale di categoria da lui fondato, “Il Corno”.  Poco meno di un anno dopo, si celebrò il congresso nazionale e Nino volle portare il saluto della Sicilia con un’edizione straordinaria dell’organo di stampa. Le copie, per un contrattempo della tipografia, vennero consegnate al Segretario Provinciale ed a me il giorno in cui iniziava il congresso. Era già notte: non c’erano voli di aerei, a quell’ora, per Pisa. A mezzanotte, ci imbarcammo, con la Fiat 500 nuova del Segretario, sulla nave traghetto per raggiungere Tirrenia, in provincia di Livorno. Le prime luci dell’alba ci videro che affrontavamo le strade statali dell’alta Calabria. Allora, l’autostrada del Sole si fermava a Salerno. Cantavamo per vincere il sonno e ci alternavamo alla guida mentre l’altro si rannicchiava sul sedile posteriore col corpo ad arco in quanto le gambe dovevano poggiare sul sedile anteriore di destra, con la spalliera ribaltata indietro.  La sera, eravamo a Roma. Non potevamo pernottare perché l’indomani mattina, secondo giorno di lavoro congressuale, dovevamo essere presenti. Marce forzate, quindi, ed ancora panini imbottiti veloci. Da Roma a Livorno, ancora una volta, il percorso era su strada statale: niente autostrada. Per la seconda notte ci riposavamo appollaiati nello stretto spazio della Cinquecento. Ad un tratto, uno stridore di freni ed una imprecazione ad alta voce da parte del mio compagno di viaggio. Stavamo uscendo fuori strada. Presi il volante io e continuammo il viaggio. Ad ogni fontanella ci rinfrescavamo il viso e, a quei pochi bar aperti, prendevamo il caffè. All’alba giungemmo a Tirrenia, consegnammo il giornale ai delegati messinesi e Nino ci ringraziò con un pacchetto, a testa, di sigarette americane. Bontà sua! Ma ci elogiò anche pubblicamente nella riunione della delegazione siciliana. Per noi, però, il congresso ebbe inizio al terzo giorno. Dormimmo per dodici ore filate. 

L’anno appresso, Nino si candidò al Consiglio Comunale di Messina: venne eletto e fu designato Vice Sindaco della città. Per un anno fu anche Sindaco essendo deceduto prematuramente il Sindaco in carica. Dopo due anni era Deputato Regionale. In quei frangenti mi volle accanto quale capo della sua segreteria e del suo staff elettorale. Trascorrevo con lui parecchie ore; talvolta, a seconda dei momenti politici, aspettavamo la mezzanotte per andare a ritirare la prima edizione della Gazzetta del Sud. Esercitava un fascino sulle donne, derivante dalla sua facile favella, forbita ed elegante quando occorreva, nonché dal suo essere intraprendente. Quando esse erano troppo giovani e voleva invitarle a cena, per la sua età (era sui 45 anni), mi chiedeva di accompagnarli in modo da sembrare che la ragazza era la mia donna. La quale – ed accadeva sovente –dopo qualche giorno preferiva trovarsi veramente tra le mie braccia. Eravamo entrambi conosciuti a Messina per cui egli doveva stare attento alla sua immagine ricoprendo una carica istituzionale. Spesso, nel pomeriggio tardi, libero da impegni, passeggiavamo insieme lungo il Viale S. Martino e s’incavolava perché, al suo volto noto, le donne preferivano fissare il mio con sguardi insistenti. Ed io per farlo arrabbiare ancora di più, gli rispondevo: “Al potere le donne preferiscono la bellezza. Tu sei vecchio (ma non lo era) ed io sono giovane; accontentati di quello che trovi”.  



Il socialdemocratico On.le Nino Interdonato , Sindaco di Messina


Nino Interdonato dal partito ottenne l’incarico di presidente di una grossa compagnia di assicurazione. Si ammalò di leucemia, ed ebbe guai con la giustizia. Il virus della politica, purtroppo, talvolta può portare una persona alla rovina. Quel tumore del sangue lo portò alla morte. Nino è stato un mio vero amico, oltre che il mio maestro nella politica.


La politica ed il danno subito

Con la mia adesione alla UIL, dopo aver letto qualche libro sulla ideologia socialista ed avere ascoltato alcuni interventi di oratori del sindacato, mi iscrissi al Partito Socialista Democratico ma, dopo alcuni anni, approdai nelle fila del P.S.I.

Vissi il momento esaltante dell’unificazione dei due partiti socialisti, il P.S.I. ed il P.S.D.I., ma, in appresso, anche il dramma della loro scissione.  

Gli anni ’70 mi videro, come ho detto, Capo della Segreteria Politica del Vice Sindaco (e poi Sindaco pro tempore) del Comune di Messina, il socialdemocratico on.le Nino Interdonato, e successivamente, invitato dall’on.le Aurelio Mazza, Segretario provinciale, divenni Funzionario Responsabile dell’Organizzazione, presso la Federazione Provinciale del P.S.D.I. messinese, laddove ricevetti anche l’incarico di Redattore Capo del giornale politico “Coerenza”. Quell’anno, alle elezioni amministrative, il P.S.D.I divenne il secondo partito del comune.  

L’on.le Mazza mi voleva con se nel prosieguo dell’attività di partito, tant’è che l’accompagnavo nelle sue visite politiche e, talora, ero presente anche ad incontri occasionali, però privati, con alcuni deputati messinesi del partito. Nel 1971, la componente socialdemocratica della UIL Post messinese abbandonò il partito, per dissensi politici, ed aderì al P.S.I.  Ed io ne facevo parte.

Rientrato nell’attività sindacale, dopo l’intermezzo politico, nella qualità di direttore del giornale locale del sindacato di categoria, “Il Corno” (il simbolo antico delle Poste), mi trovai costretto a denunciare atti di autoritarismo e di prevaricazione da parte di avversari politici. In quel periodo, era forte la presenza missina nella città, che trovava la sua radicalizzazione nella componente universitaria calabrese, che si ispirava al famoso “boia chi molla” di Reggio Calabria.  Durante la precedente campagna elettorale, quale esponente organizzativo del P.S.D.I, mi ero scontrato nel Viale S. Martino con un gruppo di giovani missini che avevano aggredito i ragazzi socialdemocratici che distribuivano il giornale “Coerenza”, nonché con i responsabili giovanili dello stesso M.S.I. in occasione dell’affissione finale dei manifesti, in notturna, a Piazza Antonello. 

A questo trascorso, è da aggiungere che risultavo inviso ad una frangia socialdemocratica di orientamento massonico, forse odiato, per avere abbandonato il partito. Le cui conseguenze, tra l’altro, erano state quelle della chiusura delle pubblicazioni di “Coerenza”, che era stato diretto da un giornalista massone (ne ebbi la percezione qualche tempo dopo): il giornale, infatti, gravava sul mio impegno per la raccolta, l’elaborazione dei contenuti, il menabò ed il supporto organizzativo. In verità, il P.S.D.I. messinese ne subì il contraccolpo nel settore organizzativo e della stampa.  

In pratica, mi ero fatto dei nemici politici. Impegnato, pertanto, nella campagna elettorale a favore di un deputato del P.S.I., divenni bersaglio di due attentati dinamitardi, di cui uno perpetrato il 25 aprile del 1972 (Anniversario della Liberazione), con distruzione delle autovetture di famiglia, e l’altro a ridosso del giorno delle votazioni. Era il tempo in cui a Reggio Calabria imperversavano, come detto, i fascisti con il “boia a chi molla” e che, essendo presenti presso l'ateneo messinese, si prestavano spesso ad effettuare blitz cruenti contro gli avversari politici. Sembra che questi gruppi di estremisti fossero in contatto con una loggia massonica messinese. Ovviamente, non furono mai trovati gli esecutori. Ebbi la solidarietà da parte dei dirigenti del P.S.I. locale, da compagni del Sindacato di altre città e de “L'Avanti”. Ma ricevetti un notevole danno economico sia per le macchine distrutte, sia per le spese del successivo trasferimento in provincia di Palermo. 

Il Questore di Messina mi rilasciò, nel giro di pochi giorni, il porto d’armi per pistola, che utilizzai sin quando feci il Segretario Regionale della UIL. 

Il mio impegno socialdemocratico e la relazione con Mara 

A seguito della scissione socialista del 1970, venni chiamato, come ho scritto prima, dal Segretario Provinciale del Partito Socialista Democratico Italiano di Messina, on.le Aurelio Mazza, a capo del settore organizzativo del partito in previsione delle elezioni amministrative. Misi in piedi un supporto logistico formato da giovani di entrambi i sessi ed un settore stampa, la cui punta era rappresentata dal giornale “Coerenza”, di cui divenni capo della redazione. In effetti, realizzavo alcuni servizi giornalistici e mi curavo dell’impaginazione; e, dopo la stampa, ne disponevo la distribuzione in città e provincia. Il direttore responsabile, un giornalista, mi presentò una sua redattrice, Mala. La quale, in seguito, mi confidò di essere stata sedotta dal suo capo all’età di diciotto anni. Il vero nome della ragazza era Maria, che, oltre a scrivere articoli, componeva poesie: era di bell’aspetto, bruna, alta con capelli lunghi e vestiva con una minigonna (allora, una delle poche in città) avendo belle gambe e ben tornite. Aveva 23 anni. 

La campagna elettorale era entrata nel vivo. Una delle novità che volli offrire alla città fu quella di installare su quattro furgoni due maxi-pannelli, su cui variavo gli slogan a seconda degli avvenimenti del momento, con ai lati le bandiere, nazionale e del partito; gli automezzi erano forniti di altoparlanti, che diffondevano solo canzoni: quella della Resistenza, l’Internazionale Socialista e l’Inno dei Lavoratori. Di supporto ai furgoni, c’erano otto macchine, analogamente attrezzate. A chiusura della campagna elettorale venne a comiziare l’on.le Mario Tanassi, allora potente Ministro della Difesa. Tempestai, per due giorni, la città con annunci del comizio e la piazza Cairoli, per l’occasione, era piena come mai lo era stata. Un paio di ore prima del comizio, con la macchina del partito, controllavo personalmente i preparativi e percorrevo il viale S. Martino; venni aggredito dai fascisti del M.S.I., i quali divelsero le bandierine dall’autoveicolo e lo tempestarono di calci. Dissi all’autista di stare calmo e di bloccare le porte con la sicura interna. Per fortuna, si limitare a questi atti vandalici. Ma seppi, però, che avevano aggredito i giovani che distribuivano il giornale “Coerenza” intimando loro di buttarlo nella pattumiera. Accanto al palco dell’oratore, sotto gli alberi, feci allineare i quattro furgoni imbandierati e con i pannelli illuminati, malgrado il divieto da parte del Commissario di P.S., comandante della piazza; per farlo desistere lo presentai al capo della segreteria del ministro ed all’on.le Mazza. Costoro ne parlarono con Tanassi, che intervenne presso il Questore. Gli automezzi non si mossero da dove li avevo fatti posizionare.  

Il comizio fu un vero successo grazie anche alla bravura dell’oratore, il quale, però, assieme al Segretario della Federazione, ritenne di dovermi encomiare, nei locali del partito, alla presenza dei dirigenti e dei candidati. Per me, fu un vero onore essere elogiato da uno dei Ministri più potenti della Repubblica, a soli 32 anni, per essere riuscito a riempire la nota Piazza Cairoli sino all’inverosimile della sua capienza e per avere schierato, ai lati del palco dell’oratore, i furgoni pubblicitari con le bandiere del partito. In verità, dal folto gruppo di giovani avevo fatto “bombardare” la città per due giorni con gli altoparlanti che annunciavano il comizio, diffondendo solo canti socialisti ma attirando l’attenzione della gente a leggere l’annuncio sulla gigantografia montata sul tetto degli automezzi pubblicitari. Nel pomeriggio prima del comizio, i furgoni imbandierati vennero rinforzati da altre macchine che esplicitamente rammentavano la presenza dell’importante personaggio politico.  

Quell’anno, il P.S.D.I., a Messina, per la prima volta, risultò il secondo partito, dopo la Democrazia Cristiana. 

Gli amici messinesi 

Eravamo sempre insieme Gianni Pizzurro, Nino Vitale ed io: compagni di Sindacato, di avventure e di “schiticchi”. Tra i tanti avvenimenti, rammento una cena a Granatari, che, uscendo dal ristorante, di notte, per smaltire il fumo dell’alcool e per consentire a Nino di mettersi alla guida della macchina, ci portò a fare qualche chilometro di strada a piedi e ci condusse a dormire a casa di Nino, laddove sua moglie si trovava assente. Durante il tragitto verso Messina, Gianni si mise a declamare l’Iliade e passi della Divina Commedia; a notte alta, tutte e tre cantavamo ma Nino litigò con il suo vicino che ci voleva denunciare per disturbo della quiete notturna.  

Fu, quello, un periodo lieto, che finì col mio trasferimento da Messina. Nino divenne importante funzionario delle Poste messinesi, Gianni, direttore di ufficio postale, si divise dalla bella moglie e qualche tempo dopo morì, ancora in età matura. Con Nino ci frequentammo durante i convegni del Sindacato, quando ero Segretario Regionale, ma finì un bel rapporto di amicizia a tre; anch’egli è morto 


Nino Vitale ed io. Allora avevo una discreta voce da tenore, che persi con gli anni e col fumo.







































Amore e Psiche di Antonio Canova


Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,

le cortesie, l’audaci imprese io canto…”

(Da l’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto)





Le …mie donne


Fra le tante, mi piace raccontare di coloro che ricordo piacevolmente oppure che hanno lasciato un segno per i particolari momenti vissuti. Altre storie sono state intervalli d’amore prima degli attentati dinamitardi; dopo la separazione definitiva dalla mia prima moglie, vissi la mia vita, diciamo, in maniera libertaria.  


Zina

Fu durante il terzo liceo che conobbi una donna più matura di me, che mi fece conoscere le pulsazioni fisiche delle prime passioni d'amore. Zina era già fidanzata con un impiegato di banca, che lavorava a Messina, ma aveva giornate e serate libere da dedicare ai giochi d'amore, con me.  Seguimmo alla radio il Festival della canzone italiana, vinto, a Sanremo, da Nilla Pizzi con la canzone “Vola colomba” per cui andavamo a letto molto tardi. Abitavamo presso casa sua avendoci affittato due stanze, ma tutti andavano a letto intorno alle 22; pertanto, Zina ed io restavamo da soli ad ascoltare le canzoni del festival di Sanremo. E non ci deliziavamo soltanto con le canzoni o con la bravura del conduttore dello spettacolo, il bravissimo Nunzio Filogamo, il palermitano che iniziava l’introduzione alla serata con il famoso:” miei cari amici vicini e lontani, buona sera, ovunque voi siate”. Ma l’indomani mattina, per me erano dolori nel dovermi alzare per arrivare al liceo in orario: e spesso finivo dal preside, accompagnato dall’arcigno capo-bidello, che controllava l’ingresso degli studenti. Infatti, il mio voto in condotta ne risentì, così come quella mia prima “esperienza sessuale” ebbe conseguenze agli esami di maturità. Laddove superai le materie classiche – con un brillante tema su Leopardi (una strana coincidenza con la mia predestinazione futura a scrivere anch’io poesie che si richiamavano al pessimismo leopardiano) – ma mi portai a settembre filosofia e matematica. Che superai dopo essermi rovinata l’estate.  

Ci divertimmo parecchio io e la mia più matura ragazza, lei 22 anni io 18; festeggiavamo, ogni volta, le mie vittorie negli incontri di calcio con gli universitari o con le squadre di altri istituti, tra cui con il liceo scientifico di Messina, sconfitto a pallavolo, con le mie battute e con le schiacciate della palla sopra la rete: ero bravo non solo al calcio ma anche in quest’ultimo sport. Quell'anno, alla festa di carnevale organizzata dagli studenti, ballammo insieme l'intera notte.  Erano più le ore trascorse con lei anziché con i libri; per fortuna, avevo una buona preparazione culturale di base, soprattutto nelle materie classiche. Quando me ne partii da Patti, copiose lacrime uscirono dai suoi magnifici occhi. Era alta, quasi quanto me, un corpo degno di essere immortalato in una statua ed una candida carnagione vellutata. La rividi, dopo circa sette anni, a Messina, ma era già sposata. Non felice, senza figli. Ci incontrammo un paio di volte, ma senza fare… danno...










Vittoria 

Il mio grande amore platonico 


La piazza dove l’ho conosciuta ed a destra la casa dove alloggiavo

Per sfuggire ad un periodo di violente e continue liti con mia moglie, la quale, dal suo canto, aveva deciso di raggiungere i suoi genitori a Torino, approfittai del trasferimento di mia madre in provincia di Cosenza per accompagnarla con la mia nuova auto, una Lancia Appia, in verità acquistata di seconda mano, come tutte le altre, precedenti e successive.

Ivi, in un paesino albanese, conobbi una ragazza di 21 anni – io ne avevo 27 – complice il mio bellissimo pastore belga. In una domenica di agosto del 1965, con mia madre, mi trovavo nella piazza antistante la chiesa del paese; mia figlia, di tre anni, correndo, inciampò in un sasso e cadde per terra. Per consolare la bimba, che piangeva, si avvicinò una ragazza: si presentò e ci chiese il motivo per cui, essendo forestieri, ci trovavamo lì. Il pastore belga, che tenevo al guinzaglio, cercò di farla …spaventare. “Bellissimo cane”, mi disse. Entrammo in conversazione e, nel congedarci, ci invitò ad andare a trovarla a casa sua. 

Quando facemmo visita recandoci presso la sua abitazione, dove viveva con la madre vedova e tre fratelli più piccoli (due donne ed un ragazzo), tra le altre cose, ci raccontò che la sua famiglia, di discendenza nobiliare, secoli addietro, durante l’invasione turca dell’Albania, dovette fuggire e trovò asilo presso quella terra di Calabria. Nel tempo, i suoi antenati, inseritisi nel territorio, con gli averi salvati dalla razzia dei musulmani, riuscirono a compare parecchi ettari di terre coltivabili e vivevano, quindi, delle rendite provenienti dai prodotti agricoli.

Vittoria era cattolica del rito greco-albanese ed aveva i caratteri somatici delle donne orientali.  Frequentandoci, sorse un tenero amore, ideale, senza contatti fisici, ma intenso: quello che si definisce amore platonico. Era tremendamente bella! Bella e perfetta nel fisico, ma anche nell’animo. La ornavano lunghi capelli neri, uno sguardo profondo e ammaliante, labbra ben tornite, sinuose, la pelle del volto vellutata e rosea; alta e con le linee perfette come quelle delle statue greche raffiguranti la bellezza muliebre. Completava la sua bellezza, la voce soave ed armoniosa.

Facendo le passeggiate lungo l’ombroso parco, dove assumevamo l’acqua “santa” per il benessere del corpo, discutevamo della sua e della mia vita e dei suoi propositi, tra cui quello di iscriversi, dopo la maturità magistrale, alla facoltà di lingue orientali presso l’Università di Bari. E l’aria intorno a noi era addolcita dalle meravigliose note del “Sogno d’amore” di Litz.

L’ultima volta, prendendo commiato da lei prima di rientrare a Messina, ci incontrammo nella strada provinciale che aggirava il paese; il nostro cuore era schiacciato in una tenaglia e velate lacrime adombravano i suoi occhi castani bellissimi e lucenti come stelle d’oriente; non potevamo darci il primo e l’unico bacio per il via vai di gente e di automobili ma l’unico contatto fisico fu attraverso una lunga, forte stretta di mano

Sapeva che ero sposato e con due figlie. Le dissi che avrei lasciato mia moglie, con la quale non andavo d'accordo e litigavo di frequente, in quanto avrei goduto di una legge che sarebbe stata approvata dopo il referendum sul divorzio. Mi disse che mi avrebbe atteso sino alla mia laurea – ero ancora iscritto a Medicina – ma, una volta rientrato a Messina, non ebbi la possibilità di corrispondere con lei in quanto sua madre, che aveva scoperta una mia lettera, le aveva proibito di avere contatti epistolari e telefonici con me. Dopo l’approvazione della legge sul divorzio, mi recai al suo paese ed, informandomi, seppi che si era sposata e che, però, era molto malata.  

Quando mi trasferii a Roma e, viaggiando da e per la Sicilia, transitavo, di notte, dalla stazione F.S. di Paola (era la stazione ferroviaria da cui si poteva raggiungere San Giorgio Albanese, il suo paese) e mi svegliavo nella mia cuccetta: non riuscii a capire il significato di questo fenomeno del cervello. Mi portai dietro quell’amore platonico, che visse in me nella sua accezione del puro e del bello, per decine di anni, che culminarono nel contenuto dell’episodio del mio romanzo, I Castelmalè, dal titolo “Il giuramento di Vittoria”. Il quale, di realisticamente vissuto, contiene l’incipit del primo capitolo ed il nome della protagonista.  Vittoria, a posteriori, fu fonte di ispirazione di alcune mie poesie.

Dopo ben 45 anni, trovai, in internet, un indirizzo con il suo nome e cognome. Le scrissi, ma non ebbi risposta alcuna. Era viva, era morta, non volle rispondermi dopo un sì lungo silenzio, avendomi giudicato ovviamente un semplice corteggiatore di quel periodo? Ma possono essere anche altre le ipotesi. 

La frequentai per un mese durante il quale si sviluppo un forte sentimento d'amore, rimasto platonico ed il cui vivo ricordo mi sono portato dietro per lungo periodo. Le poesie che seguono sono postume e si ispirano a ciò che avrei voluto fare con lei e dopo…


Un sogno d'amore

Verso la solitaria spiaggia

del verde Adriatico

dal terrazzo sul golfo

scendevamo le scale

grondanti di gelsomini

e di bianche cascate di bouganville

tra cui occhieggiavano roseti d'oriente.

.E la sera cenavamo

tra la frescura ombrosa

della trattoria sul Cecita

nella dolce Sila.

Tu eri ammirata

per la tua bellezza greca

mentre danzavamo i lenti

tra il sussurrio del lago

nel lume lunare.

Poi

il violino spandeva le note del

“Sogno d'amore”.

Fu l'estasi d'una estate insieme

che svanì con la cruda realtà

delle convenzioni sociali

di quegli anni cinquanta

che ci vietarono il proseguire:

io ateo con una bimba

tu fervente cristiana ortodossa .

Nel tempo

rimase una struggente incompiuta

di quel meraviglioso sogno d'amore

nella novella terra albanese.


23 11 '20


Verrò a trovarti

Verrò a trovarti

dove il mare incontra

le acque d’oriente.

Verrò a trovarti

per sederti accanto

ed ascoltare il canto degli uccelli.

Verrò a trovarti

nel fondo del vulcano spento

per parlare d’amore:

Verrò a trovarti

nell’oasi e tra i palmizi

accarezzerò i tuoi capelli.

Verrò a trovarti

ovunque tu sia

per far rivivere i nostri baci


20 08 21





















La mia prima moglie e l’umile lavoro 

Fu quella la prima volta che mi ribellai all’autorità di mia madre. Da allora in poi, agii secondo la mia volontà. Magari sbagliando, talvolta. In pratica, divenni più duro, a 22 anni. Mi legai, quindi, a Maria ed il rapporto con lei, diciasettenne messinese, divenne sempre più intenso, non privo di un sentimento di amore, che ci portò ad avere rapporti intimi. Dopo due anni di fidanzamento, lei rimase incinta e ritenni giusto, quindi, sposarla.

Dopo il perdono di mia madre – si fa per dire -- andammo a vivere con lei, a suo carico. I genitori di Maria partirono per Torino, dove suo padre prestava servizio presso le Ferrovie dello Stato. A Messina avevano una casa. Dopo qualche tempo incominciarono le liti con mia moglie; non sto qui a descrivere il genere di rapporti conflittuali che, in un breve lasso di tempo, si instaurarono tra noi due. Lei voleva che io mi trasferissi a Torino; peraltro, spesso lei andava a soggiornare in quella città, con tutte le scuse più varie, dove oltre tutto abitava una sua amica, una certa Palmina, una poco di buono. Una volta, costei, presente Maria, mi telefonò per dirmi che a mia moglie, a seguito di una visita e relativi raggi X, era stato diagnosticato un tumore al cervello. Pertanto, restandole qualche anno di vita, per curarsi era costretta rimanere a Torino. Mi invitava, quindi, a raggiungerla. Alterne vicende, fatte di litigi violenti, di bugie, di separazioni temporanee riempirono quei nostri anni di giovani sposi, anche se, nel frattempo, avevamo avuto due figlie. 

Per fortuna (si fa per dire), mia madre riuscì a farmi assumere alle dipendenze del Ministero delle Poste.  

Obbligato a cambiare vita ed a lavorare duramente, come ausiliario, presso il predetto Ministero, scoprii la durezza del mondo del lavoro, alzandomi alle 5 del mattino, scaricando sacchi di posta e pacchi alla stazione ferroviaria di Messina, vergognandomi invero di coloro che incontravo durante il lavoro e che avevo conosciuto nell’ambiente di un certo livello e di quello universitario. 

Per arrotondare il misero stipendio, vendevo libri e propagandavo medicinali utilizzando le mie conoscenze degli studi di medicina. A tal proposito, andavo anche in provincia. Talvolta, nella buona stagione, per essere presente all'apertura mattutina degli ambulatori medici, partivo la sera e dormivo in macchina sino all'alba e facevo le mie abluzioni a qualche fontanella pubblica lungo la strada statale. Con i medicinali ci rimisi l'osso del collo perché i medici, ai quali ero costretto fare sostanziosi regali (attrezzi e strumenti medicali, enciclopedie, ecc), dopo avermi “rapinato”, per qualche mese mi favorivano ma poi non mi mettevano nelle condizioni di pagare il regalo loro effettuato.

Cioè non prescrivevano più i “miei” farmaci. Ricordo che, una volta, per soddisfare le richieste regalie ed augurali di certi miei “clienti medici” dovetti trattenermi nella mia zona (tra Capo d'Orlando, Sant'Agata Militello, Longi e Galati Mamertino) sino alla vigilia di Natale: lungo la S.S.113, rientrando a Messina per raggiungere la mia famiglia, i fuochi nelle strade dei paesi erano accesi e, a tratti, pioveva. Ma la mia vecchia Lancia Ardea correva nella notte accompagnata da un animo greve e solitario.  

Traccio qualche episodio in cui misi in serio pericolo la mia vita, ma anche quella della donna che mi accompagnava. Mentre ero fidanzato, a 22 anni, mi trovai, una notte, con Maria, la mia fidanzata, alla guida della mia Alfa Romeo 1900. Ero a Ganzirri e la strada era deserta. Fui indotto a provare il circuito dei laghi, su cui annualmente si svolgeva una gara automobilistica; a 100 km orari passai su un tratto di strada, leggermente in curva aperta, bagnata dai rivenditori di cozze, che avevano ripulito il loro box; le gomme posteriori persero l’attrito con il terreno e la macchina sbandò paurosamente; nel tentativo di controllarla, decelerando con le marce, si alzò e si abbassò lateralmente per tre volte. Per fortuna non procedevano altre macchine nel senso opposto ma vidi venirmi incontro l’acqua del lago; continuai a mantenere il sangue freddo e riuscii a mettere in carreggiata il veicolo. 

Sempre con mia moglie, alcuni anni dopo, percorrevo l’insidiosa strada statale calabrese ionica, di ritorno da una cerimonia locale di matrimonio, in cui eravamo stati entrambi testimoni, ed avevo fretta di arrivare a Reggio Calabria per prendere l’ultima nave traghetto per Messina. Ero in compagnia di amici per cui la macchina era carica. Quell’arteria aveva lunghi rettilinei ma improvvise curve, con poca segnaletica. All’improvviso, forse preso dalla stanchezza per la giornata faticosa che era iniziata alle cinque del mattino, mi accorsi all’ultimo istante di una curva a gomito.  Imballai il motore passando dalla quarta alla seconda, con una veloce doppietta: se ne udì il forte rombo e lo stridio delle gomme sull’asfalto, e contromano, andando a sbattere con la fiancata sinistra contro il parapetto, affrontai la curva cui faceva seguito un’altra nel verso opposto (praticamente a S). La fortuna mi aiutò perché la strada era deserta.  

Mi piaceva la forte andatura ed il brivido della velocità, che mi erano rimasti in corpo da quando avevo dovuto rinunciare, come ho detto, a diventare pilota di aerei militari. D’altronde, ebbi un ottimo istruttore di guida, uno sportivo che partecipava annualmente alla “dieci ore notturna di Ganzirri”, col quale feci pratica anche di guida veloce per un anno prima di potere conseguire la patente, che a quell’epoca si otteneva a 21 anni essendo quella l’età in cui si entrava nella maggiore età. 

Ed ancora, quando ancora non c’era l’autostrada e, per raggiungere Longi da Messina, si doveva attraversare quella sequenza di paesi sulla statale 113, con la potente 1900 Alfa riuscivo, a volte, a coprire il percorso in due ore. Una volta, un mio concittadino, al quale avevo dato un passaggio da Messina, scendendo nella piazza di Longi, baciò per terra e mi ringraziò dicendomi che mai più avrebbe messo piede su un’autovettura guidata da me.  

Anche in età matura, quando la mia seconda moglie mi faceva incazzare, coprivo in nottata il tratto autostradale da Cefalù alle porte di Palermo in 25 minuti, con la mia Lancia B21.

La mia giovanile avventura matrimoniale con Maria, tira oggi e tira domani, alla fine ebbe termine 

P.S. Nel 2021, Maria è deceduta a causa di una incurabile leucemia

Mala

Dovendo uscire con il numero di ringraziamento di “Coerenza”, organo ufficiale del P.S.D.I. di Messina, per la brillante vittoria nelle elezioni amministrative, mi recai in tipografia accompagnato da Maria (Mala). Sapevo che era la donna del direttore; ma fu lei stessa che mi invitò ad accompagnarla, quella sera, alla pista di macchine elettriche, a Ganzirri, aperta sino a notte tarda. Che, dopo, ci vide sdraiati sulla spiaggia prospiciente lo Stretto. 

Un paio di sere dopo, con Maria ero rintanato nel mio bungalow, sulla spiaggia di Mili Marina, per fare l’amore come si conviene a due essere normali. Di lei ebbi a scoprire una sensibilità d’animo particolare; ci intrattenevamo reciprocamente a studiare i nostri corpi nudi, a discutere di eventi culturali e trovandoci spesso d’accordo su problemi di vita.

Con Maria ci incontravamo spesso, si andava al mare, a cena, alla pista delle macchine elettriche, che guidava molto bene ed a velocità sostenuta pur non avendo la patente di guida; tra i boschi dei Colli di San Rizzo ritraevo il suo volto stupendo di fotomodella – peccato l'aver perso le fotografie scattatele con la mia Asaki Pentax - e di attrice che aveva recitato in teatro. Durante questo nostro rapporto, durato un anno, Maria mi dedicò alcune poesie, che firmava col nome di Myriam. Una di queste così diceva: 

“Di te non credente

m’illumino

quando cogli sul mio capo

i fiori d’un’inesistente primavera;

quando poni le rondini

nei miei occhi d’infantile marea;

quando calpesti i roveti

insieme ai miei piedi che sanguinano

di te

io m’illumino.

Myriam”


Forse si stava innamorando di me; io, di lei, lo ero già. Fu costretta a rinunciare a me perché l’anziano amante venne a sapere del nostro legame affettivo, la picchiò con la cintura e la minacciò di morte. 

Per la cronaca del dopo-messinese. Erano trascorsi oltre trenta anni ed incontrai Maria (Myriam) in uno dei miei viaggi a Messina. Mi aveva fatto cercare da un amico comune, un avvocato messinese, avendo appreso dai giornale che ero Sindaco del mio paese. Aveva subito un mastectomia per un tumore al seno e si era dovuta sottoporre al trattamento chemioterapico ed a sedute di radioterapia: aveva persi i capelli e si era ingrassata. Non era più la bellezza con la quale mi ero accompagnato durante un periodo della mia giovane età. Maria mi propose di farle vivere serenamente gli ultimi anni della sua vita tornando da lei. Troppo tardi: non potevo più farlo! 




Rosalinda 

Da poco tempo uscivo dalla relazione con la ventunenne Angela, affascinante ma capricciosa. Mi fu presentata una ragazza di 24 anni. Bella donna.  Bella, sotto tutti i punti vista, Rosalinda lo era davvero: da quello fisico all’estetico, al caratteriale. C’incontrammo spesso durante un mese e mezzo e chiudemmo la parentesi estiva ad inizio dell’autunno, con un saluto dinnanzi ad un fuoco vespertino acceso sotto il “mio gelso” e sorseggiando un bicchiere di mosto appena uscito dal palmento. 

Meno di qualche mese appresso c’incontrammo in città, a Messina, e, durante il pranzo, denudammo i nostri sentimenti: ci scoprimmo reciprocamente innamorati l’uno dell’altra. Iniziò lo scambio di chilometriche telefonate giornaliere e le bollette della SIP se ne salirono alle stelle. Ma, ogni fine settimana eravamo insieme: divenimmo amanti. Prima dell’alba, dopo una notte d’amore, l’accompagnavo, d’inverno, alla stazioncina solitaria, ancora immersa nel buio, perché lei, alla solita ora, doveva essere sul posto di lavoro, al paese. Non era per niente greve la levataccia con il poco sonno addosso quanto lo era, invece, il momento del distacco, accompagnato da un susseguirsi di baci al riparo del bavero della pelliccia di visone, in cui si riparava dal freddo mattutino.  

Informai il mio amico prete – l’unico col quale intrattenevo una sincera amicizia in quanto era dotato di un’apertura mentale che rifiutava i convenzionalismi e la conservazione di principi che collidevano con i tempi moderni ed in continua evoluzione- ed egli condivise questa nostra relazione, senza se e senza ma.  

Ad inizio dell’estate decidemmo di trascorrere alcuni giorni nella serena bellezza di un villaggio turistico all’interno del “Bosco dei Fauni”, dopo esserci recati presso un santuario, dove Rosalinda volle assistere alla messa e, confessatasi, raccontò al prete la nostra storia; quegli le disse che voleva parlarmi. Alla fine, io e lei, ci trovammo inginocchiati davanti all’altare per prendere la comunione insieme, sbalorditi ma felici. Avevamo incontrato un cappuccino progressista perché, malgrado io divorziato, ci consentì di accedere ai sacramenti sacri. 

Talvolta, ma di raro, si conosce un uomo di fede cattolica, che, nell’evoluzione del suo pensiero, si cala nella dimensione di coloro che vorrebbero, - ma è loro vietato dagli insegnamenti che promanano dall’alto della gerarchia ecclesiastica -, accostarsi ai sacramenti. Ciò può accadere se si ha la fortuna di dialogare con un giovane sacerdote, non conservatore, né integralista cattolico. 

Eravamo amanti, Rosalinda ed io, che si incontravano alla luce del sole e che non avevano paura di manifestare, tra la gente, la propria felicità. Eravamo amanti che facevano l’amore con il sottofondo musicale del “Sogno d’amore “di Litz, che, assieme ad altri pochi pezzi di dolcissima musica classica, divenne il nostro leit-motive nei momenti di intimità o di relax mentre stavamo insieme e discutevamo dei nostri progetti futuri. 

Furono giorni meravigliosi, irripetibili, segnati da un giuramento di amore senza fine, che si protrassero per tutta l’estate. Al paese, rubavamo al perbenismo ipocrita la possibilità di incontrarci ora al mulino, laddove lei si recava per macinare il grano in quanto i suoi facevano ancora il pane in casa, ora alla struttura abbandonata del macello del paese vicino, ora presso la mia abitazione, dove potevamo trascorrere insieme la notte. Pensavamo entrambi di mettere a posto la vecchia mia casa di campagna per trascorrervi giorni ed estati future. Quella casa rurale, infatti, assieme al posto, ci aveva fatti assaporare momenti addolciti da agreste delizia.  

In autunno fui ricoverato in ospedale, a Cefalù, piuttosto malconcio e lei accorse al mio letto d’infermo lasciando il suo lavoro; era dolcissima e premurosa, piena di attenzioni e, con riluttanza, si allontanava da me durante le ore in cui non era consentito l’accesso in ospedale a chicchessia. Il mio vicino di letto, mi chiese chi fosse; gli risposi: “la mia fidanzata”. “Lei è fortunato perché quella donna è innamoratissima di lei: si vede come la guarda, come l’accarezza e come si comporta con lei”, mi disse a sua volta. Rosalinda rientrò al lavoro quando venni dimesso, cioè dopo cinque giorni.  Qualche mese dopo, andai a Milano per un controllo relativo ai miei disturbi. Durante la settimana di degenza in ospedale, lei mi telefonava ogni giorno all’ora di pranzo ed io la sera. Quando rientrai in Sicilia, lei era alla stazione ad accogliermi. Consumammo insieme due giorni tra Messina e la costa calabra, ammirando la bellezza dello Stretto durante la traversata notturna oppure cenando nella penombra romantica di qualche trattoria a ridosso della spiaggia e del paesaggio, unico nella sua bellezza. 

Meraviglioso fu il Natale successivo passato in mezzo ai nostri monti, coperti di neve: oltre a vivere la deliziosa atmosfera del momento, particolare nel nostro borgo, riempivamo i momenti di lontananza con lunghe lettere, con missive o con poesie che le dedicavo. Cresceva l’amore e s’intensificavano i progetti per il nostro futuro da affrontare insieme. 

Avevo deciso di abbandonare l'attività sindacale per dedicarmi, una volta sposato, alla mia donna ed alla futura famiglia. 

Ma, spesso, le cose belle sono destinate a finire: la felicità è una condizione fugace durante questa nostra vita. A distanza di oltre un anno e mezzo dal suo inizio, il nostro rapporto finì nella maniera più misera e deplorevole, con disgusto, ma anche con rabbia. Disgusto per quello che lei mi comunicò, rabbia per il seppellimento di sentimenti e di stati d’animo di rara intensità ed evenienza. Rosalinda, infatti, mi disse, in uno dei nostri ultimi incontri, di avere conosciuto, tramite sua sorella, un amico di essa: un uomo “insignificante e ridicolo” (parole sue), che sfotteva talvolta, ma con una professione lucrativa. La sorella, che aveva saputo del nostro rapporto, la tormentava per dissuaderla dal proseguirlo e le faceva il lavaggio del cervello per indurla a sposare quell’uomo. La sua cattiveria indusse Rosalinda a rinunciare a me: è molto probabile che il suo cervello  sia stato manipolato con qualche droga perché, in occasione del nostro ultimo incontro, a distanza di qualche settimana da quello precedente, mi disse di sentirsi svuotata interiormente e, pertanto, di  non sentire più trasporto né quell’amore, che le avevano fatto commettere l’inimmaginabile per una  ragazza di un paese conservatore, nascosto all’interno dei Nebrodi: divenire l’amante di un uomo  sposato, anche se divorziato. Soggiunse di non essere certa di amarmi: a distanza di una settimana dall’ultimo nostro amplesso e dopo ben 550 giorni pieni di atti d’amore, di scritti, di sfide alle convenienze sociali e di sacrifici reciproci, consapevoli di quanto facevamo e di quello che programmavamo. Non era possibile. La sua mente, infatti, era confusa, il suo sguardo, spento, non era più profondo ed attento ma si perdeva nell’indefinito spazio, i suoi gesti lenti, le labbra serrate in una smorfia di dolore. Aveva l’aspetto di una persona sotto terapia di una qualche droga…, magari somministratale a sua insaputa nel cibo.

Non c’incontrammo più. Mi restituì le lettere che le scrissi, ma non le poesie né l’anello di brillante che le avevo regalato. 

Lei sposò quell’uomo “insignificante e ridicolo”. Qualche anno dopo sua madre morì prematuramente; rimasi alquanto sorpreso dalla frase di una contadina, che abitava in campagna, che mi disse che avevo evitato “un lutto”. Tutto il paese era a conoscenza del nostro legame e della successiva rottura. Chi fu a dare il primo colpo di tam- tam sulla nostra relazione? Mistero! 

Dopo alcuni anni, di sfuggita l’incontrai al paese – che lei amava tanto ma da cui si allontanò dopo il “tradimento” e dove veniva soltanto per poche ore perché forse le rammentava “qualcosa di bello”, vissuta per qualche anno – e dallo sguardo, che ben conoscevo, percepii che era infelice. 

E’ un evento raro incontrare la vera felicità e, se la si tradisce, essa si vendica per averla rifiutata; e sono tanti i modi con cui questa cambiale viene presentata all’incasso dal destino. Dopo trent’anni mi venne riferito, anche, che Rosalinda era affetta da una grave malattia alla colonna vertebrale, che non era possibile sconfiggere attraverso un intervento chirurgico. Ma il mio destino non fu migliore del suo. 

Continuai ad impegnarmi nel Sindacato ancora di più, in quella UIL che volevo lasciare, per costituire una nuova famiglia, se avessi sposato quella mia amante. 

P.S. Amante? Si! Come si dovrebbe chiamare una donna che affermava di volermi sposare, anticipando la prima notte di nozze, per, poi, invece, tradirne le promesse e gli impegni d’amore? Certamente, non fidanzata. Ma, ritengo che il termine giusto sia appunto “amante”, considerato il comportamento da fedifraga.

L’avevo incontrata, reduce dei tragici eventi messinesi, nel 1974. La nostra relazione durò due anni ed ebbe termine perché la sua volontà venne manipolata, per usare un eufemismo.

Dicevano gli antichi romani: “ Pacta sunt servanda!” 

Ma lei non era “romana”, ma …bizantina… 

Io ho avuto tantissime avventure femminili, ma due fidanzate, che ho sposato, ed una compagna nell’ultimo, recente percorso della mia vita, che, purtroppo, è volata in cielo.




















Lory      

La mia seconda moglie

Avendo di già divorziato dalla prima moglie, pensai di unirmi, prima, e di sposare, dopo, la compagna, conosciuta in un congresso della UIL palermitana, Da essa ebbi altri due figli. E' morta nel giugno del 2017.


“Per sempre”

Quando sfuggir dalle tue mani

udrai il battito del mio cuore

i miei occhi ancor ti diranno:

t’amo.

Quando gli Angeli s’appresteranno

a volare con la mia anima

a Dio dirò di unirci

“per sempre”.

Quando le lacrime solcheranno

il sole dei tuoi baci

per il mio ultimo addio

allora capirai

quanto vicino ti sono stato.

24 luglio 1977 



… ed è la vita

Sembra un gioir d’ali

sul nostro notturno presepe

quel danzare di lucciole

tra i murmuri zampilli

dello splendore d’Este.

Questa notte

ti abbiamo dato la vita,

figlio.

Abbiamo udite

le campane di Dio

sul nostro inquieto vivere;

abbiamo piantato un albero

nel mondo delle speranze:

all’ombra dei suoi rami

possano baciarsi i cuori

di chi già ti ama. 

Tivoli, 3 luglio 1977

Devo a lei, Lory, se, in occasione della mia più paurosa crisi di angioedema, che mi attaccò alla gola ed al volto, riuscii a risolvere l’andamento della mia patologia. In quell’11 agosto del 1977, anniversario della morte di mio padre, “qualcuno” mi salvò la vita. Durante la notte, mio padre mi venne in visione: eravamo sulle sponde opposte di un fiume che mi invitava ad attraversare per raggiungerlo. Pur nell’ irreale scenario, il mio subconscio entrò in funzione per trasmettermi che mio padre era morto. Con doloroso distacco mi allontanai da quella scena d’estasi: tale era, infatti, dal momento in cui ero entrato in contatto spirituale con l’anima di mio padre, che distinguevo visivamente. 

Mi svegliai con grande agitazione e sentii un fastidio alla gola, che era già gonfia. Il giorno prima avevo dovuto fare qualche fiala di antibiotico per un ascesso dentario, che aveva scatenata una reazione allergica. Chiamammo il medico, il quale mi avviò subito al pronto soccorso: si trattava di un edema della glottide che si stava estendendo al volto, sfigurandolo. Cortisone e Bentelan non riuscivano a ridurre il gonfiore che andava avanti sempre di più. Non riuscivo più a parlare e respiravo a fatica. Avendo letto un articolo sull’argomento, scrissi su un foglio di carta, che consegnai al medico, che costernato non sapeva cosa fare, di provare a praticarmi una fiala di adrenalina. Scomparve, ma tornò dopo dieci minuti con una siringa con la quale mi iniettò metà fiala di adrenalina. Dopo mezz’oretta sentii allentare il laccio che mi stringeva la gola e cominciai a respirare. Il medico, cui avevo affidato il foglietto, mi disse che aveva svegliato il suo primario, il quale aveva confermato quanto da me suggerito. Da allora, vado piano con gli antibiotici. 

Attraverso le amicizie di Lory, da bravi medici fummo indirizzati presso alcuni specialisti del nord, a Genova prima, ed a Milano poi. Lì mi venne diagnosticato l’angioedema ereditario, incurabile a causa di una carenza di un ormone del mio fisico. Non curabile, ma trattabile da punto di vista sintomatologico: un ormone androgeno, assunto in permanenza, mi ha consentito di condurre una vita normale anche se mi ha regalato un fegato steatosico ed un soprappeso di un paio di decine di kg.  

La convivenza con mia moglie fu variegata e vissuta con interesse dal punto di vista dei rapporti sociali ed anche culturale. 

All’inizio del nostro stare insieme, in occasione del Congresso nazionale della UIL, il mio Segretario Generale, Avaldo Sarti, poiché ero delegato per la UIL Sicilia, mi pregò di fare il servizio giornalistico per il giornale “Lavoro Postelegrafonico” e mi accreditò, quindi presso il Servizio organizzativo quale corrispondente del giornale nazionale di categoria. Ebbi l’onore di sedere accanto ai corrispondente di testate nazionali, quali la Repubblica, il Corriere della Sera, la Stampa, ecc. Partimmo con Lory alla volta si Bologna, sede del Congresso, e, conclusi i lavori, ci fermammo a Roma visitando le bellezze della città e di Tivoli. 

Ogni qualvolta si celebravano eventi nazionali del Dopolavoro Centrale delle Poste, essendo Consigliere nazionale, mi facevo accompagnare da lei: rammento le premiazioni nazionali di concorsi culturali presso le città di Venezia, Merano e Napoli.

Aveva diversi hobby: dalla politica, al sindacato, alla pittura, alla frequentazione di spettacoli musicali, operistici, teatrali. Tra una mostra antologica e l’atra delle sue tele, trovava tempo il tempo di andare, assieme a me, al Teatro Massimo, al Politeama, al teatro estivo Della Verdura, al Teatro Tenda: ora era una opera lirica, quale il Rigoletto o la Cavalleria rusticana, tal altra la Butterfly oppure un concerto dell’Orchestra sinfonica siciliana, od anche un operetta o un debutto teatrale. Tutto ciò arricchì il mio bagaglio culturale, soprattutto musicale.

Lory era una monarchica – anch’io lo ero dal punto di vista di una Monarchia Costituzionale, democratica e parlamentare, sull’esempio delle monarchie dei paesi scandinavi, né Savoiardo, quindi, né Borbonico, essendo ideologicamente un socialista democratico – e come tale frequentava ambienti monarchici. Era iscritta al “Gruppo Savoia”, i cui dirigenti, in Sicilia, erano nobili palermitani. 

Il Principe Vittorio Emanuele di Savoia celebrava il suo 50° genetliaco ed invitò alcuni dirigenti regionali del Gruppo presso un castello in Francia (ancora non poteva entrare in Italia). Da Palermo, il Presidente regionale invitò mia moglie, quale delegata femminile, ad accompagnarlo. In fretta e furia, con le rispettive consorti partimmo con l’Alfa Romeo 2000 del Presidente alla volta di Villa S. Giovanni per proseguire il viaggio col treno, dopo avere imbarcato la macchina sullo stesso mezzo di trasporto. Ma arrivati a Villa S.G. non c’erano posti disponibili sui vagoni auto, per cui decidemmo di continuare via autostrada. Tutta l’intera notte viaggiammo; quello stacanovista di alfista non volle alternarsi con me alla guida. Quando l’amore verso la monarchia supera la stanchezza fisica! Per riuscire a fumare il sigaro, ero costretto a farlo fermare presso qualche punto di ristoro dicendo di dovere andare a fare pipì. All’alba arrivammo alla frontiera: esibizione di documenti, perquisizione dei bagagli e dei portafogli. Mia moglie aveva nel portafogli un assegno di circa 500.000 lire, che dimenticò di lasciarlo a casa: volevano arrestarla per esportazione di valuta. Rimanemmo in stato di fermo per circa due ore, riuscendo a varcare la barriera frontaliera dopo che il Presidente del Gruppo Monarchico ebbe a spiegare ai finanzieri di servizio il motivo per cui ci recavamo in Francia. Sembra che quei militari si siano informati – non so con chi – se era vero che Vittorio Emanuele avrebbe festeggiato il suo cinquantesimo presso un castello nobiliare. In albergo dormimmo tutto il giorno sino alla partecipazione all’evento festaiolo. Al salone della cerimonia si accedeva in abito lungo, per le signore, e in smoking, per gli uomini. In quella occasione, il Principe regalò a ciascuna coppia un moneta in argento coniata con la sua immagine e lo stemma della casata. 


                                   



Durante quell’evento, l’incontro fu immortalato nelle foto con i principi Marina Doria, moglie di Vittorio Emanuele, ed Emanuele Filiberto di Savoia








Maria Giovanna


Percorrendo in lungo ed in largo la Sicilia per la mia attività sindacale, presenziai al congresso della UIL Post di Ragusa. Al convivio, mi venne presentata una donna di 24 anni, Maria Giovanna, molto avvenente, alta, bel corpo longilineo e dalle forme perfette. Ne fui colpito ed attratto. 

Aveva bisogno di lavorare, per cui ci sentivamo per telefono; poi c'incontrammo e da lì ebbe inizio un sentimento che, nel tempo, saltuariamente ci portava ad incontrarci. 

Le chiesi la sua amicizia ed il suo numero di telefono. Rientrato a Palermo, ci scambiammo frequenti telefonate. Donna intelligente, di discreta cultura, socialista come me, aperta al nuovo, rendeva il dialogo interessante, mai banale e schivo da legami matrimoniali. Nella primavera del 1980 tenni un convegno a Villagrazia di Carini, al quale venne invitata. Trascorremmo la notte insieme e lei si diede del tutto a me. La prima esaltante volta, cui seguirono altri periodici incontri. In occasione di un esame per la sua partecipazione ad un concorso pubblico, l’accompagnai a Roma dove, tra l’altro, trascorremmo insieme due meravigliosi giorni. Entrando in un locale pubblico attirava l’attenzione maschile con sguardi di ammirazione e di concupiscenza essendo veramente una bellissima donna. Facemmo lunghe passeggiate notturne tenendoci per mano. Ero fiero di essere il suo compagno. 

Ci sentivamo ogni giorno per telefono ma la distanza ci impediva di frequentarci più spesso, malgrado ci amassimo.   

Cinque anni durò il nostro rapporto, con incontri furtivi e distanziati, considerata l’oggettiva impossibilità di convivere, ma lo troncammo perché lei, un giorno, mi comunicò che un uomo sui quarant’anni le aveva chiesto di sposarlo. Maria Giovanna ne aveva 29 di anni. L’anno dopo diede alla luce una bimba. 

