17 gennaio, 2021

I racconti del Cavaliere

 



IL SAPORE DELLE NOCCIOLE VERDI



Era da poco finita la seconda guerra mondiale e, nei piccoli comuni dei Nebrodi, le ristrettezze economiche, se non addirittura la povertà di alcune famiglie, continuavano a far soffrire la gente. Ma la vita doveva andare avanti e le persone lentamente tornavano alle loro abitudini.

Appollaiato su un pianoro, alle falde di rocce maestose, sorgeva e sorge un borgo, bello nella sua semplice antichità e ricco di fresche sorgive, che contava oltre duemila abitanti; alcuni non erano tornati dal fronte, altri, senza lavoro per mantenere la famiglia, si apprestavano ad emigrare. Era, quest'ultimo doloroso evento, che il defunto Duce, con la sua devastante guerra perduta, lasciava in... dono a parecchi lavoratori italiani.

Un episodio accaduto negli anni Cinquanta, ma il cui evento consuetudinario periodicamente si ripeteva nel divenire delle annate, ci dice come alcuni vivevano quel dopoguerra.

Nel territorio imperversava una banda di delinquenti che comunemente veniva indicata come “a banna russa”, il cui capo era un bandito originario di un paese del Fitalia e giusto nel Fitalese e nei paesi dell’hinterland aveva “eletto” il suo campo di razzie. I banditi, che si muovevano nottetempo a dosso di cavalli per i loro raid, amavano perlopiù il sequestro di persona per poi chiedere ai congiunti delle vittime, grosse somme di denaro (si parlava di milioni di lire) per il loro riscatto che puntualmente ottenevano. La loro fame di soldi non aveva limiti tanto che le loro mire, oltre ai sequestri di persona erano l’abigeato e i furti nelle fattorie del circondario e tutto questo li portava spesso a ingaggiare violenti scontri a fuoco con i carabinieri che non cessavano di dare loro la caccia. Per fortuna per quanti avevano subito le loro angherie, la vita da “banna russa” fu breve (si disse dal gennaio 1945 a giugno-agosto dello stesso anno). A decretarne la fine e la conseguente cattura è stato uno squadrone di carabinieri che riuscì a stanarli dal loro covo: un convento e una torre di avvistamento bizantina abbandonati, sul pizzo di Mueli. Tutti furono condannati all'ergastolo.

Da qualche anno era stato eletto il primo sindaco dell'era repubblicana, il paese tornava a rivivere, soprattutto attraverso l'impegno dei più anziani. Durante lo sfoglio delle schede elettorali, il candidato monarchico, ma antifascista, attendeva l'esito delle votazioni in casa del suo maggiore elettore ed ogni ora inviava un ragazzino di otto anni, Francesco, al seggio elettorale per sapere chi dei due candidati era avanti; questi si rivolgeva al rappresentante di lista indicato, il quale scriveva su un foglietto la situazione delle schede sfogliate; Francesco cinque o sei volte fece la staffetta ed alla fine consegnò all'ansiosa persona, poi risultata eletta quale Sindaco, un biglietto su cui era scritto: “vincemmu”. Mentre gli adulti brindarono alla vittoria con “giammellotte” e vino di casa, in quanto a quei tempi, in paese, non c'era l'ombra di una bottiglia di spumante; al ragazzino, per il diligente servizio, i cioccolatini. Seguì il solito giro “processionale” lungo le vie del paese. Veramente immensa fu la gioia tra amici ed oppositori, giacché la comunità usciva dall'oppressione di una “presenza fascista”, per nulla gradita nel famoso “ventennio”.

Quel sindaco cambiò il volto del vecchio borgo in ridente paese dopo averlo fatto uscire dal letargo del medievalismo sociale: portò la luce elettrica nelle case e nelle strade; abbatté una serie di case, sulla sinistra da nord a sud, per allargare la strada principale; sostituì la “ciacata” della piazza e delle vie principali, nel percorso ad est e ad ovest del paese, e tanto altro ancora. Ex funzionario del Genio civile, geometra, aveva gli agganci giusti in alto loco e seppe approfittare del “Piano Marshal” statunitense con cui gli Stati Uniti d’America intesero contribuire alla ricostruzione dell'Europa, economicamente in ginocchio a causa della guerra. Riuscì ad ottenere i giusti finanziamenti per realizzare nel piccolo Comune, le opere sopra richiamate.