Dopo diciotto anni venni a sapere casualmente che era rimasta vedova. Riuscii a venire in possesso del suo nuovo numero telefonico, ma, per ben due anni, non la cercai per non arrecarle altro dolore considerato che ero ancora con mia moglie. Separatomi, le telefonai.  

Nel 2013, dopo la separazione legale da mia moglie, la cercai, lei aveva 56 anni ed era sempre bella, io 74, ingrassato; ci frequentammo per 7 anni. Cercammo di recuperare parte del tempo perduto In occasione del suo primo compleanno festeggiato insieme, oltre un gioiello, le regalai un cd con le canzoni di Julio Iglesias: grande fu la sua sorpresa perché quelle note, parecchi anni addietro, avevano accompagnato i nostri spostamenti in macchina ascoltando una musicassetta 

La nostra relazione ebbe fine a causa di un tumore, che la portò, in soli 40 giorni, nel marzo del 2021, alla tomba. Non potei essere presente al suo funerale per i divieti imposti dalle norme relative al Covid-19. 


Ode a Giò

Son cento giorni

che non odo più le tue parole.

Nel tuo letto di dolore

t'han tolto pure l'unico filo

che ci teneva uniti

nell'obbligata lontananza

per questa invasione

d'un nemico sconosciuto.

Ho saputo che la tua vita

è appesa al filo della Parca

a cagione della tua grave condizione

per un impossibile intervento

su un nefasto male.

Potessi almeno venire a trovarti

per guardarti negli occhi

per accarezzare la tua mano

per un lieve bacio

per parlarti ancora d'amore.

Ma la mia salute non consente

il lungo viaggio

e, poi, c'è questo maledetto virus.


Non so se tu ed io

potremo tornare a guardare

insieme il mare di Cefalù.

A proposito

oggi sono andato a respirare

la salsedine

mentre la serena onda

veniva a riva.

C'era una giovane coppia

sulla battigia

distesa al sole vespertino

sulla rena ancora fredda:

discutevano

e di tanto in tanto si abbracciavano

così

dolcemente

per scambiarsi un fuggevole bacio.


Ricordi?

Anche noi ascoltavamo

”u scrusciu du mari”

nel notturno arenile sul Tirreno.

E parlavamo

di quando ci siamo conosciuti

nella giovane età

dei tuoi vent'anni.

I lunghi viaggi per stare insieme

qualche giorno

od anche poche ore

come in quel san Valentino gelese.

Il distacco imposto

il lungo silenzio

e, poi, ritrovarsi

dopo oltre trent'anni

con il tremolio delle gambe

ed uno strano dolore addominale.

Poteva essere

la realizzazione di quell'incompiuto sogno

interrotto su quella piazza della tua marina,

che uccidemmo, o io non volli.


Dopo lunghi anni di silenzio

ti ritrovai

e abbiamo vissuto insieme

a tratti, lungo sei anni,

che quel maledetto covid interruppe.


Ora siamo qui,

tu che non sai se tornerai

a cantare e sorridere

tra le tue pareti,

io, malato e stanco,

da non sapere se potrò ancora

vedere la mia residenza di montagna.


Vorrei tanto ricevere tue buone notizie

vorrei poterti parlare per dirti:

“coraggio, amore mio, ce la farai”.

Affido alla brezza del vento

la carezza di un bacio

perchè solo lui nel sereno etere

può venire a deporlo

sulle tue labbra.

18 03 '21


Poi, invece:


Necrologio per Giò


Non ho mai amato nessuna come te.

Metti un cuscino accanto

al tuo bel volto:

dormiremo insieme nel

“paradiso perduto”.


































      Il Colosseo e dintorni


Il mio soggiorno romano















Non appena misi piedi alla Segreteria generale del Sindacato, il Grande Avaldo Sarti, il capo, mi spedì in tipografia dove il giornale era già pronto per essere impaginato; le bozze erano state controllate dal direttore, Gaetano Bignami. Al quale proposi di scrivere un paio di slogan pro tesseramento da inserire nell’ultima pagina. Mi rispose che avrebbe girato la proposta al Segretario Generale. In ventiquattro ore ebbi il pezzo, un articolo di due cartelle. Feci presente a Gaetano Bignami che era troppo lungo per cui bisognava estrapolare tre o quattro slogan. Non volle assumersi la responsabilità per cui telefonai ad Avaldo per informarlo; mi rispose: “fai tu”. Uscite le prime copie di stampa, ne portai una al Segretario Generale uscendo immediatamente dalla sua stanza. Che, da una delle due porte, comunicava con la mia. Seduto alla mia scrivania, sentivo Avaldo imprecare ad alta voce che aveva perso un’intera nottata per scrivere l’articolo, che io avevo decimato, secondo il mio punto di vista grafico e del messaggio da inviare ai lavoratori. In serata mi chiamò per dirmi che saremmo dovuti andare l’indomani a Salerno. Approfittai dell’occasione per chiedergli se gli era piaciuta la nuova veste grafica del giornale. Con la sua voce burbera mi rispose che andava benissimo, ma mi rimproverò per il taglio al suo pezzo organizzativo. Cercai di illustrargli quali erano certe regole giornalistiche e pubblicitarie. Io avevo solo trenta anni e lui oltre cinquanta. Ma mi andò bene ed alla fine si rabbonì. 

Trascorsi circa un anno con lui ed imparai il mestiere del dirigente sindacale. Avaldo, da socialista, aveva fatta la Resistenza, uomo volitivo, grande oratore, non aveva timore riverenziale al cospetto del Ministro, colto, appassionato d’arte e di architettura, conoscitore di quella classica; era un combattente ed un vero capo, dalle indubbie capacità di guidare una grande organizzazione di lavoratori. Era il simbolo ideale cui mi ispiravo nell’azione sindacale essendo stato il mio maestro d’arte.  

Il mio soggiorno romano, dopo il lavoro al settore stampa e propaganda, nonché alla preparazione del materiale – articoli e foto – per la pubblicazione sull’organo ufficiale nazionale del Sindacato, trascorreva visitando le bellezze della città e facendo escursioni di fine settimana nei Castelli romani, nella verde Umbria ed intorni, accompagnato dalla dolcissima Lilly. 

Ella era la segretaria del Consigliere di Amministrazione, ing.  Teodoro Santonastaso, con il quale ero amico. Lilly era una vedova sui trentacinque anni: non bella, né brutta, dai capelli mogano lunghissimi e dalla voce dolce e suadente; ma anche mite ed affettuosa. Aveva una vecchia Fiat 500 in buone condizioni d’uso. Mi fece conoscere la città conducendomi in giro la sera ed i fine settimana. Facevamo l’amore nella angusta cinquecento talvolta nei pressi dell’antico acquedotto romano, sulla via Appia, tal altra al riparo degli alberelli disposti a macchia, presso il Colle Oppio, quando stazionavano solo le coppie.  

Il fine settimana lo trascorrevamo spesso fuori Roma: conobbi il Lazio, la Campania e l’Umbria. A Terracina, dopo una cena … allegra, Lilly mi invitò a girare con brio attorno ad una grande fontana illuminata al centro di una piazza; essendo notte inoltrata, per fortuna, non c’erano nè traffico né vigili: solo alcuni ragazzi. E lei cantava e gesticolava come se avesse nelle mani delle girandole luminose; poi, in albergo, volle essere fotografata nuda ……  

In Umbria, mentre visitavamo le Cascate delle Marmore mi fermò un uomo dicendomi di essere mio concittadino, ma io non lo riconobbi.  Dal terrazzo di un albergo sul lago di Piedilugo assistemmo allo spettacolo notturno della sfilata di navi antiche con relative ninfe lacustri ed accompagnamento di fuochi di artificio: scenario sublime.  

Mi fece conoscere gli angoli più suggestivi di Roma, soprattutto quella antica, e mi condusse nei luoghi più incantevoli, tra cui i Castelli Romani, Tivoli, Villa Adriana, il lago di Nemi, Castel Gandolfo. Fu nei boschi, attorno al lago di questo angolo suggestivo della provincia romana, residenza estiva dei Pontefici, che ci capitò un incidente di percorso, di quelli cui vanno incontro coloro che cercano di occultarsi…da guardoni o malintenzionati. Altre volte eravamo stati molestati lungo la via Appia, ma in quel frangente prendemmo tanta paura.  

Ci eravamo stesi su un plaid in una piccola radura del bosco, nascosta da una folta macchia di arbusti, quindi defilata alla vista: l’accesso era bloccato dalla macchina. Eravamo sull’imbrunire e, tra una battuta ed un dolcetto, ci trovammo a fare l’amore nella maniera tradizionale. Fummo portati a rotolarci per cambiare posizione; vidi di sfuggita un’ombra alle mie spalle: era un guardone pronto a colpirmi con una grossa pietra che teneva sollevata tra le mani. Con un guizzo balzai in piedi mezzo nudo e feci il gesto di prendere una pistola nei pantaloni (che non avevo) e gli gridai” ti uccido”. Il guardone scappò. Lilly ed io ci ricomponemmo e restammo per pochi attimi inebetiti guardando il grosso sasso gettato accanto a noi. Ci mettemmo in macchina impauriti e, passando, avvisammo altre due coppie che in giro c’era un figuro che aggrediva le coppie. Dopo qualche chilometro, ci fermammo ad un bar per prenderci un cordiale: Lilly, ancora tremante per la paura, buttò giù d’un sorso un brandy, ma io me lo feci doppio. Da allora non facemmo più l’amore all’esterno, ma nel mio monolocale che affittai dopo quell’incidente; prima dormivo in una stanza in famiglia.  

Trascorrevamo le giornate e le ore, in cui stavamo insieme, veramente piacevolmente: mai uno screzio o un diverbio. Ma le cose belle sono destinate a finire! Si interruppe, infatti, la nostra relazione col mio rientro in Sicilia. Come ricordo, le lasciai in regalo un libro di poesie d’amore di Paul Eluard ed una mia foto, richiestami da lei, sul retro della quale scrissi: 

” grazie per avermi regalato un anno bellissimo. Non sarà facile dimenticarti”.  

In uno dei miei frequenti viaggi a Roma, dopo circa cinque anni, la rividi nei pressi della Segreteria Generale del Sindacato. Si girò dall’altro lato e fece finta di non riconoscermi, ma aprì la borsetta per tirare fuori un fazzoletto che sollevò verso gli occhi…Era invecchiata nell’andatura, canuti erano i suoi bei capelli mogano attorno al volto profondamente aggrinzito. Eppure, aveva da poco superati i quarant’anni. 


Di nuovo a Roma e, poi, rientro a Messina

Ma, per intanto, a Roma, un giorno mi trovai dinnanzi mia moglie. Mi disse che voleva tornare con me, dopo esserci lasciati, chiedendomi anche di perdonarla per il male fattomi. Rimanemmo insieme per alcuni giorni. Dovetti fare buon viso a cattiva sorte. Addirittura, programmammo di prendere una casetta in affitto a Roma, tant’è che ne andammo a visitare una. Non se ne fece niente, però.  

Dopo qualche anno, però, fui forzato a rinunciare ad un luminoso avvenire nel Sindacato essendo stato costretto a rientrare a Messina, per esigenze familiari - è condizionante essere figlio unico di madre vedova -, laddove, come responsabile di categoria, guidai i lavoratori nelle proteste del ’68 e, nel contempo, ricevetti, grazie al mio amico Nino Interdonato, l’incarico dalla UIL Confederale di corrispondente regionale de “Il Lavoro Italiano”. 

Furono il mio amico Nino Interdonato e mia madre che mi indussero a tornare a Messina. Avaldo interruppe il rapporto con me: voleva fare di me un Segretario Nazionale per cui rimase addolorato del mio abbandono. Trascorsero moltissimi mesi prima di ripristinare il dialogo con me. Ma, quando gli chiesi di fare trasferire me e mia madre a Palermo, per traversie familiari di cui lo informai, nell’arco di 48 ore ottenne il provvedimento. Cosa allora difficilissima. 















Cefalù dall’alto




Cefalù mon amour











Approdai a Cefalù in una calda giornata di luglio del 1972. Il primo impatto fu positivo: bella cittadina normanna sotto la “Rocca”, affacciata su una baia di mare appena “accennata”. Dopo che venni “cacciato” da Messina, per gli attentati dinamitardi su accennati subiti, me ne stetti buono per alcuni mesi. Ma, la mia natura mi portava all’azione e ricominciai a fare quello che conoscevo meglio, cioè sindacato, e decisi di inserirmi nel contesto sociale. Avendo già tracciata la strada della UIL,  potei aprirne la Camera Sindacale, che non esisteva, divenendone il Segretario Confederale; dopo  qualche anno, venni eletto anche membro della Segreteria della Sezione del Partito Socialista  Italiano, dove davo il mio contributo accanto al Deputato, On.le Gioacchino Ventimiglia ed a colui che sarebbe diventato il futuro Presidente della Provincia di Palermo e Deputato Europeo, Francesco Musotto: il Sindacato della UIL ed il Partito  Socialista si erano trasformati in una fucina di iniziative politico-sindacali. 

Aperta la camera sindacale della UIL, cominciai a realizzare proseliti in diversi settori, tra cui quelli edilizio, dell’agricoltura, delle poste, del municipio, dell’ospedale, dell’alberghiero. Mi venne facile perché le altre due sigle sindacali – CISL e CGIL – facevano solo assistenza; io , invece, oltre che questa, delegandola ad un compagno, incominciai ad aprire vertenze e tavoli di trattative, tenevo assemblee e riunioni di gruppi.  

Iniziai le battaglie per la dichiarazione, da parte dell’Ufficiale Sanitario, di inagibilità igienica dell’ufficio postale, e per la costruzione di un più idoneo Ospedale Civico: i rispettivi nuovi edifici vennero realizzati alcuni anni dopo il mio trasferimento dalla cittadina essendo stato chiamato a ricoprire la carica di Segretario Regionale della UIL-Post. Promuovendo l’unità, coinvolsi le altre sigle sindacali cefaludesi in una grande manifestazione dei lavoratori per l’occupazione, la realizzazione di case popolari ed i problemi connessi con la risorsa del turismo locale. Su quest’ultimo problema presentai un articolato progetto in occasione di un convegno indetto dal Sindaco, dr. Serio, ricevendone uno schietto apprezzamento. 

Aprendo una vertenza con il potente dirigente del Club de la Mediterranèe lo trascinai in giudizio ed, a seguito della sentenza, venne costretto ad applicare il contratto di lavoro in vigore, che sino allora non aveva rispettato. Quando, nel mese di agosto, il Giudice di pace presso la Pretura di Cefalù, convocò il direttore del Club per l’udienza, questi, che si trovava presso un altro Club in Calabria, nottetempo raggiunse la cittadina e, venendomi a trovare per cercare di evitare la causa, mi invitò a pranzo presso il Club; gli risposi:” prima la causa e poi accetterei l’invito”. Così fu: il Giudice diede ragione a me ed io entrai nel Club a fare assemblee ed iscritti. Il direttore replicò l’invito, che accettai per non sembrare scortese. Il pasto avveniva all’aperto con ricchi buffet imbanditi con parecchie portate, da dove gli ospiti – uomini e donne in costume da bagno succinti, prelevavano i cibi. Era una festa dello sguardo e della lussuria, ma “rigore e serietà” s’imposero sui miei desideri. Alla fine del banchetto, il direttore disse a due sue guardie del corpo di accompagnarmi a visitare il museo del Club: attraverso sentieri fiancheggiati da fichi d’India avevo la sensazione di andare incontro al luogo dove i due ceffi mi avrebbero fatto fuori. Mi sembrava una scena con sottofondo il suono del marranzano che mi rintronava nelle orecchie; per precauzione, aprii la chiusura del borsello dove tenevo la pistola. Non successe niente. Dopo la visita al museo, strinsi la mano ai due accompagnatori e filai di corsa verso casa, dove scolai due dosi di cognac. In un paio di anni, la UIL era diventata il primo sindacato di Cefalù. 

Rimasi cinque anni in quella cittadina, che avevo salutato con una poesia, andata perduta, e da quel periodo scaturirono realizzazioni di realtà strutturali e lavorative, di cui, ahimè, non ebbi merito perché non ero più presente in quel centro turistico al momento del loro concretizzarsi. Attraverso l’azione sindacale, da me portata avanti, e qualche  sciopero, i vecchi ed angusti locali dell’ospedale e delle poste, nel tempo, furono trasferiti in  moderne strutture; alcune cooperative edilizie riuscirono a costruire le abitazioni a seguito di un  movimento di protesta, nel quale coinvolsi le altre sigle sindacali; cinquanta famiglie , e non più  ventisette, trassero il loro reddito essendo riuscito a fare aumentare considerevolmente la pianta  organica dell’ufficio postale; al Club de la Mediterranèe – dove era precluso l’ingresso al  Sindacato- si fecero le assemblee e parecchi lavoratori si sindacalizzarono. 

…ovviamente, nessuna riconoscenza venne a me, mai! Purtroppo, essa non è di …uso comune. 

Leggiamo nel Don Chisciotte di Miguel de Cervantes, “L’ingratitudine è figlia della superbia”, mentre in Seneca: “È ingrato chi nega il beneficio ricevuto; ingrato chi lo dissimula; più ingrato chi non lo restituisce; il più ingrato di tutti chi lo dimentica.”

Tralascio di raccontare le mie avventure occasionali con l’altro sesso, durante il mio soggiorno a Cefalù, perché “volanti”, ma ne descrivo, invece, quella che doveva essere, e che definisco, “impegnativa”




















 Il  Castello Utveggio di Palermo

Palermo – La costituzione della Segreteria regionale della UIL-Post di Sicilia









Fu quel Segretario Generale che mi volle a Roma, anni prima, Avaldo Sarti, a volere che io creassi la struttura regionale del sindacato, inesistente, deliberata da un recente congresso nazionale. 

Misi in piedi la Segreteria ed il Direttivo Regionale, nonché una rete di corrispondenti in tutta la Sicilia e di redattori locali per dare vita ad un giornale, ed assicurai una sede stabile al neo organismo regionale. Nei quindici anni della carica rivestita di Segretario Regionale girai in lungo ed in largo la regione tenendo assemblee dei lavoratori e presenziando ai congressi provinciali delle nove federazioni provinciali. 

In questo arco di tempo, durante la gestione del Direttore Compartimentale delle Poste, on.le Giosuè Salomone, mi capitò un “gustoso” fatterello: il giornale, da me diretto, uscì con un pepato articolo nei confronti del Capo dell’Azienda, il quale, ritenendosi offeso, mi fece convocare presso il suo studio alla presenza di due funzionari.  Mi disse che mi avrebbe denunziato per averlo diffamato e che quei due signori erano i suoi padrini, con i quali, da allora in poi, dovevo dialogare anche per le problematiche del sindacato. Dopo di che mi congedò. Ai suoi “padrini” spiegai il tenore dell’articolo sostenendo che non c’era offesa, ma solo durezza di contenuti, e che ero disponibile ad incontrarmi… per il duello col Direttore …  dietro il Convento… indossando i panni di un novello D’Artagnan. La cosa finì in una risata e ci volle parecchio tempo perché i “due padrini” convincessero il Capo a riprendere il confronto politico-sindacale con me. Quando, alcuni anni dopo, il dr. Salomone andò in pensione, dopo il saluto, ci abbracciammo e mi disse: “Mi mancheranno le nostre liti” Era un ex deputato della D.C.  Ed un politico di razza. 

Furono quindici anni di conferma nella carica, ma come spesso accade, qualcuno pensò di farmi fuori dimenticando la mia realizzazione di una struttura, che aveva portato la Sicilia ad avere ben 2500 iscritti, facendola divenire la terza sede nazionale, per importanza, dopo Lombardia e Piemonte. Ma, ancora una volta, nessuno pensò di ringraziarmi, anzi ne fui del tutto dimenticato da quel Sindacato, a cui avevo dedicato ben trenta anni della mia vita. 

I miei avversari politici, nel Sindacato, furono il Segretario Provinciale della UILPost di Palermo, malgrado ne fossi un suo iscritto, e quello di Messina, che peraltro era originario di Longi, che non cito perché non meritano tanto onore. Il palermitano, addirittura, tentò di farmi incriminare pubblicando, in forma anonima, su OP, il giornale scandalistico di Pecorelli, un pezzo nel quale si diceva che io avrei approfittato dal distacco sindacale a tempo pieno per accompagnare mia moglie nelle varie mostre. Ci tentò, ma non vi riuscì. 



Un “Bruto” accanto a me.

Quello di Messina si coalizzava spesso con quello di Palermo per estromettermi dalla carica e, per ben quindici anni, non sortirono a niente. Sin tanto che colui il quale avevo portato a Segretario Nazionale, U. G., compagno di tante lotte e di confidenze personali, non venne fatto fuori dalla Segreteria Generale all’ultimo congresso nazionale, cui partecipai. La delegazione siciliana, che era presente e che era pronta ad intervenire menando le mani, nel commentare il mio intervento a difesa d U. G., ebbe ad asserire che quello fu il migliore discorso che ebbi a pronunciare nei quindici anni di gestione della Segreteria Regionale. 

Trascorsi alcuni mesi, io venni fatto fuori dai miei due soliti nemici, a cui si aggiunse il Segretario di Caltanissetta, divenuto amico dell’ex Segretario Nazionale, perché avevo tentato di sfiduciarlo per inettitudine. Un’intera giornata durò il dibattito, dietro cui c’era l’ombra di G.U., il quale, contrariamente al suo solito, non proferì mezza parola. Alla fine, disgustato e per fare uscire il Sindacato dalla situazione stazionaria di pareggio dei voti e delle liti tra compagni attestati su posizioni diverse, nonché di disagio, abbandonai la sala della riunione, per protesta. Mentre mi allontanavo, sentii un applauso che nominava G. U. Segretario Regionale.  

Ovviamente, la nostra amicizia con U.G. s’interruppe. E dire che l’avevo tolto dall’Ufficio di Termini Imerese, dove faceva il telegrafista, per portarlo a Roma, laddove, peraltro, ebbe modo di vincere un concorso per dirigente – essendo in possesso di laurea -, che lo condusse a divenire Direttore Provinciale di diverse sedi delle PP.TT.  Ma seppi anche, successivamente, che, in occasione delle elezioni per il rinnovo del Consiglio di Amministrazione del Ministero delle Poste, a cui ero candidato, si giocò la mia candidatura con quella di un altro compagno. Se non l’avesse fatto, sarei stato eletto Consigliere di Amministrazione; invece, fui il primo dei non eletti. Ma, il fedifrago conosceva soltanto il suo tornaconto personale. In pratica, credetti per tanti anni in una persona che ritenevo amica, che feci crescere nella scala sindacale, mentre invece era un “Bruto” in casa mia.

La UIL-Post di Sicilia, dopo la gestione durata qualche anno del soggetto succedutomi, cui seguì quella del messinese e del palermitano, nel giro di pochi anni, perse quasi la metà dei suoi iscritti. Non seppero conservare il “tesoretto” che avevo accumulato ed a loro lasciato. 

Nel 2021, la Federazione di Palermo, da 550 iscritti quando io ero in carica è piombata a soli 50 seguaci.


Nel mio studio, presso la sede del Sindcato, a Palermo, avevo tre poster, quali miei riferimenti ideali:  Sandro Pertini, Partigiano ed eroe della Resistenza, Ernesto Che Guevara, quale simbolo della Libertà e Turiddu Carnevale, il Sindacalista socialista ucciso dalla mafia.



Il mio battesimo di volo ed altro 

Da quando divenni Segretario Regionale della UIL-Post di Sicilia, nel 1978, mi spostavo spesso per andare a Roma, ai congressi o alle riunioni degli Organismi direttivi. Alcune volte, mi capitò di imbattermi in qualche brutta avventura, ma ne voglio ricordare una: il mio battesimo di volo. 

Si celebrava il congresso nazionale del sindacato, a Lignano Sabbie d’Oro. Partimmo da Palermo per atterrare a Roma e, indi, prendere l’altro volo per l’aeroporto di Trieste, Ronchi dei Legionari. Stavamo per lasciare la dorsale appenninica quando, all’improvviso, entrammo in una turbolenza violenta. Era un Fokker ad elica – così ci dissero – ed il comandante ci invitò ad allacciare le cinture e di stare calmi. La cabina si oscurò, piombò il silenzio e l’aereo cominciò a rollare violentemente. Qualcuno si raccomandava l’anima a Dio, qualche altro cercava di raccontare una barzelletta, ma non faceva ridere. 

Dopo venti minuti di ballare quasi al buio, avvistammo, a cinquanta metri sotto di noi, la terra: non era la pista d’atterraggio, ma ci avvicinavamo ad essa. Non conoscendo la manovra posta in atto dal comandante dell’aereo, pensammo di essere prossimi ad una qualche tragedia. Alcuni istanti oltre, eravamo incanalati nella corsia che ci avrebbe portato all’aereo-stazione di Trieste. Tremendo fu l’impatto con il mio primo volo, ma continuai a volare, anche perché, parecchi anni addietro, - come ebbi a dire -volevo fare il pilota di aerei militari. 

Un altro brutto momento fu quello quando, rientrando a Palermo con il volo Bologna-Punta Raisi, mezz’ora prima era stato abbattuto, da un missile libico, un aereo di linea su Ustica. Il mio aereo, nella sua rotta, aveva sorvolato l’isola.

Ed ancora, decollati dall’aeroporto di Napoli, Capodichino, eravamo già in quota quando il comandante dell’aereo annunciò che dovevamo rientrare per un probabile guasto ai freni: l’atterraggio fu alquanto angoscioso, ma, per fortuna, senza conseguenze. Dopo un paio d’ore ripartimmo, anche se con il cuore in gola. Ma si vede che la mia ora non era ancora giunta.


Per quindici anni svolsi il mandato di Segretario Regionale, durante il quale imparai, dai miei compagni del nord-Italia in occasione dei frequenti incontri nazionali, a divenire amico dei superalcolici, soprattutto grappa e wisky, ma anche di mezzo litro di vino al pasto. Le conseguenze le scontai a tarda età con un carcinoma epatico. 



Pensionato

Mi misi a coltivare la mia passione per la scrittura. Mi venne regalato da Lory un computer in sostituzione della vecchia macchina per scrivere. Occupavo il tempo della mia inazione lavorativa componendo romanzi e poesie e facendo ricerche storico-archeologiche sull’antica città di Demenna. I relativi scritti ne sono una testimonianza libraria. 

Trascorsi alcuni anni, in cui Lory mi venne dietro, per pochi giorni, durante la mia permanenza estiva a Longi, successivamente decise di non seguirmi e dovetti trascorrere due estati consecutive, a Crocetta, da solo. I miei unici compagni furono un cane e bottiglie di vino. Divagavo scrivendo poesie e romanzi.  


Finito il mandato politico di Sindaco di Longi, dopo pochi mesi, chiesi di essere collocato in pensione: fu un grosso errore perché, se avessi continuato sino al massimo degli anni pensionistici, oggi, avrei avuto un emolumento pensionistico più consistente. 


  Anche con quest’ultima compagna, purtroppo, le cose non andarono bene. 

Dopo tanti anni trascorsi insieme, in una sforzata vicendevole sopportazione, i rapporti cominciarono a diventare sempre più tesi. Non era accettabile continuare la convivenza ulteriormente.

 Chiesi quindi la separazione legale.




Lo Spasimo



























































L’incompiuta riforma del comune di Longi

ovvero

IO, SINDACO A META’










“Scrivere in Sicilia”, ha detto Sciascia, è stata sempre un’eresia, un’attività mal considerata, una specie di spia, un compatriota che divulgava cose che andavano taciute”.  

Ciò malgrado, poiché, peraltro, ho sempre manifestato il mio pensiero, attraverso la stampa del Sindacato, di cui sono stato dirigente, denunciando senza mezzi termini le ingiustizie, ho voluto scrivere queste pagine perché le ho intese indirizzare soprattutto ai giovani, che si vogliono impegnare nella politica di gestione del paese e che sono la speranza del cambiamento. 

Le mie esperienze, vissute alla guida del mio paese e qui narrate in maniera obiettiva, senza risentimenti o pregiudizi e senza fini di rivalsa postuma, rispecchiano le sensazioni provate, i torti subiti e, in ogni caso, la verità dei fatti: il mio umile desiderio è quello che i contenuti di queste pagine possano essere una guida ed una fonte d’ispirazione politica per i futuri amministratori. 

La nostra Longi, per rinascere, ha bisogno di giovani coraggiosi, che non si facciano condizionare  dagli opportunisti; capaci ed onesti, ricchi di idee ed innamorati del paese, loro e dei loro padri; scevri da  ambizioni di potere per il potere, le quali distruggono e spesso frustrano l’individuo; disponibili a servire la  comunità con spirito di servizio, con umiltà e con senso dello Stato; che considerino un onore l’inchinarsi  dinanzi alla bandiera tricolore, simbolo dell’unità e dell’amore verso la Patria; consci, però, di appartenere ad una grande comunità in divenire, l’Europa unita, e predisposti, quindi, a ragionare e comportarsi come  cittadini europei, pur non dimenticando di essere longesi, siciliani, italiani. Valori, alcuni di questi ultimi, forse desueti, ma che, se convivono assieme a quelli della solidarietà, della tolleranza, della giustizia sociale, dell’onestà, dell’eguaglianza, della democrazia e della libertà, fanno dell’individuo un uomo che è pronto a governare. 

Nella mia stanza, al Comune, avevo messo in cornice la nota frase di Pericle, famoso stratega ed “amministratore democratico” dell’antica Atene: “Sapere quello che va fatto ed essere capace di spiegarlo, amare il proprio paese ed essere incorruttibile sono le qualità necessarie ad un uomo che vuole governare la propria città “. 

Sarebbe bello, oltre che educativo, se queste parole potessero essere incise su una targa collocata all’ingresso del Municipio o all’interno della Sala Consiliare. 

La situazione amministrativa

Nel settembre del 1993, il Comune di Longi era sotto gestione commissariale e, ad ottobre, si dovevano presentare le liste per l’elezione del Consiglio Comunale e del Sindaco. Il primo appuntamento del mese di maggio era andato a vuoto nonostante l’iniziativa del Comitato unitario, definito, alquanto impropriamente, Comitato di salute pubblica. 

Il Partito Socialista Italiano locale, avversario tradizionale della Democrazia Cristiana, si trovava in grave crisi per una contrapposizione politica, al suo interno, tra due gruppi. Mi offrii, quale mediatore, per ricompattare il partito e, quindi, per tentare di mettere in piedi una lista di candidati assieme ad altri rappresentanti della sinistra o, addirittura unitaria, ove possibile, rappresentativa pertanto di tutti i partiti.

La mia mediazione, accolta da tutto il direttivo della sezione, in un primo momento riuscì a mettere d’accordo le due diverse anime del partito per una sua gestione concordata, ma saltò immediatamente dopo per il ripresentarsi delle divergenze, mai sepolte, e che si sostanziarono, questa volta, nel rimangiarsi i termini dell’accordo medesimo, da parte di chi doveva gestirli, al di sopra delle fazioni. Gelosie personali?  Vecchia ruggine, mai abrasa?  

Fu, in una di quelle riunioni, che il capo della corrente socialista minoritaria propose la mia candidatura a Sindaco di Longi, accolta e supportata da tutto il direttivo del Partito. 

Era il 19 di settembre e rimaneva solo poco più di un mese per riuscire laddove altri, conoscitori di uomini e di situazioni locali, avevano fallito: mettere in piedi una lista di candidati. 

Nato e cresciuto a Longi, vi mancavo, però, da quasi quarant’anni, fatta eccezione per quei periodi di ferie estive, che vi trascorrevo annualmente, più che altro in campagna. Luogo, mai dimenticato, anzi sognato quale mia residenza abituale perché terra dei miei antenati e ad esso legato dai tanti ricordi giovanili. 

Ero venuto a conoscenza, nello stesso tempo, delle difficoltà amministrative ed economiche in cui versava il Comune: ritenni giusto che chiunque avesse esperienza politico-amministrativa e capacità di gestione manageriale dovesse metterle, in quel frangente, al servizio del proprio paese natio nel tentativo di poter sanare la situazione. Impresa ardua, da far tremare il polso, ma che doveva essere tentata ed affrontata.  Spirito d’avventura? Incoscienza? Né l’uno, né l’altra. Semplicemente, consapevolezza di un “dovere natio”, al cui adempimento ero chiamato nell’età matura, arricchita da una trentennale esperienza, conseguita nel Sindacato, attraverso la gestione di problematiche complesse, la rappresentanza primaria e diretta di Organismi regionali e la partecipazione a quelli nazionali. 

A quel tempo ero libero da ogni impegno politico e sindacale, dopo aver fatto per quindici anni il Segretario Regionale dell’UIL-Post Sicilia; accettai, pertanto, l’invito socialista a presentarmi candidato a Sindaco a condizione di poter formare una lista civica, che rappresentasse la sintesi delle varie estrazioni politiche presenti nel paese. 

Mi misi subito al lavoro iniziando un giro di consultazioni con i rappresentanti dei vari partiti, delle Organizzazioni Sindacali e delle Associazioni rappresentative di alcune fasce di cittadini sottoponendo loro anche la bozza di un mio programma politico-amministrativo, da arricchire eventualmente con il contributo di tutti. 

Il tentativo di una lista unitaria abortì, anche se il mio programma era condiviso, poiché un messaggio dell’ultima ora, affidato al più alto esponente locale dei socialisti, di formare una lista tra socialisti e democristiani con la presenza soprattutto, ma forse esclusiva, di alcune persone, che rappresentavano il rinnovamento politico, non mi fu mai recapitato. Tra le persone, che avrebbero dovuto far parte dell’Esecutivo, venivano indicati i responsabili locali della D.C., del P.S.I. e della CISL Sarebbe stata una squadra forte, in grado, probabilmente, di cambiare il volto del paese. Per il solito miope egoismo di qualcuno nel privilegiare il proprio interesse personale a discapito di quello della comunità, la soluzione, che mi doveva essere proposta, purtroppo, non ebbe la sorte di poter vedere la luce. 

Iniziarono così le febbrili trattative nel tentativo di formare una lista di uomini di sinistra e di indipendenti, che si protrassero per parecchi tormentati giorni, laddove il veto incrociato per determinate presenze nella lista, soprattutto di Assessori, faceva saltare quello che si era riusciti a costruire il giorno precedente. Il relativo ragionamento – se così si può chiamare una discussione che procedeva su veti e per proposte non motivati politicamente – esulava dal programma e si concentrava sulle persone: è un vizio antico, quanto mai sbagliato, che produce solo rapporti rancorosi e distrugge le buone ipotesi di un lavoro di squadra e di un cartello di intenti, attorno al quale i principi si riconoscono, crescono e trovano attuazione.

In questo contesto demolitore andò in frantumi anche una mia proposta, accettata da tutti tranne che dal capo della corrente minoritaria del P.S.I., che vedeva, tra l’altro, suo fratello, medico, persona capacissima e stimata, come candidato a Presidente del Consiglio Comunale e il Segretario del P.S.I., S.L., quale Vice Sindaco. Successivi tentativi, risultati vani, indussero alcuni socialisti a ritirare la loro disponibilità tant’è che altri mi consigliarono di gettare la spugna. La mia cocciutaggine, però, ebbe modo di cominciare a farsi conoscere nell’ambiente. 

La deprecata legge regionale elettorale – spiegherò dopo perché deprecata – consentiva ad un cittadino di candidarsi senza essere collegato ad una lista di aspiranti al Consiglio Comunale, purché presentasse i nominativi degli Assessori, con i quali intendeva gestire il Comune ed il programma da realizzare nei quattro anni del mandato elettorale. La mia caparbietà, nonché lo sconoscere l’intreccio delle competenze degli Organi comunali per la gestione amministrativa, all’interno delle quali è prevista anche la facoltà di veto e di rigetto, da parte del Consiglio Comunale, delle proposte della Giunta, - discrezionalità, che si accentua in caso di divaricazione politica tra i due Organismi – mi fecero decidere ad imbarcarmi nell’  ”avventura”. 

“Ah! Quanto, a dir qual era, è cosa dura questa selva selvaggia e aspra e forte, …”, mi si consenta di ripetere con il Sommo Poeta, peccando ovviamente d’immodestia nel paragonare la mia gestione del Comune di Longi all’Inferno Dantesco. L’accostamento è irriverente ed eccessivo, ma serve a rendere l’idea del percorso praticato nei quattro anni di Sindacatura. 

Riuscii, allo scadere del tempo previsto, a presentare una squadra qualificata di Giunta, che vedeva socialisti, democristiani dissidenti e indipendenti. Devo questa mia riuscita all’aiuto determinante del geom.  Turi Miceli, democristiano DOC., mio coetaneo ed amico sincero. Nessun aiuto mi venne dai maggiorenti socialisti, anzi qualcuno di questi mi osteggiò: eppure, per il passato, essi avevano presentato liste al completo per il Consiglio Comunale. Operazione, quest’ultima, che a me non fu consentita. 

Ebbe inizio, così, la mia campagna elettorale, ispirata ad un nuovo modo di incontrare la gente, facendo dei comizi attraverso i quali cercavo di sviluppare un ragionamento sulle cose da fare, senza attaccare, politicamente o personalmente, avendo acquisito la cultura della tolleranza e del massimo rispetto soprattutto delle idee altrui, comprese quelle degli avversari. 

Fui presentato ai cittadini, in occasione del mio primo comizio, dal dr.Ciccio Frusteri, rappresentante del P.C.I. locale, quello stesso che, quattro anni dopo, si mise a capo di quella fazione che aveva deciso di “buttarmi fuori del Comune”, riuscendovi, ma auto castrandosi perché spianò la strada alla compagine avversaria di sempre, ad una delle tante anime dell’ex D.C. Ma quest’argomento fa parte del dopo. 


















Vinsi le elezioni, battendo il mio avversario, candidato a Sindaco, geom. Nino Fabio, nonché Segretario della Sezione della D.C., con 667 voti contro i suoi 421. Le schede bianche, la cui matrice era intuibile che provenisse dalla mia stessa area politica, in dissenso con me, furono un centinaio circa. Nessun risultato elettorale amministrativo, a Longi, non fu mai così strepitoso. Il Consiglio Comunale era, però, di colore politico diverso essendo l’unica lista presente nella competizione. Ne fu eletto Presidente il rag. A. M. e Vice Presidente l’ins. R.P.

La Giunta era così formata: dr.  Basilio Lazzara, Vice Sindaco, arch. Franco Brancatelli, prof. Nino Carcione e Rosa Maria Miceli, Assessori. Quest’ultima era il fiore all’occhiello dell’Esecutivo. La notte del risultato del voto, nell’iniziare il giro del paese, dedicai la vittoria alla memoria di mio padre, morto in giovane età mentre serviva la patria, e mi fermai in doveroso raccoglimento dinanzi al monumento ai Caduti in guerra, ai quali promisi che avrei servito il loro ed il nostro paese con dedizione ed al massimo dell’impegno. Una breve arringa in Piazza, intorno alla mezzanotte, mi consentì di ringraziare gli elettori, nonché di ribadire il proposito per realizzare gli impegni assunti ed illustrati durante la campagna elettorale. 

Trascorsi pochi mesi di rodaggio come novello Amministratore, il primo tremendo impatto con le difficoltà, in parte sommerse, avvenne nel mese di marzo del 1994. Mi presentai, quindi, in piazza per informare la popolazione. 



I debiti del Comune ed il dissesto evitato 

Introduco l’argomento trascrivendo, in parte, il testo del mio comizio, tenuto in Piazza Umberto I, in data 23 marzo 1994, indossando la “fascia tricolore”:  


“Vi parlo, non come uomo politico, ma come Sindaco di tutti. Per questo ho indossato la fascia: per sottolineare anche la gravità del momento. Vi presento la mia prima relazione scritta, approvata dalla Giunta Municipale. 

Mi sono chiesto sempre il perché qualcuno non voleva che io diventassi Sindaco. Oggi l’ho scoperto. Non certamente per fatto politico. Non si voleva un uomo nuovo che avesse la capacità ed il coraggio di scoperchiare le pentole del diavolo. 

Nel momento in cui io ebbi a giurare, dinanzi al Prefetto, fedeltà alla Costituzione, giurai anche di rispettare le leggi dello Stato e di servire il Paese, e, quindi, anche questo paese. Servire significa, tra l’altro, lavorare per il bene, per la giustizia, per la difesa degli interessi collettivi. 

La mia storia di dirigente sindacale, in prima linea per difendere gli interessi dei lavoratori e nel denunciare abusi, soprusi e magagne, non poteva e non può che farmi continuare sulla stessa strada, questa volta al servizio della comunità, della mia, della nostra Longi. Ne accetto i rischi e le responsabilità, ma non rinuncio al mio dovere di uomo e di pubblico amministratore, di rappresentante periferico dello Stato. 

A me, quindi, è toccata la sorte, quale soggetto nato dalle viscere di questa terra, ma forse predestinato a temprare altrove la mia personalità, attraverso una dura scuola di vita, per chiudere un periodo storico di questo nostro paese, iniziato circa trent’anni addietro ed esploso oggi in tutta la sua dimensione drammatica. 

E’ una sorta di nemesi storica, che oggi si compie per il popolo di Longi. 

Ma veniamo ai fatti di questi tre ultimi mesi. … omissis…. Siamo venuti a conoscenza della massa di debiti, che il Comune ha accumulato negli anni. … omissis…. C’è stato comunicato che, con una stima approssimativa, oggi il debito per il pagamento degli espropri viaggia sul miliardo e mezzo di lire, ma non sappiamo se sono comprese le parcelle degli avvocati, altrettanto onerose. … omissis… 

In data 19 febbraio, la Giunta approvava il bilancio di previsione 1994. Alcuni segnali e comunicazioni successivi mi fecero intuire che qualcosa non andava per quanto riguardava il pagamento di contributi previdenziali all’INAIL; mi recai personalmente, assieme all’Assessore al Contenzioso, all’INAIL di Milazzo per conoscere la posizione debitoria del Comune. Appresa la somma, sbalorditiva, disposi una ricognizione anche presso l’INPS e la CPDEL: anche qui la stessa situazione, pesante e gravissima. A questo punto, chiesi all’Ufficio di Ragioneria il conteggio esatto delle somme dovute agli Istituti Previdenziali. In data 16-3-94 appresi che il debito del Comune, per il periodo 1987-1993, comprese more, interessi, sanzioni e spese legali è di circa 350 milioni di lire, se queste somme saranno pagate entro il 31 marzo p.v. Possono aumentare sino al 200% se, invece, esse verranno pagate dopo tale data. Oggi siamo, quindi, su circa due miliardi di lire di debiti. Ci troviamo di fronte a debiti liquidi ed esigibili, dei quali gran parte fuori bilancio. 

E’ stata una fortuna che il Consiglio Comunale non abbia approvato ancora il bilancio di previsione.

Dopo aver bussato ad alcune porte degli Assessorati regionali e della stessa Presidenza della Regione, per chiedere anticipazioni di Cassa o contribuzioni, ed avendo avuto la medesima risposta d’inesistenza di forme integrative di contribuzioni ai Comuni, dichiarai al Consiglio comunale il ritiro della delibera della Giunta, relativa alla proposta di bilancio previsionale ’94 e l’intenzione di chiedere all’Assessorato Regionale agli Enti Locali l’invio di un Commissario per il bilancio. 

Il Consiglio Comunale m’invitò a rivedere il bilancio tagliando, quanto più possibile, alcune somme dei vari capitoli di spesa…. Omissis…Contestualmente, il Segretario Comunale ed il Revisore dei Conti hanno fatto pervenire richiesta di dichiarazione di dissesto riguardante il Comune di Longi perché la Ragioneria non può equilibrare il bilancio. 

Dichiarare il dissesto comporta, tra l’altro, la nomina di un Commissario ad acta per gestire la situazione debitoria. Questi, ai fini del risanamento, provvede a mettere in piedi i seguenti provvedimenti:  vendita dei beni patrimoniali del Comune; aumento ai livelli massimi, consentiti dalla legge, dei tributi,  delle tariffe e dei canoni dei beni patrimoniali; modifica della pianta organica del Municipio (riduzione del  personale a 15/16 dipendenti su 27 in servizio); messa in mobilità del personale esuberante e conversione  dei posti; blocco totale delle assunzioni; se spettante, viene concesso un mutuo, per risanare il bilancio, da  parte della Cassa Depositi e Prestiti, al tasso vigente, ammortizzabile in 20 anni per mezzo del contributo  statale del fondo di investimenti, che non può essere utilizzato per nessun intervento sul territorio comunale  (strade, opere viarie, ecc.). L’unica positività sta nel fatto che la deliberazione del piano di risanamento sospende le azioni esecutive dei creditori dell’Ente. Infine, gli Amministratori, rimasti in carica, gestiscono l’ordinaria amministrazione. 

E’ una situazione di pesantezza estrema, cui sembra non si possa sfuggire. Rinviare, anche di un anno, la dichiarazione di dissesto, giacché eventuali anticipazioni di cassa non potranno essere ripianate con le entrate correnti, significa raddoppiare, almeno, la massa dei debiti. Mi affermano che bisognava dichiarare il dissesto già alcuni anni addietro per non arrivare al punto in cui oggi siamo. 

Gli Amministratori, pertanto, ed io personalmente non possiamo fare come lo struzzo, nasconderci in pratica la testa sotto la sabbia, rinviare o lasciare ad altri la responsabilità che oggi incombe sulle nostre spalle. E’, infatti, direttamente coinvolto nelle responsabilità altrui quell’Amministratore che, venuto a conoscenza di debiti, li occulta o non li denuncia agli Organi preposti. 

Gli Assessori ed il Sindaco sono personalmente convinti che legalmente, contabilmente e razionalmente, l’unica strada che ci rimane sia quella di chiedere l’invio di un Commissario regionale per il bilancio previsionale ’94 e per un esame della situazione contabile complessiva (perché potrebbero scoppiare improvvisamente altri debiti che oggi non si sanno) e quindi far decidere al Commissario il da farsi. 

Io, però, non mi sono ancora rassegnato a gettare la spugna. Ho convocato, pertanto, per domattina un consulente tributario di Palermo per un esame di tutta la situazione, per vedere se esista qualche scappatoia giuridica per evitare lo stato di dissesto; sottoporrò anche alla sua valutazione una mia proposta, che è tecnicamente realizzabile, ma non so se lo sia altrettanto realisticamente. Quella, in pratica,  di andare alla costituzione di una forma societaria, il cui capitale azionario sia costituito, in parte, dai beni  immobili del Comune (bosco, terreni, impianti sportivi ed altro) e, per l’altra parte, da quote azionarie in  denaro liquido versate da Enti e da cittadini; questa massa di denaro potrebbe essere utilizzata per pagare  parte dei debiti e, pertanto, per evitare la dichiarazione di dissesto, anche se, purtroppo, il tempo necessario è impietoso con noi perché, insufficiente. 

Adesso, veniamo ad un’analisi delle cause che hanno determinato la gran parte della pesante situazione odierna sui debiti per il pagamento dei maggiori oneri d’esproprio.

Il tutto ha inizio in data 2 ottobre 1965, quando muore la Duchessa d’Ossada lasciando, per testamento, gran parte dei suoi beni all’Ente Colonia montana Duca d’Ossada ed all’Ente Asilo nido Duchessa d’Ossada, enti, che formalmente non esistevano, ma di cui doveva essere richiesto il riconoscimento giuridico al Prefetto entro un anno dalla morte della Duchessa, in altre parole entro il 2 ottobre 1966. 

Ci risulta, attraverso sentenze dei Tribunali, inviateci dal Marchese di Cassibile, che il Comune avrebbe dovuto dichiarare di accettare l’eredità col beneficio dell’inventario, inventario da compiersi a norma dell’art. 487 II comma del C.C. nel termine di tre mesi. Il Consiglio Comunale, con delibera del 22 luglio ’66, a meno di due mesi dallo scadere del 2 ottobre 1966, dichiarò di accettare il lascito, ma mai fu redatto il prescritto inventario. A sua volta, l’ECA, statutariamente abilitata ad agire nella vicenda, per il tramite del Comune forse, inoltrò domanda al Prefetto per il riconoscimento dei due predetti Enti (Colonia montana ed Asilo infantile) in data 16 novembre 1966 e non entro il 2 ottobre 1966 (art. 600 C.C.). 

Il Comune di Longi, quindi, perse, di fatto, l’intero asse ereditario ed invano, circa dieci anni dopo, si oppose all’entrata in possesso dei beni testamentari da parte dell’avv. Procopio e del Marchese di Cassibile, eredi della Duchessa, venuti fuori a distanza di tempo, perdendo tutte le cause: in Tribunale, in Corte d’Assise ed in Cassazione. 

Mi scrive il Marchese di Cassibile in una lunga lettera inviatami:” ma, in effetti, il Comune non ha perso niente perché, se non fossero stati assegnati a me, i detti beni sarebbero rimasti in potere dell’usufruttuario, giacché il Comune non avrebbe avuto più titolo per richiederne la consegna. Il Comune ha perso l’eredità disposta in suo favore nel momento in cui lasciò scadere i termini perentori, che avrebbe dovuto osservare per perfezionare l’acquisizione dell’eredità”. E da qui, quindi, cominciarono i guai per il Comune di Longi. 

Mi chiedo, perché furono fatti scadere i termini? Per ignavia, per dolo, per omissione o per altro, a qualunque supposto titolo? 

Io ritengo che i longesi abbiano il diritto di chiederne conto agli Amministratori dell’epoca; ritengo, quindi, sia giusto che i cittadini si costituiscano parte civile contro la Giunta Comunale in carica negli anni 1965-66 e, pertanto, chiedano al Consiglio Comunale di deliberare in tal senso. 

Io non faccio, in questa sede, i nomi degli Amministratori di cui a riferimento, ma li farò in sede consiliare, se mi saranno richiesti. I meno giovani del paese, però, si ricorderanno e potranno avere elementi di giudizio. 

Considerato, altresì, che ci sono grosse responsabilità che emergono da sentenze passate in  giudicato, delle quali prima accennavo, non posso esimermi dal fare alcune considerazioni personali: 1° c’è qualcuno che dovrebbe avere il buon senso di scomparire dalla scena politica longese, soprattutto da quella  di rappresentanza amministrativa; 2°i cittadini, che hanno cause in corso con il Comune, per il pagamento di maggiori oneri d’esproprio, dovrebbero accedere ad una richiesta di transazione, se questa ci sarà, e,  pertanto, chiedere il giusto ed il dovuto, e non il superfluo……. Omissis…. Questa piazza e questa Chiesa, nei secoli, sono state testimoni di eventi belli e brutti di fronte al popolo, qui riunito; ma, mai, come questa volta, sono state mute testimoni di un così grave disastro, che espropria di beni e di gruzzoli di risparmio la nostra comunità, il cittadino longese. Nessuna giustificazione, se mai c’è stato dolo, potrà perdonare i potenziali autori di questo stato di cose. 

Io mi auguro di poter essere l’artefice della “primavera di Longi”; se mi sarà consentito di amministrare ancora questo nostro Comune, di fronte a questa Chiesa, giuro che m’impegnerò al massimo delle mie modeste capacità per far rinascere questo nostro paese, per realizzare quello che vi ho promesso nel mio programma anche se la sorte ci toglierà qualche bene strumentale, che potrebbe non essere più patrimonio di Longi. 

Longi, oggi, è un paese saccheggiato, ma verrà il giorno della resurrezione! Longi risorgerà se uomini coraggiosi, dalle mani pulite e dagli intendimenti che si richiamano a quei valori di solidarietà, di giustizia sociale e di amore per questa nostra terra, governeranno il paese.”  

La Giunta Municipale, negli anni 1965-66, era formata da: ins. R. P., Sindaco, e dagli Assessori, Ins. A. I. ins. A. I., geom. F. L., ins. N. B..  F. L. era l’usufruttuario dei beni della Duchessa d’Ossada ed aveva sposato una sorella d’I. A. 

Alla fine del comizio, il Comandante della Stazione dei Carabinieri si offrì per accompagnarmi presso il Palazzo Municipale. Un gesto, questo, per significare che un’istituzione dello Stato, la Benemerita Arma dei C.C., era accanto al Sindaco di Longi nella denuncia drammatica dei fatti accaduti, in un momento così carico di tensione e di così grossa assunzione di responsabilità nella gestione del passaggio dal dissesto strisciante alla normalità amministrativa e finanziaria del Comune. 

Qualche giorno dopo, continuando nel tentativo di rendermi conto cosa fosse accaduto nel recente passato, chiesi al Capo Settore dell’Ufficio di Ragioneria il motivo per cui venne omesso il pagamento dei contributi dei lavoratori, già ritenuti alla fonte, agli Istituti Previdenziali. Mi rispose di non essere nelle condizioni di darmi un chiarimento esauriente, se non quello che gli Amministratori precedenti avevano utilizzato quelle somme per altre necessità. 

La richiesta ad un Sindaco novellino, di dichiarazione di dissesto del Comune, da parte del Segretario Comunale e del Revisore dei Conti, professionisti con esperienza alle spalle, mi fece trascorrere alcune notti insonni al solo pensiero che, dopo quasi centotrenta anni dalla sua nascita amministrativa, sarei dovuto essere il primo Sindaco, nella storia del paese, a dichiararlo. Dissi: no! A me stesso ed agli altri; tra questi, ai Consiglieri Comunali, i quali, per la verità, in quel frangente, si dichiararono disponibili a collaborare per trovare la soluzione atta a respingere la richiesta del “disastro” economico. 

Anche i dipendenti comunali, riunitisi in assemblea, si dichiararono ben disposti a rinunciare alla somma di circa cinquanta milioni di lire, loro spettante, per il 1993, per il miglioramento dell’efficienza dei servizi. 

Mi venne incontro l’abitudine, sin dal mio insediamento, di leggere giornalmente le Gazzette Ufficiali. L’individuazione di un Decreto Legge, che fu, però, oggetto di difformità d’interpretazione e, pertanto, d’applicabilità specifica, tra me ed il Segretario Comunale, m’indusse a percorrere strade giuridicamente più illuminate. La consultazione ed il successivo parere di consulenti ed Organi di livello superiore mi sollecitarono ad andare avanti nella ricerca interpretativa e nell’applicazione della su riferita normativa. Fui, così, messo nelle condizioni di poter prendere contatto con un professionista tra i più qualificati della Regione, il dr. Salvatore 


Arcidiacono, ex Ragioniere Generale della Provincia Regionale di Catania, nonché Segretario Generale dell’Associazione Nazionale dei Responsabili di Ragioneria degli Enti Locali (A.R.D.E.L.). 

L’art. 10 del D.L. n. 184 del 18 marzo 1994 così recitava: “Gli Enti Locali di cui al comma 1 sono autorizzati a negoziare con gli Istituti di credito…. apertura di credito a fronte di deliberazioni di alienazioni  di beni di loro proprietà”. Confortato dal contenuto di quest’articolo, ottenni dal dr. Arcidiacono un appuntamento in quel di Catania, al quale feci partecipare il Segretario Comunale, dr, G. R.  l’Assessore N. C., la Ragioniera del Comune, sig.ra A. R.. Il dr. Arcidiacono ed il Ragioniere Generale della Provincia Regionale di Catania, anch’egli presente, diedero ragione a me circa la possibilità di applicare il sunnominato articolo per evitare la dichiarazione di dissesto del Comune; di contro, il dr, R. G. sosteneva che il Decreto Legge in questione non poteva essere applicato perché non era stato tramutato in legge e non era certo che sarebbe stato reiterato alla sua scadenza. 

Le motivazioni ed i ragionamenti, di natura tecnico-giuridica, innestati dai due professionisti catanesi convinsero, infine, il Segretario Comunale circa la fattibilità dei provvedimenti da adottare e ad esprimere, quindi, parere favorevole sulle relative delibere. 

Rientrati a Longi, nella nottata del 30 marzo, la Giunta Municipale approvò, dichiarandole immediatamente esecutive, assumendosene quindi una grandissima responsabilità economica, le delibere per lo storno dei fondi da diversi capitoli di spesa, finalizzati al pagamento dell’esposizione debitoria del Comune nei confronti degli Istituti Previdenziali (Inail, Inps, Cpdel). E’ stata un’operazione ad altissimo rischio perché i capitoli “spogliati” dovevano essere rimpinguati al più presto. L’indomani, giorno di scadenza per il pagamento del debito, l’Ente provvedeva a ripianarlo, lievitato da interessi, da more e penalizzazioni. 

A quel punto, non mi restava altro da fare che inviare tutta la documentazione, per l’individuazione di eventuali responsabilità patrimoniali, alla Sezione Regionale della Corte dei Conti. Per ben due volte, un Ispettore dell’Assessorato regionale agli Enti Locali fu inviato al Comune per esaminare gli atti e relazionare alla Corte medesima. Io stesso fui convocato dal magistrato contabile per riferire sui fatti. Chiesi, poi, di essere informato circa gli esiti della visita ispettiva presso la Ragioneria Comunale, avendone diritto in quanto promotore dell’inchiesta e rappresentante legale del Comune. Mi fu opposto un diniego. Nel corso degli anni successivi, non seppi più alcunché circa gli esiti dell’istruttoria. Sarebbe stato veramente interessante, per i cittadini longesi, venire a conoscenza dei contenuti della relazione ispettiva, attraverso cui la Corte dei Conti si sarebbe mossa per le relative decisioni, considerato l’enorme danno che era stato procurato alle casse comunali, nonché per l’onerosa responsabilità che era stata assunta da me e dalla Giunta intera nell’evadere le delibere “notturne” per pagare i debiti. Ma, come si sa, gli assessorati Regionali sono retti da politici e parecchi funzionari, in lista d’attesa per fare carriera, sono sensibili ai loro “inviti”: i meandri della politica sono a volte imperscrutabili, se non oscuri. Una cosa è certa: qualcuno ha procurato quel danno economico al Comune, ma nessuno ha pagato, nonostante l’evidenza dei fatti e la chiarezza della documentazione. 

Il cammino sulla strada del risanamento, nei mesi successivi, continuò con l’adozione di alcuni atti deliberati dal Consiglio Comunale, a seguito di proposta della Giunta Municipale, tra cui l’approvazione, all’unanimità, del bilancio di previsione del 1994. 

Restavano aperti i problemi relativi alle cause con i privati per il pagamento ultradecennale degli espropri, effettuati nel corso degli anni passati. Alcune cause, andate a sentenza, ci costrinsero a pagare gli importi stabiliti dal giudice; altre, invece, avrebbero visto la sentenza negli anni immediatamente successivi. 

Nel frattempo, una legge, approvata nel dicembre del 1995 diede la possibilità ai Comuni di chiedere un mutuo alla Cassa Depositi e Prestiti, con ammortamento degli oneri a carico dello Stato, per azzerare i debiti in argomento. Mi attivai immediatamente per mettere in piedi la relativa procedura. Convocai le controparti (il Marchese di Cassibile ed altri), assieme ai rispettivi avvocati, per raggiungere un accordo. Il quale si poté fare solo accettando quanto da loro richiesto, e cioè, sulle somme loro spettanti venne fatto uno sconto del 20%, mentre gli avvocati praticarono una decurtazione del 30% sulle loro parcelle. In caso contrario, ove non avessi accettato le loro condizioni, le cause sarebbero continuate sino alle rispettive sentenze definitive con aumento notevole degli importi, che il Comune avrebbe dovuto pagare a carico del proprio bilancio e senza sconti. In sostanza sarebbe significato il pignoramento di tutti i beni comunali, con contestuale dichiarazione di dissesto, che, sino a quel momento, avevo evitato e combattuto. 

Il Consiglio Comunale, appositamente convocato in data 27 maggio 1996, a corredo della pratica di richiesta del mutuo alla Cassa Depositi e Prestiti, doveva ratificare l’accordo fatto con riconoscimento dei debiti fuori bilancio. A quel tempo, l’”idillio” iniziale tra la Giunta Municipale ed il C.C. era tramontato da  oltre un anno ed il cammino era stato costellato da scontri accesi e divaricazioni politiche, che portarono  all’immobilizzo dell’attività amministrativa. Il Consiglio Comunale, pur convergendo sulla necessità  dell’approvazione della delibera di risanamento finanziario, accolse una proposta del Capo Gruppo consiliare B. D. che si sostanziava in una pugnalata alle mie spalle: “ Il Consiglio si riserva la facoltà di promuovere  eventuali azioni di responsabilità contabile per il danno erariale cagionato all’Ente a seguito del mancato  rispetto della normativa vigente in materia, anche con riferimento ai maggiori oneri causati dalla mancata  applicazione, alle controversie che hanno comportato i debiti fuori bilancio in questione, delle disposizioni  contenute nell’art 5 bis della l. n. 359/92 e nell’art. 1 comma 65 della L. 549/95. Viene fatta salva, altresì, ogni azione di rivalsa nei confronti degli amministratori pro-tempore”. 

Che cosa dice il predetto art. 5 bis? Nel concretizzare la transazione, in pratica, dovevo pretendere di avere dimezzate del cinquanta per cento le somme dovute per il pagamento di maggiori oneri d’esproprio. Lo feci, ma la mia richiesta fu respinta. Quindi, o accettavo le condizioni dei creditori oppure dovevo far continuare le cause. Le conseguenze sarebbero state che, dal miliardo e duecento milioni di lire concordate e con pagamento degli oneri d’ammortamento da parte dello Stato, dopo un paio d’anni avremmo avuto un debito di oltre due miliardi di lire, come già detto, interamente a carico del Comune. Mi fermo qui, senza aggiungere alcun commento alla cronaca, permettendomi, però, qualche considerazione sull’allucinante dichiarazione approvata e deliberata dai Consiglieri dell’ex D.C. 

E’ stata certamente una carognata nei miei confronti, ma che ho cancellato dalla memoria delle vicende politiche longesi perché ripagato dall’intima soddisfazione di aver potuto mantenere il giuramento, fatto nella Piazza Umberto I, che mi sarei battuto con tutte le mie forze per salvare il paese dalla bancarotta.  Si, Longi non aveva più debiti, dopo tanti anni, ed il dissesto era stato impedito. 

Ovviamente, come era mio costume, provvidi ad inviare alla Corte dei Conti tutto il dossier riguardante quei debiti fuori bilancio, nel caso sussistessero responsabilità patrimoniali a carico di chicchessia, allegando anche la delibera del Consiglio Comunale, in cui è contenuta la proposta di “ben servito” nei miei confronti. Sarebbe veramente ed incredibilmente assurdo se la Corte dei Conti mi accollasse il pagamento di un miliardo e duecento milioni di lire, per danno all’erario, per non aver “imposto” l’applicazione del su esposto articolo 5 bis della Legge 359/92. Ve lo immaginate? Il Sindaco, che ha evitato il dissesto a seguito di debiti da altri cagionati, chiamato a rifondere il danno all’erario! E’ proprio vero che, per taluni improvvisati politicanti, privi della cultura di un qualsivoglia pensiero ideologico, la cecità della personale logica politica esula dai valori della oggettiva riconoscenza umana e del comportamento morale nei confronti del proprio prossimo. In costoro, poi, non esiste alcun ragionevole discernimento nei confronti del soggetto politico, definito avversario, ma da loro, ancora incivilmente, nemico. 

Qualche anno dopo, il mio avversario politico, N. F., che mi subentrò nella carica, ebbe la spudoratezza di affermare che avevo “affossato il paese” per i debiti da me lasciati attraverso delle parcelle che dovevano essere pagate ad alcuni avvocati. Il sig. F. A., nella qualità di Sindaco, prima, e d’uomo, poi, ha mentito sapendo di mentire. Infatti, era noto ai funzionari del Comune, che avevano istruito la pratica per la transazione dei debiti derivanti dalle cause per il pagamento dei maggiori oneri d’esproprio, che qualche avvocato, imbranato, nella fase transattiva, dimenticò di inserire una delle sue diverse parcelle, pretendendone, però, il pagamento dopo che la Cassa Depositi e Prestiti aveva concesso il mutuo. E nulla gliene importava che doveva essere il Comune a caricarsi di questo onere. L’unica concessione che fece fu quella di dilazionare, nel tempo, l’importo. A me nessuna colpa si può imputare, quindi, per quanto non è stato oggetto di transazione. Se colpa esiste, semmai, oltre che a quell’avvocato, essa è da imputare a qualche funzionario del Comune, poco attento, che non ha controllato bene le cause, a ciascuna delle quali dovevano corrispondere altrettante parcelle, da inserire nell’atto di transazione. Inutile fu una successiva richiesta, integrativa della precedente, alla Cassa Depositi e Prestiti. 

Continuando sull’argomento, com’è noto, il mutuo doveva essere estinto in vent’anni per mezzo di rate annuali di circa cinquanta milioni. Forse, il sig. F. A. pretendeva che fossi stato io a pagare le rate?  Oppure, che lasciassi al suo destino il Comune, senza approfittare dell’opportunità, che ci si offriva, per sanare il lungo contenzioso e la pesantissima situazione debitoria, che ne derivava? Per riparare i danni della guerra, come si sa, occorre affrontare sempre un periodo di sacrifici. Ed è quello che tuttora Longi sta facendo. La manovra d’assestamento di bilancio e di risanamento, infatti, era chiaro che non poteva esaurirsi con gli atti, di cui in narrativa. Ma doveva continuare per alcuni anni incidendo nel settore delle entrate per far fronte ai nuovi impegni assunti, che avevano i loro riflessi nelle uscite. 

Continuando a raccontare la storia del risanamento, proseguendo sul tema, tengo a rammentare che l’Amministrazione vantava un credito di alcune decine di milioni per tasse non pagate, e, tra queste, quelle, considerevoli, per il consumo dell’acqua potabile. Un centinaio circa di cittadini, e tra questi alcuni facoltosi, non pagava, da anni, il tributo dovuto. E nessuno aveva intimato il recupero. Affidai, quindi, l’incarico ad un impiegato scrupoloso (C.C.), togliendolo a colui che precedentemente, in quel senso, non si era adoperato. Il risultato fu che tutti saldarono il debito. 

Ma c’era un altro settore, in cui l’evasione era abbastanza considerevole: la tassa dell’I.C.I. La quale non veniva pagata da circa il 25% dei contribuenti, soprattutto di cittadini, proprietari di case a Longi, ma che non vi risiedevano stabilmente. Conferii l’incarico, pertanto, ad un commercialista esterno per i dovuti controlli ed il successivo recupero, ma la fine della mia legislatura non mi consentì di portare a compimento l’azzeramento di quest’ultima sacca d’evasione fiscale. 

Venni a sapere che l’Amministrazione, che mi seguì, presumibilmente per ingraziarsi il consenso degli elettori, abbassò l’importo dell’I.C.I. dal 7 al 4 per mille. Operazione contabilmente errata perché, diminuendo le entrate, nel noto frangente in cui si trovava il Comune, si è pregiudicata una manovra relativa alle uscite, cui il medesimo doveva far fronte. 

Doveva essere chiaro e consequenziale che un Comune, oberato da una notevole massa di debiti, per uscire da questo tunnel doveva necessariamente chiamare i suoi concittadini a sopportare, per alcuni anni, qualche sacrificio. In questi casi, la solidarietà fiscale non è un fatto dai risvolti politici, bensì una necessità oggettiva per il risanamento del bilancio di una collettività, la seconda grande famiglia di ciascun cittadino. 

La politica delle opportunità clientelari e dell’allargamento del consenso, che passa attraverso l’assistenzialismo e la mancata applicazione di alcuni parametri per la formulazione ed il pareggio del bilancio, ha portato e porta inevitabilmente l’Ente verso il baratro dell’immobilismo di gestione e dell’accumulo di debiti, che potrebbero essere evitati, invece, se tutti pagassero il giusto, il dovuto ed il necessario. 

P.S. A distanza di alcuni anni, l’ex Sindaco, ins. R. P., col quale si era recuperato in certo qual modo il rapporto personale, mi confidò che egli era costretto fare ciò che il geom. F.  L., suo Assessore e usufruttuario dei beni della duchessa D’Ossada, lo induceva a firmare gli atti relativi alla vicenda della perduta eredità da parte del Comune, gestendo egli (come Assessore Comunale o come parte direttamente in causa?) i rapporti con gli avvocati. Il P. R. non seppe specificare se il compianto usufruttuario si comportasse, nella vicenda, in mala o in buona fede. 

Praticamente, tutta la questione testamentaria ed ereditaria venne gestita dal L.F. (sic!) 

Il referendum per la rimozione del Sindaco

Nel clima di guerra globale alla mia persona, iniziato all’interno della Giunta contestualmente all’ingresso in essa dell’ing. L.Z ed acuitosi subito dopo la sua fuoruscita, si trovarono d’accordo le due fazioni locali, storicamente avversarie da sempre: il centro e la sinistra. Trovò, quindi, terreno fertile l’iniziativa assunta dal Consiglio Comunale di proporre la mia rimozione attraverso il referendum cittadino.  La richiesta del Consiglio Comunale era stata preceduta da un ben orchestrata campagna diffamatoria, basata, soprattutto, su volantini contro di me, taluni anonimi, tal altri firmati, accompagnata anche dalla messa in circolazione di apprezzamenti e di mie supposte volontà, che, se vere, avrebbero disonorato il mio buon nome e la mia dignità di persona onesta, che ha contrassegnato la mia strada di serio e stimato sindacalista. Esistono, in tal senso, attestati di stima, sia da parte dei vertici del mio Sindacato, sia di quelli della mia Amministrazione, presso la quale ho prestato servizio per 35 anni. 

I primi venti di guerra cominciarono a spirare nel settembre del 1995, quando il Consiglio Comunale non approvò la mia relazione semestrale, invitandomi alle dimissioni. A quest’atto, fece seguito, successivamente, un ordine del giorno, presentato dal Vice Presidente, ins. R. P. – già Sindaco, come detto, negli anni 1965-66- con il quale avanzò la proposta di mie dimissioni, approvata dal Consiglio, dopo avermi tacciato di inadempienze programmatiche. La richiesta di rimozione fu resa esplicita nella seduta del 27 novembre 1995. 

Per capire ancor meglio, però, il clima politico di quel periodo, è bene fare una breve cronistoria ricostruita attraverso documenti, ad iniziare dal maggio del ’94, quando ebbi a presentare al Consiglio ed ai cittadini la mia prima relazione semestrale, in un’aula - fatto inusitato- strabocchevole di pubblico. Dopo aver illustrato il percorso sino allora compiuto, attraverso il quale si era dato impulso all’inceppata macchina amministrativa, dopo aver illustrato le proposte e le iniziative che, nel medio tempo, s’intendevano portare avanti, concludevo la lunga relazione con un invito ai Consiglieri di collaborare con la Giunta, anche se diversi politicamente, poiché il paese, per risollevarsi, aveva bisogno dell’azione e dell’impegno dell’intero carro politico, che lo guidava. La relazione fu distribuita a tutte le famiglie, nel solco di quel nuovo indirizzo instaurato, basato sulla trasparenza e sulla comunicazione all’esterno di quelle cose che interessavano la popolazione. La relazione, seppure tra i distinguo e le immancabili critiche alla Giunta, attraverso la mia persona, fu approvata all’unanimità da parte del Consiglio Comunale. 

Seguì, nel gennaio del 1995, la mia seconda relazione semestrale. Dopo aver fatto un’analisi sullo stato di salute dell’Amministrazione, delle cose fatte e di quelle che mi proponevo di fare nel breve periodo, mi avviavo alle conclusioni, dichiarando:” La storia ha prescelto Voi, giovani Consiglieri comunali, ha prescelto noi, nuovi amministratori, per fermare, attraverso una gestione trasparente, obiettiva e dalle risoluzioni coraggiose, la corsa del nostro paese lungo la china della bancarotta. ” … se l’obiettivo, comune, è quello di far rinascere questo nostro paese, se l’intento politico, anch’esso comune, è quello di una gestione aperta, non discriminante, e trasparente della nostra comunità, in cui tutti i cittadini sono uguali, quali sono i punti che diversificano il mio programma politico da quello del partito, cui la maggioranza di voi fa riferimento? Io rimango ideologicamente un socialista democratico e riformista, ma senza tessera né partito, perciò non devo portare acqua ad alcun mulino politico, il mio solo intento è di applicare i miei convincimenti di democrazia, di libertà, di tolleranza, d’eguaglianza, di garanzia e di giustizia sociale, di solidarietà verso i più deboli e di progresso economico nella gestione del nostro paese”. Proseguivo con l’auspicare che era opportuno “andare a concretizzare quella più volte dichiarata collaborazione tra Esecutivo e Consiglio” e che, conseguentemente, era “venuto il momento di dar vita a comuni gruppi di lavoro, a comitati unitari per lo studio e la gestione delle problematiche del paese e delle iniziative che s’intendono portare avanti, a unitarie designazioni di rappresentanti all’interno di Organismi istituzionali e Commissioni comunali. In occasione della campagna elettorale abbiamo dato, insieme, una lezione di stile e  di crescita civile: non disperdiamo questo valore, ma continuiamo su questa strada, malgrado alcune  incomprensioni che è possibile però superare, per raggiungere l’obiettivo della pacificazione sociale e  politica cancellando i gruppuscoli di Guelfi e Ghibellini, presenti nella nostra piazza, sempre pronti a  demolire anziché a costruire” Concludevo con le parole del Papa Wojtyla: “Varcare la soglia della speranza”,  per il nostro paese, potrà avere un significato di comuni intenti e di unitari traguardi se questa “soglia”  oltrepasseremo tutti quanti insieme”.  

Subito dopo la lettura della relazione, il Consigliere R. P., prendendo la parola, tra l’altro ebbe a ringraziarmi “per l’impegno, per i sacrifici con cui avevo condotto l’attività amministrativa del Comune.

L’immediato, successivo periodo, quando i rapporti tra me ed il Vice Sindaco, L. Z, si deteriorarono – come detto - sino ad arrivare alla mia revoca del solo incarico di Vice ed alle sue dimissioni dalla Giunta, fu l’inizio di quella durissima battaglia tra me ed il Consiglio Comunale. L’estate di quell’anno, 1995, fu contrassegnata da un imbarbarimento dei rapporti, voluto dai miei avversari: due volantini anonimi inondarono le vie del paese, a cominciare dalla Via Garibaldi, che n’era piena. Essi, stilati da uomini di cultura, muniti di laurea, i quali, per sviare i sospetti, li hanno riempiti di errori ortografici, hanno segnato il momento di maggior degrado socio- politico della vita del paese, per opera di pochi ignobili personaggi, laddove il livore appariva in tutta la sua dimensione per le falsità narrate, per le cafonesche citazioni e per gli apprezzamenti personali, rivolti anche ai componenti la mia famiglia. A questi volantini ed all’altro, sempre anonimo, che ne seguì, io ritenni di non dovere rispondere per le rime poiché la carica rivestita, la mia educazione personale e la mia cultura politica non mi consentivano di scendere allo stesso livello di bassezza morale e d’inciviltà degli estensori delle tre sconcertanti “novelle”. Pur tuttavia, presentai querela contro anonimi, sia per le frasi infamanti contenute in quei fogli, sia perché erano stati commessi dei reati penali dal momento in cui la legge vieta l’anonimato nelle pubblicazioni attraverso stampa; nella stessa querela aggiunsi che, se si fossero individuati i responsabili, l’eventuale risarcimento in denaro l’avrei devoluto a fini benefici alle casse del Comune. Non ho saputo più niente circa la sorte delle indagini (fatte?). Eppure non sarebbe stato tanto difficile individuare la fonte della stampa: nella nostra piccola comunità, quante macchine per scrivere con quei caratteri e quante fotocopiatrici esistevano?  

Per completare il quadro, in quel periodo, furono tagliati gli alberelli da poco piantati nella Via Roma, dove c’è la sede municipale e, quindi, del Sindaco e furono tagliate le gomme alla mia autovettura e ad un automezzo comunale: atti chiaramente intimidatori, finalizzati a farmi abbandonare il Comune. Gli autori, però, sconoscevano che ben altri momenti drammatici, nella mia vita passata di militante socialista e di sindacalista, avevano contrassegnato il mio cammino, che continuai, quindi, con determinazione soffocandone lo stato di prostrazione. 

Torniamo all’ulteriore mia relazione semestrale di fine agosto del ’95, in occasione della quale si ebbero le avvisaglie di quanto era nelle intenzioni del Consiglio Comunale da lì a poco tempo dopo. Per proposta del consigliere B. D., infatti, la relazione fu respinta con una motivazione subdola e non pertinente, quella, vale a dire, di non essere “conforme al programma politico presentato durante la campagna elettorale”. Dopo alcuni giorni, il Presidente del Consiglio presentò le contro-deduzioni alla stessa, accusando la Giunta di essere priva di una “reale cultura di governo” e di agire “in contrasto con ogni minima politica di programmazione”. Tra tutte le accuse possibili, ove avessero avuto un fondamento, queste sono state quelle che più facilmente si potevano prestare ad essere demolite attraverso un esame obiettivo dell’attività esplicata dalla Giunta nei decorsi venti mesi di gestione. Il Presidente concluse la sua recita a soggetto accusandomi di “inadempienze ed incapacità amministrativa” ed invitandomi a rassegnare il mandato. A lui fecero eco i Consiglieri. 

In un crescendo di tensione, il Consigliere P. R., qualche giornata dopo, presentò l’ordine del giorno, di cui si è fatto già cenno. Nella sua dissertazione, egli, tra l’altro, dichiara:” Certo sarebbe tanto ingiusto, quanto strumentale, l’affermazione, e peggio ancora l’accusa, che (il Sindaco, n.d.r.) è stato del tutto inattivo, possibilmente si è adoperato per far meglio, e per questo è meritevole di un riconoscimento e di un grazie…” Quanta incoerenza, quanta contraddizione in ciò che è stato detto, dal suddetto Consigliere e dai suoi colleghi, in tutta la vicenda! 

Nel novembre del 1995, il Consiglio Comunale, a maggioranza dei suoi componenti e con l’astensione del Gruppo indipendente, facente capo al Consigliere L.B., evase la delibera della mia rimozione attraverso la consultazione popolare per “gravi inadempienze programmatiche”. In una pubblicazione, distribuita ai cittadini, che riportava il testo del ricorso, da me inoltrato al Co.Re.Co. di Messina, e che è riprodotta a fine capitolo, oltre a definire pretestuose, surrettizie e prive di fondamento le accuse rivoltemi, elencavo, tra l’altro, tutta l’attività svolta dalla Giunta e da me, nel biennio di gestione. 

In questo clima di guerra- credo che sia il termine appropriato per quello che è stato fatto e detto nei  miei confronti- viene a me indirizzata una lettera aperta da parte dell’ineffabile Ciccio F., eclettico  personaggio, che, secondo le circostanze, assumeva le vesti di medico a tempo pieno, e, a tempo perso, di  attore di teatro, di politico, di fustigatore, di comunista, prima, e di giustizialista post-comunista, poi, (si fa  per dire quando si vuole che i principi di giustizia siano applicati per l’uso ove convenga) e di giustiziere  essendosi auto conferito il mandato di cacciarmi dalla poltrona di Sindaco avendo io commesso, a suo dire, il  reato di lesa maestà nei confronti della sinistra longese. Nella lettera aperta, tra esternazioni e doglianze, il dr. F. mi ha tacciato d’opportunismo e d’incoerenza nel momento in cui avevo tradito il mio “vecchio  credo facendo la spola da un partito all’altro”, di aver dato corso a dissapori e contrasti, come mai non sono  esistiti a Longi, di essermi chiuso nel bunker del Municipio rifuggendo dalla socializzazione con la gente, di  avere incrementato le spese del bilancio comunale deliberando l’indennità di carica per gli amministratori ed  il gettone di presenza per i consiglieri, di avere liquidato alcuni Assessori, tra cui la sua parente, R. M.  M.. Continuando nelle accuse, F. conclude la sua lettera dichiarandosi a favore dell’indizione del referendum popolare per la mia rimozione. Mi sembra doveroso consegnare alla memoria storica del paese alcuni passaggi, i più espressivi, della mia risposta dal titolo “Lettera aperta ad un amico”. 

In un comizio mi soffermai, indi, sui progetti “incriminati” e declassati. Quello della “rete idrica con telecontrollo”, del quale ultimo strumento nessuno conosceva l’esistenza e l’importanza: di conseguenza, ne ho illustrato i vantaggi ed ho chiesto ai delatori come mai non avessero contestato anche il progetto per la “captazione della sorgente Tre Schicci”, nel quale, per imposizione del Parco dei Nebrodi, si era dovuto inserire il telecontrollo. Quest’ultimo, nel progetto della “rete idrica urbana” era stato definito “inutile”. Doveva servire, secondo le voci fatte girare nel paese, solo a fare lievitare il finanziamento, dietro il quale ci sarebbero stati interessi occulti. Per quell’altro del “consolidamento a monte del paese”, che era un’eredità da me trovata, avevo il dovere morale di portarlo avanti sia per i pericoli incombenti su una zona a rischio del paese, sia per l’obbligo a me derivante, quale responsabile locale della “protezione civile”. 

Chiudendo il comizio, risposi, esponendo il mio convincimento, relativo al ruolo ed alla personalità  del Sindaco, invocati per il paese, alcuni giorni prima, da parte dell’ing. Z.: “ se volete un Sindaco che  non abbia il senso dello Stato, che non faccia rispettare e non rispetti doveri e diritti, che non dia dignità e  prestigio a quella che è la carica di Ufficiale di Governo; che, anziché lavorare con proficuo impegno per il  paese parecchie ore al giorno, passi il suo tempo in piazza a pettegolare o di fronte a qualche esercizio  pubblico magari per essere verbalmente aggredito su fatti ed azioni compiuti o su problemi non potuti  portare a soluzione; che non pretenda rispetto per il Gonfalone e per la bandiera italiana, che non metta in  atto il cerimoniale, disciplinato dal buon senso o con atti scritti, nei rapporti tra istituzioni, nonché tra Stato e  Chiesa e che, in rappresentanza della cittadinanza ed unitariamente ad essa, non partecipi col distintivo e con  i segni identificativi d’uso in tali frangenti, a quelle cerimonie religiose, che rappresentano il momento di  maggior giubilo ed importanza aggregativa in occasione di avvenimenti cittadini, nel rispetto dei diversi ruoli confluenti, quello civile che si affianca a quello religioso, per sottolineare l’unione della comunità attorno al  particolare momento celebrativo. Se volete un Sindaco che abiti ogni giorno a Longi omettendo di poter utilizzare i tre giorni che sta a Palermo per il disbrigo delle pratiche correnti del Comune presso gli  Assessorati ed Enti, laddove le porte mi si aprono senza il bisogno di essere accompagnato da qualche  politico longese, che per me si vorrebbe scomodare; che abbia soltanto competenza politica, e non anche  conoscenza del mondo del lavoro e della pubblica amministrazione; che sappia dialogare con la gente che ha  il solo interesse di far cortile, e non anche con i lavoratori, con gli artigiani, con i giovani, con le casalinghe,  con i rappresentanti delle istituzioni ai diversi livelli; ebbene, quel Sindaco non sono io!” 

“Io ritengo che un uomo non possa abbandonare mai quella cultura che si è formata dopo trent’anni di esperienza sindacale. E fare sindacato significa vivere ogni giorno con i deboli e con i problemi del mondo del lavoro: e lì non esistono né appartamenti reali, né troni, né esibizionismi oratori, ma il confronto-scontro con la dura realtà d’ogni giorno. Io, oggi, mi ritengo un ex dirigente sindacale prestato alla politica per amministrare il suo paese d’origine, portandosi dietro il suo bagaglio di convinta democrazia, di giustizia sociale, di idee e di esperienze maturate nel difficile impatto con la complessità dei problemi dei lavoratori e con il duro confronto con la controparte. Solo che, essendo cambiato il ruolo ricoperto, debbo saper conciliare la disponibilità acquisita verso la gente con l’obbligo di assolvere i miei doveri di pubblico amministratore e di responsabile dell’Amministrazione comunale. “C’è un modo nelle cose”, dicevano i latini, e questo detto va applicato anche a chiunque assolva il compito di Sindaco o di Amministratore, per questo, di tanto in tanto, occorre sedersi in qualche sedia di rappresentanza o indossare la fascia tricolore. I “muri di Berlino” non fanno parte della mia cultura politica, così come non vi fanno parte atteggiamenti di prosopopea: io, infatti, mi siedo a tavola di buon grado anche con gli allevatori e con i “mitateri”, come qualcuno li chiama, e con loro discuto volentieri su tutto, interessandomi anche ai loro problemi.” 

Amici, nell’autunno del ’93, mi sono presentato chiedendo un confronto politico serio e sereno.  Così non è stato, mio malgrado. Odio le astiosità e le liti, ma a queste ultime vi sono stato costretto perché trascinato. Vorrei riprendere un dialogo di civiltà e di crescita sociale con tutti. Voglio mantenere l’impegno preso di mettere a disposizione del mio paese natio le mie modeste capacità e le mie energie. Per questo chiedo il vostro aiuto. Fate in modo che tutti quanti insieme superiamo la crisi amministrativa. Come sempre, viva Longi.” 


Dopo l’audizione presso il Co.Re.Co. di Messina sul ricorso da me presentato avverso la delibera del Consiglio Comunale d’indizione del referendum per la mia rimozione, in data 30 gennaio 1996, feci un  comunicato alla cittadinanza: il Co.Re.Co. non solo m’impedì di esporre le mie ragioni e di confutare le tesi del Consiglio Comunale, ma, dopo la mia uscita dalla sala,  l’audizione del Presidente del Consiglio, M., e del Capo gruppo, B. si limitò al tempo strettamente  necessario perché io raggiungessi l’uscita sulla strada, in pratica pochissimi minuti.

La sera del 4 febbraio del ’96 tenni in Piazza un comizio sui fatti in corso. Misi in risalto la mancata obiettività del Co.Re.Co., con riferimento all’ingiusta e penalizzante decisione, non avendomi consentito di entrare nel merito delle motivazioni addotte nel mio ricorso, che respingevano come non vere le enunciazioni e le accuse del Consiglio Comunale, ma essendosi soffermato solo sulla legittimità della delibera consiliare.  “Occorre avere in mano documenti e prove – dichiarai – e non emettere un giudizio sulla base di una dichiarazione non provata: falsa, quindi, e bugiarda. Stamperò alcune copie del mio ricorso con gli allegati di modo che tutti i cittadini le possano leggere per rendersi conto della verità”. Anticipando alcune smentite su determinati argomenti, esposi come, attraverso lo strumento del Piano Triennale delle Opere Pubbliche 1994-96 sarebbe stato possibile dare quattro o cinque incarichi progettuali, mentre con quello del  ‘95-’97 il conferimento degli stessi si sarebbe limitato ad uno soltanto. 

“I Consiglieri del C.D.U., peraltro, hanno usato tutti i meccanismi della lotta politica, leciti e non, per farmi gettare la spugna, abusando anche di apprezzamenti negativi e di parole pesanti sulla mia condotta politica. Mi hanno invitato pure a dimettermi dichiarando che anche loro lo avrebbero fatto. Le loro  dimissioni non avrebbero arrecato alcun danno al paese perché l’unico lavoro impegnato, che facevano e  fanno, è quello di criticarmi in piazza ed attaccarmi nelle sedute consiliari, laddove, talvolta, il Presidente del Consiglio non mi ha concesso la parola per intervenire, negandomi quindi un mio diritto-dovere, calpestando i principi della libertà e della democrazia; se mi fossi dimesso io, come poc’anzi ho detto, il paese avrebbe  perduto i risultati da me conseguiti e quelli che sono in via di realizzazione. Restava loro, pertanto, l’ultima arma, il Referendum, e l’hanno usata proditoriamente e vilmente costruendo un castello di menzogne. Se ne assumeranno le responsabilità, relativamente alle conseguenze che ne deriveranno, soprattutto dal momento in cui sono stati usati da altri, ed ancora lo saranno, quale “comodino” per mettere in piedi false accuse di “gravi inadempienze programmatiche del Sindaco”, da me sistematicamente e totalmente smontate punto per punto.” 

“Potrei seguire un’altra strada. Quella di fare ricorso al T.A.R. e, se sarà il caso, al C.G.A. E’ una strada piena di incognite, che ci porterebbe ad avere la risposta non prima del mese di novembre, a meno di un anno, quindi, dalla scadenza del mio mandato e di quello del Consiglio Comunale. Se, per quest’ultima data si dovessero fare le elezioni per il Referendum, potremmo correre il rischio che a sostituire me ed il Consiglio verrebbe nominato, per quasi un anno, un Commissario. Francamente e responsabilmente non me la sento di far correre questo pericolo al paese. Di conseguenza, consapevole della grande responsabilità che grava sulle mie spalle, ho deciso di non dimettermi, né di far ricorso al T.A.R. Affronto, pertanto, l’incognita delle votazioni referendarie.”.

Ho continuato con l’elencazione delle pratiche delicatissime, in corso di definizione, che, se abbandonate e non seguite, avrebbero fatto tornare indietro il paese di alcuni anni. Tra queste, il pagamento dei debiti per maggiore onere di espropri per un importo di circa un miliardo e mezzo (una volta fatta la transazione con i proprietari dei terreni, il Consiglio Comunale avrebbe dovuto adottare la delibera per il riconoscimento dei debiti fuori bilancio ed autorizzare la contrazione del mutuo con la Cassa Depositi e Prestiti), l’appalto dei lavori per il progetto di captazione dell’acqua potabile dalla sorgente Tre Schicchi, ed altri appalti dei lavori. Tutte queste pratiche, e le altre, per essere definite, avrebbero richiesto non meno di quattro, cinque mesi di tempo.  Dovevano essere definite, pertanto, entro il 30 giugno del ’96. 

Dopo aver illustrato il meccanismo del voto e le determinazioni che lo avrebbero seguito, ho invitato i cittadini ad una profonda ed obiettiva riflessione giacché non era in gioco il destino politico o personale di ciascuno di noi amministratori, bensì quello più alto, più nobile e supremo del paese di Longi. 

Ritenendo pilotati sia la decisione ingiusta del Co.Re.Co, i cui componenti, ripeto ancora, sono di nomina politica, sia l’affrettato provvedimento assessoriale, ed essendo spinto e sollecitato da parecchi cittadini di fare ricorso al TAR di Catania, ritenni più opportuno rimangiarmi la promessa fatta nel comizio e spiegare ai cittadini, tramite un comunicato, il motivo della mia decisione a resistere con l’adire la strada del TAR.  Vinsi la causa!


Con il Vice Sindaco, Nino Carcione, e l’Assessore Peppino Bartolo 


Altre proposte

Sarei incompleto se non riferissi di un mio intervento in occasione della riunione dei Sindaci per la formulazione del Piano Territoriale Provinciale, che tramutai in richiesta scritta alla stessa Provincia Regionale di Messina. Tra le opere prioritarie da realizzare, ebbi a segnalare: la costruzione della strada di  collegamento con lo scorrimento veloce Galati Mamertino – Rocca di Caprileone, con inizio dall’esistente  strada di penetrazione agricola in Contrada Castiglione del Comune di Longi, cui si sarebbe dovuta allacciare quella, costruenda, Vendipiano-Castaneto; gli scavi archeologici in Contrada S. Fantino, laddove esisteva un antico insediamento umano.; l’acquisizione del Castello Ducale per destinarlo a Museo Etno-Antropologico,  Galleria d’arte, Centro di cultura, nonché sede di rappresentanza dell’Amministrazione Comunale; la  conservazione e la protezione dei Murales con rivestimento in pietra viva del circostante muro in cemento. Il Piano Territoriale Provinciale non vide la luce sino alla data della mia presenza presso il Comune; né seppi, in seguito, che fine abbia fatto. 

Per la strada di collegamento veloce “Monti-Mare”, segnalata al primo posto alla Provincia, occorre dire che il relativo progetto, esistente presso il Comune, fu restituito al tecnico, dal Commissario Caiola, giacché era prevista una spesa di circa 70 miliardi: impossibile, per il nostro piccolo centro, potere ottenere un simile finanziamento. Ogni discorso, per la sua realizzazione, sarebbe stato inutile per una serie di motivi, tra i quali lo sbarramento al relativo finanziamento da parte della Regione, che, per le strade extraurbane, nel proprio bilancio ha messo zero lire, nonché l’opposizione che sarebbe stata messa in piedi dagli ambientalisti nel momento in cui si sarebbe dovuta attraversare la “Stretta di Longi”. Quest’ultimo ostacolo, forse, si sarebbe potuto aggirare con l’attraversamento del sito in galleria, per il quale, però, sarebbe occorsa un’ingente somma, oppure con un ponte di legno sospeso sulla Stretta, costruito in maniera e forme tali da poter creare il minore impatto ambientale possibile. Un ponte, cioè, che diventasse un tutt’uno armonico con il paesaggio, su cui si sarebbe dovuto adagiare. Un’opera d’alta creatività e sicurezza strutturali. Oggi, anno 2000, l’unica possibilità per ottenere il finanziamento proviene dai programmi europei (vedi Agenda 2000, inesistente sino al 1997), anche se l’inserimento in essi e l’istruzione della pratica presentano complesse difficoltà e notevolissimo impegno per seguirne l’iter, a livello regionale soprattutto. 

Sogni rimasti nel cassetto?

Si, tanti. Tra questi, la realizzazione di una vera Villa Comunale, fruibile  da tutti, in contrada Giardino, il recupero del centro storico adiacente al Castello Medioevale, l’arredo urbano di Piazza degli Eroi, comprensivo del restauro del Monumento ai Caduti, il cui incarico progettuale avevo  già affidato ad un Architetto longese, l’arredo urbano della Piazza e della Via Umberto I con rifacimento  della pavimentazione e revisione delle opere di urbanizzazione sottostanti (progetto ripreso, in dimensioni  ridotte, dalla successiva Amministrazione e realizzato attraverso un mutuo con la Cassa Depositi e Prestiti,  pur rientrando tra i pochi progetti che la Regione finanziava), l’ampliamento organico e definitivo del  Cimitero verso Cerimo, attuabile per mezzo di un mutuo di un miliardo e duecento milioni di lire da me  richiesto ed avuto dalla Cassa Depositi e Prestiti (l’importo dalla subentrante Amministrazione fu  parcellizzato in diversi interventi a discapito dell’area cimiteriale da allargare), la rete di distribuzione del  gas metano, il cui programma non decollò in quanto sarebbe occorsa una delibera del C.C. per la stesura del  contratto con l’Agip-gas (considerati i rapporti esistenti, non mi sono sognato ad accennarne per non andare  incontro ad un ulteriore rifiuto), la ristrutturazione della Chiesa del Cimitero, il Monumento agli Emigranti.



Sento doveroso ringraziare, ora per allora, quanti, tra i dipendenti comunali, collaborarono lealmente e con impegno per mandare avanti la “barca comunale”. Tra questi, le mie due segretarie personali; ad una delle quali, facendomi notare che era la consorte di un consigliere comunale, quindi mio avversario, ma obiettivo, risposi:” lei qui è una dipendente del Comune, fuori dal Municipio la moglie di….”. Accettò l’incarico.




Con il Vescovo di Patti, S.E. Mons. Zambito






L’Amministrazione -1993/97- che ha salvato il paese dal dissesto economico

Intervista di Anna Franchina

Gaetano Zingales è nato a Longi il 4 dicembre 1938 ed è stato primo cittadino dello stesso Comune dal 1993 al 1997. Sono questi gli anni di attività amministrativa svolti nel luogo che gli ha dato i natali e da queste origini il sindaco Zingales ha tratto la forza, il coraggio, l’amore di porsi al servizio della sua gente, candidandosi in prima persona, appoggiato politicamente da quelli che divennero poi i suoi assessori, per rappresentare il paese arroccato, incuneato e protetto dalle montagne: Longi, cui è legato per tradizione e discendenza. 

Dai suoi studi classici, dal suo amore per il sapere, dalle sue esperienze professionali che lo avevano spinto a perorare la causa dei lavoratori (1) , aveva trovato la forza e l’audacia di scendere in campo, senza in verità il supporto di una lista che lo sostenesse e lo accompagnasse in questo suo progetto di impegno con gli altri. 

Perché una sola cosa aveva in mente Gaetano Zingales: essere un punto di riferimento e mettersi al servizio della sua gente, la cui cultura ha profonde radici nella Storia, per valorizzare quanto di straordinario la natura aveva dato al paese, creando opportunità di crescita economica, stabilizzandosi in quelle rocce e ivi trovando le energie e la forza per divenire sempre più una comunità florida e sicura. Anche la Legge (secondo lo Statuto della Regione Siciliana, si poteva candidare qualsiasi cittadino anche senza una lista) era dalla sua e gli permetteva di realizzare questo sogno. Pur se privo di una lista d’appoggio, Gaetano Zingales superava l’ostacolo delle urne, che gli davano un responso favorevole. Nei comizi parlava con linguaggio chiaro, scorrevole, come di chi fosse avvezzo a farlo, d’altra parte la sua militanza sindacale era stata un’ottima scuola. Era piacevole ascoltarlo, la gente si ammassava nella piazza, era il miglior comiziante, l’oratore più veemente che Longi nella sua storia avesse mai potuto avere. Le sue arti di persuasione avevano rassicurato la gente, i contenuti dei suoi discorsi, lineari e convincenti, e poi il suo aspetto, alto, possente, con la barba folta, nera ma ben disegnata in un volto pulito, dai lineamenti marcati e nello stesso tempo caldi, incutevano un certo timore riverenziale, una rispettosa soggezione; i capelli neri e lisci quasi brillantati gettati all’indietro, con qualcuno sorprendentemente fuori posto, scoprivano una fronte spaziosa e gli incorniciavano un viso dallo sguardo magnetico. Incantava e affascinava, e la sua gente lo volle in rappresentanza di se stessa, lo elesse sindaco con larga maggioranza. 

Ma dietro il suo aspetto, il suo carisma e la volontà del popolo, ad eleggerlo suo rappresentante c’era in realtà una personalità dolcemente dura e piuttosto variegata. Sapeva essere d’una grande umiltà, forse non palese, sapeva essere autoritario di fronte all’insolenza e autorevole di fronte all’incompetenza, l’essere un po’ troppo diffidente, però, faceva respirare a tutti aria di fronda. Questa sua caratteristica non gli permise di attuare al massimo il suo progetto perché trovò chi dissentiva apertamente sul suo operato, dai consiglieri comunali sempre in opposizione, a taluni suoi stessi assessori che mostravano intendimenti contrari ai suoi. 

Di fronte ad una tale situazione, fu costretto a cambiare più volte assessori, pur scelti da lui stesso, in quanto dissentivano, a suo avviso, dalla linea di programma esposta agli elettori durante la campagna elettorale. 

La possibilità di conoscere direttamente dal suo racconto le vicissitudini di primo cittadino l’ho avuta in occasione di un progetto formulato dallo stesso Gaetano Zingales, relativo a un’Antologia longese, ove si rammentano e si mettono in risalto la gestione amministrativa, le attività e le opere pubbliche realizzate da tutti i sindaci che si sono avvicendati nel Comune di Longi dal dopoguerra ai giorni nostri. Il tutto affinché nulla cada nell’oblio.

Gaetano Zingales mi ha consegnato la sua storia di Ufficiale di Governo, perché ho avuto modo di conoscerlo personalmente, durante il suo mandato politico, al tempo in cui ero responsabile amministrativa della direzione didattica di Galati Mamertino, di San Salvatore di Fitalia e di Longi. Qualche volta fui anche convocata dal sindaco Zingales per discutere problemi inerenti il plesso di scuola elementare e materna di Longi e ricordo di avere avuto una cortese accoglienza e una grande disponibilità all’ascolto. Nel suo ufficio presso il municipio, era messa in evidenza una nota frase di Pericle, famoso stratega ed “amministratore democratico” dell’antica Atene, di cui egli sentiva di possedere molte affinità.

Prima d’iniziare a dialogare, egli dava sempre il tempo ai suoi interlocutori di poter leggere la frase di Pericle, che era il suo emblema e rappresentava il suo stesso pensiero: “Sapere quello che va fatto e essere capace di spiegarlo, amare il proprio paese ed essere incorruttibile sono le qualità necessarie ad un uomo che vuole governare la propria città”.

E questo pensiero egli si augurava venisse inciso su di una targa e posto all’ingresso del Municipio o all’interno della sala consiliare, perché tutti potessero vedere e comprendere il senso della missione di rappresentanza di un popolo.

Ricordo che manifestai il mio apprezzamento sul pensiero di Pericle, e Zingales aggiunse anche un bel pensiero di Gandhi ….

”La non violenza e la verità sono inseparabili e si presuppongono l’un l’altra.

Non c’è alcun dio al di sopra della verità”.

Ho ritrovato il sindaco Gaetano Zingales dopo quindici anni e mi sono soffermata ad ascoltare il suo racconto di primo cittadino alla guida del Comune di Longi. Conoscere più da vicino le vicende di quattro anni del suo mandato politico è stata per me una primizia, soprattutto perché il mio interlocutore è proprio lui, il protagonista della storia.

Parlando del suo operato, nonostante qualche risentimento, non ho visto acredine alcuna nei confronti dei suoi avversari politici, ma solo rammarico di non aver potuto realizzare alcune opere che egli riteneva necessarie per il paese e per non essere stato compreso abbastanza nel suo pensiero e nel suo modo d’intendere la Politica.

Mi ha ricevuto nel suo studio in un piovoso pomeriggio di marzo, in quell’amena località di Crocetta, con la sua consueta, cordiale ospitalità. Il suo colono gli ha rivolto un riverente saluto dopo avere atteso ad alcune faccende agresti e, con la mano alzata, è andato via dicendo: “u salutu Cavaleri!”, il titolo di cui lo ha insignito il Presidente della Repubblica.

La sua casa sa di antico, di vissuto, di eterno, per lui che ha creduto e continua a credere in quel passato e nel senso che ha avuto. Nelle foto, innumerevoli e attaccate alle pareti, c’è una vita che parla e lui si è soffermato a mostrarmi i contenuti, a indicarmi le date e i soggetti ivi ritratti.

Ancorché non lo sia più, continuo a chiamarlo Sindaco, per quel senso di rispetto che ciascuno di noi dovrebbe avere per chi, scelto dal popolo per essere rappresentato, si sia distinto per averlo fatto con quel significato del dovere che ciascuno dovrebbe possedere indossando la fascia Tricolore.

Il Sindaco dallo sguardo intenso e sempre carico di passione per la vita, conserva il suo fascino di condottiero instancabile e tenace. 

G.                        G .Zingales - Foto di A. Franchina

Alla mia domanda: 

- “Parliamo un po’ della sua esperienza di primo cittadino” - ha subito esordito d’un fiato come di chi avesse una gran voglia di esternare ciò che a lungo aveva tenuto dentro e l’opportunità di poterlo fare non poteva sfuggirgli per nessun motivo.

“La Storia – ha così iniziato Gaetano Zingales – quando potrà essere portata alla luce, narrerà attraverso i documenti esistenti nell’archivio comunale e di privati, i fatti accaduti nella loro obiettività. Oggi ritengo giusto raccontare con estrema sintesi, i quattro anni più tormentati e difficili, probabilmente sin dalle origini della gestione del Comune di Longi, il tutto perché resti traccia nella storia del paese, poiché di essa ad oggi non esiste come studio sistemico e cronologico.

“Scrivere in Sicilia, ha detto Sciascia, è stata sempre un’eresia, un’attività mal considerata, una specie di spia, un compatriota che divulgava cose che andavano taciute”.

Ciò malgrado, attraverso il colloquio con lei, voglio inviare un messaggio, soprattutto ai giovani che si vogliono impegnare nella politica di gestione del paese e che sono la speranza del cambiamento. Il mio umile desiderio è quello che i contenuti di queste pagine possano essere una guida ed un punto di riferimento per chi volesse intraprendere l’attività politico-amministrativa, in quanto la mia esperienza vissuta alla guida del mio paese e presentata in maniera obiettiva, senza risentimenti o pregiudizi e senza fini di rivalsa postuma, rispecchiano le sensazioni provate, i torti subiti e, in ogni caso, la verità dei fatti.

“Sindaco Zingales, com’è andata allora questa gestione politico amministrativa che fa riferimento al suo mandato?” – e, scivolando nella sua poltrona con un senso di grave nostalgia ma con la fierezza di sempre, così esordisce:

La gestione del Comune di Longi, nel quadriennio 1993/97, è stata tormentata ed osteggiata a causa dell’anomalia della Legge Regionale elettorale, peraltro successivamente modificata. La Giunta in carica, formata da professionisti, è stata nominata senza avere alcun riferimento politico nel Consiglio Comunale che ha svolto, quest’ultimo, un ruolo di costante opposizione. Di ciò, ha avuto a subirne le conseguenze la collettività.

Sindaco, significava sentirsi sempre sulla graticola?

Non sempre perché nonostante ciò, laddove non occorreva passare per le forche caudine del Consiglio Comunale, la Giunta riuscì a realizzare alcune opere importanti e, soprattutto, a liberare il paese dai pesanti debiti accumulati negli anni.

Allora è partito con una buona squadra?

Certamente! E poiché parliamo di avvenimenti storici, merita di essere rammentata la formazione iniziale di quella Giunta, l’unica con tale impronta culturale dall’Unità d’Italia in poi. Sono stati il Dott. Basilio Lazzara, l’Arch. Francesco Brancatelli, il Prof. Antonino Carcione, la Dott.ssa Maria Rosa Miceli. Io stesso, quale sindaco, senza per questo volermene fare un vanto, provenivo da esperienze complesse, maturate in campo regionale e anche nazionale attraverso gli incarichi ricoperti nel settore che ruota attorno alla Pubblica Amministrazione.

Con un simile esecutivo gli obiettivi raggiunti saranno stati molteplici!

Tanti, e ne sono fiero, sono orgoglioso e sereno nel rivolgere il pensiero al mio operato di sindaco del Comune di Longi; sono gli altri, però, che, nel bene e nel male, ci giudicano ed io lascio a loro il giudizio, purché sia sempre imparziale, su quanto svolto. Potrei elencare innumerevoli attività e tutti gli obiettivi raggiunti, che, a dire il vero, sono pure riscontrabili anche se non sempre tutto questo viene riconosciuto. Ma vorrei elencarne solo alcuni affinché coloro che leggeranno potranno ricordare, riflettere e fare le differenze, valutare insomma. 

Venne respinto il dissesto finanziario, richiesto dal segretario comunale e dal revisore dei conti, iniziando a liquidare subito 272 milioni di vecchie lire per contributi previdenziali non versati negli anni precedenti; furono giorni e notti di fortissima tensione perché non si era certi che si sarebbe riusciti a trovare la strada per il risanamento delle casse comunali. In un pubblico comizio spiegai tutto ai cittadini ed il Comandante della locale stazione dei Carabinieri, nel complimentarsi con me per il coraggio nell’esporre la cronistoria dei dolorosi fatti che avevano dato origine allo spettro del default, volle accompagnarmi, in quanto indossavo la fascia tricolore, alla Casa Municipale. 

L’Amministrazione, poi, fece un accordo con i cittadini che avevano dato corso a liti giudiziarie, il cui credito complessivo vantato da costoro, arrivava a ben 2 miliardi di lire circa, a causa di espropri di terreni non pagati secondo quando dovuto. Una cifra enorme per lo striminzito bilancio del comune di Longi. Venne effettuata una provvidenziale transazione e il debito del Comune venne ridotto, infatti, a un miliardo e 215 milioni di lire, di cui il 60% venne sanato con il contributo a carico dello Stato ed il restante 40% attraverso un mutuo ventennale contratto dal Comune con la Cassa Depositi e Prestiti.

Passando alle opere pubbliche, quali di esse è riuscito a realizzare?

Con tenacia e caparbietà, l’amministrazione forzò la resistenza da parte del Parco dei Nebrodi e ne ottenne il “Nulla Osta” per realizzare la strada in terra battuta “Botti- Barillà”, concretizzando un sogno decennale dei lavoratori impegnati nei cantieri della forestazione. 

Iniziato nel 1986 ed arenatosi, venne poi ripreso il tormentato ed estenuante iter dell’opera per la captazione di acqua potabile presso le sorgenti della contrada “Tre Schicci”, che incontrò una pluriennale tempesta di verifiche, varianti, controlli, sopralluoghi, richieste di Nulla Osta (soprattutto quello del Parco che si opponeva e nicchiava) e di riammissione del decreto assessoriale per il ripristino del finanziamento (perduto) di lire 4 miliardi, nonché di infiniti ostacoli burocratici locali. L’opera venne appaltata, ma i lavori iniziarono dopo la scadenza del mio mandato, per cui corre voce che non sia stato rispettato il protocollo dei limiti imposti dal Parco: tant’è che il notevole flusso d’acqua alla sorgente, monitorato dai tecnici del progetto, bastevole per le esigenze idriche della comunità, risultò, ad opera eseguita, notevolmente ridotto all’arrivo al serbatoio comunale di Filipelli. Ancora oggi, il paese si trova ad avere carenza d’acqua potabile.

“Nulla Osta” da parte dell’Assessorato Regionale dei Lavori Pubblici, per la richiesta della somma finalizzata alla costruzione di trenta alloggi popolari, “non” realizzati in quanto il Consiglio Comunale “non” ritenne opportuno deliberare il sito ove si sarebbero dovuto costruire, cioè in contrada Crocetta come richiesto dalla Giunta.

Il progetto del campo plurimo aveva perso il finanziamento precedente per cui si riottenne l’emissione di un nuovo decreto a seguito della modifica progettuale operata, ma i lavori vennero condotti dalla successiva amministrazione che apportò ulteriori modifiche al programma.

Costruzione rete idrica nelle contrade;

Realizzazione della discarica per i rifiuti solidi urbani in contrada “Petrusa” a seguito del sequestro giudiziario di quella precedente con contestuale denuncia penale subita dal sindaco poi risolta favorevolmente;

Molteplici interventi per arredo urbano (Via Roma e Piazza Fonte Pubblica), restauro del portone della Chiesa Santissima Annunziata, eseguito però senza il rispetto della conformità con l’originario (che solo con un successivo intervento venne restaurato com’era sin dalla sua primaria realizzazione), contributo per il restauro dell’Altare Maggiore della Chiesa Madre, lavori di percorribilità delle strade agricole e rifacimento di alcune strade urbane attraverso cantieri regionali e comunali;

Nuovo impianto elettrico al cimitero e revisione di quello civico.

Caro Sindaco, tutto ciò anche in presenza di un Consiglio Comunale d’opposizione e degli assessori spesso dimissionari?

E non è tutto, nei quattro anni di gestione dal 1994 al 1997, sono stati spesi, dal bilancio comunale, per lavori vari nel paese, ben 2 miliardi 547 milioni 332 mila 945 lire, somme che sono andate nelle tasche dei lavoratori e delle ditte artigiane; ed è stata anche raggiunta la piena occupazione, se così è possibile definire le prestazioni a tempo determinato, tramite l’avviamento, ai bacini di lavoro della forestale, di tutti i braccianti iscritti nei relativi elenchi al collocamento.

Si parla però di una protesta di forestali avvenuta nell’estate del 1997!

La protesta del 1997, da parte dei forestali longesi, fu la più lunga, la più accesa e la più drammatica fino a sfociare nello sciopero del 18 luglio, ma, grazie all’impegno dell’Amministrazione, lavorarono tutti quell’anno, alla forestale, come gli altri anni passati ed utilizzarono come detto, la strada in terra battuta Botti- Barillà , che avrebbe consentito loro di rientrare ogni sera a casa evitando di fare il precedente lungo giro attraverso la strada per Catania, per raggiungere il cantiere di Barillà. - Ne parla con soddisfazione !

Si, perché per la prima volta a Longi venne stabilito un metodo di trasparenza e di rotazione nell’affidamento dei lavori: non più solo agli amici del sindaco, come si usava per il passato, ma a rotazione tra tutti gli artigiani. Sorteggio dei nominativi per l’incarico di direzione dei lavori dei cantieri, rispetto delle entrate in protocollo delle richieste, e così via. Tutto ciò significava applicare principi di giustizia sociale, concetto prima poco praticato. Purtroppo da quanto ebbi ad apprendere, questo metodo non sempre e non da tutti è stato ben gradito. 

Forse qualche episodio le ha lasciato un po’ d’amarezza?

Si, in particolare uno. L’Amministrazione aveva inoltrato richiesta per la realizzazione di importantissime e prioritarie opere relative ad una nuova rete idrica interna con telecontrollo” in sostituzione di quella “decotta” nonché all’opera di “consolidamento del versante nord del centro urbano a protezione dell’abitato della SP 157 e della strada comunale Longi- Cerimo –Mirzulera”, con finanziamento certo perché nei relativi capitoli di spesa dell’Assessorato Regionale al territorio e dell’ Ambiente erano previste congrue somme da erogare ai Comuni. Ebbene, tutto ciò venne apertamente ostacolato in loco e le richieste non trovarono accoglimento nella priorità del Piano Triennale delle Opere Pubbliche che era di competenza deliberante del Consiglio Comunale per cui non furono erogati i previsti finanziamenti che sarebbero stati sicuramente utili alla Comunità. A sostegno peraltro, di questa ultima progettualità, su richiesta dell’Amministrazione, venne effettuato sul territorio un sopralluogo dal servizio geologico della Provincia di Messina e venne redatta una relazione geologica, depositata agli atti del Comune, attraverso la quale emersero i pericoli di dissesto idro-geologico e di cause predisponenti le paleo frane.

Peccato, si è persa una buona occasione per mettere una parte del territorio in sicurezza! Ma erano sempre così arrabbiati con lei e c’era continua aria di fronda, insomma le contestazioni erano all’ordine del giorno, non le è stato certo facile amministrare per quattro anni?!

Si, sono riusciti perfino a votare una delibera consiliare di Referendum per la destituzione del sindaco ma che venne respinta dal TAR di Catania, adito dall’interessato.

Ma se non sbaglio nella tornata elettorale successiva lei si ripresentò.

Esattamente, avendone diritto quale uscente; tuttavia, non venni riconfermato. - Una spiegazione?

Il gruppo di ispirazione di Centro-Sinistra, che inizialmente mi sostenne, si divise in due tronconi facendo il gioco, così come sempre avviene quando la Sinistra si divide, dell’avversario politico, cioè della formazione del Centro-Destra.

Pazienza, è andata così. Tuttavia, con grandi difficoltà e avvinghiato in mille pastoie, è riuscito a spuntarla e a portare un soddisfacente risultato! 

Quella gestione amministrativa poté pervenire alla fine del suo ciclo naturale perché venne supportata, oltre che dall’assessore, prima, e Vice Sindaco poi, prof.Antonino Carcione, dalla caparbietà del sottoscritto, e, seppure in maniera episodica, anche dagli Assessori tra cui l’Ingegnere Salvatore Leone Zingales, dall’Esercente Antonino Brancatelli, dall’Ing.Franco Pidala’, dall’Infermiere Enzo Russo, dal Rag. Peppino Bartolo, dai defunti Dott. Antonino Fabio ed Geom. Nuccio Zingales. Ad essi va il mio ringraziamento personale e quello, doveroso, della Comunità che ha ricevuto sicuramente dei vantaggi utili per la crescita del paese. Senza di essi, il paese sarebbe stato amministrato nuovamente da un Commissario ad acta.

E con questo La ringrazio per avermi potuto dare l’opportunità di inserire in queste pagine, che trattano uno spaccato della storia del paese, un passaggio amministrativo tra i più tormentati del paese e, mi sia consentito affermarlo, del tutto anomalo, avendo attraversato gli anni di applicazione di una Legge Regionale atipica ed imperfetta, per non dire errata. 

Questo è Gaetano Zingales, uno dei sindaci di Longi che torna frequentemente a Longi e nel tempo sarà ricordato come un uomo che tanto ha dato alla gente. Ma, come è noto spesso nel proprio paese, non sempre viene riconosciuto e attribuito il giusto merito. Nonostante tutto, egli non è soltanto il vate esaltatore di Longi, egli ama troppo quella se pur scoscesa “rupe” dove è collocato uno dei paesi più caratteristici che esistono al mondo e dove egli, innamorato più che mai dei luoghi che furono originati da “Demenna”, continua a tornare tra la sua gente, dove ha tratto le sue stesse origini di indomito guerriero, amante del giusto e del vero, per essere amministratore semplice e singolare della cosa pubblica. 1 (1) In realtà Zingales aveva tutelato i postelegrafonici. Ma è più esatto parlare, più in generale, di lavoratori, in quanto egli, oltre ad essere stato Segretario Regionale e componente la Direzione Nazionale della UIL-Post, è stato fondatore e Segretario confederale della UIL di Cefalù (con iscritti da tutti i settori lavoratori che rappresentava sindacalmente), componente dell’Esecutivo Provinciale di Palermo della UIL Confederale e membro del Comitato Centrale Regionale della UIL Confederale di Sicilia. Inoltre, dal Partito Socialista Italiano di Cefalù venne chiamato a fare parte della Segreteria cittadina con l’incarico del settore delle attività lavorative, al quale aggiunse quello della “Stampa e Propaganda”. 


Nota dell’autore. Ho ritenuto di dovere soffermarmi sulla cruda narrazione di un lavoro svolto al servizio del mio paese per evitare polemiche su fatti spiacevoli allora accaduti. Ho, altresì, ritenuto opportuno di ricorrere allo strumento giornalistico dell'intervista, che è pur sempre una forma di confronto ma anche di controllo della tentazione di latente protagonismo, presente nella maggior parte degli individui, più marcatamente però negli uomini “pubblici”. 

Ringrazio, quindi, la dottoressa Anna Franchina per l'ottimo lavoro giornalistico e per gli apprezzamenti, immeritati, rivolti alla mia persona.

( dal mio libro “Antologia longese)











Altre iniziative

Prima di essere candidato a Sindaco, aveva costituito una Associazione agricola con l’intento di incrementare la produzione dei noccioleti; quasi tutti i proprietari di Longi vi aderirono e parteciparono ad un convegno, a Crocetta, organizzato da me con la collaborazione dall’agronomo dr. Sandro Lazzara, finalizzato alla possibilità di coltivare un fungo commestibile sotto il noccioleto assieme alla cura ed ai lavori da sostenere per la corilicoltura. Eletto Sindaco, non potei più occuparmi della Associazione agricola. Peccato!



Finito il mandato politico-amministrativo, dopo pochi mesi, chiesi di essere collocato in pensione. Di fronte allo spettro di vegetare non dedicandomi ad alcunché, mi misi a coltivare la mia passione per la scrittura. Mi venne regalato da mia moglie Lory un computer in sostituzione della vecchia macchina per scrivere. Odiavo quell’aggeggio infernale, ma fui costretto ad impararlo ad usare: nel giro di qualche anno lo distrussi e dovetti comperarne un altro. 

Occupavo il tempo della mia inattività lavorativa componendo poesie, scrivendo romanzi e facendo ricerche storico-archeologiche sull’antica città di Demenna. I relativi scritti ne sono una testimonianza libraria. 



Fondai, a Longi, il “Centro Studi “Castrum Longum” ed organizzai alcune manifestazioni culturali e ricreative: qualcuna è richiamata quì seguito e nel mio libro di “Antologia longese”. Ne facevano parte, quali soci fondatori, Dr. Salvatore Migliore, Arch. Mariateresa Brancatelli, Basilio Frusteri, Leone Pidalà, ins. Lina Pavone, Angelo Pidalà e i dimissionari Maestro Leone Lazzara, D.ssa Carmen Castano, Cettina Araca, Fabiola Pidalà.

L’attività del Centro Studi si sviluppò attraverso l’organizzazione di convegni di studio, la pubblicazione di testi e saggi, il Galà a Castelmalè e la realizzazione del Monumento all’Emigrante longese


Promossi, tramite Gino Sirna, il documentario della RAI Edu “Cercando Demenna”, girato sul Pizzo di S.Nicola, laddove venni intervistato (nella foto) per parlare della antica città di  Demenna sulle Rocche del Crasto.


A Palermo, presso l’Ospedale Cervello, diedi vita all’ Associazione regionale “Melchiorre Brai” (un virologo palermitano deceduto sul campo) per la cura dell’Angioedema Ereditario ed altre relative forme rare. L’associazione era costituita da volontari, senza scopo di lucro, con finalità esclusivamente finalità di solidarietà sociale e vi parteciparono soci da tutta la Sicilia. L’organizzazione si impegnò a organizzare anche un Convegno nazionale, al quale parteciparono Primari medici del ramo, provenienti dai centri specializzati d’Italia. La dotai, inoltre, di un bollettino, prima su cartaceo, poi on-line. 


Agosto 2008

       Il “Galà a Castelmalè” è stato un successo. Dopo la gradita proiezione del documentario “Cercando Demenna…” della RAI, avvenne la consegna del “Trofeo al Popolo Longese” per il suo primo millennio di vita, ed a seguire la presentazione ed il commento della professoressa M.G. Militi al mio romanzo, “I Castelmalè”.



Trofeo Primo Millennio fondazione Longi – Manifesto del  Galà

Bissai la manifestazione nell’anno successivo, ma conobbe un calo di tono in quanto non si presentarono signore concorrenti al titolo di Lady Castelmalè, per cui fui costretto ad abbandonare definitivamente le successive edizioni. 




Trascorsi alcuni anni, in cui Lory, mia moglie, mi venne dietro, per pochi giorni, durante la mia permanenza estiva a Longi; ma, come prima detto, successivamente decise di non seguirmi e dovetti trascorrere due estati consecutive, a Crocetta, da solo. I miei unici compagni furono un cane e le bottiglie di vino. Divagavo scrivendo, appunto, poesie e romanzi. 










L’ultima mia recente battaglia fu quella sul Teatro di Pietra ovvero l’iniziativa per evitare la copertura del tetto della vecchia chiesa

La battaglia ebbe inizio nel 2018. A seguito di una mia lettera inviata all'Assessore Regionale dei BB.CC. AA. il defunto Prof Tusa, il progetto “incriminato” sarebbe stato bloccato. Cambiati gli uomini al potere, il progetto venne ripreso: il mini-Spasimo longese non esiste più.


Un amico mi ha chiesto:” cu ti porta? “Risposi: “ho dato ascolto alla mia coscienza morale, alla mia educazione personale e culturale, alla mia formazione di dirigente sindacale, alla mia fede di socialista di sinistra. Le quali, messe insieme, mi inducono a combattere il male e, quindi, a difendere le cose giuste”. Nella vicenda, che mi ha visto protagonista nel contrastare la fine del nostro mini-Spasimo, del nostro Teatro di Pietra, è stato giusto e doveroso difendere dal “male”, dalla fine della sua bellezza unica, un bene architettonico che appartiene da sempre ai longesi, senza se e senza ma.

Quando, di recente ripresi la battaglia, che avevo ritenuta chiusa nel 2018, avevo messo in conto una possibile sconfitta in quanto, nel tempo, le condizioni di responsabilità politiche all'interno dei Beni Culturali siciliani erano mutate (intelligenti pauca !), ma ero convinto che la chiesa vecchia fosse sotto vincolo o restrizioni edilizie, che riguardassero la manutenzione dell'immobile ma non lo stravolgimento attraverso la copertura del tetto.

Il dossier sulla chiesa sfasciata l’ho pubblicato sul mio libro Bastardo.

Non mi sento uno sconfitto perché la loro (quella dei falsi vincitori?) è una vittoria di Pirro in quanto costoro saranno condannati, senza appello e con ignominia, dalla futura storia longese, per aver “commesso ...il fattaccio”. Per questo motivo mi ritengo invece il vincitore morale di una guerra intrapresa in difesa dei beni culturali locali, la cui azione ho additato ai longesi perché ritenuta giusta, sacrosanta e non contrattabile. Me ne duole che apertamente la gente non ha supportato l'iniziativa del Comitato longese per la difesa dei Beni culturali locali; se ciò ci fosse stato, avremmo potuto organizzare un sit-in dinanzi al cantiere, e costringere chi di dovere a farsi vivo per colloquiare con coloro che dissentivano rispetto all'oggetto del progetto.

Ancora una volta mi chiedo: perché altrove i beni antichi, che rientrano nella tutela del patrimonio dei cosiddetti BENI CULTURALI, sono preservati e conservati, mentre a Longi NO? (Esistono tanti altri fatti precedenti di distruzione di antichi beni e strutture che avevano un valore storico). Tanto – qualcuno si sarà detto – è un piccolo paese di montagna e a nessuno importa se esso verrà depauperato di questo meraviglioso ed antico palcoscenico.

Ritengo di dovere aggiungere una notizia pervenutami, da un amico, un'altra memoria storica del paese, riferisce che, negli anni passati nella parrocchia di Longi sono spariti molti oggetti, ritenuti d’antiquariato, quindi di un certo valore venale. Tanto per fare un esempio, come ebbe a riferire un ultra centenario longese, deceduto, il "vero oro” di San Leone era quello che ricopriva la vecchia vara, non quello trovato presso la C/da S. Lina, che fu una ragazzata. Omettendo altre considerazioni, la memoria storica, il vecchio e saggio uomo conclude il suo dire che in quel tempio sacro gira troppa dovizia. E conclude, con amarezza:” i longesi, …. dopo secoli non hanno ancora capito nulla”. Chiaro, no?

A me l'onore delle armi, allo squalo killer dell'ultima bellezza architettonica rimasta, il ludibrio e l'ignominia per avere distrutto una cosa meravigliosa, la possibilità, per i longesi e gli ospiti estivi, di una incantevole visione di uno spettacolo notturno sotto il cielo stellato, il Teatro di Pietra Longese, unico, dall'acustica perfetta. Vergogna!

Non avrò sulla coscienza, mio paese natio, di non averti difeso contro l'abuso di potere. 

Buon cammino, Longi, anche se, da oggi, orfano del Bene più bello; ti rimane solo la bellezza naturale e del paesaggio del territorio. Quella non potranno mai ucciderla.


Uomini..., secondo la letteratura

Nell'Inferno, Dante Alighieri così descrive gli ignavi. Costoro” sono coloro che durante la loro vita non hanno mai agito né nel bene né nel male, senza mai osare avere un'idea propria, ma limitandosi ad adeguarsi sempre a quella del più forte.” (Wikipedia).

Leonardo Sciascia, nel “Giorno della civetta”, in un certo passaggio, scrive: «Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l'umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz'uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini; i mezz'uomini pochi, ché mi contenterei l'umanità si fermasse ai mezz'uomini… E invece no, scende ancor più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi…E ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito… E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre… Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo…» (don Mariano Arena al capitano Bellodi)”

Non pecco di immodestia se dichiaro che io, nella mia vita pubblica, non ho mai fatto parte di queste categorie di ignavi o di altre figure poco buone. Il senso della giustizia, nel Sindacato e nella politica, ha ispirato il mio agire.

Nella contingente circostanza, io mi sento come “tra color che son sospesi e donna mi chiamò, beata ... “  (Dante Alighieri -Divina Commedia ,II canto Inferno). La donna, ovviamente non è Beatrice, ma, trasportando i versi nella condizione che mi ha spinto all’ argomento, è la bellezza della incompiuta ex chiesa di S. Salvatore, che si è deturpata e che mi ha mosso all'azione. La conservazione del bene non risiede nello stravolgimento dello “statu quo ante”. Perché esso non fu conservato, ma stravolto. In un paese di circa 1500 anime, con tre chiese nel centro urbano ed altre tre nelle contrade, c’era di bisogno di un altro tempio?

Mi sento tra coloro che sono sospesi, appunto, per non avere avuto la possibilità di andare oltre per fermare lo scempio.





Per concludere, non sono un vinto ma un soldato moralmente vincente della guerra in difesa dei beni culturali longesi; un soldato lasciato solo dai compagni d’arme. “Frangar, non flectar”!

     

   Oggi, ad oltre 80 anni, ho diritto al giusto,

 meritato riposo avendo riposto 

le armi da…combattimento.

Ad altri la fiaccola della staffetta ….

olimpica della comunità longese.



Il mio 80° 







A volo di memoria


Negli anni '20 del secolo scorso, a Longi, un uomo rubò l'oro di S. Leone, che in poco tempo, però, venne rinvenuto in una contrada del territorio ed il ladro venne arrestato e condannato. La vedova di costui, poiché lei ed i suoi figli vivevano in indigenza completa, si rivolse a mio zio Angelo, allora Sindaco, affinché tentasse di farlo liberare dal carcere essendo l'unico uomo che potesse lavorare e, quindi, l'unico sostentamento di famiglia. Lo zio, impietositosi delle condizioni della famiglia, regalò una certa somma di tasca sua alla donna e, nell'arco di poco tempo, per le sue amicizie politiche durante il fascismo, riuscì a fare uscire dal carcere quell'uomo. I longesi, che stravedono nella venerazione di S. Leone, non condivisero quel gesto di umana pietà e maledissero zio Angelo. Il quale morì a soli 50 anni per grave malattia. L’umana pietà fu sostituita dall’odio.

Quando, alcuni anni addietro, feci dei lavori nella cappella, e, per fare spazio, aprii alcune bare dei morti più lontani nel tempo, mi trovai in una sorpresa. La bara intarsiata dello zio Angelo conteneva il suo corpo ancora vestito, con ai piedi le scarpe tolte e poggiate nella bara perché era un uomo di oltre due metri di altezza ed a malapena lo poterono fare entrare nella bara. Ma la sorpresa non finì qui: tentammo di piegare le ossa (gli altri congiunti era già cenere) per metterli nell'apposita cassetta. Niente da fare, la rigidità cadaverica ne aveva bloccato il disfacimento. Fummo costretti, assieme agli operai, a rimetterlo nella sua bara assieme al berretto scozzese, con la coppola, che usualmente era solito indossare. Ne ricavai il seguente messaggio: “Io, Angelo Zingales, ho iniziato a costruire la presente cappella per cui debbo avere l'onore di avere un loculo singolo ed il mio corpo scheletrito deve rimanere intatto, simbolo della mia forza non comune”. Questo ne dedussi. In un’altra mia pubblicazione ho pubblicato la leggenda con cui, negli anni a venire, veniva ricordato per le sue gesta, e lo è tutt’ora.


Mamma e papà. 

Mio nonno materno fu chiamato alle armi durante la Prima guerra mondiale; subito dopo, suo figlio Nino, laureato fresco in Ingegneria, lo raggiunse nelle trincee alpine contro gli austriaci. Mio zio chiese di combattere tra gli Arditi e, come Ufficiale, guidava all’assalto un manipolo di uomini, con un pugnale tra i denti e bombe a mano, che uscivano dalle trincee in 200/ 250 all’assalto di quelle austriache e rientravano in 50. Il padre invece, era un soldato semplice. Ne uscirono entrambi vivi; mio zio, però, chiese di essere arruolato tra le Guardie reali (i Corazzieri). 

Il nonno Francesco, reduce e disoccupato emigrò, prima, negli U.S.A e, invitato a rientrare in Italia, il suocero, il mio bisnonno, lo fece lavorare presso l’ufficio postale di S.Stefano di Camastra, diretto dal cognato Nicolò. 

A 16 anni, però, mia mamma perse il papà per cui, la famiglia, rimasta senza mezzi di sostentamento a S. Stefano di Camastra, dove suo padre era impiegato presso l'ufficio postale, , fu costretta a rientrare a Longi andando ad abitare presso la casa paterna. Per vivere, vendevano terre di cui erano proprietari i genitori. Mia mamma, sin da allora era bellissima e mio padre, con la quale era cugino di primo grado, rivolse le sue attenzioni verso di lei. Si innamorarono. Disse mio padre ai suoi genitori di volere sposare la loro nipote, Alfonsina, figlia di una sorella di suo padre. Mio nonno si consultò con suo fratello medico, Giuseppe, il quale lo sconsigliò per la doppia consanguineità che si sarebbe venuta a creare nel caso in cui i due si fossero sposati. Il diniego fu immediato perché – ripeto- i due erano cugini primi, quindi consanguinei, come il padre Gaetano era consanguineo con Caterina sua moglie, anch'essa cugina di primo grado. Ma i due innamorati non si arresero e decisero, quindi, la fuitina. “Obtorto collo”, mio nonno dovette farli sposare;  ….e le spese dei festeggiamenti fatti in casa furono a suo carico. 

Eravamo in pieno fascismo. Un certo G. M, maestro elementare, era il Segretario politico della sezione del P.N.F., un dittatore locale. Mio padre era il Comandante della Gioventù fascista. Ciò malgrado, un giorno che mio padre era rientrato da Messina, cambiandosi d'abito, dimenticò di mettere all'occhiello il distintivo del fascio. Il capo, incontrandolo in piazza, lo redarguì e gli tolse la tessera del partito. Ciò significava che mio padre non avrebbe potuto trovare occupazione; lavoravano, infatti, coloro che avevano la tessera del partito fascista. A questo punto, lo zio di mio padre, Luigi, Segretario comunale, si appostò all'angolo della traversa dove abitava, all'incrocio con il corso principale, e tutti coloro che, passando, erano senza distintivo del P.N.F., li annotò su un foglio di carta e, dopo una lista di circa 200 nominativi, andò a trovare il capo fascista e gli disse.” se hai tolto la tessera a mio nipote, devi toglierla anche a costoro”. Il caporione capì l'antifona e restituì la tessera a mio padre. Ma la storia non fini qui per quello che in seguito racconterò relativamente agli occorsi a mia madre. 

Mio padre aveva la laurea in Pedagogia e filosofia, ma voleva conseguire anche la laurea in Medicina per occuparsi di endocrinologia soprattutto nel campo dei bambini. 

Ebbe la fortuna di conoscere il maggiore endocrinologo vivente, prof. Nicola Pende di Roma. Questi, gli propose di aprire e dirigere, per insegnarvi anche, un istituto magistrale presso Nicastro, in Calabria. Il programma futuro era quello che analoghe scuole dovevano essere aperte in Africa. Conti senza l'oste! Mussolini fece entrare in guerra l'Italia accanto al nazista Hitler (io piccolino, vedevo dalla finestra di casa a Nicastro i caccia da combattimento sorvolare il cielo della Calabria) e, quindi, “invitò “mio padre ad arruolarsi. 

Fu presso l'Ospedale Militare di Udine, ricoverato per un ascesso ad un molare con conseguente edema della glottide, la cui malattia e relativa terapia erano sconosciute ai giovani medici militari, che mio padre perdette la sua giovane vita.


Anni dopo.

Trascorsero gli anni, la guerra finì. Il caporione locale fu epurato assieme alla moglie. Ma con l’avvento al potere della Democrazia Cristiana, una Commissione d’inchiesta, su richiesta dell’ex caporione, si recò al paese ed interrogando gli esponenti politici, dagli stessi, compresi i socialisti ed i comunisti, venne dichiarato come “brava persona” che non aveva fatto del male a nessuno. Invece…! Il buonismo solidale di alcuni longesi che vogliono fare entrare le malefatte attraverso la cruna di un ago! Da fascista, quindi, si riciclò nella Democrazia Cristiana e venne eletto Sindaco di Longi. 

La mia famiglia era sua avversaria politica. Mia mamma lavorava presso l'ufficio postale assieme al suocero ed un altro impiegato. Dopo la riforma delle Poste italiane, mia madre fu trasferita altrove, ma dopo pochi anni le si presentò l'opportunità di rientrare al paese in qualità di direttrice. Fece domanda ma le risposero che non poteva essere accolta perché il Sindaco aveva posto il veto di rientro a Longi. Mia nonna Caterina chiese un appuntamento con costui, ma lui si defilò ed a riceverlo fu la moglie, la quale le rispose che “niente il marito poteva fare”. Si precisa che mia nonna aveva chiesto di incontrare il Sindaco, ma questi non ebbe il coraggio di ricevere personalmente una maestra elementare stimata da tutto il paese. Perché, ovviamente, aveva il carbone bagnato….

Mamma fu costretta, quindi ad andare a Messina, laddove lo stipendio era insufficiente per sostenere la famiglia. Fu così che venne costretta, a poco a poco, a vendere casa e terreni a Longi. 

La famiglia di quel signore, a Longi, è scomparsa; la mia c’è ancora. 

Per notizia collaterale: parecchi anni addietro, un settimanale nazionale pubblicò un articolo riguardante il figlio del fascista ( il quale, “affetto” dal D.N.A con cui era nato, ha continuato a comportarsi per tutta la vita come seguace del fascismo) dove, tra le altre cose, si affermava che egli, abitando nel sud-America, dove gestiva l'azienda dei pozzi petroliferi del suocero, non poteva rientrare in Italia in quanto l'avrebbero arrestato perché avrebbe partecipato al tentativo del colpo di stato ( finanziandone l'operazione con i miliardi del suocero?), da parte della P2 di Licio Gelli. Ebbi a constatare, però, che il personaggio in argomento, in una estate, soggiornò per pochi giorni nella casa dei genitori – toccata e fuga- Chi doveva arrestarlo, chiuse gli occhi! Una persona vicina a quel figuro, ebbe a raccontarmi che, in quel tristo tentativo, sopra accennato, egli chiese al Presidente del Consiglio in carica, G. A., di riceverlo; questi rispose di non conoscerlo… Già, “brava gente” questi signori, fascisti riciclatisi nel partito al potere, la Democrazia Cristiana...!




Le belle storie d’amore sembra

che non siano destinate ad un finale lieto.

La Storia ne è piena.


Mia madre diceva commentando

la perdita prematura di suo marito:

“due bei volti

(e loro erano entrambi belli)

non possono dormire su un unico cuscino”.

E’ vero!

Dannatamente vero,











Da servente chierico servente messa in latino…


Da adolescente chierico, che serviva la messa in latino presso il convitto salesiano Don Bosco di Palermo, ad ateo nel lungo, tristo divenire del corso della mia vita.

Parecchi anni addietro nel mio romanzo “Quando il destino bara” scrivevo”:


“Se è vero che Dio conosce e prevede tutto di tutti – la (Beatrice) interruppe con decisione, questa volta, Ivan- ed è anche Bontà infinita, nel momento in cui ci ha fatto incontrare sapeva già a cosa noi saremmo andati incontro. Se ciò ha permesso, quindi, non lo è stato certamente per il nostro male. I preti affermano che Dio ci ha dato il “libero arbitrio” per comportarci come riteniamo opportuno. Ebbene, se quel libero arbitrio deve portare l’uomo a farsi anche del male, io credo che esso non possa essere accettato oggettivamente come facoltà ad operare, liberamente, per procurarsi atti malefici o, comunque, dannosi per se stessi, in quanto, per l’essenza attribuita a Dio, Egli è l’esclusione del male.


“Dio non può volere la nostra dannazione, il dolore per noi… - soggiunse la donna.

Di conseguenza, quel tipo di “libero arbitrio”, richiamato in occasione di “eventi contrari”, riprese Ivan - produce un danno alla stessa esistenza di Dio e serve solo a giustificare certe enunciazioni di fede, che talvolta non trovano riscontro nella realtà d’ogni giorno, della vita così come si presenta e che si è, quindi, costretti a vivere. Il libero arbitrio, pertanto, non promana da Dio, secondo le mie convinzioni, ma va cercato altrove. …....

Di fronte al male nel mondo, alle sofferenze umane, al cospetto delle devastazioni naturali e di quelle procurate dall’uomo, io talvolta – proseguì l’interessante conversazione Beatrice- mi chiedo il perché Dio non impedisca così immane dolore se Egli tutto può e tutto prevede, se Egli è, giustamente come tu dici, Bontà Infinita. E mi chiedo anche se quel “libero arbitrio” non debba essere inteso quale evento occasionale, lasciato alla volontà violenta di singoli individui ed al trionfo del Male, del Dolore, del Pianto degli innocenti. E mi chiedo: è Questi quel Dio che ho appreso dai testi sacri e dalla parola dei Suoi sacerdoti? Oppure, esistendo un Dio – perché Dio esiste – Egli é un Ente Supremo diverso dalla Divinità prefiguratami?


Il tuo é un dubbio che s’agita anche in me- l’interruppe Ivan – perciò mi sono fatta una convinzione personale. Di fronte all’immenso creato non possiamo non ammettere l’esistenza di una Mente Superiore in quanto la logica e la spiegazione scientifica delle cose e degli esseri viventi non superano la barriera posta dinnanzi all’evento della loro creazione. E’ consolidato che dal nulla non può essersi generato alcunché: è, pertanto, esistito necessariamente un qualcosa di iniziale, il cosiddetto “brodo primordiale”, da Qualcuno creato, da cui poi sono derivate tutte le altre cose materiali; un “principio”, quindi, dal quale é stato dato l’abbrivo alle cose create. Il famoso “Big Bang” è infatti un atto di Dio. Questo “principio” è da individuarsi in Dio, o Mente Superiore, il cui “eterno esistere” ed il cui “inizio” sfuggono al nostro raziocinio. Solo così si può accettare la Sua esistenza.


-La famosa settimana, quindi, impiegata da Dio, per creare l’universo – dichiarò la donna – non è altro che un periodo millenario, che ebbe inizio con quel “brodo primordiale”, preparato da Dio e da Lui “cucinato” sino alla creazione dell’uomo, essere che volle plasmare a sua somiglianza?

Praticamente è così. E’ un Dio che sfugge alla mente umana – continuò Ivan - e dal Quale promana tutto ciò che in natura esiste. Mi chiedo, però: questo Dio si ferma qui oppure va oltre? Regola, in altre parole, l’umano comportamento o rimane soltanto il Creatore? Se si è attribuito quest’ultimo ruolo, noi siamo in balia di noi stessi o forse anche in balia di un altro essere superiore che determina il male ed il bene. Gli antichi greci lo chiamavano Fato. Ed allora, secondo il mio convincimento personale, Dio esiste sì, ma non è quel Dio descritto dai nostri maestri di dottrina cristiana. Concludo col ritenere cristianamente giusto tutto ciò che non va contro l’etica comune ed il bene materiale, che di diritto spetta agli uomini.”


Gli eventi della vita, nel corso dei miei anni successivi, stravolsero quanto io allora ebbi a scrivere su quella pubblicazione e mi indussero a convincermi che l'esistenza di Dio non era dimostrabile – anzi, le grandi avversità, i tragici eventi bellici, le tragedie di popoli interi, le pestilenze, i forti dolori degli uomini, la povertà, le prevaricazioni dei più forti nei confronti dei più deboli, insomma tutto ciò che produce dolore, grande dolore, dimostrano il contrario – pervenni alla conclusione che dio non esiste ma che l'umanità è in balia dei “capricci” dell'uomo forte, della sua crudeltà, nonché dell' ambiente naturale malsano “mandante” di catastrofi e di tsunami. 

Da fervente credente, con una solida cultura di base cristiana, da chierico, in gioventù che serviva messa, presso i padri salesiani, in latino, i miei convincimenti evolsero verso il pensiero religioso opposto da quello inculcatomi negli anni precedenti ed in gioventù, dai libri e dai maestri preti.

In definitiva, quel Dio misericordioso, preveggente e potente – appreso dai vangeli e dai libri scolastici – io non lo riscontravo nei fatti che attraversano l’umanità intera. Ed anche la mia 









Vidi morire mia madre

Il dolore, male del mondo, è la peggiore quintessenza della vita

Qualcosa si è spezzato

Agosto 1941 ed a seguire


Dormiva la neonata nella sua culla. Accanto, Lei, stringendosi al seno il figlioletto pregava guardando l'icona: “Gesù fa’ che il padre di questi bimbi torni dalla guerra” Egli tornò ma la bandiera tricolore avvolgeva le assi del legno che racchiudeva il suo corpo. E Lei aveva ventun anni. Sfidò i rigori della Legge per sfamare quelle creature cercando in paesi lontani il grano venduto al mercato nero. Le fu proibito il lavoro nella sua terra da un epigono fascista riciclatosi nel potere democratico. Emigrò. Lontano dal paese il soldo non bastava; vendette casa paterna e le terre del suo sposo. Era bellissima e corteggiata ma rimase fedele al suo uomo convinta che un solo amore secondo antichi valori poteva avere spazio nell'animo di una sposa dove il sentimento che unisce è fede. Con modesto lavoro sorresse i suoi orfani nella loro quotidianità e con fiero decoro sopportò rinunce e dolori chiudendosi stoicamente nella solitudine di con la giovane vita spezzata.


Anno 2016.

  Giunse la sua ora per l'altro viaggio che la portava al suo uomo. Ancora una volta il Destino decise di calare la sua mannaia sui giorni e sulle notti che l'accompagnavano. Tre lunghi anni di immobilismo si abbatterono sul suo guanciale assieme all'alternarsi del delirio che invase il suo cervello; fra tremori e sussulti per un lacerante dolore iniziò la sua agonia che percorse per sette giorni il corpo defedato e scheletrito che rifiutava il necessario nutrimento. Con il corpo ulcerato e la febbre alta sentiva il dolore e ne implorava la fine muovendo le labbra senza suono. Gocce di lacrime spuntavano dagli angoli degli occhi ancora accesi quando le carezzavo il volto dicendole: ti voglio bene Mamma”.


Un urlo di ribellione.

  Vidi avanzare i suoi ultimi anni i suoi ultimi giorni ancora nella persecuzione del dolore. Che certamente poteva essere più lieve se i boiardi della Sanità di Stato fossero meno crudeli e se non considerassero la vita di chi è avanti negli anni come “soggetto a perdere”. A Te, che giochi con la vita degli uomini, chiedo urlando: E' GIUSTOOO? A Te, assoluto giudice ed amministratore della gioia e del dolore, grido questa mia protesta. Non per noi, che per lunghi giorni ascoltammo impotenti i suoi gemiti, ma per Lei e per tutti come Lei non posso accettare il rozzo assassinio della dignità umana, la negazione a chiudere l'uscio su questa terra con doverosa requie dell'animo e del corpo.

  Nei millenni.

  Non accetto il Tuo libero arbitrio portatore di inaudite sofferenze, Destino o Dio, o Allah, o Budda. o Giove o divinità di altre terre perché immenso è stato ed è il dolore che impazza su questa dilaniata Terra. Il pianto degli innocenti non si genera dal nulla ma viene “portato” da mano invisibile ed inoculato nelle carni umane o iniettato nelle menti deviate predisposte alla malvagità. Non accetto l'omicidio di bimbi affogati nelle fredde acque dei nostri mari. Non accetto la cacciata dalla propria terra di umani prede della fame e che fuggono le armi della guerra e del terrore. Non accetto il dolore quale complemento dell'esistenza umana. Non accetto che il travaglio del trapasso sia affidato ad una lama che lentamente spegne la vita attraverso il veleno di cui è impregnata. La ineluttabilità della morte umana non può passare attraverso l'agonia di una tortura imposta. Chi ha fatto il mondo ha voluto che così fosse? Calcolo sbagliato o volontà criminale?


  Accanto a TE. 

Madre siamo soli noi due in questa ultima notte insieme. Accarezzo il tuo volto vitreo e ti dò l'ultimo bacio rammentando quando tu nel tuo letto di dolore mi chiedevi il bacio della buonanotte. “La totale dedizione ai tuoi figli non può meritare un misero grazie né i patimenti arrecati possono essere cancellati con la semplice invocazione del perdono. Che lieve Mamma ti sia il marmo che da noi ti separerà “.

Una lacrima sulla tua fronte per il mio addio.


13 luglio 2016


E' uscita dalla vita, ma non dalla nostra vita;

come potremmo credere morta

colei che è tanto viva nei nostri cuori?


Un amore intramontabile

Or sono ottant’anni

che un incurabile evento

ti strappò alla tua donna.

I pargoli non piansero

perché non capirono

ma il tuo bimbo

rammenta una bara

avvolta dal tricolore:

eri tu,

padre,

freddo tra quattro legni

che tornavi nel calore

della tua natia terra.

Oggi è ancor vivo

l’amore

a cui desti i natali

assieme alla donna

che ti dorme accanto.

11 08 2021


Silloge d’atmosfere di moti dell’anima

Ode a Longi













          F.to. Longi, dalla mongolfiera

Mia cara Longi, o ti si ama, o ti si odia. Io ho scelto di amarti. Hai bisogno di cure e coccole, ma più di tutto sincerità e fiducia. Longi e Amore due parole diverse, ma sinonimi al contempo. Mi sono chiesto più volte come sarei stato se fossi nato altrove. Ebbene, non trovo risposta al tuo pari. Non esiste un’altra terra che amo più di te e se solo esistesse mi sentirei di tradirti, perché tra tanti vizi e capriccetti” sei sempre il mio amore. Ti amo per quella che sei, amo i tuoi difetti ed i tuoi pregi come è giusto che sia quando si ama, perché i tuoi sono i miei; e sono certo che migliorando i miei ti farei contenta. Vorrei per te un futuro migliore più di quanto tu possa immaginare, come un padre con il proprio bimbo. Vorrei che tutti ti amassero come io ti amo e ti apprezzassero come io ti apprezzo.


Ode a Longi

Policroma tela stellata

nel grembo di contrafforte

di antica rocca

patria ritrovata

di lacedemone stirpe

da cui

Tu

discendi

sei l'estasi di chi approda

alle tue sponde.


Anche se mani sacrileghe

e venali hanno cancellato

l'antico retaggio

di architettoniche visioni

da mostrare

al colto ed all'inclita

rimani nella mia memoria

di fanciullo

il bello

del vecchio borgo.

Con i suoi vicoli a ciacata

con le lamiedde tra le case

ma anche dentro quelle vecchie

con il tetto formato da canne

eredità medievali.

Con le sue fonti

nei rioni

con i lavatoi

dove giovani fanciulle

cantando

lavavano i panni.

Con il suo teatro di pietra

dove mio padre ed i suoi compagni

dilettavano la gente

onorando la cultura.

Il vecchio Monumento ai Caduti

con la vasca di pesciolini rossi

il Vignalazzo

dove giocavamo

nascondendoci sotto i ficarazzi.

Impiantito sterrato

dove calciavamo

ed il fluire lungo il Corso

con grezze carrozzelle

su logori cuscinetti

da noi

meccanici in erba

realizzate su assi assemblate

con freni precari.

Ricordi di un tempo

“Travu longu”

all'antico Serro

con notturne chianote

accompagnate da una

stonata chitarra.

Rammento

le povere case

senza cemento

dove regnava amore

ed un sereno defluire

del tempo

tra il razzolare di pulcini con la chioccia

sotto l'amorevole sguardo

della nonna.

Quante quartare rotte

sfuggite dal capo delle donne

dopo aver attinto

il prezioso liquido

presso le rionali fontane

h. 24.

Il primo bacio

adolescente

dal sapore di ciliegia

in quel buio “Ponte”.

I cento colpi

di mezzodì

ch'io feci ripristinare

dopo lungo silenzio.

A te

vetusto paese

di leggende e di storia

questo canto d'amore

da un menestrello errante.

A voi

miei genitori

a voi

miei avi

giunga il mio bacio

nell'avello

ultima dimora

nel nostro montano borgo.


Tu

viandante

ammira le bellezze

che la natura ha sparso a piene mani

ovunque volgerai lo sguardo

o indirizzerai il tuo cammino.

Diapositive

che scorrono nella visione vivida

di quelle mura

che udirono

il mio primo “canto”

spandendolo nei vicoli

della mia

Longi.


Tu

residente ancora

che hai avuto la fortuna

di vivere in questa nostra

prediletta terra natia

amala

difendila dalle brutture

studia la sua storia

affinchè da essa

possa apprendere

il bello ed il brutto del suo passato

per farla vivere

nel tradizionalismo

di chi

la vuole bella ed amata.

26 03 '21

 Silloge d’atmosfere di moti dell’anima


Ode a Gio’

 

Son cento giorni

che non odo più le tue parole.

Nel tuo letto di dolore

t'han tolto pure l'unico filo

che ci teneva uniti

nell'obbligata lontananza

per questa invasione

d'un nemico sconosciuto.

 

Ho saputo che la tua vita

è appesa al filo della Parca

a cagione della tua grave condizione

per un impossibile intervento

su un nefasto male.

Potessi almeno venire a trovarti

per guardarti negli occhi

per accarezzare la tua mano

per un lieve bacio

per parlarti ancora d'amore.

Ma la mia salute non consente

il lungo viaggio

e, poi, c'è questo maledetto virus.

 

Non so se tu ed io

potremo tornare a guardare

insieme il mare di Cefalù.

A proposito

oggi sono andato a respirare

la salsedine

mentre la serena onda

veniva a riva.

C'era una giovane coppia

sulla battigia

distesa al sole vespertino

sulla rena ancora fredda:

discutevano

e di tanto in tanto si abbracciavano

così

dolcemente

per scambiarsi un fuggevole bacio.

 

Ricordi?

Anche noi ascoltavamo

”u scrusciu du mari”

nel notturno arenile sul Tirreno.

E parlavamo

di quando ci siamo conosciuti

nella giovane età

dei tuoi vent'anni.

I lunghi viaggi per stare insieme

qualche giorno

od anche poche ore

come in quel san Valentino gelese.

Il distacco imposto

il lungo silenzio

e, poi, ritrovarsi

dopo oltre trent'anni

con il tremolio delle gambe

ed uno strano dolore addominale.

Poteva essere

la realizzazione di quell'incompiuto sogno

interrotto su quella piazza della tua marina,

che uccidemmo, o io non volli.

 

Dopo lunghi anni di silenzio

ti ritrovai

e abbiamo vissuto insieme

a tratti, lungo sei anni,

che quel maledetto covid interruppe.

 

Ora siamo qui,

tu che non sai se tornerai

a cantare e sorridere

tra le tue pareti,

io, malato e stanco,

da non sapere se potrò ancora

vedere la mia residenza di montagna.

 

Vorrei tanto ricevere tue buone notizie

vorrei poterti parlare per dirti:

“coraggio, amore mio, ce la farai”.

Affido alla brezza del vento

la carezza di un bacio

perchè solo lui nel sereno etere

può venire a deporlo

sulle tue labbra.

18 03 '21

 

Poi, invece:

 

 

 

Necrologio per Giò

Non ho mai amato nessuna come te.

Metti un cuscino accanto

al tuo bel volto:

dormiremo insieme nel

“paradiso perduto”.

 

COSI’ 

di Nino Vicario


ODE A GIO' - Un "pianto" nei "rimpianti" quello del Poeta che si dilania l'anima al pensiero che "sono cento giorni che non odo più le tue parole...". Gio' è lontana, non ritorna sulla riva del mare di Cefalù come vorrebbe Gaetano, è in viaggio verso un mondo inesplorato; non ritorna nemmeno in quella piazza della sua marina, incolpevole testimone di un sogno che moriva per mano di una vigliacca titubanza (…o io non volli!). La diafana Gio’ non dimentica, riemerge nell'Oceano dei sogni che, riflessa nel vortice di procelle impazzite, si mostra in tutto il suo splendore muliebre al suo uomo che, stordito, “affida alla brezza del vento la carezza di un bacio”.

(Dal mio libro: Il romanzo della vita di un errante)



























Appendice























Album fotografico




Le 2 case degli antenati. Quella di sx è listata a lutto per la morte di mio padre e del prozio Luigi (Anni 1941/42). Su quella di dx, c’era una grande epigrafe (poi eliminata) con una frase fascista perché appartenevano a quel nefasto partito mio nonno, mio zio Lugi e mio padre, che era il comandate dei giovani fascisti del luogo.

 




                            Mio padre Carlo e mia madre Alfonsina Corrao




















Mio nonno Gaetano e mia nonna Caterina Mondì

                          































Infante con i miei genitori, nel 1939















 






Maria, la mia prima moglie, e la mia seconda consorte, Lorenza Eleonora, in arte Lorenz




                             

Da sx: i miei figli Caterina e Carla e sotto Alessandro e Ivana

                                     




19688.  Messina. Alla guida del corteo unitario CGIL; CISL UIL durante uno sciopero dei postelegrafonici


         1963. Direttore del giornale sindacale messinese “Il Corno” e, sotto, nel 1971, durante l’intervista al Prof. Nino Arcoraci, Primario del reparto di Endocrinologia dell’Ospedale Piemonte di Messina, per conto del giornale “Coerenza”.
















1974 Cefalù. Il primo comizio sindacale unitario, in assoluto, UIL CGIL e CISL, e rimasto unico nel tempo, in piazza Duomo, per una manifestazione proposta da me, quale Segretario confederale della UIL locale, per l'occupazione lavorativa ed altro. Io sono il primo a sinistra.

Dopo che andai via da Cefalù, tutto rimase lettera morta























Inaugurazione del nuovo ufficio postale di Cefalù mentre ero Segretario regionale della UIL Post




1976, Lignano sabbie d’oro. Il mio intervento al Congresso Nazionale della Uil-post, il primo meeting cui partecipai quale giovane dirigente sindacale.












                       














SSanremo,1993, teatro Ariston, dove si celebra il Festival. 

                  Componente la Presidenza del Congresso nazionale della UIL post


             

1993. Mia relazione al Congresso regionale, a Capo d’Orlando, l’ultimo da me celebrato








Congresso Catania, 1989.

Da sx. Con il Segretario generale della UIL Post, il Ministro della Difesa, On. Salvo Andò, ed altri.



 





 





Il mio Maestro… “sindacale”, Avaldo Sarti, Segretario Generale della UIL Post, al primo congresso siciliano da me organizzato a Cefalù, nel 1973.

                                                        Sindaco di Longi


  








!994. Alla mia prima processione del Patrono del paese. La fascia tricolore, da me indossata, doveva avere la striscia verde all'interno della spalla di destra. Ma io ancora non lo sapevo. 



Con lo storico, il professore Don Gaetano De Maria, al convegno su Demenna presso il Castello medievale di Longi





Consegna del quadro di S. Leone bizantino al Castello di Milè durante la manifestazione per l’elezione della Lady Castelmalè











Anno 2000, Palermo. Vincitore del Primo premio della poesia “Vorrei” con conferimento della coppa del Presidente della Regione Sicilia, organizzato dal Centro studi Bonsignore
















2013. Presentazione del libro “Alle pendici delle Rocche” presso il Castello di Longi


   









                                               




                Presentazione del mio romanzo “I Castelmalè” presso il Castello di Milè, anno 2001
















Inaugurazione del Monumento all'Emigrante Longese, presso il Belvedere Serro, l’8 settembre dell’anno 2015

Premio “Auser” 2015 per la poesia “Il Vento del mondo”















Convegno del Partito Socialista Siciliano


            Con il socialista Sen. Biscardini, e  l’Assessore Comunale Caterina Provenza
































Nelle pagine seguenti,

alcune lettere

















Clara Sarti era la moglie del Segretario generale della UIL Post













Nelle pagine successive,


alcuni ritagli di articoli


dagli organi di stampa




































































Testate giornalistiche

da me dirette

o a cui ho collaborato 

 




Reperto del primo numero de “Il Corno” presso la

Federazione Prov. UILPost di Messina

























































































A VOLO D’AQUILA …

Alcuni miei articoli da giornali on-line




Dall’organo di stampa del Partito Socialista Siciliano




Documento approvato il 21 maggio

1 giugno 2015 / PSS 


Giorno 21 maggio 2015, a Palermo, presso le ex Scuderie di Palazzo Cefalà in via Alloro n°99, si è tenuta l’assemblea regionale del Partito Socialista Siciliano per un esame della situazione politica regionale. Con l’occasione sono stati ricordati i 120 anni del congresso dei Fasci Siciliani, da cui è nato il Partito Socialista Siciliano. Alla fine del dibattito, è stato approvato il documento di seguito pubblicato, estrapolato dalla relazione introduttiva tenuta da Gaetano Zingales, Segretario Regionale Organizzativo.


La crisi economica e finanziaria, che ha colpito il mondo occidentale l’Europa ed il nostro Paese, si abbatte sulla nostra Regione con maggiore virulenza visti i mali atavici che caratterizzano la Sicilia, aggravando ancora più le già preoccupanti condizioni di difficoltà e di disagio della nostra popolazione. Lo scontro in atto in Europa tra quanti vogliono portare avanti una politica a vantaggio degli interessi delle banche e dei mercati finanziari, causando licenziamenti di massa ed aumentando i livelli di povertà delle fasce più deboli della società, e quanti sostengono una politica di sviluppo, di occupazione, di difesa dello stato sociale e dei più deboli ampliando la base produttiva e tagliando i privilegi delle varie caste, grazie all’acquiescenza del Presidente del Consiglio, vede perdenti questi ultimi. Le forze europee della conservazione da tempo portano un attacco alle zone deboli dell’unione che tendono a divenire sempre più deboli e marginali.

È necessario, di conseguenza e per quanto ci riguarda, fermare il processo di marginalizzazione della Sicilia e di impoverimento delle sue popolazioni, mettendo in campo tutte le energie capaci di sensibilizzare le forze sane e produttive dell’isola per affermare con dignità un ruolo di centralità economica e politica in ambito italiano ed europeo. Occorre rilanciare, pertanto, la nostra presenza strategica nel Mediterraneo, forte della sua Storia, delle sue tradizioni, delle sue ricchezze naturali paesaggistiche, del suo ingente patrimonio culturale essendo uno tra i più grandi bacini di beni culturali in grado di produrre una inversione di tendenza dal punto di vista economico utilizzando in pieno lo Statuto Speciale Siciliano valorizzando la Autonomia Regionale non più come palla di piombo al piede bensì come grande opportunità di sviluppo e di crescita economica e sociale della nostra terra.

Il Partito Democratico ed il presidente Rosario Crocetta hanno disatteso le speranze di rinascita della Sicilia. È, infatti, di una lapalissiana chiarezza il disfacimento politico, culturale, programmatico del PD in Sicilia, ridottosi ad una babele di gruppi e sottogruppi, i cui esponenti pensano soltanto a rafforzare le proprie posizioni personali utilizzando i vecchi e collaudati sistemi clientelari di democristiana memoria, non curanti delle conseguenze etico morali e giudiziarie, in balia di delirio di onnipotenza. I dirigenti del PD siciliano fanno parte, ormai, della corte di un uomo solo al comando, personificato dal loro Segretario Nazionale impegnato nella costruzione del Partito della Nazione. La volontà del leader viene imposta, attraverso i suoi fedeli sodali, nella gestione politica ed amministrativa della Regione Sicilia. Appropriazione di risorse economiche spettanti alla regione, in violazione dello Statuto Autonomistico, boiardi romani inseriti nella Giunta Regionale, Commissari per la gestione di settori, tagli nei finanziamenti di opere infrastrutturali e dei collegamenti viari sono alcune delle deprecabili “attenzioni” da parte del Governo nazionale nei confronti della nostra isola.

In Sicilia, abbiamo avuto ed abbiamo ancora, un governo regionale che non difende i diritti derivanti dallo Statuto Autonomistico, che si è lasciato carpire dal governo centrale, e si lascia rubare i fondi e le entrate che spettano di diritto alla regione siciliana. Una regione che registra oltre il 50 per cento di giovani disoccupati, che ha famiglie che non arrivano, con le loro entrate mensili, alla fine del mese, che conta un numero elevato di precari i quali non sanno quale sarà il loro futuro, che vede, impotente, la chiusura di aziende e botteghe artigiane, che non hanno gli strumenti di come affrontare il domani.

La Sicilia ha un urgente bisogno, quindi, di una classe dirigente capace, colta, professionalmente preparata in grado di intestarsi una politica riformista di reale cambiamento che coniughi efficienza, efficacia, legalità. Una classe dirigente autonoma e non succube dei diktat romani. Una classe dirigente che sappia utilizzare l’importante strumento in grado di promuovere sviluppo, crescita, occupazione qualificata, che è rappresentato dai finanziamenti europei.

Una seria politica di investimenti deve avere come asse centrale di riferimento la realizzazione di una rete viaria interna che colleghi in modo veloce non solo le città ma anche l’interno dell’isola con la costa, nonché i centri abitativi da occidente ad oriente, da nord a sud.

La Sicilia è, come purtroppo sappiamo, una regione ad alto rischio sia dal punto di vista sismico che del dissesto ambientale territoriale. Una politica di prevenzione oggi non esiste, il settore della bonifica e della forestazione è visto come strumento assistenziale – se non clientelare – per garantire lavoro periodico ai braccianti ed ai forestali: con siffatta determinazione episodica si commette un grossolano errore perché non si attenzionano i danni che questi lavoratori eviterebbero con il loro lavoro, impegnato specializzato e continuativo, al nostro territorio, alle popolazioni ed alle casse della Regione. Bisogna aggredire, quindi, le storture a monte causate dalle scelte di bilancio che non sono mai in linea con i tempi della programmazione dei lavori; nello specifico, bisogna dare vita a progetti come fattore di difesa e salvaguardia del territorio e occasione di nuova e qualificata occupazione.

Il Turismo oggi non è per niente un fattore di sviluppo economico della Regione. Primo, perché le scelte degli operatori del settore sono vecchie ed improntate più alla speculazione sui prezzi praticati ai clienti anziché a scelte di qualità: vedi itinerari turistici o proposte complete di utilizzo delle ricchezze paesaggistiche del territorio che esaltano la storia della Sicilia in tutt’uno con la conoscenza del patrimonio artistico e culturale presente in tutti i centri significativi che rappresentano il nostro vissuto, insieme a ciò che la natura ci offre: il mare, le nostre montagne con i loro magnifici borghi e le iniziative culturali ed eno-gastronomiche, nonché le presenze artigianali. Il loro insieme costituiscono le eccellenze siciliane. È necessario cambiare “verso” per rendere il turismo regionale competitivo e appetibile in quanto la Sicilia è diversamente più bella rispetto ad altri poli turistici del nord Italia, laddove, però, le peculiarità vengono sfruttate al meglio per attrarre il flusso turistico, fonte di economia.

Una sintetica lista delle necessità irrisolte della nostra regione vede l’emergenza lavoro, come prioritaria; infatti, addentrandosi nelle pieghe del bilancio della Regione Siciliana, non si vedono risposte allo sviluppo produttivo dell’isola perché una massa di debiti di svariati miliardi vieta qualsiasi progetto che impedisca, tra l’altro, l’emorragia di menti e braccia di lavoro. Eppure, per risolvere in parte gli annosi problemi dei siciliani, sarebbe stato sufficiente applicare letteralmente lo Statuto autonomistico, pretendendone, altresì, il rispetto, da parte del governo centrale, delle norme “privilegiate” per incrementare le entrate della Regione attraverso ciò che il territorio produce e che dovrebbe rimanere statutariamente nella cassa regionale. Ma così non è stato, e non lo é. Le colpe? Senz’altro di una classe politica dirigente che, da decenni, ha governato la nostra regione.

In atto, due emergenze stanno mettendo a terra il nostro territorio insulare.

Il crollo del tratto dell’autostrada Palermo-Catania, che ha prodotto danni incalcolabili alla popolazione costretta a usufruire di quell’arteria, ha messo a nudo le insufficienze e la responsabilità a carico di ciascun organo di governo e di controllo delle strade. Alla luce di questo vissuto, il Partito Socialista Siciliano ritiene indispensabile la nomina d un Alto Commissario per superare gli ostacoli frapposti dalla normativa vigente e dalla burocrazia, regionale e nazionale.

Contestualmente, per la realizzazione, in tempi brevi, della bretella di congiungimento all’arteria interrotta sarebbe appropriato affidare i lavori al Genio Militare. E ciò per impedire lungaggini di gare di appalto ed ingerenze… poco trasparenti.

Ed ancora, attraverso lo stato di calamità, dichiarato dal governo regionale, occorre eliminare urgentemente l’insufficienza del collegamento viario e ferroviario esistente tra nord e sud, tra est ed ovest dell’Isola.

Si può fare, però, ancora di più. È possibile, secondo le normative vigenti, dichiarare “Zona franca” tutto il territorio isolano evidenziando il collasso dell’economia, le complesse precarietà e disagi, nonché i danni socio-economici inferti alla popolazione. Molteplici sarebbero i vantaggi che ne deriverebbero. Per citarne solo due, a mo’ di esempio, vi sarebbe la possibilità di rimuovere il pagamento del pedaggio autostradale sulla Palermo-Messina e sulla Messina-Catania e, contestualmente, di abbassare le accise sui carburanti per una loro diminuzione del prezzo alla vendita presso i distributori. Va da sé che questi due indilazionabili provvedimenti bloccherebbero l’aumento dei prodotti al dettaglio affidati alla distribuzione su gomma. Di cui già s’incominciano a subire gli effetti deleteri per il consumatore.

Il Partito Socialista Siciliano, infine ma non per ultimo, pone la necessità, nella nostra regione, del rilancio della Autonomia e dello Statuto siciliano alla luce oltretutto del risvegliarsi da più parti di istanze e rivendicazioni autonomistiche. Anche in questo caso, il PSS ribadisce l’esigenza di un confronto con tutte le numerose forze autonomiste e sicilianiste esistenti nella nostra regione per ricondurre ad una sintesi unitaria le loro aspirazioni e le loro rivendicazioni nella riproposizione e nel rilancio dell’istituto autonomistico regionale e della identità del popolo siciliano.

Noi, socialisti siciliani, siamo solidali con i lavoratori che hanno perso o stanno per perdere il posto di lavoro, siamo con loro nel momento in cui scendono in piazza per rivendicare i propri diritti, un tozzo di pane quotidiano, siamo con loro nel momento in cui subiscono le cariche ingiuste delle forze di polizia. Siamo accanto ai cassaintegrati, ai cosiddetti esodati ed ai lavoratori che rischiano il licenziamento perché ritenuti in esubero rispetto alla pianta organica aziendale.

Sentiamo, altresì, il dovere di rivolgere il nostro pensiero commosso, un pensiero di umana solidarietà, un pensiero di dolore a coloro i quali hanno perso la vita, hanno messo fine alla propria esistenza di fronte all’impossibilità di affrontare la drammatica situazione economica familiare o della propria azienda oppure la disperata condizione di non potere pagare la massa di debiti, a qualunque titolo, derivanti dal vortice della crisi economica.

Noi socialisti siciliani non possiamo accettare che si perpetuino le condizioni di dolore umano vissuto dal quasi ottanta per cento della popolazione italiana mentre il restante venti per cento ingrassi il proprio patrimonio perché il programma economico del governo e dell’Europa è dettato da questa percentuale, minoritaria ma con un forte potere. È l’ora che il povero Pantaleone soltanto non paghi pesantemente la crisi in atto, il cui tunnel non vede ancora la luce. Non s’intravvede un barlume di speranza che la tendenza deflazionistica possa essere invertita perché sin quando la tedesca Merkel ricatterà l’Unione Europea e continuerà a dettare i diktat di austerità, l’Italia, con un capo di governo populista ma che razzola male, continuerà a subire le imposizioni dell’autorità europea.

Non rimane altro a noi socialisti che chiamare all’appello tutte le forze pure e riformistiche affinché si facciano protagoniste di un processo rivoluzionario, nel senso democratico del cambiamento, affinché la giustizia sociale possa tornare ad avere titolo nel nostro Paese e nella nostra terra siciliana.

Per quanto ci riguarda, come socialisti siciliani, invitiamo le varie anime socialiste e socialdemocratiche siciliane affinché abbia termine la diaspora che ci vede divisi in gruppi e gruppuscoli ed insieme si possano affrontare i bisogni e le aspettative della nostra gente. Ciascuno di noi dovrà rinunciare ad una parte del proprio bagaglio ideologico affinché l’unico cemento unificante possa essere il perseguimento – ripetiamo – della giustizia sociale e della solidarietà.

Riteniamo ineludibile, quindi, l’urgente costituzione di una rete di coordinamento della sinistra, che veda insieme partiti a sinistra del PD, associazioni e gruppi politici, nonché movimenti autonomistici per una attiva presenza tra le classi sociali siciliane attraverso la elaborazione di programmi e di piattaforme tematiche che riguardino gli interessi collettivi della popolazione, che attenzioni i giovani, i disoccupati, le famiglie, le variegate presenze produttive e che porti avanti l’applicazione integrale dello Statuto Autonomistico della Sicilia.

Il costituendo organismo collegiale dovrà essere il più possibile includente, in modo tale da non essere di ostacolo all’aggregazione di chiunque voglia partecipare a questo impegno collettivo e lasci liberi i partecipanti di continuare ad esternare i propri principi politici ma impegnandosi per una elaborazione progettuale che individui i punti comuni di una azione collettiva e ne rispettino i contenuti che saranno deliberati.

La nostra proposta è quella che, nella fase costituente, l’organo di direzione potrebbe assumere la denominazione di Coordinamento regionale formato da due o tre rappresentanti di ciascun organismo associativo partecipante al patto federativo. Il quale, in breve tempo, dovrebbe indire un apposito congresso regionale o conferenza di organizzazione, per la approvazione definitiva del nuovo organismo politico, congiuntamente al programma politico ed organizzativo. Potrà essere ammessa la doppia tessera: quella del nuovo organismo unitario assieme a quella dell’organizzazione politica di appartenenza.

Non c’è chi non veda l’esigenza di una voce unitaria della sinistra nel panorama sociale e politico della regione: una voce isolana che parli alla gente attraverso proposte che guardino ai bisogni di una terra con esigenze diverse rispetto al resto dell’Italia, un organismo politico siciliano che faccia sentire la sua voce affinché lo Statuto Autonomistico venga applicato; un socialismo che torni alle sue origini di riformismo e di impegno per le battaglie sociali; un patto sociale che difenda le classi deboli e che sia accanto alle giovani generazioni soprattutto, le quali, in Sicilia, hanno toccato, come detto, l’apice del cinquanta per cento della disoccupazione; un socialismo, la cui azione prenda le distanze dall’appiattimento ideologico dei partiti che si proclamano “progressisti”; un socialismo , diversamente autonomo, che porti avanti la “ questione siciliana”, che è peculiare di questa terra, la quale dall’unità d’Italia in poi è stata ghettizzata perché considerata terra di conquista e , quindi, alla stessa stregua di una colonia.

Nemmeno durante la dominazione araba la Sicilia ha conosciuto un periodo così buio. Anzi, tutt’altro! 

È imprescindibile, quindi, che noi, della sinistra siciliana ci rimbocchiamo le maniche per federarci in un organismo di lotta e di proposta per il governo della Sicilia.

È il momento di partire. Ora e subito, per uscire dal “feudalesimo politico” decennale della Sicilia.










La comunicazione, baluardo di democrazia.



     Insopprimibile è stata la voglia di sapere, sin da quando la specie umana si è evoluta nello stadio del cosiddetto “homo sapiens”, peraltro quello attuale, e nel momento in cui sono stati inventati, il linguaggio, prima, e la scrittura, poi. Dagli antichi aedi, attraversando le varie epoche, si arrivò, per quanto riguarda l’Italia, al secolo XVII in cui nascono i primi “Fogli”, al XVIII con le locali “Gazzette”, ai fogli non periodici del 1800 ed, infine, ad iniziare dal 1900, ai quotidiani veri e propri.

Negli anni, a cavallo tra la prima e la seconda guerra mondiale, ma anche immediatamente dopo, l'informazione cartacea veniva “utilizzata” da ceti più abbienti e dalla persone acculturate. Col progredire della cosiddetta globalizzazione, la informazione, evolvendosi attraverso strumenti informatici, si espanse anche alle fasce del ceto medio-basso. Ai cui appartenenti non necessariamente occorreva comprare un tabloid, in quanto i mass media ed i network, utilizzando la realtà virtuale e la rivoluzione di internet, arrivarono in ogni angolo del pianeta.

E' verosimile ritenere che, con siffatto innovativo evento di libera circolazione delle idee e delle informazioni, nei luoghi in cui la libertà consente di intessere libere relazioni - non condizionati, quindi, da regimi autoritari – la democrazia può definirsi compiuta.

La comunicazione, quale mezzo di informazione, deve essere obiettiva, trasparente, nel rispetto delle cinque regole del giornalismo internazionale – chi, come, quando, dove e perché -, ma, soprattutto, non può essere discriminatoria o di parte perché in tal caso storcerebbe la verità.

Il cronista ha un'arma nelle mani, la penna, che deve saper gestire perché le parole sono pietre. Egli, professionalmente, vive camminando sul filo del rasoio, come suol dirsi, in quanto, avendo il dovere di far sapere ciò che è “bello e buono”, ma anche ciò che di “brutto” ed illegale accade, quindi non solo di attualità socio-politica, corre il rischio di imbattersi in qualche querela per diffamazione. Ma se la notizia è quella giusta e racconta la verità, egli, il cronista, non ha nulla da temere: la legge gli darà ragione.

La comunicazione è, inoltre, uno strumento importantissimo nella Pubblica Amministrazione se si vuole che essa sia una “casa di vetro”. Negli ultimi trenta anni, il Paese ha disciplinato la possibilità di accesso agli atti ed ai documenti della P.A., abolendo il segreto d'ufficio. Si è raggiunta, quindi, la trasparenza amministrativa attraverso la quale tutti i cittadini possono essere informati e chiedere il rilascio di copie di documenti agli atti della stessa.

Bandi di gara nei pubblici appalti, conferimento diretto di incarichi alla persona, quando previsti, regole chiare nei concorsi e negli arruolamenti di personale, precario e non, pubblicizzazione di sentenze della Magistratura sono atti che attengono alla trasparenza amministrativa ed alla conoscenza da parte del cittadino.

 Nei comuni, con l'affissione di atti e provvedimenti dell'Amministrazione nell'apposito Albo Pretorio, esisteva già una forma di comunicazione ma che si è perfezionata con la creazione di specifici siti internet istituzionali, i quali, peraltro, sono entrati negli enti locali regionali e nelle branche delle varie Amministrazioni ed istituzioni dello Stato.

Oggi, parecchi personaggi, che amministrano la “res pubblica” hanno una propria pagina internet: anche questa è una forma di comunicazione, che arricchisce i momenti di democrazia partecipativa.

La tecnologia, la scienza, la ricerca, attraverso i “networking”, le reti televisive hanno “informato” e fatti crescere, dal punto di vista della democrazia e della libertà, i popoli della terra.

La prossima tappa, probabilmente non lontana, sarà quella di dialogare con altri popoli, non necessariamente alieni, dell'Universo.






LE DIVERSE MASCHERE DELLA VIOLENZA


La violenza ha un millenario antenato con il volto dell'omicida. Caino era un bruto che adoperava le mani come una clava per uccidere.

I figli di Caino hanno sparso il loro seme in questo tormentato globo attraverso e dopo il rapporto incestuoso tra Caino e sua madre, Eva.

 Abele, il buono, non poté avere figli. Presumibilmente, quindi, una cellula impazzita del DNA del Male, che portava i cromosomi ereditari dei primi progenitori, sfuggita all'evoluzione naturale, perse i caratteri somatici preponderanti del genitore maschio e diede vita ad una placenta che racchiudeva il tenue seme del Bene.

Il Bene ed il Male, quindi, hanno antenati che risalgono alla notte dei tempi.

 Gli epigoni di Caino vorrebbero dominare sulla vita di coloro che intersecano la loro strada e, quando qualcuno vi si oppone, scatta l'incontrollata ragione della violenza, che, appunto poiché senza controllo, potrebbe sfociare nella morte del povero malcapitato. Altri, novelli barbari, sono invasi dal sadico piacere di vedere soffrire un poveraccio malmenandolo ferocemente sino a procurargli la morte.

 Quando un violento, pertanto, uccide dovrebbe essere escluso immediatamente dalla società civile ed emarginato a vita, attraverso la reclusione fisica, per non potere più arrecare del male o uccidere esseri innocenti.

   E' sempre esistita, ahimè, la violenza nella genia della razza animale, sia esso uomo raziocinante oppure bestia selvaggia, sin dai lontani millenni, ma nell'era odierna si è accentuata e/o si è camuffata sotto le mentite spoglie del dio denaro, dello spaccio della droga, delle promesse illusorie per accattivarsi la buona fede di un individuo, la disponibilità e l'amicizia di gente per bene, che s'incontra, anche, imprevedibilmente e che, probabilmente, necessita di qualcosa.: amicizia, solidarietà, sostegno morale o materiale, uscire dalla solitudine e talvolta anche amore.

  Ma c'è un'altra forma sottile di violenza, che passa attraverso la cattiveria somatizzata nelle cellule del sistema nervoso di taluni soggetti, laddove coesisterebbe la doppia personalità dell'amore e dell'odio, del bene e del male, personalità individuale sdoppiatasi verosimilmente dopo essere stati oggetto di forti traumi, che abbiano colpito il corpo e l'animo. E' anche, questa, un’altra faccia della violenza strisciante, psicologica, e pertanto ambigua, la quale, dopo avere ottenuta la dedizione totale dell'individuo, mostra il suo vero volto, dal ghigno omicida, e colpisce con la sua lama avvelenata. E' la violenza dai diversi volti, ma sempre figlia di quel tal Caino.

 Mi sovviene il comportamento dell'ape regina, la quale dopo l'accoppiamento col fuoco - doloroso per l'ape maschio perché subisce una sorta di evirazione - lo uccide: una forma di violenza in natura.

La violenza non ha mai fine, quindi?

















Perché c’è bisogno di socialismo




17 agosto 2013 / PSS /

Riceviamo e pubblichiamo una riflessione del compagno Gaetano Zingales, presidente del Circolo socialista “Monti Nebrodi” e componente del coordinamento regionale del Partito Socialista Siciliano.


Il governo di centro-sinistra degli anni novanta – pur nelle difficoltà delle convergenze politiche – riusciva a rispondere alle esigenze della nazione: il tasso di disoccupazione rientrava nei limiti della sopportabilità, i servizi sociali, pur annaspando, riuscivano a svolgere un ruolo che la gente, tra i necessari mugugni, accettava e sopporta, la lira era quotata bene, l’Italia era tra le prime sette nazioni a livello mondiale, le famiglie vivevano dignitosamente.

L’annientamento dei partiti, che avevano restituito all’Italia la dignità di nazione libera e democratica, consegnò la gestione politica ed economica nelle mani di un governo di centro destra, che, nel volgere di qualche lustro, stravolse il modo di vivere delle persone comuni. Le aziende cominciarono a licenziare lavoratori, ma non si tirarono indietro neanche quelle a capitale pubblico pur di sanare i loro bilanci, l’avvento dell’euro diede la mazzata finale alle tasche della gente, i “furbi” (esercenti, commercianti, artigiani) con grande noncuranza, chiesero un euro (quasi il doppio della lira) per un prodotto o un lavoro che prima costava mille lire. La crescente disoccupazione e l’impennata del costo della vita avviarono l’Italia verso la crisi economica e sociale, tuttora in “auge”. La finanza nazionale, al seguito di quella internazionale, ritenne “doveroso” di accentuare la politica di difesa “criminogena” dei propri interessi condizionando pesantemente il costo del denaro e la politica economica del Paese. Il freno ai rinnovi contrattuali di categoria ed il blocco delle pensioni all’aggancio annuale della dinamica della scala mobile colpirono il ruolo dei sindacati confederali, i quali si sono trovati impotenti nella rivendicazione dei sacrosanti diritti dei lavoratori e degli ex lavoratori in nome degli editti della classe politica al timone, che predicava il contenimento dei salari e delle pensioni in nome della grave crisi economica e del debito pubblico. Ma nulla ha fatto, quella stessa dirigenza politica, di fronte allo scandalo delle pensioni d’oro per manager e boiardi dello Stato. I fenomeni tangentizi, di corruzione, di comportamento amorale e di allegro stile di vita da parte di alcuni personaggi delle istituzioni, conobbero il loro fertile brodo di coltura superando il livello di quelli scoperchiati dal cosiddetto periodo di “mani pulite”.

Una simile congerie di pesante realtà e di comportamenti anomali ha condotto gli italiani alla disaffezione verso i partiti politici. Ne è una chiara prova la bassa percentuale di elettori che si recano al voto. A cui occorre aggiungere il cosiddetto voto di protesta in favore di neo-formazioni e movimenti politici.

Oggi, l’Italia è ancora in piena crisi economica e politica nonostante i decenni trascorsi in tale stato di fatto. La disoccupazione giovanile, e non, ha toccato i più elevati parametri dal dopoguerra in poi, le famiglie monoreddito non riescono a mettere insieme pane con companatico sino alla fine del mese, la povertà è entrata in molte case di italiani che prima avevano la fortuna di permettersi un dignitoso tenore di vita, i servizi socio-sanitari e quelli dell’ambiente, che realizzano la qualità della vita di ogni comunità, sono entrati nell’occhio del ciclone di ogni cittadino.

La Sicilia è tra le regioni che più pesantemente ha subito le conseguenze di una cattiva gestione della “cosa pubblica”, la quale si è abbattuta soprattutto sui giovani in cerca di lavoro. Non stiamo qui a rammentare le notizie dolorose che giornalmente la cronaca locale ci fornisce, che sono lo specchio di una pesantissima situazione di disagio sociale.

C’è un “grido di dolore” che viene dal basso e che invoca giustizia sociale, che chiede di lavorare nella propria terra, la qualcosa agevolerebbe tra l’altro la possibilità di formarsi una famiglia in età ragionevole e, soprattutto, eviterebbe il dolore di dovere emigrare, fuori dai confini della nazione siciliana, divenendo un emarginato in una regione del nord, se non in terra straniera. Non ritengo una forzatura o un termine inappropriato nel definire la Sicilia una nazione sia per la sua millenaria storia, che tale l’ha tipizzata, sia perché dotata di uno Statuto, che, se interamente applicato e rispettato, potrebbe favorire una gestione autonoma delle proprie risorse e di quelle di provenienza statale ed europea. Ma così, purtroppo, non è.

Ritengo, quindi, una felice intuizione quella di ridar vita alla formazione del Partito Socialista Siciliano, che, nelle sue finalità, vuole sposare i valori del socialismo – quelli appunto della giustizia sociale, della solidarietà, del lavoro, dell’uguaglianza – a quegli altri insiti nei movimenti e partiti indipendentistici per la piena applicazione dello Statuto Siciliano. Fare cioè gli interessi dei siciliani magari scontrandosi con il potere centrale. Un compito arduo senz’altro che, a tratti, collide con il coinvolgimento di coloro che coltivano un proprio orticello sognando di gestire una qualche forma di potere. Ma occorre convincersi che è primaria un’azione comune in difesa del bistrattato popolo siciliano. Ogni orgoglio di bandiera deve incontrarsi con i valori del socialismo calati nella terra di Sicilia.

Il progetto del Partito Socialista Siciliano, che uscirà dal futuro Congresso Regionale, dovrà comprendere – a mio modesto parere – l’incontro con le forze autenticamente autonomistiche e con le varie anime locali, nelle loro multiformi declinazioni, che si richiamano all’ideologia socialista. Ritengo, pertanto, che sia opportuno, a tempo debito, promuovere una convention dei soggetti politici summenzionati, dalla quale possa uscire una volontà unitaria di lottare per la Sicilia ed i siciliani con l’adozione di una piattaforma programmatica da realizzare nel breve e medio tempo. Non vanno esclusi, però, il dialogo e la convergenza su temi specifici attinenti agli interessi dell’isola con quei partiti politici disponibili a recepire le istanze autonomistiche e delle rivendicazioni socio-economiche della neo formazione partitica siciliana.

Mi piace concludere questa nota riportando il passaggio contenuto in una recensione di Teresa d’Aniello al saggio, “Diversamente ricchi”, del giornalista economico Carlo Patrignani, riferito al pensiero di un grande socialista siciliano: Riccardo Lombardi. Il quale descriveva una società laica dal volto umano con al centro la persona, la vita e il suo benessere,» una società fondata sul rapporto interumano e non sulla dimensione economica, rispetto al sistema capitalistico volto alla produzione e consumo di beni a forte profitto. Un modello che mirasse alla produzione di beni durevoli e al lavoro per tutti, alla piena occupazione, costruendo un sistema produttivo diverso in cui il lavoro venisse ripartito equamente fra tutta la popolazione. Una nuova concezione di progresso e di crescita»

È quello di cui hanno necessità la Sicilia ed i siciliani.

Per tutto quanto sopra scritto, si sente l’esigenza, da più parti invocata, di tornare ai principi del Socialismo Internazionale, libertario, autenticamente democratico, riformista e che persegue l’eguaglianza nella società dei poveri, dei meno poveri e dei ricchi. Principi, a volte razzolati dal maggiore partito italiano della sinistra, il PD, ma non praticati!

















Sull’abolizione delle province regionali

30 dicembre 2013 / PSS / 


Riceviamo e pubblichiamo una nuova riflessione sull’abolizione delle province del compagno Gaetano Zingales, presidente del Circolo socialista “Monti Nebrodi” e componente del coordinamento regionale del Partito Socialista Siciliano.



Lungi da me la pretesa di volere indicare un percorso, già irto di difficoltà costituzionali, parlamentari, giuridiche, amministrative ed economiche sulla riforma dell’ente intermedio dell’ordinamento regionale delle autonomie locali. Vuole semplicemente essere un contributo personale, il mio, una proposta dettata da trascorsa esperienza amministrativa e da attenta osservazione dei fatti e di tentativi di “riforme”, che attengono alla vita quotidiana, alla funzionalità dei servizi ma, soprattutto, al fattore umano ed a quello economico che incide sui bilanci del cittadino e delle famiglie.

L’art. 15 dello Statuto siciliano detta l’obbligo della istituzione del “libero consorzio dei Comuni” e non delle Province. Come muoversi, quindi, nell’intricata vicenda parlamentare che tenta una soluzione a siffatto dettato statutario? La questione economica di bilancio e di assegnazione delle risorse – i soldi si cercano e si trovano – viene dopo la definizione della nuova impalcatura dell’ente intermedio, che dovrà sostituire l’abolizione delle Province.

Ferma restando la previsione di istituzione delle tre grandi aree metropolitane di Palermo, Messina e Catania, cui demandare i compiti ed i servizi in assegnazione alle attuali province, questi ultimi, per i restanti centri urbani, potrebbero essere conferiti alle esistenti Unioni dei Comuni – il “piccolo” funziona meglio di una più vasta intelaiatura istituzionale – alle quali passerebbe l’onere di gestione dei servizi scolastici e dell’istruzione, dei lavori pubblici che inglobino la manutenzione delle strade, della gestione integrata dei rifiuti solidi urbani che non ripeta quella fallimentare degli Ato, del turismo nell’area comprensoriale, dell’agricoltura, della protezione civile, delle attività produttive, delle politiche sociali, dell’assistenza ai disabili, del commercio, della pianificazione interurbana ed urbana che preveda la eventuale conurbazione dei piccoli centri, il cui assetto specifico sarebbe da definire amministrativamente in loco.

Resta da definire l’aspetto più importante: quello che vede coinvolto in prima persona il fattore umano. Cioè, la gestione del personale in servizio – circa sei mila dipendenti – presso le strutture provinciali. Non è accettabile che si metta in ambasce quel lavoratore che si è costruita la propria vita intorno al suo posto di lavoro. Allo smantellamento delle province non può fare seguito il trasferimento (dove?) delle unità lavorative. Ritengo, pertanto, che questi lavoratori possano continuare a prestare la propria opera laddove attualmente svolgono il loro servizio attribuendo alla complessa struttura la gestione burocratica ed amministrativa delle città metropolitane e dell’Unione dei Comuni del rispettivo vigente riferimento territoriale. In pratica, “il contenente ed il contenuto” delle province regionali potrebbero essere trasformati in uffici (o dipartimenti) decentrati dell’Assessorato Regionale delle Autonomie locali.

Il tanto discusso, ma non secondario, fine della democrazia rappresentativa troverebbe la sua naturale collocazione nella gestione politica delle Unioni dei Comuni e delle città metropolitane, dove la presenza di cittadini eletti dalle rispettive comunità garantirebbe una maggiore aderenza con le esigenze locali ed un più puntuale intervento rispetto alla celerità dei bisogni e delle emergenze incombenti.

Assegnazioni di fondi, bilanci. funzionamento degli uffici sul piano amministrativo e della gestione finanziaria, rimborso spese dei rappresentanti politici ed eventuale appannaggio mensile per coloro che rivestono cariche esecutive negli organi in argomento rientrerebbero nelle problematiche collaterali, che vanno affrontate con obiettivo discernimento, avulso da dietrologie politiche.

Per concludere, è importante tenere conto di esperienze di assetto e di funzionalità dei vari enti ma avendo soprattutto presenti quelle che sono le esigenze quotidiane dei cittadini, del territorio, dei lavoratori; e non quelle dei politici di lungo corso.

“πάντα ῥεῖ” (tutto scorre) affermò Eraclito. Estendendo il concetto originario dell’aforisma filosofico, ancor oggi valido, possiamo riaffermare che non c’è niente di immutabile. Gli aspetti costituzionali, giuridici e, se è il caso, di apposite riforme, devono piegarsi alla mutazione delle esigenze temporali e degli eventi, in continua evoluzione dinamica. Immutabili sono i valori ed i principi fondanti che la Costituzione Italiana e lo Statuto Siciliano chiaramente contengono. Ma immutabile non è l’applicazione della relativa normativa che disciplina la gestione amministrativa, ed anche politica, della struttura regionale, la quale deve essere il più aderente possibile ai bisogni del popolo siciliano.
















































































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venerdì 11 febbraio 2022

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 » PUNTI DI VISTA – L’iniqua tassa di soggiorno



Che ne pensi di

PUNTI DI VISTA – L’iniqua Tassa Di Soggiorno

 

 

L’imposta o tassa di soggiorno, partorita dal governo precedente, viene giudicata da più parti quanto mai iniqua e male digerita da coloro che la devono applicare – albergatori e quant’altri – che sono costretti a lievitare il prezzo della stanza o del vitto e alloggio in quanto incide sul costo del lavoro. E’ condivisibile – al di là delle disquisizioni giuridiche e delle sentenze dei vari T.A.R – il pensiero di coloro che affermano che l’imposta è “sbagliata nel principio, oltre che nei fatti, perché alimenta l’inflazione ed allontana i turisti”.

Incide, appunto, sull’esborso del denaro che i turisti devono sganciare laddove essa è stata deliberata dai Comuni, deputati discrezionalmente ad applicare il Dlg che la disciplina. Invero, se si considera il turista straniero o italiano, di medio o comunque di reddito contenuto, che vuole trascorre un periodo di vacanze in uno di questi soggiorni “tassati”, questi potrebbe essere distolto dal considerare una siffatta scelta. E’, quindi, il turismo sociale che viene colpito; non certamente quello di èlite che frequenta hotel dal 4 stelle in su. Il benestante non viene “traumatizzato” da una maggiorazione del prezzo, rispetto a quello per il solo soggiorno, per alcune decine di euro pur moltiplicate per i familiari o per le persone che l’accompagnano.

La fuga del turismo sociale dalla tassa di soggiorno ha le sue ripercussioni sull’economia e sul lavoro della Sicilia, terra ad alta vocazione turistica. Poiché la Regione Sicilia non ha competenza legislativa in materia fiscale, nella discrezionalità, che i Comuni hanno nell’applicazione della legge in argomento, deve essere vagliata attentamente se la vantata entrata nelle casse dell’ente riesce a coprire il taglio dei contributi statali non tenendo conto del danno economico che quel centro subisce, attraverso il calo del flusso turistico. La mannaia della tassa colpisce, infatti, la molteplicità delle ricadute sull’occupazione e dei prodotti vendibili– alimentari, souvenir, gadget, bigiotteria, abbigliamento vacanziero e tutto ciò che fa parte degli appetiti dell’ospite in vacanza -, nonché l’immagine (vessatoria) di quel polo turistico.

Un’ulteriore considerazione va fatta e riguarda quei comuni che incamerano il balzello “destinandolo alle spese correnti e non, invece, imputandolo ad un capitolo specifico per gli interventi relativi alla manutenzione ed alla tutela dei beni culturali locali. Se si vuole lasciare la tassa di soggiorno serve una normativa chiara sul fatto che il gettito vada a salvaguardia dei beni artistici e dell’ambiente e non a coprire buchi di bilancio”. 

Almeno questo dovrebbe essere fatto!

 

venerdì 11 febbraio 2022

 » L’OPINIONE – Il lavoro, bisogno primario



venerdì 11 febbraio 2022

 » L’OPINIONE – Il lavoro, bisogno primario



Cronaca Regionale

L’OPINIONE – Il Lavoro, Bisogno Primario

 

 

Passare dalla storia dei partiti alla società è il necessario filo conduttore del pragmatismo nella gestione politico-amministrativa dei pubblici organismi. La fase romantica appartiene alla vita che ha ispirato i partiti sin dalla loro nascita e durante la prima repubblica. La seconda ne ha cancellato in grande misura il loro modo di essere stati, ma con l’acqua sporca – come si suol dire – non bisogna buttare anche il bambino. Di quel periodo, occorre conservare i principi ispiratori ed i valori che essi esprimevano, che sono tutt’ora fondamentalmente alla base di un sano ragionamento di democrazia rappresentativa al servizio della gestione della “res pubblica”.

Ciò premesso, è di grande attualità quanto Sandro Pertini ebbe con forza ad affermare che “senza lavoro non c’è giustizia sociale”. Taluno intollerabile “statu quo”, quindi, o le normative di arretramento sociale, posti in essere nel decorso ventennio, vanno eliminati attraverso una rinnovata legislazione più umana o, addirittura, ricorrendo alle dovute riforme. Che le forze progressiste devono affrontare perché il riformismo è una prerogativa del socialismo e, più in generale, della sinistra democratica.

Il principale obiettivo, da sempre ma oggi più che mai al primo posto dell’azione politica, è quello del lavoro. Che investe tutta la dimensione umana. Il ritorno che da esso viene non può privilegiare soltanto alcune classi o selezionate caste. La vita di ciascuno appartiene alla collettività e tutti devono “vivere”. Gli eventuali interessi di ceto e di censo devono essere subordinati ad una obiettiva conduzione politica della comunità; e non come è accaduto nella, così chiamata, seconda repubblica. Che ha creato una enorme sacca di povertà.

Il potere politico, che dovrebbe guardare alla giustizia sociale, viene prima di quello economico e finanziario, che, com’è noto, ha condizionato – e probabilmente continua ancora – la politica del Paese. Il quale è stato aggredito dalla crisi economica perché la finanza mondiale ebbe ad arretrare su posizioni di conservazione del proprio cartello, che si sono estese a macchia d’olio nella gran parte delle nazioni.

In Europa, i coinvolgimenti dell’Italia, e della Sicilia quindi, non possono essere quelli del sacrificio di una parte di esseri umani imposti dagli interessi economici della Germania.

Torno ad insistere, pertanto, sul tema del lavoro. La Sicilia, regione autonoma, può darsi un suo specifico programma aprendo ai soggetti imprenditoriali a “costo zero”. Cioè, attraverso apposite leggi regionali, sfrondando l’impalcatura normativa aggrovigliata, che demotiva nuove volontà imprenditoriali, frenate da pesi che ne impediscono il decollo. Mi riferisco agli ostacoli burocratici che bloccano “sine die” ogni rilascio di nulla osta, ma soprattutto alle voci di bilancio in uscita di ogni impresa che scoraggiano il soggetto disponibile ad investire.

Occorre, pertanto, che ciascuno faccia la sua parte; ma è soprattutto l’ente regionale che deve andare incontro alle nuove possibilità di lavoro correggendo le storture legali e rinunziando a ciò che, nell’esclusivo interesse economico dell’ente, frena le imprese. Bisogna aprire, di conseguenza, un tavolo di confronto che promuova l’incontro sul piano della concreta disponibilità ad offrire un “cantiere aperto” a chi, in questa regione crede e vuole investire per i suoi utili economici, si, ma anche per dare lavoro ai giovani. Imprenditori non soltanto siciliani ma anche di altre regioni o, addirittura, estere. Un “cantiere aperto”, in cui l’occhio attento ed oculato dell’industriale, dell’impresario in genere, veda un vantaggioso investimento per trarne i propri utili lasciando una parte di essi all’economia isolana. La quale, in gran parte, è rappresentata dalla forza- lavoro. In sintesi, da chi cerca la personale sussistenza lavorando nella propria terra.

E’, questo, un tema irrinunciabile dei socialisti siciliani, convinti assertori del riformismo e della giustizia sociale. Principi irrinunciabili per sconfiggere le disuguaglianze e le povertà nel divenire quotidiano dei più deboli: i senza lavoro, coloro che non riescono a mettere insieme il pranzo con la cena. Vale a dire, la gente che soffre.


Gaetano Zingales

Componente il Comitato Politico Regionale del P.S.d.S.

 Presidente del Circolo Madonita del Partito Socialista dei Sicilian























"ALLE PENDICI DELLE ROCCHE", LONGI FELICISSIMA NEL LIBRO DI ZINGALES




"Alle pendici delle Rocche", di Gaetano Zingales edito da Armenio Editore, presentato il libro di Gaetano Zingales dal titolo "ALLE PENDICI DELLE ROCCHE". Antologia pluridisciplinare e “frammenti di Storia longese per i tipi di Armenio Editore. Nella suggestiva cornice della sala conferenze del Castello Ducale di Longi, con il patrocinio della Banca di Credito Cooperativo della Valle del Fitalia si è svolta, nei giorni scorsi, la presentazione dell’antologia pluridisciplinare e di frammenti di storia longese – ALLE PENDICI DELLE ROCCHE



Longi, 29/01/2014 - È stata una di quelle rare, godibili occasioni in cui la cosiddetta “storia locale” riesce, a ragione, a recuperare a pieno la sua dignità. Questo è appunto quello che è successo a Longi. Vanno evidenziate la conduzione accattivante della nota giornalista nebroidea, Maria Chiara Ferraù, 

 Questo volume trasuda uno spirito di generosità e di amore per il territorio che anima l’impegno di Gaetano Zingales e del Centro studi “Castrum Longum”, a cui occorre esprimere un sincero plauso per le tante le attività di valorizzazione e ossequio del “genius loci” longese e nebroideo. La retorica corrente insiste spesso sul fatto che chi non ha passato non ha futuro e che avvenire risieda innanzitutto nella memoria. Ebbene, vi è stato un tempo nella storia in cui Longi e l’area dei Nebrodi non erano condannate ad una dimensione di declino immanente e perifericità: non a caso, Gaetano Zingales esordisce nella sua introduzione ricordando la città di Demenna. Dei tre distretti in cui i musulmani ripartirono la Sicilia, rispettivamente Val di Mazara, Val di Noto e Val Demone, quest’ultimo, che identifica la Sicilia nord-orientale ed include per intero la provincia di Messina, ha spesso suscitato la curiosità degli storici, tanto di quelli locali quanto di alcuni di fama internazionale.


 Il toponimo, stando alla “Cronaca di Monemvasia”, un antico testo bizantino risalente ad un periodo tra il IX e l’XI secolo, andrebbe collegato a quest’antica città di Demenna, situata sui monti Nebrodi. Similmente a quanto alle denominazioni di Val di Noto e Val di Mazara, Valdemone dovrebbe quindi essere interpretato come “wilāya (distretto in arabo) di Demenna”. Ipotesi che dimostra come, pur in un remoto passato, Longi e l’area nebroidea non siano state in una posizione ancillare, al punto da dare il nome ad un’intera e ben più vasta circoscrizione che, almeno in un primo momento, durante l’età islamica, potrebbe aver avuto la sede proprio nella città da cui discendono questo comune ed i vicini centri di San Marco d’Alunzio, Alcara Li Fusi e Frazzanò.


L’esatta ubicazione dell’antico centro di Demenna è stata oggetto di dispute non meno dell’origine del toponimo Valdemone: Gaetano Zingales, presidente Centro studi “Castrum Longum”, è intervenuto nell’intricata vicenda anche dando alle stampe un saggio di ricerca documentale, intitolato “Tra Krastos e Demenna”, in cui è affiancata alla storia dei demenniti (forse giunti sui Nebrodi da Sparta e dal resto della Laconia nel VI secolo d.C.) quella di un ben più risalente insediamento sicano, localizzato nei pressi di Longi ed Alcara Li Fusi.


Oggi purtroppo in Sicilia non esiste ancora una politica turistica che sfrutti a dovere il retaggio bizantino e cristiano orientale, importante per molte zone del Meridione ed in special modo per la provincia di Messina e la Calabria. Una presenza che ha influito finanche sul paesaggio, e che spiega perché il messinese, diversamente dal resto della Sicilia, dove l’insediamento umano si è concentrato in pochi importanti centri agricoli, presenti invece una miriade di piccoli comuni disseminati sul territorio, secondo il modello della “chora” bizantina a popolazione sparsa, riscontrabile anche nell’entroterra calabrese. Longi, con le sua eredità immateriali e tradizioni, rappresenta una testimonianza di questa civiltà, in cui l’antologia che presentiamo ci permette di immergerci.


L’impegno civico ed intellettuale che trasuda a queste pagine rappresenta il trait-d ’union tra la dimensione di un illustre passato e quella della società reale che ne è figlia; dimensioni che, in altri contesti, spesso esprimono rapporti di tensione, i quali a volte possono diventare contraddittori o peggio ancora di reciproca estraneità. Questo libro dà voce ai fermenti culturali longesi e ci offre un’importante lezione, mostrandoci come la decadenza civile ed economica non rappresenti né un processo irreversibile, né un parto del “destino cinico e baro”. La lettura del florilegio di contributi confluiti in “Alle pendici delle ‘Rocche’” si trasforma in una vera e propria esperienza emotiva che abbraccia idealmente tutti i longesi, soprattutto quelli emigrati. Presentare le piccole e grandi storie di questo volume non rappresenta solo un evento culturalmente importante, ma un tributo ad una memoria, che ricollega meritoriamente i fili di tante e speciali testimonianze di civiltà di questo territorio.“


Nel libro sono inseriti opere, scritti, poesie e foto di: Giada Araca - Leone Marco Bartolo -Francesco Brancatelli - Leone Brancatelli- Marco Brancatelli -Mariateresa Brancatelli - Maria Chiara D’Alessandro - Rosa Angela Fabio - Gino Fabio - Anna Franchina -Francesco Lazzara - Salvatore Migliore - Ita Orlando Priolisi - Angelo Pidalà - Giuseppe Pidalà - Immacolata Pidalà - Shara Pirrotti - Rosario Priolisi - Donatella Russo -Umberto Russo - Cettina Sirna - Dario Sirna – Giuseppe\Zingales.


Ed inoltre, pagine di storia longese e biografie di personaggi che hanno dato lustro al paese dove sono nati. L’opera è arricchita da numerose immagini quali testimonianze di presenze, di avvenimenti e di opere d’arte, del passato e del presente. Troppo lungo e difficile sarebbe poi riportare qui le suggestioni per i presenti all’ascolto di diverse liriche, contenute nell'opera, sia in lingua siciliana che in italiano e lette con recitata partecipazione da Rita Vieni, Leo Bartolo e dallo stesso Gaetano Zingales.


L’intervento di Gaetano Zingales è servito poi a rendere bene i motivi che hanno spinto il Centro Studi “Castrum Longum” ad editare questo libro che è parimenti un atto di amore per la cittadina di Longi ed una ricca fonte documentale sulla storia del piccolo quanto vitale centro nebroideo. 

La serata è stata arricchita dalla presenza degli artisti Pippo Zingales, Leone Lazzara, Emanuele Calogero, i fratelli Montagno, Monica Carcione, e Francesco Galati. Ha concluso la serata il Dr. Luigi Fabio, Presidente della B.C.C. “Valle del Fitalia, che si è complimentato per l’evento ed ha auspicato altre iniziative culturali.


Il gremito salone dei convegni. Complimenti per la bella iniziativa e invitiamo tutti, longesi e no, ad acquistare la bella e documentata opera.



                                                                                                                        Fabio Cannizzaro


..............................

Ph: Mega-pannello nella sala convegni del Castello feudale, di proprietà della B.C.C “Valle del Fitalia”




































Nebrodi e Dintorni


LA LEGGENDA DI DEMENNA, UNA CITTÀ SCOMPARSA, ESISTITA SULLE ROCCHE DEL CRASTO, SUI MONTI NEBRODI

 

Un romanzo dello scrittore siciliano Gaetano Zingales, per le Edizioni Leucotea, incentrato soprattutto su una città bizantina scomparsa, esistita sulle Rocche del Crasto, toponimo sui Monti Nebrodi. Il romanzo fa seguito al saggio "Tra Krastos e Demenna", che potrà essere utilizzato come base indicativa per procedere a scavi archeologici nel triangolo territoriale tra Longi - Alcara Li Fusi e S. Marco d'Alunzio



07/03/2014 - “Le autorità tutte, i loro uomini in armi, con lacrime asciutte, li abbracciarono, consapevoli che quella sarebbe stata l’ultima volta. Il “Cavaliere dalla Sciarpa Azzurra”, il Governatore ed il Vescovo se li strinsero al cuore, uno per uno, mentre salivano sulla piattaforma degli argani. Anche il cielo pianse: le grosse gocce d’acqua piovana, che caddero sulle Rocche del Crasto, erano, infatti, di un sapore amaro. Quando, infine, l’ultimo esile raggio diurno si nascose alla loro visione e rimase l’ombra ondulata dei monti, gli strumenti, posti per la fuga, avevano traghettato, al di là delle pietre amiche, circa duemila anime della nobile Demenna”. “……Demenna non sarà espugnata, né si arrenderà, ma sarà occupata solo quando la spada dell'ultimo prode demennita sarà abbattuta. Verrà, forse, distrutta, ma noi non assisteremo a questo scempio. Prima che ciò avvenga un fiume di sangue arabo tingerà di rosso queste nostre splendide contrade. …” Sicilia, tra il IX e X secolo. L'impero romano, ormai decaduto e governato da Bisanzio, resiste e coesiste pacificamente con gli arabi in rapida ascesa nel Mediterraneo. Nello sfondo la tragica storia d'amore tra Federico conte di Castelmylè, giovane comandante dell'esercito bizantino arroccato a Demenna, e la figlia del Governatore Macrojanni, Bianca Maria. I novelli sposi, Federico e Bianca, trascorrono la loro luna di miele a corte del loro amico, il nobile musulmano Amman, cognato dell'Emiro, nella città di Palermo in un soggiorno da mille e una notte. I giorni della quiete sono destinati ben presto a finire in favore della spada. Questa la storia della caduta dell'ultimo avamposto di Bisanzio in terra di Sicilia, degli onori, degli eroismi, della passione, della disperazione.


Un romanzo storico dove lo svolgersi avvincente degli eventi è ritmato da una struggente storia d'amore. Gli amanti della letteratura storica apprezzeranno LA LEGGENDA DI DEMENNA di Gaetano Zingales, ambientato nella Sicilia del XIX secolo tra arabi e cittadini di un impero romano ormai governato da Bisanzio. Sullo sfondo la storia d’amore tra il comandante Federico e la figlia del Governatore, Bianca. Finiti i giorni della quiete, ritorna il fragore delle spade. Avvincente.


ALCUNI BRANI DI RECENSIONE

Oreste Maria Petrillo

Romanzo storico interessante e appassionante. Dopo poche pagine ci si affeziona alla storia dei personaggi e all'eroe Federico De Palmis. Tratta della storia di un marito-padre-guerriero, che combatte da eroe per la sua terra e per la sua gente. Storie di guerra si intrecciano con storie d'amore. Scritto con una prosa scorrevole


Laura Caputo


Sembra di ascoltare un troubadour, un cantastorie attento come uno studioso, che racconta un arazzo di mille colori dove prendono vita, schiacciati dagli avvenimenti storici, delicate figure perfettamente caratterizzate. Mi piace molto.


Nicoletta Stecconi …. ha questa elegante atmosfera che riesce a catapultarti in epoche remote..


Giuliana Borghesani


"La storia è ambientata nella Sicilia del IX secolo, e la situazione storica dell'isola è delineata già all'inizio da una dotta e piacevole prefazione. Poi inizia il romanzo, incentrato su un particolare episodio della lotta tra cristiani siciliani e invasori musulmani, episodio diventato emblematico e leggendario, che vede protagonista la città di Demenna. Bianca e Federico sono i veri protagonisti; giovani, belli, ardenti, si vedono, si conoscono, si amano. Lui un soldato coraggioso, lei una donna forte e dolce insieme ."


Mario Zulberti


"L'interessantissima prefazione storica della Prof.ssa Fara Misuraca introduce molto bene il tutto e colma le lacune di chi, come me, poco o nulla conosceva di quel particolare periodo in Sicilia. Comunque un bel libro, da leggere".


Francesca Orelli


"Ho trovato molto piacevole la storia e le vicende dei due protagonisti, come pure le battaglie, il coraggio e la temerarietà dei cristiani nel difendere il loro avamposto dai saraceni, come pure la prefazione storica, che mi ha aiutata non poco a capire l'argomento e ad immedesimarmi nella vicenda".


Teresa D'Aniello.


“” Nel libro La leggenda di Demenna lo scrittore Gaetano Zingales, presidente del Centro Studi sui Demenniti, riporta le documentazioni storiche fin qui disponibili: un antico testo bizantino risalente al periodo del IX secolo descrive l'intera provincia di Messina, la Val di Noto, la Val di Mazara e la Val Demone, come il distretto dell'antica città di Demenna, situata sui monti Nebrodi. La città di Demenna fu fondata, secondo questi studi, da una popolazione del Peloponneso che venne cacciata dalla propria terra e si rifugiò nel territorio siciliano costruendo questa città sulle rocche del Crasto. Nel 856, a seguito dello sbarco e della occupazione in Sicilia degli Arabi, solo Demenna, insieme a Taormina e Rometta, resistette all'invasione e fu l'ultima delle roccaforti a cadere. Lo scontro tra le due popolazioni avvenne proprio in questa fortezza. Ancora oggi il posto viene ricordato come < cimitero dei Saraceni. Con i due protagonisti Bianca e Federico e la loro storia d'amore, l'autore ci conduce nella ricostruzione della storia e della leggenda dell'antica città siculo-bizantina. Bianca è la figlia del Governatore di Demenna e Federico è il giovane ufficiale della guarnigione, che comanderà l'eroica resistenza della città cristiana. Demenna era un ricco centro agricolo la cui economia era florida con i terreni coltivati a grano ed il territorio ricco di pascoli. La gran parte della popolazione essendo proprietaria di terreni viveva di rendita. Si allevava il baco per la produzione della seta. La seta di Damànnas era un tessuto molto pregiato, rinomato in tutto il bacino del Mediterraneo. La restante parte della popolazione era dedita all'artigianato o ricopriva incarichi nell'amministrazione e nell'esercito. La difesa della città era vissuta come una priorità, infatti l'esercito veniva affiancato dalle esercitazioni dei cittadini, che volenterosi si addestravano all'uso delle armi ogni settimana. In questa città la vita trascorreva serena e la gente di Demenna, pur se di etnie diverse, conviveva perfettamente integrata in prosperità e pace. A seguito dello sbarco dei temuti e feroci saraceni, la popolazione di Demenna si schierò, compatta, a difesa della cristianità e Federico, per non lasciare che i nemici prendessero il sopravvento, li affrontò con il coraggio di un antico eroe, per salvare la sua gente e la sua Patria. Demenna si oppose all'invasore per molto e lungo tempo. Una pagina di storia scritta con tutto l'orgoglio e la fierezza dei siciliani. è un romanzo storico nel quale l'autore Gaetano Zingales ci trasmette tutta la sua passione e la profonda conoscenza della sua terra. Una trama che si divide fra storia e leggenda, creando uno stretto collegamento fra. Una storia arabo – cristiana nella Sicilia dell'alto medioevo che appartiene a tutti noi”” 


DEMENNA NELLA STORIA


Venni anche a conoscenza che i bizantini dell’Impero Romano d’Oriente, in Sicilia, si assunsero, nel VI secolo d.C., la protezione di un popolo, discendente dagli antichi spartani, fuggito da Daimon, nel Peloponneso, ed approdato nei pressi dell’attuale Torrenova, laddove esisteva un porto. I demenniti, pastori in Grecia, andarono alla ricerca di erbaggio per fare pascolare le proprie greggi e lo trovarono, abbondante, nel territorio delle Rocche che chiamarono del Crasto perché nella loro lingua così era indicata l’erba per il pascolo (krastis). Sull’altopiano delle Rocche del Crasto i pastori greci ritennero opportuno riunirsi in comunità e diedero vita, verosimilmente in contrada Lemina (nell’odierno territorio di Alcara li Fusi), al borgo che chiamarono Demenna nel ricordo della loro patria di origine. I bizantini vollero proteggere questa città costruendo una fortezza militare sul Pizzo sovrastante il centro abitato: oggi, Paleokastro di S.Nicola (sul Pizzo omonimo del territorio di Longi). Ma, c’era un fato che immaneva su quella gente, un destino crudele che ebbe ad accompagnarla per diverse centinaia di anni. Nel VI secolo, infatti, fuggono dalla Grecia.


Nel IX secolo i saraceni assaltano e distruggono Taormina e Rometta, ma viene espugnata anche Demenna, la città ma non la imprendibile fortezza, che però viene abbandonata dal presidio bizantino essendo venuta meno la sua funzione di difesa dei demenniti. I fuggitivi si rifugiano in parte presso l’antica Alkara ed in parte in un altro territorio non molto distante dalla fortezza. Per parecchi decenni questi ultimi vivono presso la contrada longese di S. Nicolò, chiamata poi di San Pietro. Anche da lì, però, dopo un evento franoso, devono fuggire sparpagliandosi. Taluni si dirigono, a valle, verso la “Craparia” [così chiamata perché vi rinchiudevano nei recinti le capre] per dare vita a quel borgo, che, nei secoli successivi, sarebbe diventato Longi; altri vanno verso Frazzanò, altri ancora prendono la strada per la contrada San Basilio, oggi contrada di Galati Mamertino. Gli esuli, in queste loro traversie sui Nebrodi, sono guidati ed assistiti dai monaci basiliani, dislocati nelle grance che fanno capo al Monastero di Fragalà.


                                                                                                                                    Gaetano Zingales


Tre buoni motivi per acquistare LA LEGGENDA DI DEMENNA di Gaetano Zingales, con prefazione della prof. Fara Misuraca della Università di Palermo, da Edizioni Leucotea, Sanremo:

1) narra della Terra di Sicilia, di un Medioevo crudo e violento, di un amore, di un'amicizia, dell'onore.

2) scorre sotto gli occhi in un crescendo - sobrio e dettagliato - di sfumature e accadimenti.

3) convince raccontando e intriga con stile.



Nebrodi e Dintorni


 “NON HO AMATO MAI NESSUNA COME TE”, DA OGGI IN LIBRERIA IL NUOVO LIBRO DI GAETANO ZINGALES



In uscita oggi il nuovo libro di Gaetano Zingales da Edizioni Leucotea. Dopo la “Leggenda di Demenna” ecco ora “Non ho amato mai nessuna come te”



21/07/2015 - Il romanzo sgorga dalla fantasia dell’autore attraverso esperienze di vita arricchite dal racconto di vicende di persone consegnate alla sua memoria. Il testo descrive le stagioni della vita di un “bastardo”: il giornalista Carlo De Angeli. Una vita costellata dalla ricerca di un amore duraturo, dall’aspirazione ad un normale ménage, da un duro impegno professionale, dall’approdo alla responsabilità nel sociale.


E’ un viaggio attraverso la solitudine di un uomo, un po’ scrittore, un po’ poeta, che combatte la propria condizione interiore rifugiandosi, di volta in volta, nel suo “buen retiro” di montagna, laddove trova sfogo nel vergare pagine di inchiostro, “imbrattate” dal suo pensiero che s’innalza dal quotidiano vivere per approdare spesso in voli pindarici.

Nel suo rifugio montano vive la sua ultima storia d’amore, la quale, facendolo ripiombare nella perenne solitudine, lo induce a scrivere la parola “fine” al suo tormentato peregrinare tra le vicende di un Destino avverso.



Gaetano Zingales, siciliano di Longi, classe 1938, è uno tra gli storici più affermati del suo territorio. Già Giornalista Pubblicista, iscritto all’Ordine Regionale dei Giornalisti di Sicilia è fondatore del Centro Studi “Castrum Longum” di Longi nonché autore di saggistica storica e narrativa. Tra le sue opere ricordiamo "Tra Krastos e Demenna" raccolta documentale «che potrà essere utilizzata come base indicativa per procedere a scavi archeologici nel triangolo territoriale tra Longi - Alcara Li Fusi e S. Marco d'Alunzio».





Nebrodi e Dintorni


CIRCOLO SOCIALISTA DELLE MADONIE COSTITUITO A CEFALÙ


Palermo, 15 settembre 2013 - Alla presenza di Gaetano Zingales, componente del coordinamento regionale del Partito Socialista dei Siciliani, si sono incontrati, presso la sede dell’Istituto regionale siciliano “Fernando Santi” di Cefalù, un gruppo di cittadini, facenti capo all’area socialista ed al movimento progressista per l’autonomia regionale siciliana. Nel suo intervento, Gaetano Zingales ha illustrato le finalità del nuovo partito socialista e sicilianista, impegnato a portare avanti i principi fondanti del socialismo riformista europeo – giustizia sociale, libertà, democrazia e solidarietà – nonché i contenuti dello Statuto siciliano di autonomia.



Il dirigente del PSdS si è soffermato, inoltre, sulla necessità di dare una svolta alla attuale politica amministrativa regionale finalizzandola all’aumento dell’occupazione ed alla ripresa economica dell’isola attraverso progettualità i cui contenuti devono scaturire dalle presenze territoriali, culturali ed artistiche, dalle necessità infrastrutturali, dalle peculiarità imprenditoriali e del turismo, soprattutto sociale, e da quelle altre che rappresentano la tipicità siciliana (artigianato, agricoltura, ambiente).

Dopo vari interventi dei convenuti, gli astanti hanno costituito il Circolo Madonita del PSdS, conferendo, in attesa della successiva riunione del comprensorio delle Madonie, laddove verranno eletti gli organismi preposti alla attività, l’incarico al compagno Gaetano Zingales di presidente pro-tempore del Circolo.

















Nebrodi e Dintorni


ESSERE SOCIALISTI PER RIVALUTARE LA “QUESTIONE SICILIANA”, A LASCARI IL CONVEGNO REGIONALE


Domenica 20 ottobre alle ore 10 convegno regionale a Lascari dei Socialisti Siciliani

Lascari (Pa), 18/10/2013 - Il Circolo Socialista Madonita-Partito Socialista dei Siciliani organizza per domenica 20 ottobre alle ore 10,00 un convegno regionale che ha come traccia tematica di fondo l’identità socialista oggi e il valore dell’impegno civile e politico nella storia passata del movimento.

Il simposio degli iscritti e dei simpatizzanti che ha come titolo “Essere socialisti. La storia di ieri e l’impegno di oggi per rivalutare la questione siciliana” si terrà a Lascari (PA) in via Salinelle 33, presso gli spazi socio-culturali “Ospedaletto” e vedrà l’intervento per la relazione introduttiva al convegno dell’ex dirigente sindacale ed ex sindaco di Longi Gaetano Zingales.

L’incontro sarà prevalentemente incentrato sul ricordo dell’impegno politico e civile di alcune figure storiche del Partito Socialista.


Parteciperanno all’incontro anche gli ex Deputati socialisti On.le Salvo Andò, l’On.le Turi Lombardo e l’On.le Francesco Barbalace. Coordina gli interventi e il dibattito Caterina Provenza. ...............




Relazione introduttiva: Gaetano Zingales, già Dirigente Sindacale ed ex Sindaco di Longi-


Interventi su “alcuni personaggi storici del socialismo italiano”:


Riccardo Lombardi: Fabio Cannizzaro, Docente e Direttore XQS ;


Fernando Santi: Luciano Luciani, Presidente “Istituto Reg.le Fernando Santi”;


Pietro Nenni: Francesco Dolce, già Sindaco Polizzi Generosa ed ex Vice Sindaco Cefalù.













Nebrodi e Dintorni



CRASTOS ERA SUI MONTI SICANI E NON SUI NEBRODI



- 20/08/2010 - Lungi da me l’intento di volere entrare in polemica con l’estensore dell’articolo “Nebroidea l’origine di Epicarmo”, pubblicato sulla Gazzetta del Sud del 12 u.s., a firma di Rosario Priolisi, ma ritengo doveroso puntualizzare, da un mio modesto punto di vista, quanto è emerso attraverso ricerche aggiornate e documenti già esistenti, forse non del tutto noti a chi sostiene che Crastos sia esistita sui Monti Nebrodi.


 Che Epicarmo sia stato il più grande commediografo della Magna Grecia è indubbio; che sia nato a Krastos è sostenuto da parecchi studiosi, mentre altri affermano che era originario di differenti luoghi, tra cui Megara Sicula. Ma che la sicana Krastos fosse sui Monti Nebrodi ed esattamente sulle Rocche del Crasto, tra Longi ed Alcara, è un assunto superato, come detto, dalle ricerche storiche ed archeologiche dei tempi moderni. Infatti, i monti Sicani, che si trovano nella Sicilia sud-occidentale, hanno tratto la loro denominazione dalla presenza del popolo sicano in quel territorio, dove sorgevano città, scomparse, mai individuate ma le cui denominazioni vengono riportate dagli storici. Vengono citate, quindi: Hiccara, Macella e Schera, ed inoltre, Indara, Crastos, Uessa, Misera, Adrix, centri che risentirono dell’influenza di città finitime quali Agrigento, Selinunte, Segesta, Marsala, Erice, ecc .


In una pubblicazione, relativa al territorio di Campobello di Licata, leggiamo: “nel 461 a.C avvenne la battaglia presso Crastòs tra Gelesi ed Imeresi”. Il papiro di Ossirinco cita “l’esercito degli Agrigentini contro Krastòs” (Filisteo). Diodoro sostiene che nel 405 a. C. i Cartaginesi occuparono tutta la Sicilia meridionale distruggendo Agrigento, Crastòs, Kakiron, Mactorion, Gela e Camarina. Ed ancora, presso il Museo Archeologico di Gela, nei “Principali avvenimenti storici”, a firma di Rosalba Prandini, si legge che nel 470-460 a. C. Gela affronta la città indigena di Krastòs. Che, secondo Erodoto, venne fondata dallo spartano Dorieo, il quale vi eresse un tempio dedicato ad Atena Crastia. Lo storico Ugo Bella scrive, tra l’altro: “ho scoperto una città preistorica, chiamata Crastos…città sicana posta sulla destra del Salso”. Altri studiosi indicano questa antica città in territori diversi, ma sempre della provincia di Agrigento

Nel V secolo a. C., la città in argomento era abitata da coloni greci, ed in quel periodo vi nacquero, probabilmente: Epicarmo, che fece la sua fortuna trasferendosi però a Siracusa dove le sue commedie ebbero successo, e la bella etera Taide, che andò a vivere in Grecia, divenendo, peraltro, l’amante di Alessandro il Macedone. Se entrambi fossero nati nell’ipotizzata sicana Krastòs dei Monti Nebrodi, laddove invece c’erano i Siculi, non sarebbero potuti andare ad operare nel mondo greco. Allora, gli spostamenti avvenivano all’interno della propria “civiltà”. L’odierna globalizzazione non era stata ancora…inventata.



Non si capisce, quindi, il motivo per cui storici e ricercatori di indiscussa levatura culturale abbiano sostenuto che Krastos era sui Monti Nebrodi. Forse perché ivi esistono le Rocche del Crasto? Ma questo toponimo deriva dal greco “” (krastis = erba). Per cui quella denominazione venne data da una popolazione greca, i demenniti, insediatasi in quel territorio, perché la zona era ed è ricchissima di ottima erba per il pascolo degli armenti.


Quanto sopra evidenziato è una sintesi di una mia ricerca storico-documentale, da cui peraltro ho tratto un articolo pubblicato sul periodico culturale “Il Bandolo” , edito a Palermo. Che ho voluto qui riportare per evitare che venga commesso l’errore di dedicare una finalizzata testimonianza pubblica ad un illustre commediografo, filosofo e poeta della Magna Grecia, ritenendolo un concittadino mentre tale in effetti non è stato essendo nato in un territorio che nulla ha a che fare con Longi e con le Rocche del Crasto.


                                                                                                                                   Gaetano Zingales

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Foto di Luigi Salemi





































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DEMENNA, L’ULTIMA BATTAGLIA DI GAETANO ZINGALES


Romanzo storico di Gaetano Zingales, con prefazione di Fara Misuraca

19/07/2010 - Nella Sicilia della dominazione araba, tra il nono e il decimo secolo, si accende lo scontro tra musulmani e cristiani che vede Demenna (Damànnas in arabo), sui Monti Nebrodi, quale riferimento per organizzare la resistenza in difesa della cristianità. Sullo sfondo, la storia d’amore tra il giovane comandante dell’esercito demennita,


Federico De Palmis, conte di Castelmylè, e la figlia del Governatore Macrojanni, Bianca Maria, vissuta tra l’incanto della vallata del Fitalia, sui Monti Nebrodi. La nobildonna, divenuta sua moglie, condivide con Federico la responsabilità di proteggere la popolazione di Demenna, divenendone l’esecutrice del suo testamento morale.



Prima degli scontri, tra bizantini e demenniti da un lato e saraceni dall’altro, i novelli sposi vengono invitati dal loro amico, il nobile musulmano Amman, cognato dell’Emiro, a trascorrere a Palermo un soggiorno di nozze. Federico, frequentando il palazzo, apprende le rivoluzionarie tecniche arabe di ingegneria e di agronomia, delle quali si avvarrà rientrando nella sua città. Ma conosce anche coloro che diventeranno i suoi avversari diretti con i quali, essendo ospite dell’Emiro, evita una lite pur essendo stato fatto oggetto di apprezzamenti poco lusinghieri.



Demenna, in quegli anni, conosce periodi di pace e di prosperità, ma nel contempo rafforza le difese della città essendo stata già aggredita dai musulmani. La protezione dei bizantini non le fu sufficiente, però, ad evitare la tragica fine.

Le imprese di Federico ed il suo duello con il generale dell’esercito musulmano, nell’epica battaglia finale, scorrono come incalzanti fotogrammi d’azione sotto gli occhi dei lettori.


Mentre i saraceni distruggono la città, Bianca Maria guida gli esuli superstiti verso nuovi luoghi.


Il romanzo, tra realtà e fantasia, è stato integrato, rispetto alla edizione precedente, con altri episodi e viene introdotto, nel periodo storico in cui si sono svolti gli avvenimenti, dal testo della professoressa Fara Misuraca, che brillantemente ha illustrato la presenza degli arabi in Sicilia. Storia, invero, ai più poco nota.








Nebrodi e Dintorni


IL LAVORO, BISOGNO PRIMARIO: LA REGIONE CORREGGA LE STORTURE LEGALI E RINUNZI A CIÒ CHE FRENA LE IMPRESE

 

                                                                                                                        di Gaetano Zingales * -


 Soprattutto l’ente regionale deve andare incontro alle nuove possibilità di lavoro correggendo le storture legali e rinunziando a ciò che frena le imprese. Bisogna aprire un tavolo di confronto che promuova l’incontro sul piano della concreta disponibilità ad offrire un “cantiere aperto” a chi crede e vuole investire per i suoi utili economici, ma anche per dare lavoro ai giovani

Messina, 04/01/2014 - Passare dalla storia dei partiti alla società è il necessario filo conduttore del pragmatismo nella gestione politico-amministrativa dei pubblici organismi. La fase romantica appartiene alla vita che ha ispirato i partiti sin dalla loro nascita e durante la prima repubblica. La seconda ne ha cancellato in grande misura il loro modo di essere stati, ma con l’acqua sporca – come si suol dire – non bisogna buttare anche il bambino



Di quel periodo, occorre conservare i principi ispiratori ed i valori che essi esprimevano, che sono tutt’ora fondamentalmente alla base di un sano ragionamento di democrazia rappresentativa al servizio della gestione della “res pubblica”. Ciò premesso, è di grande attualità quanto Sandro Pertini ebbe con forza ad affermare che “senza lavoro non c’è giustizia sociale”. Taluno intollerabile “statu quo”, quindi, o le normative di arretramento sociale, posti in essere nel decorso ventennio, vanno eliminati attraverso una rinnovata legislazione più umana o, addirittura, ricorrendo alle dovute riforme. Che le forze progressiste devono affrontare perché il riformismo è una prerogativa del socialismo e, più in generale, della sinistra democratica.



Il principale obiettivo, da sempre ma oggi più che mai al primo posto dell’azione politica, è quello del lavoro. Che investe tutta la dimensione umana. Il ritorno che da esso viene non può privilegiare soltanto alcune classi o selezionate caste. La vita di ciascuno appartiene alla collettività e tutti devono “vivere”. Gli eventuali interessi di ceto e di censo devono essere subordinati ad una obiettiva conduzione politica della comunità; e non come è accaduto nella, così chiamata, seconda repubblica. Che ha creato una enorme sacca di povertà.



Il potere politico, che dovrebbe guardare alla giustizia sociale, viene prima di quello economico e finanziario, che, com’è noto, ha condizionato – e probabilmente continua ancora – la politica del Paese. Il quale è stato aggredito dalla crisi economica perché la finanza mondiale ebbe ad arretrare su posizioni di conservazione del proprio cartello, che si sono estese a macchia d’olio nella gran parte delle nazioni. In Europa, i coinvolgimenti dell’Italia, e della Sicilia quindi, non possono essere quelli del sacrificio di una parte di esseri umani imposti dagli interessi economici della Germania.


Torno ad insistere, pertanto, sul tema del lavoro. La Sicilia, regione autonoma, può darsi un suo specifico programma aprendo ai soggetti imprenditoriali a “costo zero”. Cioè, attraverso apposite leggi regionali, sfrondando l’impalcatura normativa aggrovigliata, che demotiva nuove volontà imprenditoriali, frenate da pesi che ne impediscono il decollo. Mi riferisco agli ostacoli burocratici che bloccano “sine die” ogni rilascio di nulla osta, ma soprattutto alle voci di bilancio in uscita di ogni impresa che scoraggiano il soggetto disponibile ad investire.



Occorre, pertanto, che ciascuno faccia la sua parte; ma è soprattutto l’ente regionale che deve andare incontro alle nuove possibilità di lavoro correggendo le storture legali e rinunziando a ciò che, nell’esclusivo interesse economico dell’ente, frena le imprese. Bisogna aprire, di conseguenza, un tavolo di confronto che promuova l’incontro sul piano della concreta disponibilità ad offrire un “cantiere aperto” a chi, in questa regione crede e vuole investire per i suoi utili economici, si, ma anche per dare lavoro ai giovani. Imprenditori non soltanto siciliani ma anche di altre regioni o, addirittura, estere. Un “cantiere aperto”, in cui l’occhio attento ed oculato dell’industriale, dell’impresario in genere, veda un vantaggioso investimento per trarne i propri utili lasciando una parte di essi all’economia isolana. La quale, in gran parte, è rappresentata dalla forza- lavoro. In sintesi, da chi cerca la personale sussistenza lavorando nella propria terra.



E’, questo, un tema irrinunciabile dei socialisti siciliani, convinti assertori del riformismo e della giustizia sociale. Principi irrinunciabili per sconfiggere le disuguaglianze e le povertà nel divenire quotidiano dei più deboli: i senza lavoro, coloro che non riescono a mettere insieme il pranzo con la cena. Vale a dire, la gente che soffre.



Gaetano Zingales


* Componente il Comitato Politico Regionale del P.S.d.S.


* Presidente del Circolo Madonita del Partito Socialista dei Siciliani





























Nebrodi e Dintorni


SOCIALISTI SICILIANI, ANDARE VERSO L’UNIONE DELLA SINISTRA



Gaetano Zingales, Segretario regionale organizzativo, a margine del Forum del Partito Socialista Siciliano del 9 novembre


13/11/2014 - Questa grande crisi economica potrebbe cementare gli schemi ideologici presenti nella parcellizzazione dei partiti dell’area di sinistra nel momento in cui la conservazione continua a dettare le sue leggi di profitto a danno della stragrande maggioranza del ceto medio-basso, che cammina nella strada dell’impoverimento. La gente attende risposte dai partiti progressisti e non crede nel singolo potere contrattuale delle piccole formazioni; da esse, confluite a Roma il 25 ottobre u. s. per aderire allo sciopero della CGIL, unite in un grande partito, vuole l’azione forte che determini l’inversione di marcia ed il cambiamento.



E’ venuta l’ora che si mettano da parte, di conseguenza, i “patriottismi” di maniera presenti nella costellazione della sinistra costituzionale e democratica affinché il vecchio motto “uniti si vince” sia il motore di un’aggregazione unitaria per ribaltare la tendenza di riversare gli effetti della austerità, imposta dall’Unione Europea e dalla Merkel, esclusivamente sulle spalle della povera gente. La Resistenza, voluta unitariamente dai partiti democratici, sconfisse il nazi-fascismo. E’ l’ora, quindi, di una nuova “resistenza”, non armata, per restituire agli italiani la dignità del vivere civile sul piano economico ed anche sociale.



Occorre passare al disco rosso nei confronti dei poteri forti che vogliono imporre le loro leggi di profitto e di sfruttamento dell’uomo comune, che si è ritrovato senza una difesa ed è alla mercé del bieco populismo del leader di turno.


Sento, pertanto, il dovere di fare propria l’indicazione che è venuta fuori dal dibattito del forum di g. 9 novembre u.s., organizzato da P.S.S., laddove è stata manifestata la necessità di andare oltre il particolarismo partitico per approdare ad un soggetto politico federato che raggruppi le varie anime ed i diversi partiti che si richiamano al riformismo socialista, ai principi, quindi, di libertà, democrazia e giustizia sociale. Un soggetto politico il cui cemento sia l’umana solidarietà rivolta alle classi più deboli: giovani e meno giovani in cerca di lavoro, lavoratori in sofferenza presso le aziende pubbliche e private, famiglie oberate di tributi e/o il cui reddito non garantisce loro una giusta qualità della vita. Un soggetto politico che affronti le necessarie riforme garantendo la difesa dei principi democratici e di giustizia sociale, che assalga la crisi economica tutelando i bisogni ed il dignitoso tenore di vita della gente. Un soggetto politico, quindi, che aggreghi tutto l’arco della sinistra italiana che crede nei valori peculiari della sinistra riformatrice e moderna, che si riconosce nel socialismo riformista e democraticamente rivoluzionario, escludendo quella che si dichiara di sinistra mentre si muove nell’alveo di finalità e programmi destrorsi



Parimenti, dalla costola di questa nuova entità politica deve nascere, in Sicilia, un raggruppamento federato della moderna sinistra in quanto la regione ha esigenze diverse dal resto del continente, quali quelle di: pretendere l’applicazione integrale dello Statuto Autonomistico ed il rispetto dei finanziamenti europei e dello Stato italiano, portare avanti nel contempo le peculiari esigenze dei siciliani rispetto al lavoro, alla necessità di infrastrutture che rendano agevoli le comunicazioni da ovest ad est dell’isola, all’economia isolana, quindi, ed a quant’altro servirà al progresso della regione autonoma, respingendo con forza la ghettizzazione territoriale palesemente esercitata dalla classe dirigente nazionale, politica e della casta dei burocrati.



Siffatta strategia di cambiamento è indilazionabile in quanto in Sicilia abbiamo avuto ed abbiamo ancora, un governo regionale che non difende i diritti derivanti dallo Statuto Autonomistico, che si è lasciato carpire dal governo centrale, e si lascia rubare, i fondi e le entrate che spettano di diritto alla regione siciliana. Una regione, la Sicilia, che registra il 50 per cento di giovani disoccupati, che ha famiglie che non arrivano, con le loro entrate mensili, alla fine del mese, che conta un numero elevato di precari i quali non sanno quale sarà il loro futuro, che vede, impotente, artigiani che non sanno come affrontare il domani e la chiusura di aziende.

In pratica e rifuggendo dal politichese, la Sicilia ha la necessità di una federazione delle forze di sinistra, con presenza radicata nella regione, che difenda gli interessi dei siciliani contro il malgoverno regionale e contro le prevaricazioni di quello nazionale.



L’Italia, e la Sicilia in particolare, hanno urgente bisogno del colpo d’ala delle menti progressiste e con convincimento di solidale servizio nei confronti del Paese, presenti nell’arcipelago socialista, socialdemocratico, liberal-socialista, laico e, laddove ancora esistano, comunista. Un arcipelago in cui la Costituzione Italiana e, per la Sicilia, lo Statuto Autonomistico abbiano la loro legittimazione. Il processo evolutivo in atto nel mondo, quello rivolto a migliori condizioni di vita, non può lasciare indifferenti coloro che hanno a cuore il bene dell’Italia e della Trinacria.

Sono fortemente convinto, pertanto, circa l’esigenza di una voce unitaria che si richiami ai valori originali dell’autentica tradizione socialista per applicarli nel panorama sociale e politico della regione: un socialismo isolano che parli alla gente attraverso proposte che guardino ai bisogni di una terra con esigenze diverse rispetto al resto dell’Italia, un socialismo siciliano che faccia sentire la sua voce affinché lo Statuto Autonomistico venga applicato; un socialismo che torni alle sue origini di riformismo e di impegno per le battaglie sociali; un socialismo che sia accanto alle giovani generazioni soprattutto, le quali, in Sicilia, hanno toccato l’apice del cinquanta per cento della disoccupazione; un socialismo che difenda le classi deboli, un socialismo, la cui azione prenda le distanze dall’appiattimento ideologico dei partiti che si proclamano “progressisti” ma non lo sono nell’azione di governo; un socialismo , diversamente autonomo, che riconoscendosi nel socialismo europeo, porti avanti le esigenze dei siciliani, che sono uniche e peculiari di questa terra, la quale dall’unità d’Italia in poi è stata ghettizzata perché considerata terra di conquista e “attenzionata”, quindi, alla stessa stregua di una colonia.


                                                                                                                                    Gaetano Zingales

                                                                                                         Segretario regionale organizzativo


Nebrodi e Dintorni


LONGI FRANA, SI ASPETTA CHE CI SCAPPI IL MORTO?



                                                             di Gaetano Zingales                             e con il contributo fotografico e di proposta di Salvatore Migliore


12/11/2016 - Diverse volte dalla roccia del Pizzo Stifani, nel territorio di Longi, grossi massi si sono staccati per rotolare nella vallata, con enorme fragore e provocando anche gravi danni. Cito alcune date di eventi franosi: anni ’60, anni ’70, anni ’80-’82, anno 2012, anno 2016, ai primi di ottobre.

Qualche volta, si è corso il rischio che un automobilista, che transitava per la SP.157, venisse travolto dai massi che rotolavano lungo la costa per abbattersi sullo stradale e, indi, rovinare nel fiume Fitalia travolgendo alberi e piantagioni. Solo la fortuna o il destino hanno evitato la tragedia.


Ancor oggi, con i massi sulla strada provinciale, in contrada Castiglione, le conseguenze si sono riversate sul centro abitato di Longi, che si è visto interdetto il percorso per raggiungere, in tempi accettabili, i paesi viciniori e quella della riviera marittima. L’alternativa è stata la percorrenza dello stradale a scorrimento veloce da Galati M. Passi per i centri rivieraschi, ma per quelli lungo la SP 157, distanti pochi Km da Longi, quali Frazzanò e Mirto, occorre scendere a valle per poi risalire a monte. Il risultato? Spesa automobilistica e tempo di percorrenza triplicati.

Ogni volta si è dovuto attendere l’intervento pubblico, con i suoi lunghi tempi burocratici, per rendere agibile l’arteria interrotta. A parte i disagi enormi cui vanno incontro i cittadini longesi, occorre rendersi responsabilmente conto che in qualche momento ci potrebbe scappare il morto.

 

E’ necessario, pertanto, intervenire radicalmente per eliminare la cause degli smottamenti. Ogni soluzione tampone è aleatoria e si è dimostrata inefficace.


Vengono avanzate, pertanto, alcune sintetiche proposte, che riteniamo risolutive.

1. A monte della antica trazzera che congiunge S. Marco d’Alunzio e Longi (Filipelli), si potrebbe innalzare, a poca distanza dalla imponente rocca, un solido muro in cemento armato alto 10 o 15 metri in modo che i massi che si staccano dalla roccia madre verrebbero fermati dalla barriera muraria, cadendo nell’apposita risega o contrafforte realizzata tra la base della roccia ed il muro. I soliti ferma-sassi con palificazione in ferro e reti, in altri siti, si sono dimostrati inefficaci alla bisogna.

2. Nel lungo tratto sotto il monte, che va dal torrente Rosa in contrada Castaneto sino al curvone di contrada Castiglione (se non addirittura oltre, rammentando la grossa frana degli anni ’70 nelle vicinanze del torrente di Mastro Minico), sarebbe risolutiva la copertura del tratto stradale con una galleria in cemento armato.


3. Lungo la costa, occorre divellere gli alberi di leccio che crescono accanto a delle rocce in quanto le loro radici penetrano nelle fessure della pietra, la spaccano e la mettono in movimento sino a farla fuoriuscire dal terreno e , quindi, farla precipitare a valle; ciò si verifica maggiormente quando, d’inverno, la neve penetra nella fessura diventando ghiaccio ed agevola l’effetto della “eradicazione” della roccia dal suo posto.



4. Nelle more dei lavori per la realizzazione della protezione dell’arteria interessata, poiché è impensabile isolare il centro abitato – occorre evitare i disagi del percorso della strada “a scorrimento veloce” (si fa per dire) – è opportuno rendere agibile la strada che attualmente parte dal Vendipiano, scende al Castaneto, prosegue verso c. S. Lorenzo per risalire, in C. Castiglione immettendosi sulla SP 157. Magari instaurando il senso alternato, regolato da semaforo, nei tratti più stretti.


Queste di cui sopra sono modeste proposte, da profani, in quanto sarà compito dei tecnici e dell’Ente pubblico che gestisce le strade provinciali, individuare la soluzione migliore.


Si ribadisce con forza che è prioritaria la messa in sicurezza risolutiva (e non con misure tampone) di questo tratto di strada avendo presente, soprattutto, la vita dei cittadini che sono costretti ad usufruire di quella infrastruttura viaria. Ogni impedimento di natura economica è soltanto strumentale ed inaccettabile innanzi alla salvaguardia della vita umana.













Nebrodi e Dintorni


TSIPRAS FA SPERARE IN UNA SINISTRA UNITA PER LA SICILIA


 Alla luce degli avvenimenti politici di quest’ultimo scorcio di tempo, ritengo opportuna un’analisi degli eventi, sui quali, peraltro, si è soffermata a dibattere la Direzione Regionale del Partito Socialista Siciliano, riunitasi il 27 u.s., 

                                                                                                                         di Gaetano Zingales *


Palermo, 31 Gennaio 2015 – 

Sono convinto che occorra superare la trincea del proprio “particulare” per iniziare un percorso che porti ad una aggregazione delle forze politiche di sinistra. Il processo evolutivo della società odierna, infatti, non consente ulteriormente la frantumazione delle progettualità riformistiche e di giustizia sociale come rivendicazioni episodiche da parte dei singoli soggetti politici, che si identificano nella sinistra progressista e socialista; una sinistra unita, moderna ed antagonista delle riforme poste in essere dall’attuale classe dirigente del Paese: riforme, queste, conservatrici, di dubbia costituzionalità, limitative della democrazia e di grave arretramento del mondo del lavoro e della società in generale.



Sono da approfondire, pertanto, le iniziative in atto tese ad aggregare le rappresentanze politiche di sinistra ed, in tal senso, il P.S.S. si dichiara disponibile a concorrere, assieme ai partiti, ai movimenti ed ai circoli di ispirazione socialista alla formazione di un soggetto politico federato, di opposizione e quale alternanza di governo. Ciò soprattutto per quanto riguarda la “res pubblica” siciliana. Nel cui ambito territoriale, peraltro, è necessario incidere fortemente per l’applicazione dello Statuto Autonomistico; a tal riguardo, è auspicabile che possa esserci un coinvolgimento dei movimenti sicilianisti.



In campo regionale, è da stigmatizzare la gestione politica ed amministrativa della Giunta Regionale presieduta dal Governatore Rosario Crocetta, il quale è impegnato a sopravvivere politicamente ed è privo di iniziative per la ripresa economica della Sicilia. Crocetta è altresì assente nell’impegno per la lotta alla disoccupazione ed appare succube delle decisioni adottate dal governo nazionale nei confronti della Regione Sicilia. La quale, purtroppo, è da ritenersi commissariata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri in dispregio dell’Autonomia Statutaria Siciliana. Inoltre, si esprimono preoccupazioni per quanto riguarda il bilancio regionale e la situazione finanziaria che si avvia verso il default o, comunque, verso l’assunzione di un pesante indebitamento attraverso un mutuo, economicamente considerevole. Se ciò accadrà, le conseguenze si abbatteranno sui bilanci delle famiglie siciliane per alcune decine di anni.


Nel prendere atto del brillante successo della lista del leader greco Tsipras, è auspicabile che un “vento nuovo” possa cominciare a spirare in Europa per dare imput ad un rinnovato percorso per uscire dalla pesante crisi che ha prostrato l’economia dei popoli che si affacciano sul Mediterraneo colpendo soprattutto le fasce più deboli. Occorre, però, difendere la consapevolezza che è necessaria una riforma del Pse per una sua apertura alle nuove energie della sinistra continentale, mantenendo come centrale la questione della appartenenza al socialismo europeo. In tal senso, andranno ricercati nuovi spunti e nuova linfa per rilanciare l’azione del Partito come soggetto politico che pone la questione della ristrutturazione della sinistra siciliana.



* Segretario regionale Organizzativo del PSS

Nebrodi e Dintorni


C’ERA UNA VOLTA LA “SICILIA FELICISSIMA…”, OGGI E' LITIGIOSISSIMA


 In breve, alcune necessità infrastrutturali che non possono essere lasciate al lassismo politico. Collegamenti veloci e recupero del patrimonio artistico tra le priorità. Le imposte di produzione delle raffinerie di oli minerali devono andare nelle casse della Regione Siciliana

15/05/2014 - Attraverso una legge-voto, approvata dall’A.R.S. ed inviata per la ratifica al Parlamento Nazionale, è stata chiesta la modifica del’art.36 dello Statuto della Regione, per mezzo della quale si dovrebbero obbligare le raffinerie di oli minerali, che operano in Sicilia, a versare nelle casse della Regione, le imposte di produzione.


Le quali, secondo lo Statuto vigente, sono riservate allo Stato. Tale norma, se venisse approvata dal Parlamento Nazionale, consentirebbe un introito di svariati miliardi di euro per il depauperato bilancio siciliano. Ma significherebbe anche maggiore disponibilità economica per il rilancio dell’occupazione da parte dell’ente regionale: un’arma contro la devastante disoccupazione.


Con le suddette maggiori entrate si allontanerebbe la necessità di chiedere “contributi di solidarietà” allo Stato. Al quale, però, rimarrebbe l’obbligo di intervenire, con appositi e necessari finanziamenti, per la realizzazione delle grandi opere. Che sono tante! Va da se che non bisogna farsi sfuggire le opportunità di risorse, deliberate dalla Comunità Europea.

Ecco alcune necessità infrastrutturali.



Nel settore ferroviario, il raddoppio delle linee Palermo-Messina- Catania-Siracusa rimane la grande incompiuta; ma non dimentichiamo la linea Catania- Palermo e la velocizzazione della Agrigento-Palermo. Ed ancora, la Palermo-Trapani, oggi a “scartamento ridotto”. Non si accenna nemmeno, nei programmi delle opere pubbliche, alla necessità di velocizzare il collegamento tra il sud-orientale della Sicilia al capoluogo di regione. Cioè, la via di comunicazione che, partendo da Modica, attraversi Ragusa -Vittoria- Gela per innestarsi al nodo autostradale e ferroviario di Caltanissetta. Oggi per raggiungere Palermo da Modica, con gli autobus di linea, occorrono da quattro a cinque ore, condizionate dal traffico automobilistico.



Altro campo in cui intervenire è quello del restauro del patrimonio artistico, punto di forza e di attrazione del turismo; una miniera d’oro, quest’ultimo, per l’economia isolana se l’intero settore fosse attenzionato come primario “canale industriale”.


Ci fermiamo qui, riproponendoci di tornare su altri argomenti che attengono al rilancio dell’economia regionale


La “Sicilia… felicissima”, quella della lontana dominazione araba, che, nel bene e nel male, diede impulso all’agricoltura, a talune opere di ingegneria idraulica e civile, ma anche artistiche, sino a pervenire alla genialità del regno di Federico II e di alcuni re normanni, che privilegiarono l’arte e la cultura, quella Sicilia ‘, dicevamo, ha scritto l’illustre storia della Trinacria. Le successive presenze politiche, i regimi succedutisi hanno interrotto i … sogni del popolo siciliano.



Oggi, ma non solo adesso, la Sicilia è patologicamente invasa da forte litigiosità politica, devastata dall’ambizione del potere, da isole di corruttela, da privilegi concessi alle caste, dall’abisso reddituale tra ricchi e poveri. Tutto ciò si riversa sulle classi più deboli e sui senza lavoro. In parecchi intraprendono la strada dolorosa dell’emigrazione.



Onestà, impegno politico al servizio dei siciliani, crescita culturale e di educazione civica sono, tra l’altro, fondamentali valori per allontanare la piaga della presenza mafiosa, sempre attenta a lucrare sulla pelle della comunità.




Gaetano Zingales

Componente la Segreteria regionale del

Partito Socialista dei Siciliani





Nebrodi e Dintorni


LONGI: DOMANI LA CONFERENZA “STATO DELL’ARTE SULLE ROCCHE DEL CRASTO E ANTICA CITTÀ SICULO-BIZANTINA DI DEMENNA”

Longi (Me), 12/10/2012 - Si terrà domani, sabato 13 ottobre alle 10, presso il Castello feudale di Longi (ME), sede della Banca di Credito Cooperativo della Valle del Fitalia, una conferenza sul tema “Stato dell’arte della ricerca archeologica e storica, sulle Rocche del Crasto, in riferimento al territorio dei demenniti ed all’antica città siculo-bizantina di Demenna”. Nel corso della mattinata, sarà anche presentato il saggio di ricerca documentale “Tra Krastos e Demenna” di Gaetano Zingales, presidente del Centro Studi “Castrum Longum” che ha organizzato l’iniziativa. Secondo i promotori, l’incontro mira a riaprire il dibattito in merito alla delimitazione dell’area abitata dei demenniti, da cui prese il nome il Valdemone, sollecitando le istituzioni alla valorizzazione di un territorio in cui è ancora forte il retaggio della cultura bizantina e del cristianesimo orientale.











Nebrodi e Dintorni


LA SICILIA E LE SUE CRISI, CHIEDERE LO STATO DI “ZONA FRANCA”



Collegamento tra la parte occidentale ed orientale della Sicilia. Eventi luttuosi e criminali nell’area mediterranea. Chiedere lo stato di “Zona Franca”


22/04/2015 - Se dovessimo fare un elenco delle necessità irrisolte della nostra regione, ci perderemmo in un lungo elenco, che vede l’emergenza lavoro, come prioritaria, e che, addentrandosi nelle pieghe del bilancio della Regione Siciliana, non dà risposte allo sviluppo produttivo dell’isola. Una massa di debiti di svariati miliardi vieta qualsiasi progetto che impedisca l’emorragia di menti e braccia di lavoro, il carico di disoccupati sulle famiglie in difficoltà economiche, nonchè la stasi dei settori che tipizzano la nostra economia. Eppure, per risolvere in parte gli annosi problemi dei siciliani, sarebbe stato sufficiente applicare letteralmente lo Statuto Autonomistico pretendendone, altresì, il rispetto delle norme “privilegiate” da parte del governo centrale. Ma così non è stato. Le colpe? Senz’altro di una classe politica dirigente che, da decenni, ha governato la nostra regione. E non è finita.



Soffermiamoci, però, su due emergenze, che stanno mettendo a terra il nostro territorio insulare.

Il crollo del tratto dell’autostrada Palermo-Catania, che ha prodotto danni incalcolabili alla popolazione costretta a usufruire di quell’arteria, ha messo a nudo le insufficienze e la responsabilità a carico di ciascun organo di governo e di controllo delle strade. Ma di ciò se ne sta occupando la magistratura. Raccogliendo le voci dei disagi cui la gente va incontro nel dovere attraversare quel tratto di territorio disastrato e dei fatti di negativa ricaduta sulla vita quotidiana, ritengo di potere avanzare alcune mie riflessioni. In primis, condivido la proposta lanciata di nominare un Alto Commissario per superare gli ostacoli frapposti dalla normativa vigente e dalla burocrazia, regionale e nazionale.



Contestualmente, per la realizzazione, in tempi brevi, della bretella di congiungimento all’arteria interrotta sarebbe appropriato affidare i lavori al Genio Militare. E ciò per impedire lungaggini di gare di appalto ed ingerenze… poco trasparenti. In Giappone, in occasione dell’ultimo disastro naturale, l’esercito in pochi giorni ricostruì un’autostrada. Se lì è stato possibile, perché, in urgenza, non dovrebbe esserlo anche in Sicilia?



Inoltre, attraverso lo stato di calamità, dichiarato dal Governo Regionale, occorre eliminare urgentemente la precarietà esistente, sulla strada alternativa madonita, di innesto tra gli svincoli di Scillato e Tremonzelli. Ma non possiamo, pur tuttavia, non tenere presenti i disagi di coloro che risiedono nel sud-est della Sicilia: mi riferisco al collegamento viario e ferroviario tra le province di Siracusa e di Ragusa con il Capoluogo siciliano. E’ possibile intervenire sulla ferrovia Siracusa- Ragusa-Gela? Ove non trovi la possibilità di un ripristino della tratta ferroviaria Gela-Palermo, in allacciamento con la Ragusa –Gela, il proposto percorso aereo Comiso- Palermo Boccadifalco dovrebbe essere attuato con un paio di voli A.R. ad un prezzo “politico”, da Low Cost.


Si può fare, però, ancora di più. E’ possibile, secondo le normative vigenti, dichiarare “Zona franca “tutto il territorio isolano evidenziando le complesse precarietà e disagi. Tra le altre provvidenze che ne deriverebbero, si potrebbe rimuovere il pagamento del pedaggio autostradale PA-ME e ME-CT, e viceversa e, contestualmente, abbassare le accise sui carburanti per una loro diminuzione del prezzo alla vendita presso i distributori. Va da sé che questi due indilazionabili provvedimenti bloccherebbero l’aumento dei prodotti al dettaglio affidati alla distribuzione su gomma. Di cui già s’incominciano a subire gli effetti deleteri per il consumatore.



Passando all’altra emergenza di disastri umani, internazionale ma che primariamente investe la Sicilia, volgendo lo sguardo su quanto sta accadendo nel nostro mare, nel Mediterraneo, in cui la nostra terra rappresenta la frontiera meridionale dell’Europa subendone le pesanti conseguenze, assieme al nostro intero Paese, non posso non fare una forte proposta. L’U.E. e la comunità internazionale non possono continuare a “guardare dalla finestra” e cincischiare sull’immane tragedia che ha investito i diseredati dei paesi africani, che cercano una speranza di serenità fuori dai loro confini.


L’ONU e l’U.E debbono farsi carico di un risolutivo intervento adottando le misure necessarie, anche forti. Tra l’altro, quando la diplomazia non riesce a pacificare gli “animi” esagitati, l’unica strada alternativa è rappresentata dalle armi per imporre la pace. Ritengo, quindi, che occorra partire da una missione militare mirata, seppure dolorosa, a guida ONU, per distruggere il terrorismo diffuso dall’ ISIS, il cui cervello malato risiede nel Califfato con a capo Abu Bakr al-Baghdadi, nelle regioni dove si assiste a nefandezze, a torture, a decapitazioni ed a varie crudeltà, le quali inducono le popolazioni a fuggire dal massacro in atto e dalla fame che ne deriva. Non è più eludibile un’altra operazione militare internazionale simile a quella irachena che abbattè la dittatura di Saddam Hussein.



Nel frattempo, è necessario adottare una misura internazionale, attraverso magari apposite leggi dei singoli stati, che vieti in maniera assoluta la vendita di armi a soggetti criminali, comminando pesanti pene in caso di violazione del divieto. Costringere, cioè, i fabbricanti di armi a vendere esclusivamente il loro fatturato bellico agli Stati per le necessità dei rispettivi eserciti. Nello stesso tempo, sarebbe opportuno emanare l’embargo di merci ed armi nei confronti di territori e stati in cui si annida il terrorismo.


Per continuare nei provvedimenti, è indifferibile l’apertura di un corridoio legale, nei paesi africani in cui vige il sistema democratico, per un normale espatrio in altri stati di quei cittadini alla ricerca di lavoro. Intanto, il flusso migratorio clandestino si può limitare attraverso la presenza di una flotta militare internazionale nelle acque del Mediterraneo, in vicinanza delle coste africane. Eventuali barconi di migranti dovrebbero ricevere la solidale accoglienza umanitaria per un loro smistamento, attraverso un coordinamento ONU, nei diversi paesi in cui quegli sventurati aspirano ad ottenere asilo politico.


In sintesi, queste sono le proposte personali, espresse per grandi linee, che potrebbero essere valutate dai governi, italiano, europei, internazionali per un loro approfondimento.


E’ mia convinta supposizione che, da tutto quanto sopra indicato, alla nostra Sicilia potrà derivarne un positivo input per affrontare lo stato di emergenza attuale, relativamente ai due problemi accennati.

Per le altre urgenze siciliane – decollo economico ed occupazionale – penso ad una tavola rotonda dei partiti dell’area di sinistra attraverso la quale sarà possibile individuare, da subito, proposte- primariamente la accennata richiesta di dichiarazione di ZONA FRANCA-, fattibili ed alternative all’attuale azione del governo regionale in carica. Vado oltre. Auspico che i partiti ed i movimenti incontratisi in “Sicilia sottosopra” prendano l’abbrivo per un unico cartello aggregativo strutturale, alternativo al governo della regione ma soprattutto riformistico e per il rispetto dello Statuto Autonomistico Siciliano. Occorre lasciare i patriottismi ideologici e di nicchia per raccogliersi sotto l’unica bandiera del socialismo democraticamente rivoluzionario, i cui valori sono sempre attuali: oggi più di ieri.


Gaetano Zingales

Segretario Regionale Organizzativo

del Partito Socialista Siciliano
































I RACCONTI DEL CAVALIERE

 

C'era una volta un presepio

 

C'era una casa che il tempo centenario aveva conservato in quel borgo millenario dove viveva un bambino, cui la violenza di una guerra strappata ai più aveva portato via il genitore.

Nella vecchia cassetta militare della prima guerra, il nonno aveva conservato un lavoro, frutto del suo hobby di intarsio del legno: i vari personaggi di un presepe. Poggiò su una grande cassapanca, quel nipote, le figure lignee: c'era la casetta (non la grotta) per la natività, c'erano i pastori, c'era il bue e l'asinello, c'erano i Magi, c'era "u spirdato", c'era la Madre e c'era il Padre.

Nei campi, il bimbo raccolse il muschio e piccole pietruzze e "costruì" un prato attraversato da un sentiero; con la carta stagnola - dalla mamma conservata - di una tavoletta di cioccolato (quello che le truppe americane distribuirono a piene mani alla gente del paese durante la liberazione della Sicilia dal nazi-fascismo), "realizzò" un fiumiciattolo ed un piccolo laghetto e, nello sfondo, mise delle pietre vere a guisa di montagna innevata, coperte da batuffoli di cotone; manciate di scaglie di sale grosso , sul prato di muschio, dicevano che era ...nevicato. La sera spegneva il lume a petrolio ed accendeva una "lumaricchia" (lumera ad olio in creta) per illuminare, in penombra, la scena di quel presepio del nonno.

Nella Notte Santa, su una manciata di paglia, depose la figura principale, anch'essa lavorata al traforo: il Bimbo Nato. Il suono di un carillon che riproduceva Jingle bellis, venuto da chissà dove, allietava quell'umile stanza e l'innocente anima di quel bimbo gioiva. Il quale, con poco, era felice nella brevità di quell'evento.


L'uomo, non più credente, coperto da canizie, rievoca ancor quel tempo, non felice ma pieno della serenità di una decorosa povertà. Ed una fredda goccia, sfuggita alle ghiandole lacrimali, s'insinua silenziosa tra le rughe del suo volto, che sa di non dimenticato pathos.


19- 12- 2020
























il NIBBIO


Con il grifone e l'aquila nel cielo delle "Rocche del Crasto". "Libertà" è il mio nome. ***************************************************** di gaetano zingales.


19 SETTEMBRE, 2018

Il “profumo del Potere”




Il “profumo del Potere”


Tra assolutismo e “giochi circensi” per nascondere la inefficienza di gestione della “res pubblica”


Dicono che il potere ubriaca e che, quindi, la gestione della cosa pubblica potrebbe andare incontro a dolorosi eventi se l'esaltazione tracima dagli argini della legalità e della democrazia. Ciò accade quando si lascia libertà di decisione ad una sola persona; se, invece, la conduzione del governo di un Paese, di una comunità o di un ente pubblico viene gestita collegialmente la democrazia non corre alcun pericolo.

L’aspetto negativo di una gestione democratica è quello quando il “capo” impone il suo volere e nessuno ha il coraggio di contraddirlo o di fargli notare che quel tipo di decisione è sbagliata. In tal caso ci troviamo in presenza di una trasformazione del potere, che da relativo si avvia ad essere assoluto. Ed è allora che la democrazia corre seri rischi.

In tal altri casi, in piccoli centri soprattutto, troviamo, talvolta, una gestione della comunità laddove larvati gruppi di potere politico, economico e religioso “fanno cartello”. Questo avviene soprattutto quando quei poteri sono nelle mani di un solo clan: si instaura così una sorta di dittatura strisciante che annichilisce il cittadino e gli toglie la libertà di decidere autonomamente: quest’uomo vive sotto ricatto e ne viene annullata la sua personalità.



A proposito di Potere, mi viene in mente cosa accadeva, parecchi secoli addietro, durante l'impero romano. “L’espressione Panem et Circenses alludeva ad un meccanismo di potere influentissimo sul popolo romano, era la formula del benessere popolare e quindi politico; un vero bozzo/strumento in mano al potere per far cessare i malumori delle masse, che con il tempo ebbero voce proprio nei luoghi dello spettacolo. Per estensione, la locuzione è stata poi usata, soprattutto in funzione critica, per definire l'azione politica di singoli o gruppi di potere volta ad attrarre e mantenere il consenso popolare mediante l'organizzazione di spettacoli e attività ludiche collettive come le terme, o ancor più specificatamente a distogliere l'attenzione dei cittadini dalla vita politica, in modo da lasciarla alle élite” (Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.).

Ed ancora. Nella enciclopedia Rizzoli-Larousse, leggiamo che l'espressione di Governale stava ad indicare che” la plebe romana, politicamente decaduta, non aveva altri desideri che ricevere distribuzioni gratuite di grano ed assistere agli spettacoli del circo. E' citata oggi a proposito di una politica demagogica, che tende a soddisfare le esigenze elementari od anche i bassi istinti del popolo, senza affrontare i problemi importanti.”


Il metodo ha resistito ai secoli e, sotto altra foggia, ha preso contorni e forme moderne di una astuta, ma ingannevole, attuazione. Avviene che in alcuni piccoli centri, inopinatamente, siede su uno scanno un capo tribù che indossa la veste di “potente” di turno - si fa per dire- il quale, per nascondere la sua insufficienza, ricorre a siffatti sistemi. Oppure, con questi trucchetti cerca di distrarre l'attenzione della gente rispetto alla gravità dei problemi, verosimilmente per farsi ricordare come un ... “grande sceicco”, con l'illusione di un intimo pio desiderio – senza riscontro- che, almeno, i suoi sodali possano “rimpiangerlo”. E quindi, la distribuzione gratuita di frumento viene sostituita dalle sagre, dove si mangia e si beve, mentre spettacoli, danze e quant'altro richiama sembianze ludiche rimpiazzano i giochi circensi, gli eventi gioiosi della religione pagana e gli spettacoli antichi con l'ovvia benedizione del gran sacerdote locale, rappresentante onnipresente della casta, in sostituzione dei guardiani del tempio dedicato al Grande Giano.

Le casse spesso languono, ma quei pochi euro disponibili, anziché utilizzarli per risolvere le necessità contingenti od urgenti nonché per realizzare i servizi di utilità sociale, vengono dilapidati per soddisfare i desideri latenti del popolo attraverso istanti di spensierata festosità od anche per assecondare le richieste clientelari dei propri cortigiani, pur di dubbia legalità.

In simili circostanze, la gente tace e diviene omertosa- pur non essendolo fondamentalmente- di fronte alla presenza di una strisciante forma dispotica ed autocratica che gestisce, in solitudine, il potere politico, economico e religioso.

L'uomo è libero se ha la facoltà di agire spontaneamente per iniziativa della propria volontà e della propria ragione e se ha la possibilità di sviluppare la propria condizione di uomo e, dunque, la propria personalità. L'uomo vive libero se il potere rispetta le regole della democrazia e delle leggi; se, invece, ci si trova in una situazione opposta è il caso di esclamare: “Povera, e nuda vai” democrazia in quel.... medievale... feudo che lo sceicco ritiene gli appartenga!

                                                                                                                                                  G.Z.




















Rimembranze di perduti accenti bucolici

La leggera aria, che arrivava dalla brezza di lontani boschi, soffiava come piuma sul volto ed accarezzava i miei pensieri su quella roccia lambita dal lento defluire del torrentello nascosto da cannucce frondose per distesi canneti.

Andavo a quella collina d'altura dove danzavano nel proscenio del cielo terso, prossimo a baciare l'ultimo fulvo raggio, le torme di rondinelle venute da lontano, mentre, sul limitare di tegole antiche, cinguettavano, come comari in fila, pettirossi sazi per una ricca caccia di insetti.

Vedevo il greto del sonnecchiante fiumiciattolo, dove saltava in acqua un anatroccolo tentando di afferrare una piccola anguilla, che però riparò nel fondo di un gorgo per sfuggire alla inopportuna presenza. 

Mi giungono ancora; da un non lontano prato, il flebile muggito d'un vitellino che cercava la sua turgida mammella ed un tintinnar di campanacci tra il suono dello zufolo del giovane pastore. 

Lo scrosciare della centenaria fontana dissetava, e disseta ancora, i cavalli ed i buoi accaldati che venivano dagli alti monti: era un canto che aveva attraversato i secoli per rammentare eventi del passato.

Ricordo il vociare delle donne, sedute sul “bisolu” o sul “ballaturi”, che arrivava dalle casupole del borgo, che taceva, però, quando il campanaro invitava alle ultime preghiere serali. Intanto, presso l'umile “buffetta” attendeva la sua donna il compagno tornato dai campi: pane nero, formaggio ed olive e qualche insalata era il rituale cibo di quei tempi. 

Era primavera ed i campi scoppiavano già dei colori degli umili fiori mentre le spighe cominciavano a biondeggiare invitando il pennello a colorare la tela del pittore.

Questa, però è la tela dipinta nel mio immaginario, che mi porto dietro dai lontani anni della giovinezza.

Ora, come allora, benvenuta primavera!

15 06 202

GZ
























































Poesie




La Poesia ha accompagnato molti eventi della mia vita, belli o brutti. Ne pubblico alcune che hanno contrassegnato periodi del mio vissuto e che, pertanto, - come già detto - fanno parte della mia storia, segnatamente di taluni giorni o di ore di felicità, oppure in altri miei accadimenti.

Quando, nel 2013, ci ritrovammo con Maria Giovanna, nella mia casa di campagna, lei ha voluto che distruggessi documenti relativi alle mie storie, - conservati in una cassapanca militare del 1915 - , con le donne conosciute prima di lei perché ne era gelosa e voleva che dimenticassi il mio passato. Una motivazione non certamente ragionevole, né appropriata, ma che accettai nel coinvolgimento dei sentimenti che ci legavano, anche perché compresi che era il desiderio di un intimo sentimento d’amore e che la distruzione di essi, per lei, aveva un significato, magari simbolico, ma pur sempre una dimostrazione d’amore 

Bruciai, quindi, nel camino acceso, lettere, foto ed altri ricordi. Dal punto di vista fattuale vennero distrutti, ma il ricordo di essi, nel profondo della memoria, permane, anche se sbiadito. 


Nelle pagine seguenti, talune strofe dedicate ad alcune delle donne, di cui non ho fatta menzione nell’intervista, ma che hanno lasciato un solco profondo nella mia vita e che hanno accompagnato, allora, ma anche dopo, le relative storie. Ho aggiunto anche alcune liriche dedicate alla mia seconda moglie, a Maria Giovanna ed al mio paese.

Le poesie in occasione del 18° della mia prima moglie, Maria, sono andate perdute. Così come non ho trovato nel mio archivio quelle che scrissi per Miriam.







A Lori

La mia seconda moglie


Nuovi sentieri

Spezzate avesti l’ali

in sul nascere della vita

e come nudo ramo

il turbine ti piegò

negandoti il calore della linfa.

Staffili di veleno

colpirono il tuo cuore

ed il boia ordì

orrende trame.


Ora sei qui

passero dolcissimo

a scaldarti tra le mie mani

ora sei qui

a cercare la luce nei miei occhi

ora sei qui

tra sicure ancore

in un specchio

di tersi ruscelli.


Dammi

la tua mano

perché possa immergerla

nel mio cuore

dammi

il tuo sorriso

perché possa baciarlo

dammi

i tuoi pensieri

perché con i miei volino

sugli alberi del paradiso.


Vieni

è già l’alba

e tanto cammino insieme

ancor ci attende.

1 agosto 1977



Notturno d’amore

Non hai udito cantare

gli astri stanotte

mentre in Campidoglio

sognavi con i miei baci?

Si sono spente ad un tratto

le luci

e le vestigia di gloria

adagiarono il loro splendore

ai piedi del vagante amore.

Le foglie tacquero

sui petali degli occhi

cadde silenzioso

lo scrosciare delle acque

gli immoti passeri nel nido

aprirono le ali

in un frullare di sensi

quando le tue labbra alle mie serrasti

per dirmi in una cornice di rose:

“ti amo”.

Roma, 7 maggio 1977



11 agosto

C’era tanto buio quella notte

su quel lago

eppure vidi

le tue mani

spingere la nata conchiglia

il tuo volto

mirare quel rosato giglio

mentre a lei lo donavi.

Tu

mi attendevi

ai confini del tuo Mondo

e venni per prendere

quell’ultimo bacio

che allora non mi desti

nello stesso dì in cui Vi entrasti.


Ed accanto a me era

lei

solo lei

che mi teneva per mano

e nel grembo

già portava il nostro seme.


Lei

mi darà un bimbo

e noi torneremo nella nostra casa

a toccare le antiche pietre

torneremo tra i nostri monti

per volare sulle aure note

e tu

sarai ancora con noi

padre

sarai con il nostro pargolo

mentre lei ed io

conteremo le notti

che sui nostri sguardi

dipingerà il danzare delle lucciole.


Palermo, 15 agosto 1977: durante una crisi di edema della glottide, assopitomi, vidi mio padre morto per edema della glottide in data 11 agosto 1941







A mia mamma


La prima parola

Ti ricordo

quando piangente sulla sua bara

al tuo dito per sempre cingesti

il suo nuziale anello;

ti ricordo

nei tuoi viaggi lontani

per dare la gioia del vivere

alla tua piccola nata;

ti ricordo

soffrire per l’ultimo addio

a chi la vita ti diede;

ti ricordo

nel dolore del distacco

dalla tua casa avita

dove il tuo unico amore fiorì.

E venne poi la mia speranza

spezzata da tempeste.

Lentamente

il crine s’è fatto grigio

e gli anni hanno toccato

il tuo bel viso

ma gli occhi,

mamma,

sono sempre quegli occhi stupendi

della tua gioventù,

quegli occhi

che trepidanti

ho visto

ora muti

ora tristi

poche volte lieti

ma sempre presenti

e carezzevoli come volessero lenire

il mio dolore.


Porto qui nel mio cuore

il tuo volermi bene

le tue parole

il tuo stare in ansia

per il mio girovagare

fra le arene sparse

lungo il mio cammino.

Palermo, 2 agosto 1977





















A mia nonna Caterina


Ancor sei viva, nonna

Tu guidasti

o nonna

la mia mano al sapere

alternando i trastulli al sillabario.

Poi

il triste Fato

recise la mia speranza

e l’implacabile morbo

ti nascose

il buio della mia sorte.


Dedicasti a me

la tua ultima carezza

nell’estremo istante

di coscienza:

era l’ultimo tuo sguardo d’amore.


Desti a noi in dono

la tua bontà

pur trafitta da un solitario

soffrire

per il destino dei tuoi cari.

Ma ancor oggi

nel ghiaccio senza moto dei corpi

nel richiuso di un vuoto

di tenebre

la mia voce ha un nome

un amore:

Caterina.

Longi, 2 novembre 1974




A Longi


ERA BELLO IL MIO PAESE

Candidi i fiocchi cadevano dal cielo

sugli stinti sconnessi “canali”

da cui filtrava l’acre fumo

di legna accesa nella “tannura”;

brontolava la massaia

per il lento cuocere della polenta

unico cibo assieme al nero pane.


Nella notte

il freddo plasmava diafani “cannileri”

alla base dei tetti a sgrondo

mentre il braciere spento

si preparava a dipingere “fucili”

sulle gambe fasciate di ruvida lana.


Percorrevamo, scolari, i malconci vicoli

scivolando sui gradini ghiacciati,

bombardati dallo scolo dei “canaluni”,

attenti a non farci sfuggire il piccolo scaldino,

misera illusione nelle fredde aule.

Marinavamo la scuola

per scolpire l’omino con la pipa

sull’enorme palla nevosa

agglomerata lungo la “ciacata” del Corso:

saettavano allora sulla piazza palle di neve

contro il goffo pupazzo.

Il bianco tutt’intorno penetrava

le nostre virginee anime

che elevavano canti attorno al fuoco del Natale.


Poi, quando il profumo di ginestra inondava l’aria

ed il garofano occhieggiando

tra le pendule “campanelle” sui davanzali

carezzava mite le narici

s’usciva nei campi avendo compagni

il belar della capretta

ed il monotono brucare del rude asinello.

Intanto, le donne sferruzzando sedevano sul “paraturi”

mentre i pulcini razzolavano tra i ciottoli del vicolo.

E la sera era festa attorno alla “cardella” fumante,

a male pena rischiarata dalla traballante “lumaricchia”.


Riempivamo di grida

la “chiesa sfasciata” o il “chiano” dell’Annunziata

calciando un improvvisato pallone,

ci trastullavamo

spruzzando l’acqua sul volto delle ragazze

che lavavano i panni alla “Fontana”

o strisciando a rimpiattino

tra i “ficarazzi” del “Vignalazzo”

per poi dissetarci alle fluenti acque

dei Due Canali.


Millenario borgo

dalle case piccole e vetuste tra il Castello e la S.Croce,

abitazioni piene di gente

che talvolta si dividevano con gli animali da cortile,

armoniosi acquerelli sul declive pianoro

a sbalzo sull’acque del Milè;

dedalo di viuzze strette

con le “quartare” a riempire

messe a turno dinanzi alle antiche fontane.

Sereno ciarlare tra le comari sull’uscio di casa,

notti scaldate da un bicchiere di vino

al banco del “putiaro”

per dare il via alla vibrante “chianota”.

Notti senza luce

complici di languide serenate

sulle note di un mandolino aiutato da qualche chitarra.


Così fluivano le stagioni in quegli anni quaranta:

vita grama, senza pretese ma tanto amore tra la gente.

Tasselli di un mosaico consegnati alla storia

memorie di ricordi andati:

volti amati maestri di vita,

scorci dipinti che non esistono più.


Era bello il mio paese d’allora

tanto povero ma ricco di antichi sapori.

10 ottobre ’98



UNA TERRA, UN AMORE

Terra

ove le ore fanno

“din, din, din:den”;


terra

della quale il passo conosce

il selciato d’ogni vicolo;

terra

il cui respiro penetra

nelle sacche del cuore;

terra

dove l’aria silente

non è solitudine

ed il bianco delle nevi

è calore fra la gente;

terra

dove il crepuscolo

è preghiera

e la luna tra i monti

fa luccicare

i rivi di acque terse;

terra

laddove t’inonda

il forte

dolce sapore

d’un rosolio

di casa tua.

Terra verde

dei noccioli e degli ulivi

terra rossa

tra i castagni

terra brunita

tappeto già stinto

di campi

arsi ed abbandonati

terra grigia

di rocce

sentinelle

di tegole vermiglie.


Terra mia

e dei miei padri

ove un amore sospinto

tra i rovi senza linfa

trova pace

nel bacio

dell’ultimo silenzio.

Longi, 29 08 2004



ADDIO COLLI

Addio colli

che anelate la solitaria libertà nei cieli

fuggendo il verde declivio

dove ruscelli portano a valle

le fresche acque

delle lontane cime,


Addio voli

dell'aquila reale

armonica simmetria

di ètoile

sul palcoscenico

della mia terra.


Addio ombrosi boschi

verdi chiome lambite

da fruscianti ruscelli

ristoro dei miei pensieri

nell'intrecciare dialoghi d'amore

con la mia meravigliosa compagna.


Addio casupole del villaggio

dormiente tra le lucine

delle strade deserte

ed impercettibili rumori notturni.


Addio mura

che hanno accolto i vagiti

di chi ha dovuto inseguire la speranza

nelle luci della città.


Addio amico, fratello,

che hai intrecciato con me

le ludiche ore dell'infanzia.

Addio cento rintocchi del mattino

che mi avete indicato la via

per l'inizio del primo sapere.

Addio ricordi di strade selciate

dove il divenire delle ore

conosceva la pace del natio borgo.

19 09 21










A Giò



14 febbraio


Lieve m’avvolge

il suono sidereo della tua voce

e bramo di poggiare  i miei pensieri

accanto al tuo volto.

Dormiremo insieme alfine

su petali vermigli

delle rose del mio giardino.


14 02 2022                           

                        


TU, TUTT'ORA PRESENTE

Quando ai piedi

del mio ultimo pagliericcio

si presenteranno le sentinelle del cielo

vorrei che tu

raccogliessi il volo della mia voce.

Se hai sentito il vento bussare

alla tua porta

leggi il messaggio:

sono accenti che solo

il tuo cuore potrà capire.

Allorquando più non udrò il suono

delle campane del mio borgo

salirò su una nuvola per ritrovare

il tuo volto.

Solo allora

sussurrando l'ultima preghiera

valica i monti ed il mare

ed ascolta i miei infelici versi

che cercano la tua alba.


TI HO RITROVATA

Ebbi i natali all'ombra di una roccia

carezzata da nevi

baciata da flauti pastorali

ma una slavina travolse la mia capanna

distruggendo i sogni.


Ho attraversato i verdi boschi della speranza

tra il veleno di serpi sparso

sulla profumata erba del mattino.

Solcando i mari della vita

m'imbattei in un delfino;

sul suo dorso cavalcava una nereide:

eri tu.


Ti amai e ci amammo

in una grotta sulla riva

ma un uragano ci trascinò

e naufragammo tra scogli deserti

ed i gabbiani del destino

ci posero su lidi distanti.


Viandante sperduto

tra i sentieri della nostra terra

invocavo il tuo nome

rimasto senza eco.

Nell'immenso deserto

sostai in un'oasi ed

una conchiglia sul fondo

della limpida sorgiva

mi schizzò tra le mani.

La schiusi lentamente

ed il tuo nome lessi.

Li urlai nella dolce notte

ed udii il suono della tua voce.


Ci demmo la mano

incamminandoci lungo il viale

dell'ultimo lungo percorso

del nostro Destino

per riannodare il filo dell'amore

mai spezzato.


25 02 2016


Quando ti pensavo

Mi ritorna il suono della tua voce

dopo venti lunghi anni.

Mai stanchi furono gli accenti

nelle cinque primavere

di sparsi incontri.


Spietata fu

l'impossibile unione.


Le stelle spensero le candele

lungo i nostri passi

del remoto cammino

e la brezza del mare interruppe

il sussurrare delle foglie

sopra i nostri baci.


Vent'anni di bufere

sciolsero negli oceani

le nostre lacrime silenziose

restituite

con un vecchio messaggio

da amara risacca:

“questo non è un addio”.


Lo rileggo

e chiedo alle onde del mare

di scrutare l'infinito:

nessuna vela appare

nel tramonto della speranza.


MEMENTO


                                                             Oggi sono andato sulla nostra spiaggia

ed il mare volgeva

verso un speranzoso verde.

Ma tu non c'eri

su quello scoglio

a farti baciare dal sole.

Il male avanzava

nel tuo corpo

già muto.

Piansi!


28 2 '21



Un mattino, un tramonto

Si posava sul ciglio della finestra

quell'usignolo mattiniero

destandoci con il suo canto.

.Avanzava timido

il primo chiarore

che precedeva i raggi dorati

dietro la collina:

ed era il primo

di tanti baci del giorno.


Al tramonto

ascoltavamo il silenzio

della leggera brezza

che accompagnava il volo di passerotti

verso il notturno nido

e distesi sotto i noccioli

intrecciavamo parole d'amore.

Scorrerà la monotonia

dei giorni

ma quel concerto di fine estate

tra i monti amati

accompagnerà ancora

la stasi del mio lento vivere.

nel tuo perenne ricordo


01 04 '21


2 novembre 2021

Sono trascorsi soltanto trecento giorni

in quella baita sul lago montano

dove giocavamo facendo l’amore.

Eravamo felici.

Oggi sono salito al sacro colle

portando un serto di crisantemi,

ma il tuo virtuale sacello

accanto al mio,

ancora vuoto,

era un effimero dipinto.

Qualcuno, però, in terra lontana,

depose un vermiglio fiore

accanto al tuo nome

per dirti ”ti amo”.


 

In visita, a Tindari, assieme a Giò, 

al mio amico il Professore Don Gaetano De Maria


 







.






















Commenti d’annata su alcune mie poesie 

” GAETANO ZINGALES, UNA VOCE FUORI DAL CORO

Prosegue il mio viaggio alla ricerca dei blog più belli. Adesso tocca a quelli di Gaetano Zingales, politico, scrittore e poeta longese.

Immaginate un posto in cui non ti sembra di essere in Sicilia, eppure lo sei. Immaginate rocce dolomitiche che svettano solitarie, indomite, e un paesino coi campanili aguzzi sotto, sovente ricoperto dalla neve. E’ Longi, la meraviglia dei Nebrodi. Longi ha un appassionato cantore in Gaetano Zingales, che del borgo è stato anche sindaco, e di esso ha tessuto le lodi nelle sue poesie e nei suoi scritti.

Personalità forte, quella di Zingales, che ho avuto il piacere e l’onore di conoscere nell’Agosto scorso. Zingales non è uno qualsiasi, è uno di quelli che lasciano il segno del loro operato. Nei suoi due blog e nei suoi siti troverete passione politica (socialista mai rinnegato, a differenza di tanti altri vigliacchi del post- tangentopoli), una sofisticata ricerca storica sulle radici del proprio paese, poesie che trasudano nostalgia della terra natale (il nostro vive a Palermo), difesa della classe operaia dall’oppressione del padronato (Zingales è stato sindacalista per lunghi anni) ai tempi in cui la classe operaia aveva consapevolezza dei propri diritti, l’amore per la vita e per le belle donne. Tutto questo, e molto altro si racchiude nell’opera di Gaetano Zingales, che a sessantanove anni ha ancora voglia di scoprire cose nuove, di amare un paese che non sempre gli ha riconosciuto quanto doveva, e la cui vita, densa di avvenimenti e battaglie, è un tesoro a cielo aperto a cui attingere “manibus plaenis” per chi, come me, è giovane e dalla vita ha ancora tutto da imparare. Grazie, Zingales. 

Nino Gatto”

Salvatore curcio ( di Catanzaro) ha detto... 

Vorrei salutare un grande poeta come Zingales di cui Nino mi parla spesso, la sua poesia è splendida così come l'anima del suo canto che emana forza e sentimento. Il legame con la sua terra mette i brividi, segna orizzonti nuovi di luce ed estasi, di pace e sofferenza interiore. I suoi versi sono anelli di congiunzione verso un passato sempre presente e un futuro in cui la coscienza del poeta ha paura di credere.

Salvatore curcio ha detto... 

E' sempre un piacere leggere le sue poesie, mi lasciano addosso il profumo del tempo, di quella memoria che rinnova i fasti dell'antica Magna Graecia in un contesto attuale impoverito e inquietante. Un cantore, lei Zingales, che occupa un posto preminente nella Sicilia dei romantici, dei cultori storici di bellezze dimenticate, del meraviglioso e rabbioso succedersi d'immagini mai cancellate e stabili nelle nostre coscienze.

SPIGHE DI LONGI: Uno splendido angolo di Sicilia, Longi, narrato da uno dei suoi figli più illustri: ecco uno "spaccato" sulla vita dei Nebrodi. “Ho risentita la fragranza millenaria del grano baciato dal sole appena strappato alla sua arsa terra. 

” Non ho parole: grazie Tanino! Scritto da: paolino sammartano | 2008.12.21 

C'è sempre una speranza nelle sue parole Maestro, un filo sottile che unisce la realtà al piacere edonistico ed onirico. Non sempre il sogno ha la forza di concretizzare le parole che il vento disperde, il cuore invece fà prodigi e muove ogni sentimento. Bellissima poesia – 

Salvo 

Poesia ricca di pathos, di atmosfere antiche ormai perdute.

Mi sembra di sentirvi, voi ragazzi dell'epoca, poveri eppure felici e vocianti, a "sconcicare"le ragazzine, a tuffarvi nella neve che all'epoca era vera neve, abbondante, vent'anni prima che il boom economico portasse via tanta gente fuori da Longi e il benessere portasse un decadimento morale.

Longi merita di avere chi ne canta le atmosfere, essendo uno dei borghi più belli della Sicilia. 

Sharav su ERA BELLO IL MIO PAESE il giorno 28/09/07


Commento recente

Per Gaetano Zingales, la poesia non è soltanto uno sfogo dell’anima, è anche e, soprattutto, un rifugio nel quale trovare la serenità. Le evocazioni-invocazioni, che sin dai primi versi aprono il colloquio dello Zingales con la sua terra, sono veementi e delicati insieme in un paesaggio che è “intimo” piuttosto che solo “fuori”. Sono luoghi dell’anima, vedute che si trasformano in visioni ove proprio la “Musa” fa vibrare, con suono ora epico ora malinconico, ora trasognato, ora amaro, le corde della sua lira: “S’infila ‘nta menti / di una settantina d’anni / ‘n focu di l’amuri ‘n cerca di un violu / di ‘n’anticchia di spiranza.” (Taliannu ‘u munnu da Crucetta). E’ del poeta cantare l’amore nei suoi versi, versi che esprimono l’amore, non quello felice e condiviso, bensì l’amore sognato, desiderato, deluso e pianto, l’amore che si accontenta dei sogni e accarezza i ricordi, struggimento dolce e malinconico, mai rassegnato, eterno. Eterno come l’amore per la “sua” Giò: “Sono cento giorni che non odo più le tue parole…”. Un pianto, nel rimpianto, Giò è lontana, non ritorna sulla riva del mare di Cefalù come vorrebbe Gaetano, è in viaggio verso un mondo inesplorato; non ritorna nemmeno in quella piazza della sua marina, incolpevole testimone di un sogno che moriva per mano di un titubante “Bastardo”: “…o io non volli!”. Ecco il “pianto” nel “rimpianto” del poeta, stordito “affida alla brezza del vento la carezza di un bacio” Zingales, raccontando nell’incipit del suo “Bastardo” la solitudine, i moti del cuore, le nostalgie che hanno attraversato la sua giovinezza, via via ci conduce e, nel contempo, ci fa partecipi del suo dolore per la morte della sua Ciò: ”…è la tua voce che più non odo…” (Il resto del mio cammino), versi che non hanno solo accenti disperati, anzi evocano la speranza come in (Vorrei): “…Vado peregrinando tra monte e monte / chiedendo: dov’è il bene del mondo?”. E la speranza del poeta, diventa forza d’animo quando si ostina ad invocare (Dove sei, spirito vagante?): “Sulla paglia di un casolare di montagna passavamo le notti. / Dopo, un’alba così, non spuntò mai più.”. Ora il vate, il sognatore, il mai rassegnato, torna sulla spiaggia di Cefalù” e si appaga nel “custodire fra i segreti del cuore” l’immagine di quell’amore corrisposto e travolgente. 

Gaetano Zingales, in questa silloge, ci conferma le sue doti di sensibilità e pregnanza lirica a volte intrigante, altre nostalgica e sognatrice. L’Autore, quindi, nelle scelte lessicali e nella progressione delle immagini, sa condurre con ammaliante bravura, lungo questo itinerario dentro al suo mondo poetico, la nostra compartecipe commozione.

 Nino Vicario

Alcune copertine di libri di poesie pubblicate

  
























Mia gestione del Comune di Longi: fatti e riflessioni



La traccia carrabile Botte - fiume Martello per consentire ai “forestali” di raggiungere Barillà

Gli operai, che lavoravano presso il cantiere forestale di contrada Barillà, erano costretti, da Botti sino al fiume Martello (1), a procedere a piedi. Era un enorme disaggio quello di recarsi al lavoro, all’alba, e rientrare a casa, la sera. E ciò ogni giornata lavorativa. Alcuni di essi mi dicevano: “se riuscirà a realizzare la strada da percorrere con la nostra auto, sino al fiume, lei potrà fare il Sindaco per parecchi anni. L’intervento strutturale su quella zona era del tutto impossibile perché zona “A” del Parco dei Nebrodi, la cui dirigenza, da me adita, aveva negata ogni possibilità progettuale.

Ne parlai con il mio Vice Sindaco e convenimmo di contattare il titolare di una impresa edile, a cui avevamo affidato parecchi incarichi lavorativi. Lo pregammo di intervenire con i suoi mezzi meccanici su quel sentiero impervio per allargarlo al fine di consentire agli automezzi dei forestali di percorrere quel tratto sino al torrente, dopo il quale si proseguiva, con altro autoveicolo, verso il cantiere. Accolse l’invito “a gratis”. Nottetempo, per sfuggire ad eventuali controlli delle Guardie forestali, alla luce di fari, quell’impresario, riuscì a realizzare una sconnessa traccia: fangosa, ma percorribile. 

Qualche tempo dopo, percorrendo su un fuori strada, col direttore del Parco, i sentieri di quella zona di cui in argomento, mi disse: “io non ricordo di aver dato il nulla osta per autorizzare questo tipo di intervento. Lei sa niente, Sindaco”. Ovviamente feci lo gnorri. Fece denuncia, ma si concluse con un nulla di fatto perché il nome degli autori non venne fuori.

Gli operai, ogni sera, tornavano a casa. 

Quando, nel 1997, mi candidai nuovamente, se i circa 250 lavoratori “forestali” – che ebbi ad aiutare in altre occasioni, rivestendo la camicia di sindacalista- mi avessero dato il loro voto, in aggiunta a quelli che ho riportato, avrei vinto le elezioni amministrative. Ma la riconoscenza non alberga nell’animo di taluni uomini!

1. il fiume Martello ha origine dal lago Biviere e sfocia nel Simeto in provincia di Catania.


Strada in terra battuta del viottolo Vendipiano- Castaneto- Gnuso

Altra traccia carrabile che realizzammo fu quella che dal Vendipiano raggiungeva il torrente S.Maria, oltre il quale si arrivava al Castaneto e a Gnuso. Il tecnico comunale si rifiutò di approvare la delibera di Giunta per finanziare l’intervento perché in assenza di un progetto. A quel punto, il vice Sindaco presentò la delibera in Consiglio comunale, il quale, inizialmente non voleva approvarla, ma, resisi conto, i Consiglieri, dell’importanza che essa rivestiva per coloro che dovevano recarsi nei poderi delle su richiamate contrade, approvò la spesa.

Il legnatico in un accodo del 1570

Un cittadino longese venne denunciato dalle Guardie forestali perché aveva raccolto legna secca nel bosco di Mangalavite, Zona “A” del Parco dei Nebrodi, Mi rammentai di avere letto che nel 1570 era stato firmato, in piazza con atto notarile, un accordo tra la comunità longese ed il Barone Francesco Lanza, il cui era contenuto in un libretto dal titolo “Capitolo di concordia tra l’Università di Longi (leggi comunità) ed il Barone Francesco Lanza”. Tra le altre reciprocità, si affermava che” la comunità potrà andare a legna (il cosiddetto legnatico), tranne di quella verde.”

Avevo letto che, dal punto di vista giuridico, ogni accordo pubblico non abrogato è tecnicamente valido. Portai in Consiglio comunale la questione facendomi approvare il mandato di costituirmi in giudizio, ove sarebbe occorso. 

Il “legnaiolo” venne assolto. 


Manifestazioni di incivile allegria

Dopo la proclamazione della elezione del nuovo Sindaco, i suoi fans invasero la sala consiliare gridando verso di me, chiuso nella mia stanza: “fuori, fuori…”. Non era mai accaduto, con nessun sindaco, prima di allora. Tra questi, alcuni di quelli che, grazie al mio intervento precedente presso l’Assessorato Regionale dell’Agricoltura e Foreste, continuarono a lavorare come “forestali”. Erano gli stessi che, in sciopero, allora, occuparono la Sala Consiliare, per giorni, e distrussero alcuni fascicoli, asportandoli dalle librerie, nonché alcuni quadri appresi alle pareti. Alcuni dipendenti comunali mi dissero di denunciarli per i danni, ma io non mi sentivo di fare del male a quei lavoratori: ero stato sindacalista.

Nella mia stanza, in quello stesso momento dell’atto teppistico che si svolgeva a pochi metri di distanza, erano con me gli Assessori ed il Segretario comunale. Nel salutarli, dissi loro: “è stato un onore aver lavorato con voi servendo il mio paese”. Ci abbracciammo con gli occhi lucidi, irrigati di lacrime che non volevano uscire; eravamo consci di aver fatto il nostro dovere per il bene di Longi e dei suoi concittadini.


Defenestrato dalla carica, nel 1997, un amico dichiarò: “se ne pentiranno i longesi perché Tanino è stato il migliore Sindaco che il paese abbia mai avuto”. Bontà sua! Ho fatto solo il mio dovere mettendo al servizio del paese la mia esperienza e le modeste mie capacità.




Considerazione sulla mia “vicissitudine” di Sindaco

Come ebbi a scrivere nelle pagine precedenti, “Scrivere in Sicilia” ha detto Sciascia “è stata sempre un’eresia, un’attività mal considerata, una specie di spia, un compatriota che divulgava cose che andavano taciute”. 

Ciò malgrado, poiché, peraltro, ho sempre manifestato il mio pensiero attraverso la stampa del mio Sindacato, denunciando senza mezzi termini le ingiustizie, ho voluto scrivere queste pagine perché ho inteso indirizzarle soprattutto ai giovani, che si vogliono impegnare nella politica di gestione del paese e che sono la speranza del cambiamento. 

Le mie esperienze, vissute alla guida del mio paese e qui narrate in maniera obiettiva, senza risentimenti o pregiudizi e senza fini di rivalsa postuma, rispecchiano le sensazioni provate, i torti subiti e, in ogni ca-so, la verità dei fatti: il mio umile desiderio è quello che i contenuti di queste pagine possano essere una guida ed una fonte d’ispirazione politica per i futuri amministratori. 

La nostra Longi, per rinascere, ha bisogno di giovani coraggiosi, che non si facciano condizionare dagli opportunisti; capaci ed onesti, ricchi di idee ed innamorati del paese, loro e dei loro padri; scevri da ambizioni di potere per il potere, le quali distruggono e spesso frustrano l’individuo; disponibili a servire la comunità con spirito di servizio, con umiltà e con senso dello Stato; che considerino un onore l’inchinarsi dinanzi alla bandiera tricolore, simbolo dell’unità e dell’amore verso la Patria; consci, però, di appartenere ad una grande comunità in divenire, l’Europa unita, e predisposti, quindi, a ragionare e comportarsi come cittadini europei, pur non dimenticando di essere longesi, siciliani, italiani. Valori, alcuni di questi ultimi, forse desueti, ma che, se convivono assieme a quelli della solidarietà, della tolleranza, della giustizia sociale, dell’onestà, dell’eguaglianza, della democrazia e della libertà, fanno dell’individuo un uomo che è pronto a governare. 

Nella mia stanza, al Comune, avevo messo in cornice la nota frase di Pericle, famoso stratega ed “amministratore democratico” dell’antica Atene: “Sapere quello che va fatto ed essere capace di spiegarlo, amare il proprio paese ed essere incorruttibile sono le qualità necessarie ad un uomo che vuole governare la propria città”. 

Sarebbe bello, oltre che educativo, se queste parole potessero essere incise su una targa collocata all’ingresso del Municipio.


Un omaggio ai miei amici longesi

Voglio, qui, rammentare le persone che mi furono accanto. Come Assessori, succedutisi nel tempo: prof. Nino Carcione, dott. Basilio Lazzara, arch. Franco Brancatelli, dott.ssa Rosa Maria Miceli, la quale, purtroppo, assieme all’ing. Leone Zingales e al dr. Nino Fabio, mi voltò le spalle; inoltre, ing. Franco Pidalà, rag. Peppino Bartolo, esercente Nino Brancatelli, infermierere Enzo Russo, geom. Nuccio Zingales.

Come candidati al Consiglio comunale: d.ssa Rosanna Gioitta, infermiere Carlo Notaro, ing.Roberto Russo, p.i. Franco Lazzara, operaio Alfredo Lazzara, p.i. Massimo Bartolo, inf.re Salvatore Vieni, laureando geologo Franco Di Bella, dr. Nino Miceli.

Sento di ringraziare quei longesi, oltre 250, che, nella seconda tornata elettorale del 1997, sfidando le corazzate della delazione e delle liste con riferimento agli ex democristiani ed agli ex catto-comunisti, onorarono del loro voto la mia umile persona. Costoro, in un messaggio, li ho definiti “gli eroi della Primavera Longese”, come sostenitori del processo di rinnovamento e di progresso della gestione amministrativa del Comune, da me iniziato e rimasto incompiuto. Li ho così definiti, ricordando, come accostamento, i giovani della “Primavera di Praga” contro i carri armati sovietici.  Jan Palach, giovane studente , si appiccò il fuoco e morì alcuni giorni dopo; venne emulato da altri giovani. Prima di morire, Palach disse di aver voluto “…scuotere le coscienze e mettere fine alla loro arrendevolezza verso un regime insopportabile “. 

Questo hanno tentato di fare quei 250 longesi…per opporsi ad una gestione amministrativa piatta e clientelare.

Quella non era la spazzatura di casa mia, ma….

La Guardia Forestale ebbe l’ordine di sequestrare la discarica esistente, con conseguente denuncia penale a mio carico. Costretti a scartare altri siti perché poco idonei o in area protetta da vincoli ambientali, arrivammo dopo tante traversie ad individuare un’area, in contrada Gazzana, al confine con il territorio ricadente all’interno del Parco dei Nebrodi, ma al di fuori dello stesso, di proprietà comunale. Fu merito del tecnico comunale Ottavio Pidalà, il quale leggendo, attentamente e con la lente d’ingrandimento, la cartina topografica della zona, mi mise nella condizione di insistere che eravamo fuori Parco. 

Il geometra Pidalà fu oggetto di un mio “encomio solenne” in una pubblica seduta di Consiglio Comunale. Superammo gli ulteriori, intuibili ostacoli di natura ambientale, e demmo al paese la sua discarica dei rifiuti solidi urbani. 

Ma non finì qui, poiché il solito cittadino “scontento” mi denunziò perché “avrei dato la possibilità ad alcuni di attizzare il fuoco alla discarica”, con conseguente inquinamento dell’aria. Altra denunzia penale per il sottoscritto. Da questo e da tutti gli altri procedimenti giudiziari, ne uscii indenne, con assoluzione piena.

Ma, mi sia consentito un commento. Prima della seconda guerra mondiale, la spazzatura, da parecchi, i rifiuti, per parecchi decenni, venivano gettati dall’alto della strada provinciale, dopo contrada S. Francesco, nel greto del torrente sottostante che confluiva nel fiume Milè. E, pertanto, così continuai. Così come faceva il comune dirimpettaio. Quando l’ambiente politico longese cominciò a surriscaldarsi, vennero fuori le denunce della Lega ambiente e del WWF ed il conseguente sequestro, da parte della Procura della Repubblica di Patti, del sito dove venivano conferiti i rifiuti solidi urbani dei cittadini longesi. 

Diceva il “divino” Andreotti – divino, non so perché, poi – che “a pensare male si fa peccato, ma talvolta s’indovina”. 

Voi che idea vi siete fatta?


L’urna violata

Durante lo svolgimento delle votazioni del 1997, i candidati allo scanno di Sindaco, io uscente, eravamo in tre. Un mio rappresentante di lista mi segnalò che nelle urne del seggio era state inserite, di soppiatto, un certo numero di schede già segnate, ovviamente non per me. Durante lo sfoglio delle schede, ancora in carica, con un vigile urbano, a me fedele, inviai al comandante dei Carabinieri, sul posto, una lettera con cui lo invitavo a sequestrare le schede spiegandone i motivi. Non fece niente. Era quello stesso carabiniere che, assieme ad altri suoi sottoposti, dopo il comizio attraverso cui denunciai i debiti e la richiesta di dissesto del Comune, ebbe ad accompagnarmi alla sede municipale. Come è volubile la gente! 


“Lex, dura lex…”: per chi? Il 30 novembre 1997 ebbe fine, come detto, la mia breve “carriera” politica: un’esperienza vissuta in maniera intensa, ma drammatica; un avvenimento, nella normale vita amministrativa di ogni paese, senza alcuna logica conclusione. Come mio ultimo atto di Sindaco, l’1 dicembre 1977, fui costretto ad inviare un esposto al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Patti denunciando il fatto che due presidenti di seggio elettorale, durante le operazioni di voto, avevano aperto le urne estraendone le schede, atto vietato dalla legge pena l’incriminazione sul piano penale. 

Ebbene, la sera del 26 maggio 2002, dopo la chiusura dei seggi elettorali per il rinnovo degli Organi amministrativi locali, rividi, nella piazza Umberto I di Longi, uno dei due presidenti “incriminati”, che svolgeva di nuovo le medesime funzioni elettorali di prima. La mia sorpresa fu indicibile! Si, perché, non solo quell’esposto non ebbe seguito, malgrado la rigida puntualità della legge in materia, addirittura il soggetto in discussione veniva inviato nello stesso paese, laddove avvenne il fattaccio, per continuare a svolgere le funzioni, oggetto del supposto reato commesso nel 1997. Allora, nel 1997, ci furono brogli presso il seggio nr.2. Il magistrato, destinatario dell’esposto, non si peritò nemmeno di sentire il firmatario dell’atto, ancora Sindaco in carica anche se per poche ore, come persona informata dei fatti, perché potesse produrre eventuali prove testimoniali sull’accaduto, peraltro esistenti. Ritengo che sarebbe stato il minimo degli atti dovuti da parte di un inquirente. 

Il presidente in argomento, quella sera del 26 maggio 2002, si trovava in piazza assieme al cognato, ex assessore ed, all’epoca dei fatti, mio avversario politico; quest’ultimo, a sua volta, era parente di un magistrato presso il Tribunale adito per i fatti sopra narrati…! “Lex, dura lex, sed lex” c’è scritto in parecchie aule di Tribunale, cui, forse sarebbe opportuno aggiungere: “per uso ove convenga”.



Rete idrica esterna. 

In uno degli allegati al progetto per la costruzione dell’acquedotto esterno si legge che, presso la sorgente Tre Schicci, dopo aver effettuato delle misurazioni con un recipiente tarato, “ si deve presumere che a captazione avvenuta, la portata d’acqua potrà raggiungere litri 4 al secondo”. Mi venne riferito che lo stesso prezioso liquido, già immesso nel serbatoio della S. Croce, non supererebbe un litro al secondo. Di conseguenza, continua, onerosamente per il Comune, ad essere pompata acqua dal fiume Fitalia.

Antefatto. Il decreto regionale di finanziamento per la captazione dell’acqua potabile, che le Amministrazioni precedenti avrebbero dovuto portare alla sua realizzazione, era già scaduto ed ho dovuto sudare le proverbiali sette camicia per farlo reiterare. Dopo varie ricerche, trovammo idonea per la captazione, la sorgente in contrada Schiacci del Bosco di Mangalaviti Ma ci dovemmo scontrare con i divieti del Parco dei Nebrodi in quanto zona “A”, in cui non era possibile intervenire con lavori. Organizzai una escursione sul sito invitando il Presidente del Parco ed il suo Direttore generale, il progettista, il geologo, il comandante locale della Guardia forestale e l’Assessore comunale ai LL.PP. Dopo il sopralluogo, invitai gli ospiti ad un pranzo rustico presso la casa della Forestale in contrada Butti; feci venire dal paese, tramite i Vigili urbani, la pasta al forno ordinata presso il ristorante di Passo Zita, mentre il suino nero dei Nebrodi ed il castrato venivano cucinati sulla brace. Soffiai in un orecchio a P.L. di non fare mancare il vino nei bicchieri del Presidente dell Parco e del Direttore dello stesso. Alla fine, quando vidi che il clima era abbastanza “riscaldato”, sferrai l’affondo: “allora Presidente, mi dai il nulla osta per captare l’acqua dalla sorgente Tre schiacci?” Venne fuori un assenso, strappato al Direttore, sofferto ma con il cuore.

L’Ente Parco dei Nebrodi, nel rilasciare, a suo tempo,” il nulla osta per la captazione di una sola ed esclusiva sorgiva d’acqua, a mano con pala e pico, senza l’ausilio di mezzi meccanici ed evitando qualsiasi danneggiamento delle piante arboree. La stessa prescrizione dovrà essere osservata durante le operazioni di posa della condotta nel primo tratto che non è posto su strada”. Inoltre, la relazione geologica diceva chiaramente che “appare necessario che i lavori di scavo vengano eseguiti rigorosamente a mano, evitando l’intervento di mezzi meccanici il cui impatto sul delicato equilibrio ambientale potrebbe avere effetti dannosi rilevanti e, in buona misura, irreversibili.” 

Io riuscii ad appaltare i lavori – la cui gara venne vinta da una impresa, il titolare era un longese- ma non vidi l’inizio degli stessi a causa della scadenza del mio mandato. 

Venni a sapere, a lavori conclusi ed arrivo del prezioso liquido nel serbatoio comunale della contrada. S. Croce, che l’impresa era intervenuta sulla sorgente, nottetempo e con fari alimentati da qualche motore, con trattori e scavatori. Con gli immaginabili danni…!

Da quanto prima trascritto, si può ragionevolmente desumere che gli obblighi imposti derivassero dalla necessità di non apportare, anche e tra l’altro, sconvolgimenti alle venature della sorgiva, la qual cosa avrebbe potuto pregiudicare la quantità d’acqua che veniva alla superficie. Ebbene, sono state osservate queste prescrizioni del Parco e del geologo? In tal senso, è stata attivata la vigilanza, durante i lavori di scavo nel sito della sorgente, da parte del Comune di Longi e, se avvisati dell’inizio lavori, dell’Ente Parco dei Nebrodi e della Forestale, territorialmente competente? Enti, quest’ultimi, istituzionalmente preposti anche alla tutela dell’ambiente e del territorio. 

Se è vero che la portata d’acqua si è concretizzata in un fallimento, rispetto alle previsioni, sono stati vanificati gli sforzi compiuti dalla mia Amministrazione nel superare ostacoli, pastoie burocratiche ed anche ostruzionismi per la realizzazione dell’acquedotto in questione. La conseguenza, amara e dolorosa, è quella, quindi, che il paese di Longi non ha risolto l’annoso problema della sua carenza idrica per non dire, poi, sempre se così stanno le cose, che è stato sperperato inutilmente il denaro pubblico. A questo punto, è legittimo chiedersi: è la natura che ha giocato un tiro mancino al paese o esistono responsabilità? Ove, malauguratamente, quest’ultime ci fossero, è giusto che a subirne i danni sia sempre il paese e, di converso, il cittadino? Si sperava tanto nell’arrivo di questa benedetta e sospirata acqua! 



Il Difensore civico? Chi? 


La mia domanda per essere nominato Difensore civico dell’Unione dei Comuni venne respinta ed allora così scrissi:

Udite, udite ciò che avviene presso il Comune di Longi! O, meglio, al Municipio. Un geometra – che quindi ha studiato per fare il tecnico -, divenuto responsabile dell’area amministrativa dell’ente, gestisce l’iter burocratico di taluni provvedimenti sbizzarrendosi in risposte scritte in perfetto stile giuridico da consumato “amministrativista” di lungo corso. Miracoli ... della cultura! Adesso ho capito il motivo per cui il Comune di Longi ha accumulato, nel passato, debiti per un miliardo e ottocento milioni circa di lire. Perché nessun “controllore “controllava ciò che altri avrebbero dovuto impedire. E’ dovuto andare, nel 1994, al Comune un fesso, come il sottoscritto, per togliere le castagne dal fuoco respingendo la richiesta del Segretario Comunale e del Revisore dei Conti di dichiarazione del dissesto finanziario e, salvando, quindi, il paese dal disastro economico. 

Ma procediamo con ordine. E rammentiamo i fatti. A fronte di un bando dell’Unione dei Comuni dei Nebrodi (Longi, Frazzanò e Mirto) per la nomina del relativo Difensore Civico, ritenendo di avere i numeri e le capacità, a seguito di un consulto con funzionari della pubblica amministrazione regionale, decisi di presentare la domanda. Risultai l’unico concorrente. 

A distanza di qualche mese, il Presidente dell’Unione dei Comuni mi scriveva che un impiegato del Comune di Longi aveva impugnata la mia istanza e l’aveva respinta attraverso l’assunzione di una sua determina in quanto carente dei requisiti richiesti, ma mi comunicava anche che avrei potuto inoltrare ricorso amministrativo. Cosa che feci avverso la determina in questione. Ricorso indirizzato a chi? Ovviamente al capo dell’Amministrazione, cioè al Presidente in questione. 

Dopo circa un mese mi risponde un geometra, - promosso a suo tempo responsabile amministrativo perché di una certa area …politica, pardon, correggo, responsabile dell’area amministrativa dell’ente-, raccontando al “colto pubblico ed all’inclita guarnigione” , a colpi di “de qua e de quo”, (che sappia, all’istituto tecnico non si studia il latino), ed in prima persona singolare anche se nel burocratese la soggettività non è rituale, se non addirittura non ammessa, mi risponde, dicevo, il predetto geometra  ( ovviamente  imbeccato da …qualcuno) spiegandomi che il mio ricorso è “inammissibile” perché “irrituale”. Che, nel significato giuridico, vuole dire che l’atto (il mio) è viziato perché non è conforme a quello prescritto dalla legge. Cado dalle nuvole, così come resta allibito il funzionario regionale, al quale ho fatto leggere la lunga lettera firmata dal geometra in questione. La sigla del Presidente di turno è una pura presa visione. 

Mentre il Capo, che avrebbe dovuto rispondermi, latita: chiaramente, nel significato figurativo. Comodo, fare così l’Amministratore! Mi chiedo se sono ancora convinto di trovarmi tra un popolo che discende dai demenniti e, quindi, dalla forte e giusta schiatta spartana. Si, lo sono, è la risposta. Che, però, integro. Sarà accaduto che qualche “talebano”, fuggito da quel paese, si sia mimetizzato tra i fuggiaschi da Demenna dando luogo ad una discendenza anomala, per fortuna minoritaria rispetto alla gran parte dei longesi, gente rispettosa di una armoniosa convivenza civile. Mi viene spontaneo domandarmi se, in un’altra comunità, un Sindaco - che, tra le altre cose, riuscì a salvarla dal fallimento economico (leggi dissesto finanziario) – avrebbe avuto un trattamento analogo a quello di cui sto parlando. Trattamento “irrituale” (questa volta ci vuole), nella esegesi estensiva e figurativa del termine, quello che mi vede destinatario, ma anche insolente ed abnorme, nonché alternativo ad “un atto dovuto”. 

Scusate l’asprezza dei termini e dell’implicita affermazione, ma, quando è necessario, non si può ricorrere ad eufemismi. Ma, mi interrogo, inoltre, se, in una diversa realtà sociale, una persona che cerca di portare avanti un modesto percorso culturale citando spesso, peraltro, nei suoi scritti, il proprio paese natio, ed arriva a scoprire le millenarie radici genetiche della sua gente , nonché una certa, anche se frammentaria, realtà storica derivante da una antica civiltà – le cui proiezioni archeologiche potrebbero divenire fatti concreti – che riuscirà, quanto prima, a far conoscere a tutta Italia attraverso un documentario della RAI, mi chiedo, ripeto, se questa persona, ivi, in quel difforme contesto sociale, avrebbe avuto, in cambio, una risposta non degna di un consesso, che tenta di affermare i propri solidi principi civili e culturali,  che si sono evoluti durante lo scorrere dei secoli. No, certamente! Perché lì, nella diversità del sentire, alcuni valori vengono tenuti presenti. Quel che accade, in verità, lo si vive in un ambito politico ed amministrativo dove le cose più assurde possono accadere. Basta leggere – o, meglio, rammentare - la storia locale degli ultimi cinquanta anni. Già, dimenticavo che qui non è d’uso, da parte delle Amministrazioni, coltivare la memoria storica, recente e remota. Rientrando nello scenario che ci viene presentato, debbo amaramente affermare che ci troviamo in presenza di una espropriazione del potere di una comunità che, in base ai precedenti, avrebbe potuto esprimere la volontà di adattare la norma alle condizioni locali, come per il passato. Dove sta l’espropriazione? Nel fatto che il capo di un’Amministrazione è tenuto a rispettare le norme, che, nella fattispecie, dicono che la “contestata mia pratica” deve essere trasmessa all’Organo competente per materia, cioè all’Assemblea dei Consiglieri dell’Unione dei Comuni dei Nebrodi, unico organismo autorizzato a decidere sulla nomina in questione e che invece è stato spogliato di un suo diritto-dovere. E’, questo, un atto dovuto da parte del Presidente dell’Ente in quanto, oltre tutto, i contenuti dell’istanza e del ricorso trascendono dai limiti dello Statuto e dalle condizioni contemplate dal bando essendosi venuta a determinare sia la presenza di un “precedente”, che fa testo nella letteratura giuridica, sia la circostanza di un unico concorrente, dotato peraltro di una acquisita competenza amministrativa. L’Assemblea, pertanto, deve essere chiamata ad assumere un provvedimento ottimale, che ritiene giusto, al limite emendando, per ragioni di opportunità, l’articolo specifico dello Statuto. Chi impedisce questo passaggio, si trova a violare lo spirito della norma. 

Ritengo necessaria la descrizione di quanto sopra e, nel contempo, contestare quanto sostiene il “geometra”, che recita nel ruolo di giudice di primo e di secondo grado, perchè ritengo doveroso informarne i cittadini. Stia tranquillo il Presidente pro tempore dell’Unione dei Comuni. Non intendo, per il momento, fare ricorso alla Magistratura sia per concedergli l’opportunità di una soggettiva ed obiettiva riflessione, sia perché simile strumento non rientra nè nella mia filosofia politica, nè nella mia concezione di vita, pubblica e privata. Anche se “torti” da parte di alcuni concittadini ne ho ricevuti ed in maniera pesante, come tutti sanno. Il “dente per dente” non mi si addice. Sono un vecchio socialista, che ha coltivato certi valori umani, tra cui quello del non fare male ad alcuno. Se il danno derivatemi fosse stato di natura oggettiva, allora si che avrei adito immediatamente la strada della Procura della Repubblica. Ma, il danneggiato – se così moralmente posso definirmi - è il sottoscritto anche se sono convinto che il Comune di Longi, ma pure gli altri Comuni di Frazzanò e Mirto, avrebbero potuto avere un ritorno positivo in termini propositivi, da parte mia, e di collegamento burocratico ed assistenziale con l’Ente Locale Regionale. Di conseguenza, a perderci potrebbero essere stati anche essi. Mi dispiace per gli abitanti dell’Unione dei Comuni dei Nebrodi. Comunque, mi riservo – se lo riconoscerò necessario – di riprendermi l’indispensabile libertà d’azione in relazione al rispetto della normativa in questione, che prevede un esame degli atti ed un pronunciamento da parte dell’Assemblea dei Consiglieri. Appare evidente che alcuni di coloro che gestiscono il Comune di Longi hanno preferito affidare il loro diniego sfruttando il “braccio armato” della burocrazia, che però è imploso nell’impatto contro un’arma insidiosa e micidiale in mano a chi la sa usare e la gestisce da decenni, cioè la penna di uno scrittore (ed ex giornalista pubblicista). 

Conosco il “geometra” come un grande lavoratore quando sono stato il suo Sindaco e gli ero anche amico per cui mi permetto chiedergli: “ma chi te l’ha fatto fare a firmare una lettera che “non è farina del tuo sacco”? Ne sei convinto del contenuto fatto tuo?” Ancora una volta, la comunità longese è costretta a subire un atto di astioso accanimento politico e di miopia diplomatica. “Loro” sono convinti di avermi preso per i fondelli non prevedendo, però, l’effetto “boomerang”. 

L’unico piacere che mi hanno tolto è stato quello di potere essere utile ai concittadini e di venire più spesso al mio paese. Si devono vergognare per l’azione commessa. 

Gaetano Zingales

N.B. La nota è stata inviata ai Consiglieri dell’Unione dei Comuni.


EPILOGO. 

Una vicenda, “absit iniuria verbis”, gestita male, molto male, quella della nomina a Difensore Civico dell’Unione dei Comuni di Longi, Frazzanò e Mirto. Immaturo e sprovveduto, sul piano politico, è quel soggetto che si fa scudo dei cavilli normativi per non adempiere ad una sua funzione politica, non intendendo recepire, tra l’altro, la “dritta” ricevuta da parte di chi ne sa di più, al fine di aggirare gli ostacoli di ordine burocratico. Tale è stato (e lo è) il rappresentante istituzionale che non ha inteso proseguire la mia istanza, per la nomina, all’Assemblea dei Consiglieri dell’Unione in argomento. E’ il caso di rammentare il proverbio siciliano, carico di saggezza: “Quannu u sceccu non voli biviri, è inutili ca ci frischi!” E di “fischiate” mirate colui il quale si sarebbe dovuto attivare – il Presidente pro-tempore longese dell’Unione- ne ha ricevute, con messaggi chiari, e non certamente di ostilità. Tutt’altro! Dichiarazioni e segnali di disponibilità – peraltro oralmente bene accolti dal destinatario, cui non ha fatto seguito, però, l‘apertura dichiarata – a volere dare il mio contributo al servizio del paese in termini culturali, di proposte, nonché di esperienze amministrative vissute; indicazioni sul come procedere politicamente e legalmente in assenza del titolo specifico richiesto dal bando, richiamo di casi analoghi presentatisi per il passato, i cosiddetti “precedenti”, che fanno testo in giurisprudenza . 

Ma, non c’è niente di peggiore limitazione di quella di essere attorniato da cattivi consiglieri. E, tra questi, c’è anche l’odio, che è un sentimento che non dovrebbe esistere in politica dal momento in cui essa è l’”arte del possibile”. L’odio acceca la ragione ed impedisce di applicare il detto latino: “promoveatur ut amoveatur”, che nel caso specifico, con una interpretazione estensiva, assumerebbe il significato di eliminazione delle condizioni attraverso le quali una persona ti può dare fastidio. Questa è arte diplomatica. L’odio, inoltre, impedisce a coloro che ne sono portatori di guardare con serenità ed obbiettività i frangenti con i quali ci si imbatte. Il conferimento, talvolta, di un incarico istituzionale rappresenta uno strumento con il quale si riconosce un “servizio pubblico” svolto con ottimi risultati al servizio della comunità. Oltre tutto, la carica avrebbe potuto generare uno stimolo per continuare a servire il prossimo. Di converso, una carica, che si limita al distintivo all’occhiello per fare da tappezzeria durante le cerimonie ufficiali, ai cittadini non serve. Ad un elettroencefalogramma piatto, da parte del detentore del “distintivo”, segue lo spegnimento della macchina. Ma, forse si vuole un Difensore Civico che risponda ai suddetti requisiti coreografici. 

Potrei continuare, ma mi fermo qui perché chi mi leggerà sa già – pur non volendo ammettere pubblicamente sempre per quel famoso assunto locale “iddu chi avi chiossai ‘i mia”, non volendo riconoscere, con siffatta convinzione personale, che esiste anche una diversità di capacità, donate all’uomo, e che, pertanto, non sono meriti personali - sa già , dicevo, cosa ha perso l’Unione dei Comuni in argomento, ma soprattutto il paese di Longi, il mio paese natio, con la osteggiata nomina della mia modestissima persona a Difensore Civico. 

Porto sulle mie spalle una storia politico-amministrativa, che non ha bisogno di ulteriori illustrazioni nel rileggersi il mio “curriculum vitae”. Questa vicenda, però, si chiude male. Si chiude, a parere mio, per illegittimità nella procedura per la nomina del soggetto istituzionale, di cui stiamo discutendo. Infatti, il dossier dello scrivente doveva essere trasmesso, per la decisione finale, all’Assemblea dei Consiglieri dell’Unione in considerazione del fatto che: si è in presenza di una sola domanda e, per di più, dopo che un antecedente bando era andato deserto; ci si trova in una circostanza che si riallaccia ad una nomina “precedente” di Difensore Civico nei confronti di un funzionario della Pubblica Amministrazione, che non era in possesso del “titolo”, il cui requisito anche allora era inserito nello Statuto Comunale. Non essendo stata posta in essere la procedura di cui sopra, a mio sommesso parere - derivante dall’esperienza amministrativa acquisita - nonché del consulente legale, da me consultato, si può ipotizzare la “omissione di atti d’ufficio” e forse anche l’ “abuso di potere”. A questo punto, sarebbe opportuno inoltrare la copia del dossier in mio possesso al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per sottoporre alla sua valutazione la normalità o meno della procedura seguita da parte dell’Ente intercomunale; ed in caso di un giudizio negativo, se possa configurarsi il reato penale. Ma, sono venuto meno a questo mio intendimento perché non sono portato a fare del male ad alcuno. Innanzitutto al mio paese. Perché, se l’avessi fatto, l’esposto non avrebbe riguardato soltanto la persona, ma avrebbe coinvolta la vita del mio paese, che, pertanto, avrebbe subito una pesante crisi politico-amministrativa. Infatti, nel caso di accertamento di reato da parte del Procuratore della Repubblica, Egli avrebbe proceduto d’ufficio contro il responsabile e, nel caso di condanna, il colpevole, tra l’altro, avrebbe dovuto rassegnare le dimissioni dall’incarico istituzionale. Cioè da Sindaco. Tale atto non sarebbe stato compreso dalla maggioranza delle persone che lo hanno eletto, mentre sarebbe stato accolto con un applauso da parte dei suoi avversari. Ma, una crisi amministrativa non porta certamente benefici al paese. Preferisco, per le considerazioni di cui sopra, non procedere ad alcuna segnalazione dei fatti alla Procura della Repubblica, consapevole, peraltro, che il mio comportamento sarà messo in discussione, a torto o a ragione. E’ questo, il mancato rispetto dell’etica sociale, un servizio che ulteriormente offro al mio paese. In questa incomprensibile vicenda mi porto dietro due amarezze: quella di non avere potuto essere ancora utile al mio paese ed ai miei concittadini e quell’altra di avere visti incrinati rapporti di amicizia con persone che stimavo. Da laico, mi permetto citare, con umiltà, i versetti del Vangelo: “Perdona loro perché non sanno quel che fanno”! g.z.






Alcuni miei interventi in un Forum longese


Sab Mar 31, 2007 4:38 pm Oggetto: risposta a "noncipossocredere"

Il mio è solo un punto di vista, ma anche un comunicato politico Gli amici che, sul piano politico amministrativo, mi sono accanto, ed il sottoscritto, che è un “animale politico” e non un politicante, siamo portatori di principi morali, quali quelli che si richiamano alla giustizia sociale, alla solidarietà umana, alla trasparenza, alla democrazia, alla libertà individuale. Valori, che tanti politicanti longesi reputano “voli pindarici” della fantasia e non una concreta attuazione di problematiche snodate ed affrontate, durante il percorso di vita, che è la scuola che ti da l’esperienza e che ti forma. Insegnamenti, che sono stati affinati da letture biografiche di uomini celebri, conoscenza della storia (che è maestra di vita, ricordatelo sempre) e dell’ideologia del socialismo liberale; il tutto completato da una influenza illuministica che mi ha indicato il pragmatismo operativo. La politica è” l’arte del possibile”, delle soluzioni mediate dei problemi e delle riforme, realizzate con chi ci sta: in questo contesto non esistono, nell’interesse primario e superiore del paese, gli asti o gli odi personali. La parola, il dialogo ed il confronto democratico sono gli ingredienti indispensabili per un buon politico: i divieti preconcetti o incrociati fanno solo danno al paese perché lo impoveriscono delle capacità ed intelligenze migliori. Chiarito ciò, il riformismo, da me proposto per il nostro paese, è contenuto nella mia progettualità che guarda al futuro si, ma anche al tempo immediato, al contingente. Di conseguenza, io ho tentato - e ne riconosco il fallimento, certamente non per mia colpa – un accordo politico, ripeto politico e non personale.


La mia storia politica, a Longi, cari giovani amici che non la conoscete, è cominciata la sera del 19 settembre del 1993 nella sezione del Partito Socialista Italiano, della quale era segretario civico l’attuale e precedente candidato a sindaco della lista “du latu di sutta”, e nel quale partito io da tempo militavo. Quella sera, dai miei compagni socialisti, all’unanimità, venni proposto per la candidatura a Sindaco. Da allora, cominciarono i miei guai sotto l’aspetto politico, che hanno profondamente inciso anche nella mia vita. Malgrado l’imprimatur da parte di un forte partito, non potei presentare una lista per il Consiglio Comunale perché da esso non venni aiutato; la legge, allora (sbagliata), consentiva di candidarsi a sindaco senza la convergenza verso una lista di consiglieri. Vinsi con largo margine sul mio avversario (l’attuale sindaco uscente) avendo avuto il consenso anche di larga parte degli elettori del centro-sinistra di allora. Ma ci furono cento schede bianche (non si era mai verificato): da chi non furono votate? 

Durante il percorso della mia legislatura venni linciato sul piano morale e politico, nonché aggredito con atti vandalici. Chi gli autori? Proseguirò nella disamina di alcuni comportamenti posti in essere contro di me. Nel 1997, sempre dal medesimo “lato”, si coalizzarono per farmi fuori. Ci riuscirono, ma, assieme a me, perse il paese per quello che, aiutato semplicemente dai miei Assessori, ero riuscito, sino ad allora, a realizzare e per le cose che avevo messe in cantiere e che avrei potuto conseguire se mi fosse stato rinnovato il mandato. Nel 2002, estromesso sempre da quel “lato” (malgrado un accordo pregresso), mi accusarono di avere loro voltato le spalle. E’ vero esattamente il contrario. Nel 2006, dopo ben nove anni di mio disimpegno, vedendo il paese abbandonato politicamente, fui indotto a prendere l’iniziativa. Dormivano, ma, quando seppero del mio intento, si svegliarono. Proposi un coordinamento dei gruppi; venne rifiutato e mi condussero, per mesi, - come si suol dire – “pu capizzu”. Si riunivano, ma, né io né Nino Carcione, venimmo mai invitati ad una loro riunione. Scoperto il loro gioco (che era quello di prendermi per i fondelli tenendomi buono), decisi di ritirarmi. 

Avrà saputo, caro Nebrodi, che, nel periodo del Natale 2006, venni aggredito verbalmente, in piazza, da un ubriacone (anch’egli un ex socialista, che mi aveva osteggiato). Nel maggio di quello stesso anno (ero a Longi soltanto perchè avevo invitato degli archeologi dell’Università di Palermo ad eseguire un sopralluogo sulle Rocche del Crasto alla ricerca dei ruderi dell’antica città di Demenna) venni fatto oggetto di forti danni alla mia macchina nuova. A Palermo, li chiamano messaggi intimidatori. A buon intenditore, poche parole, anche se di fatti indicativi ne ho riferiti tanti. Tutti questi segnali, ripetutisi da oltre un decennio, mi convinsero, - finalmente (!) – che non era il caso di insistere con alcuni soggetti che, prima del 1993, erano stati miei compagni di un percorso politico e che, dopo quell’anno, tanti dispiaceri e danni procurarono a me ma anche al paese. Si, proprio così, perché quando viene osteggiato chi vuole fare qualcosa di buono, di innovativo e di concreto per il proprio paese natio è un danno che si arreca a quest’ultimo. E certe persone, nei confronti del paese, per non parlare nei miei, hanno nascosti nei propri armadi alcuni scheletri, che i cittadini di buona memoria conoscono. Eppure, fanno i politicanti...contro la comunità! 

Per concludere, caro Nebrodi e cari amici longesi, da oltre 40 anni Longi perde abitanti (da 2500 a 1600 circa) ed il declivio continua. E’ un grande dolore per noi “emigrati” constatare che il nostro paese si è avviato verso la strada di una “contrada di Galati”, come afferma Terna. Noi, che siamo uomini liberi e non abbiamo interessi personali da difendere, ma dal Creatore abbiamo avuti doni intellettivi e morali che vorremmo mettere a disposizione della madre-terra, veniamo respinti (sic!). Ebbene, da vecchio socialista, democratico e riformista, quale mi onoro di essere, per l’amore che porto al paese dei miei padri e mio, ero disposto a scendere a patti anche col “diavolo” (escludendo quello dell’Inferno) pur di raggiungere l’obiettivo di dare a questa terra una “pindarica progettualità” (perfettibile) quale quella che io presentai per il futuro economico, remoto e prossimo, della nostra e vostra Longi. Ma le ostilità sono provenute sempre da un lato: chi ha acume, mi capirà. Potevo presentare la terza lista, ma non l’ho fatta per non incorrere nello stesso errore (non mio) del 1997. Al contrario di altri, gli errori commessi a me servono di esperienza. E’ questa la mia incoerenza, Nebrodi? 

La invito a rileggere tutti i miei interventi su questo Forum. Di persona (ma son certo che non mi darà questo piacere), potremmo approfondire ancora di più la problematica, presente e passata, la quale – ribadisco – è stata già depositata nelle pieghe della storia futura di Longi. E la storia è maestra di vita – nel caso si abbia questa cultura – per coloro che vanno a gestire la “cosa pubblica”. 

Da Palermo, 1 aprile 2007 Gaetano Zingales 


Libertà di espressione, si, ma con correttezza. Appunti per un confronto civile. 

Il male ed il bene, l’odio e l’amore sono nati con la notte dei tempi. Caino e Abele ne furono i “fondatori”. E’ radicato, in fondo alla nostra psiche, nell’animo umano quindi, il dualismo di quei due sentimenti ed è lasciato al libero arbitrio dell’uomo far prevalere l’uno o l’altro, a seconda delle circostanze. 

La storia del mondo è disseminata di fatti dolorosi generati dall’odio, ma anche di atti d’amore, nati da quella presenza del “bene “che è in ciascuno individuo umano. 

L’oscurantismo feudale, inteso come presenza contingente nei popoli, ha portato e porta guerre e distruzioni; l’odierna civiltà, invece, e la democrazia consolidata si battono per la pace e per la difesa della stessa democrazia. Martin Luther King e Mahatma Gandhi, alcuni dei simboli mondiali per l’affermazione dei diritti civili, utilizzando le armi della loro oratoria e dell’amore per la pace, riuscirono a vincere le loro battaglie, che sono state traguardi di civiltà. Karol Wojtyla perdonò il suo attentatore, il “lupo grigio “Alì Agca. Si, d’accordo, Egli era già Santo in vita. Ma fu un gesto, oltre che d’amore cristiano, di umana civiltà. 

Va da sé che l’opportunità della convivenza civile è, tra l’altro, sinonimo di rispetto della altrui dignità e personalità in quanto è foriera del “bene”, come valore assoluto, ed, in determinate circostanze, del comportamento convenzionalmente denominato “civile”. Che è, quindi, un “veicolo educativo” nelle relazioni sociali. “Non fare agli altri ciò che non vuoi venga fatto a te stesso” dovrebbe essere il leitmotiv nel percorso del nostro vivere quotidiano. 

Con questa riflessione, auspico che, appunto, quel vivere civile, che ha contraddistinto la nostra comunità, non venga offeso nel frangente del confronto elettorale in corso, la cui discussione – per la prima volta a Longi - viene ripresa anche per via telematica. Riflessione, in particolare, a ciò che si scrive nel Forum di questo sito internet illudendosi di essere coperti dall’anonimato: le parole possono ferire o colpire mortalmente, al pari di un’arma. Di fronte alla eventuale pesantezza di esse, salta, penalmente, la copertura dello pseudonimo. Attenzione anche a non lasciare libero corso all’esuberanza giovanile. Confronto civile, quindi, e democratico sui programmi e non sulla “qualità” delle persone. Quest’ultima emerge, da sola, attraverso comportamenti e fatti verificatisi: ognuno ha buona memoria ed è in grado di giudicare il soggetto politico, senza che gli vengano scaricati addosso orpelli di vario genere. 

Il confronto, quindi, - come si usa ovunque – deve essere su ciò che si intende realizzare: ripeto, sui programmi. L’avversario politico è un individuo che percorre una strada diversa da quella di un altro cittadino e, pertanto, non è da aggredire ma da rispettare perchè essere umano con la stessa sensibilità del suo omologo. Non possono, nè devono coesistere, nei suoi confronti, astio o, peggio ancora, odio, bensì distaccato raziocinio giudicante. Io, nel 1993 e ’97, ci sono riuscito con i miei avversari. Rispetto alle competizioni amministrative precedenti fu una conquista di democrazia e di civiltà.

Gaetano Zingales Postato il Martedì, 24 aprile @ 00:53:57 CE




L’incendio al Serro durante i fuochi pirotecnici del 1994 

Mi trovo a Longi ed incontro un uomo di chiesa. Ci salutiamo. Mi abbraccia e mi intrattiene in una breve conversazione. Il discorso cade sulla festa di ieri in onore di S. Leone, essendo la prima domenica di maggio, e sui giochi d’artificio. 

Io sostengo che, data la loro pericolosità per potenziali incendi nella zona del Serro, i fuochi si devono poter sparare al campo sportivo, rammentando al parroco l’incendio che scoppiò al Serro, durante il mio mandato di Sindaco, nella nottata della festa del Crocifisso, in agosto; allora le fiamme si propagarono fin sotto le case del “dirupo”, con grave pericolo per le stesse e per coloro i quali si adoperarono a domare l’incendio. Il mio interlocutore mi interruppe, dicendomi: “L’incendio, quella volta, lì, fu portato…” E non andò oltre. Egli poteva sapere ….

Accadde il 5 maggio 2003 

 Raggelai mentre un brivido percorse la mia schiena nel rammentare le ore drammatiche vissute quella notte per spegnere le fiamme: nessuno aiuto ci pervenne da fuori, malgrado più volte sollecitato; alcuni giovani corsero pericolo di vita.


 Erano le cinque del mattino quando finalmente potemmo andare a letto mentre il fumo si alzava verso il cielo ceruleo. Tutta la vegetazione sotto il Serro, attorno Mannarano, sotto il “Dirupo” ed attorno a santo Rocco era distrutta; morirono animali da cortile, maiali e cani da caccia, ricoverati nei casotti attaccati dalle fiamme. 

Non potei dormire. 

Dopo una doccia, mi recai al Municipio e lì trovai alcune persone che mi aggredirono: gridavano che la colpa era mia di quanto era successo e che avevano avuto distrutto l’uliveto, altri alberi da frutto e così via. Oggi, non commento più niente: lascio che siano altri a farlo nel momento in cui, a poco a poco, la verità va emergendo.




Concludo questa lunga chiacchierata, col dire che ho accettato la candidatura a Sindaco perché, sapendo le condizioni di disastro economico e di gestione commissariale del comune, volevo il bene di Longi e la sua rinascita. Lo dimostrano i progetti avveniristici che avevo proposto al Consiglio comunale e che lo stesso ha bocciati,

La miopia personale e politica di alcuni personaggi locali ha impedito tutto ciò e Longi è ripiombato nella gestione amministrativa e politica “medioevale”. Basta fare mente locale ai soggetti politici che, fino ad oggi, hanno governato (si fa per dire) il paese: solo per la gestione degli affari correnti, niente progetti innovativi.

In seconda battuta elettorale, l’insipienza, l’invidia, l’arroganza, la superbia, l’orgoglioso protagonismo senza averne le basi culturali per una oculata, imparziale ed impegnata gestione della res pubblica, la limitatezza caratteriale e politica,  la vanità, l’interesse personale smisurato, da parte di alcuni “politici” locali,  sono riusciti a  convincere la maggioranza degli elettori longesi - tranne i circa duecentocinquanta della Primavera longese -  a buttare alle ortiche un dono della natura e della propria terra, e cioè l’intelligenza, le qualità morali, l’inventiva, l’impegno lavorativo, il senso della giustizia e l’elaborazione di idee e progetti. 

Ed ha rinunciato, la maggioranza dei longesi, al ruolo di servizio di una persona, che, per anni ancora, avrebbe messo a disposizione del paese la sua esperienza sindacale e politica, il suo volere migliori condizioni di vita per i suoi concittadini, il suo amore per la bellezza culturale ed artistica del borgo, la sua propensione alla solidale convivenza civile ed umana nei rapporti familiari all’interno della sua comunità.

Mi dispiace per Longi, la culla in cui sono nato! 

Mi auguro che la Storia del territorio, che tramanda anche gli errori commessi, possa insegnare qualcosa alla futura classe politica longese perché:

“Un popolo che non conosce il suo passato, non ha futuro”. (Montanelli)


Sono stato tradito da quegli stessi compagni che avevano creduto di poter dare, tramite me, un nuovo corso al paese, il corso che io ebbi a definire dalla “Primavera longese”.

Si legge che Giulio Cesare, pugnalato dal congiurato e figlio adottivo, Bruto, sia comparso in sogno all’omicida e gli abbia detto: “ci rivedremo a Filippi”. Dopo aver perso la battaglia finale contro Ottaviano, appunto a Filippi, Bruto si suicidò. Il destino, nel compiersi, non prevede soltanto la morte corporale, ma esso si manifesta, anche in maniera cruenta, con i suoi diversi volti durante lo scorrere della vita.

Osservando i fatti e gli sviluppi, mi sovviene quel Gigante della letteratura italiana, Dante Alighieri. Dopo avere operato per il bene della sua Firenze, nonché sperato, dal suo esilio, di potervi tornare ed avere, altresì, conosciuta l’amarezza della delusione da parte dei potenti in cui aveva riposto la speranza che, per il loro tramite, Firenze potesse tornare ad essere gestita dai Guelfi Bianchi, di cui Dante era stato Priore ed ambasciatore presso il Papa, il Poeta si ritira a Ravenna, laddove peraltro è morto, per completare la stesura della sua Commedia, che i posteri definirono Divina. 

Io, nel mio piccolo, mi sono rifugiato, a tratti, cazzeggiando nella mia casa avita di Crocetta, cercando di trovare il senso dei miei “passi perduti” (Alejo Carpentier).


Proposte finali


Il Presidente Sergio Mattarella, in un passaggio del suo discorso alle Camere riunite ed agli italiani, nel febbraio 2022, dopo il suo rinnovato giuramento alla Costituzione, ha, tra l’altro, detto: “L'Italia è, per antonomasia, il Paese della bellezza, delle arti, della cultura. Così nel resto del mondo guardano, fondatamente, verso di noi. La cultura non è il superfluo: è un elemento costitutivo dell'identità italiana. Facciamo in modo che questo patrimonio di ingegno e di realizzazioni - da preservare e sostenere - divenga ancor più una risorsa capace di generare conoscenza, accrescimento morale e un fattore di sviluppo economico”.

Il messaggio del Presidente della Repubblica calza in pieno ad essere applicato in uno dei piccoli, ma incantevoli paesi della nazione: Longi. Che è uno dei borghi più belli d‘Italia sotto l’aspetto paesaggistico ed ambientale. Ciò, però, non basta. E’ sul turismo e sulla cultura che occorre investire se si vuole aumentare l’economia del paese.

Oltre alle escursioni, la gente che viene da fuori vuol vedere ciò che di culturalmente interessante il paese offre. Ebbene, sappiamo che le belle caratteristiche strutture del passato sono state distrutte: lavatoio comunale, monumento ai caduti con la vasca dei pesciolini ed altri ornamenti, il teatro di pietra, i murales di Castiglione, l’antico Serro, le caratteristiche fontanelle pubbliche rionali ed il piccolo lavatoio comunale a Scagliò non esistono più. Peccato che il castello medievale, - anche se i suoi arredi antichi, i documenti secolari e le opere d’arte contenute sono stati “sottratti da “ignoti ladri”, essendo diventato un bene immobile privato - non sia visitabile da parte del pubblico, 

Ebbene, bisogna inventarsi qualcosa su cui concentrare interessi culturali ed ambientali. A mio parere, realizzare un Centro culturale polivalente, da cui partire, è una iniziativa che rende economicamente, oltre che come polo di cultura. Oggi, l’afflusso in massa ai musei ed ad agli scavi archeologici sono una fonte di entrate economiche per il Paese. 

Il Centro, da realizzare in una struttura pubblica (locali al Campo plurimo, aule vuote delle scuole) potrebbe ospitare il Museo naturalistico del dottor Migliore, le opere d’arte ed i libri donati da Ugo Zingales, la biblioteca comunale. Per la nuova Galleria d’arte contemporanea, penso ad un arricchimento con qualche tela donata da artisti longesi dopo avere organizzato un loro vernissage, ma anche attraverso un concorso di pittura e di fotografia naturalistiche di scorci paesaggistici del territorio longese, le cui prime e seconde opere vincitrici dovrebbero  essere acquistate dalla Galleria ad un prezzo contenuto, cioè il premio del Comune; l’evento potrebbe essere finanziato della B.C. Valle del Fitalia e da eventuali altri sponsor . 

Un concorso biennale di poesia, intestato al prof. Arturo Militi, che oltre ad essere stato docente di lettere, vissuto nel secolo scorso, era anche un fine dicitore di strofe da lui scritte: concorso quale arricchimento di testi poetici della biblioteca. La premiazione del vincitore dovrebbe avvenire attraverso la partecipazione in presenza dei poeti e loro seguito.

Penso, inoltre, ad una serie di murales da custodire gelosamente attraverso la protezione dagli avversi eventi atmosferici ed il loro restauro periodico, ove occorra. La loro realizzazione, attraverso un bando pubblico, dovrebbe snodarsi lungo il muro che costeggia, all’ingresso del paese, la strada provinciale, nonché sulle fiancate delle due chiese, dei due muri laterali della scalinata della chiesa madre: le cui immagini potrebbero ispirarsi, ad esempio, alle storie descritte nel Vecchio Testamento.

Penso alla realizzazione di un museo fluviale lungo la valle del fiume Milè, -  il cui territorio è sotto tutela dei Beni culturali ed ambientali regionali, e, probabilmente, anche la Stretta è protetta dall’Unesco. Lungo la vallata nidifica, infatti, una rara specie di uccello, il Gipeto -, con restauro conservativo dei muri ed ambienti della cosiddetta “fabbrica dei drappi “presso la contrada Paratore (1) e dei mulini ad acqua, valorizzando nel contempo, lungo il sentiero, le piante autoctone. 

Per rendere più pregnante la progettualità, sarebbe utile andare ad una specifica conurbazione territoriale ambientale, che includa  i due paesi di Longi e di Galati Mamertino, riguardo alla visita delle bellezze naturali e dell’habitat boschivo estendendo l’escursione guidata alla cascata del Catafurco, ai caprioli allo stato brado nel bosco di conifere di Galati, al bosco di Mangalavite ed al lago Biviere , alla vista mozzafiato dal Pizzo di S. Nicola con visione dei pochi resti archeologici esistenti sulla fortezza e dintorni , costruita, nell’VIII secolo all’incirca, a difesa della distrutta Demenna. Un programma escursionistico da svolgersi in più giorni, con sosta notturna presso le dimore trasformate in B&B, e cena nelle trattorie locali.

(1) “Il drappificio (o gualchiera per la battitura della lana), sorto nei pressi del fiume Milè, era un

Opificio “costituito da un follone (macchina per la follatura di tessuti e feltri), che dava luogo all’azione di follatura, che è un’operazione del processo di finissaggio dei tessuti di lana, che consiste nel compattare il tessuto attraverso l’infeltrimento, per renderlo compatto e in alcuni casi impermeabile. 

Nel drappificio di Longi, nel Bosco Sottano, venivano realizzati mantelli impermeabili col cappuccio, indossati, soprattutto, dai contadini quando andavano nei campi. Al “paraturi”, una rudimentale fabbrica di panni, di proprietà del barone di Longi, si manifatturavano a cottimo due tipi di tessuto: l’abracio, per l’abito contadino, e lo stamigno, che serviva per gli stacci.” (dal mio libro “Quel borgo baciato dalle acque del Mylè”)  

Questo tipo di opificio era già in essere ai tempi degli antichi romani, i quali lo utilizzavano soprattutto per la realizzazione del pesante tessuto con cui venivano vestiti i legionari in missioni militari nei freddi territori del nord.

Infine, come completamento del progetto culturale, va ripresa la cura e la gestione della biblioteca comunale (oggi in stato di abbandono), che dovrebbe essere arricchita con libri per ragazzi da distribuire in prestito per la lettura ai discenti delle scuole longesi: ciò per educare ed allenare i giovani alla lettura, la quale dovrebbe accompagnarli nel corso della loro vita quale arricchimento culturale. La conoscenza apre la mente e predispone ai valori comportamentali, nonché al progresso evolutivo nell’affrontare la vita quotidiana.

Così,- tanto per intercalarlo nel discorso - il sottoscritto, all’età di sedici anni aveva letti i romanzi esistenti presso la biblioteca dei propri antenati, compresi i testi di classici, delle commedie e delle tragedie greche (in italiano), che vennero approfonditi, però, al liceo classico.

Ebbene, in una biblioteca comunale ben gestita, sarei disponibile a donare i miei libri che sono custoditi nel mio “sancta sanctorum”, magari includendo i testi degli ultimi due secoli, precedenti a quello in corso, esistenti presso la casa dei miei avi.

Attraverso il sapere, l’individuo, professionalmente, può salire gli scalini della società anche per un impegno lavorativo soddisfacente. Chi “arriva in alto”, può dare il suo contributo, per il proprio paese, anche in termini di proposte, di vicinanza professionale e culturale; se non anche con un impegno dirigenziale e di amministratore civico, meglio ancora se “illuminato”.

Per incentivare il turismo sarebbe opportuno ripristinare la Pro-loco, apartitica ed apolitica, -una volta esistente presso l’attuale Enal e liquidata a seguito dei “disastri” scaturiti dalla mancata pubblicazione del testamento della duchessa Zumbo - per il coordinamento delle iniziative e la promozione del flusso turistico, nonché della gestione del paese-albergo, in atto esistente attraverso i B & B, ed i ristoranti e trattorie locali.

Proposte visionarie? Sogni?

No! Progetti fattibili, nel decorso di pochi anni, per non fare “morire” il paese. Ma…. per realizzarli, occorre guardare lontano...












E per finire…..alcune notizie “shakerate”


Diverse volte ho cambiato attività lavorativa, da quella manuale, alle dipendenze dello Stato, a quella sociale e indi a quella politica; infine a ciò che promana dallo spirito e dai neuroni, osservando la realtà della vita che scorre attorno a me: scrittore di qualche libretto di poesie e di altre pubblicazioni, dai romanzi alla storia locale ai saggi, a blogger, a tempo perso.


Per dieci volte ho spostato residenza anagrafica ed è per questo motivo che mi sono autodefinito “errante”.


Spesso, la morte mi si è seduta accanto ma. è scesa alla prossima … fermata. Infatti, oltre agli incidenti automobilistici evitati ed ai pericoli occorsi, di cui prima ho accennato, andando indietro di oltre cinquant’anni, coloro che, allora, venivano colpite da malattie di un certo “peso”, presto tiravano le cuoia. Io sono riuscito ad arrivare a questa età perché, malgrado le pluri-patologie che negli anni si sono accumulate, ho avuto la fortuna di potere adire i letti ospedalieri in tempi brevi e di essere curato da bravi medici. Oggi, uno specialista valente e le appropriate medicine, anche se in multi dosi giornaliere, riescono ad allungare la vita dell’uomo.


Due volte il mio matrimonio è andato a puttane. Ho visitato molti cuscini vellutati e non; ho conosciuto un paio di volte l’incipiente sapore della cosiddetta felicità ma il Fato, giocando con la mia vita, mi ha fatto sapere che tutto è stato già scritto, al momento del concepimento, nel cosiddetto Destino: in Esso la parola felicità, nella mia pagina, non si trova scritta. Ma va affanculo!

Non consideratemi un “dongiovanni” o un mangia-femmine. Sono state le condizioni temporali ed oggettive, in cui mi ci sono trovato che mi hanno indotto a quelle iniziative o atti d’amore, fuggenti e non.  D'altronde, nell'incontrare una femmina, e per ottenere le sue “grazie”, ero favorito da un fisico molto attraente, sia nella giovane sia nella matura età, E’ risaputo che, quando un uomo ed una donna si trovano di fronte o si frequentano, emana dai pori della loro pelle un umore aeriforme che, mescolandosi, ove l'olfatto e la visione trovano la piacevolezza del momento, produce una involontaria attrazione sessuale. La quale si traduce in rapporto fisico se scaturisce dalla volontà dei due di incontrarsi e soggiacere insieme in un alcova. 



E’ stato un onore essere stato eletto Sindaco di Longi 

ed averlo servito al massimo delle mie forze fisiche e morali. 

Mi ha guidato, in quel tormentato ed accidioso cammino,

l’esempio dei miei due antenati: la temerarietà dello

 zio Angelo, Sindaco del paese, 

ed il valore dello zio Nino, del Corpo degli Arditi.




E’ sempre attuale




  Diverse volte sono caduto, ma ho avuto la forza di rialzarmi non dimenticando le ferite

***

Chiedo scusa se qualcuno si sarà sentito leso, ma la storia, per essere tale, deve raccontare la Verità.


La storia fa paura. Fa paura il passato. Fanno paura gli archivi. Troppi scheletri là dentro? 

Per noi scrittori invece è un dovere morale tenere viva la memoria. Quella bella e quella brutta. La narrativa è sempre memoria, a volte perfino scomoda.

  (Gaetano Savatteri in un recente articolo su Repubblica relativo alla fiction Màkari)





Il mio “buen retiro”, a Crocetta

E, il pensatoio, nel mio “sancta sanctorum”














BIOGRAFIA


Nacqui a Longi (ME), il 4 dicembre 1938.


Già giornalista pubblicista, iscritto all’Ordine regionale

dei Giornalisti di Sicilia.


Corrispondente per la Sicilia del “Lavoro Italiano”, organo della UIL confederale;

 Redattore capo di “Risveglio Postelegrafonico” della UIL-Post nazionale;

Direttore responsabile di “PT Sicilia” (1978-’93) e de “Il Corno” (1963-’72), organi della UIL-Post, rispettivamente regionale e provinciale di Messina;

 Redattore capo di “Coerenza”, organo della Federazione Psdi di Messina(1969-’70).


Su proposta del Presidente del Consiglio Bettino Craxi, il Presidente della Repubblica Cossiga, mi ha conferito l’onorificenza di Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana. 


Commissario nazionale UIL-Post per la riforma dell’azienda P.TT.;

Segretario confederale della UIL di Cefalù;

Consigliere nazionale del Dopolavoro Centrale delle P.TT.;

Segretario regionale della Uil-post Sicilia:

Sindaco di Longi;

Coordinatore regionale dell’Associazione angioedema “Melchiorre Brai”;

Presidente del Centro Studi Castrum Longum;

Segretario regionale organizzativo del Partito Socialista Siciliano.



PUBBLICAZIONI:


Bastardo – zibaldone di racconti, poesie e altro – Prefazione di F. Cannizzaro, Commento di N. Vicario – Giugno 2021

Il Canto dell’Emigrante - Poesie

Demenna, l’impatto saraceno - Romanzo, 1. ediz.

I Castelmalè - Quadrilogia, saga di una famiglia nobile dei Nebrodi

Tra Krastos e Demenna - Saggio, ricerca documentale, con prefazione di Luigi Santagati

La leggenda di Demenna - Romanzo storico, con prefazione di Fara Misuraca

Inchiostri - Poesie

Quando il destino bara - Storie d’amore

Alle pendici delle Rocche - Storia ed altro su Longi

Voci dal cuore - Poesie

Non ho mai amato nessuna come te - Viaggio nella solitudine, romanzo - Romanzo

L’ultima baronessa - Romanzo

Quel borgo baciato dalle acque del Mylè - Storia di Longi

Il romanzo della vita di un errante 


PREMI


1° premio: VI edizione Concorso di poesia “Bonsignore-Basile” 2011, con la poesia “Vorrei”

Premio “Auser” 2015 per la poesia “Il Vento del mondo”


Inoltre:

Ho scritto articoli per vari organi di stampa e agenzie on-line, nonché relazioni su diverse tematiche.


Curo i blog Rocche del Crasto e il Nbbio


Nota. Mi è capitato di leggere scritti, pubblicati in siti ufficiali di enti pubblici, laddove sono riportate notizie riprese da qualche mia pubblicazione senza citarne la fonte bibliografica. Non è corretto ed è un reato!



 














Copertine di alcune mie pubblicazioni




               







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