Solo un altro sindaco, negli anni '20, durante il ventennio fascista, riuscì a fare altrettanto: delle sue opere se n'è parlato nella storia del paese.

Il “fattorino elettorale” Francesco, dopo oltre 40 anni, fu eletto sindaco e salvò il paese dal dissesto economico per debiti fatti accumulare dai suoi predecessori, debiti che, nel tempo, erano arrivati ad oltre un miliardo e ottocento milioni di lire ed erano oggetto di contenziosi civili. Che riguardavano somme di denaro, per espropri di terreni a privati cittadini, inizialmente non pagati, e che, durante i vari gradi giudiziali di sentenze appellate dal Comune, lievitarono in maniera esponenziale. Era default! Ma la caparbietà di quel sindaco riuscì a trovare il modo per raggiungere un compromesso con i creditori, facendo scendere la somma dovuta e liquidare, anche, fatture e parcelle degli avvocati. Ma la gente non lo capì! Se fosse stato dichiarato il dissesto, per legge, le tasse comunali dovevano essere elevate al massimo dei parametri, si sarebbero dovuti licenziare coloro che lavoravano al Comune come precari (articolisti), sarebbe arrivato un commissario esterno che avrebbe ingessato l'attività economica dell'Ente. Questa, però, è un'altra storia!

Venne il mese d’agosto e diverse persone si preparavano a trasferirsi “o Locu” per il periodo estivo. Le famiglie dei contadini avevano raggiunto il proprio podere già dai primi di aprile per preparare il terreno alla semina dei prodotti dell'orto ed attendere alla cura degli animali da stalla o da pascolo, nonché agli altri lavori necessari nella loro campagna. Le contrade, già di per sé popolose anche nelle altre stagioni, vedevano incrementare le presenze con i villeggianti e con quanti si trasferivano “o Locu”(1) in occasione della raccolta delle nocciole e degli ortaggi, ma anche con chi andava alla ricerca di refrigerio, soprattutto notturno.


  1. La derivazione è dal latino in quanto locus, tra le altre locuzioni, declina anche: ”podere, terreno”. Il resto è intuibile. Va precisato inoltre, che se quel centro abitativo extra-urbano fosse esistito durante la presenza dell'Impero romano, quando cioè, la Sicilia era provincia di Roma, i suoi abitanti avrebbero detto: “ego vadam ad villam”, ma essendo sorto poco prima della dominazione normanna in Sicilia, durante la quale venne adottata come lingua il latino volgare, il podere personale veniva indicato con la parola “locus”, che poi, con l'avvento della lingua siciliana, (Imperatore Federico II, fondatore, tra l'altro, della Scuola poetica siciliana), venne chiamato definitivamente “U Locu” per indicare le attuali contrade.


Dal paese, le ubertose contrade si raggiungevano attraverso l'impervia ed erta strada mulattiera, chi a piedi, chi a dorso di mulo o di asino, di cavallo per i più agiati. I “transumanti”, che percorrevano la distanza sotto il solleone, giunti a metà percorso dove c’era una sorgente, approfittavano di rinfrescarsi il volto con le sue gelide acque. Quindi si riprendeva il cammino affrontando una ripida salita a scaloni, e per aggredirla, il viandante  a dorso del quadrupede doveva scendere dalla sella, oppure, se bravo cavallerizzo, aggrappandosi alla criniera, piedi nelle staffe e gambe serrate al corpo della bestia. Gli altri pedoni giungevano alla prima contrada, ansimanti, dove potevano sorseggiare qualche gassosa nella bottiglia con dentro la pallina colorata, oppure un bicchiere di buon vino; mentre le donne al seguito, si rinfrescavano alla vicina fontanella. La tappa successiva era la rivendita di tabacchi e di generi alimentari, dove le signore compravano qualcosa che potesse servire in famiglia, mentre gli uomini si rifornivano di sigarette, sigari o di tabacco da fiuto.

Attraversavano la contrada, percorrendo il sentiero in terra battuta affiancato da frondosi castagni e da alberi di noci o da distese di noccioli che già mostravano il frutto, ancora non pronto ad essere raccolto; a macchia di leopardo s'inserivano alla vista verdi orticelli per la coltivazione di prodotti biologici per la famiglia, in quanto l'unica terapia era il concime stallatico e le abbondanti irrigazioni. Percorrendo la strada, lo sguardo spaziava, nel versante opposto, verso altre casupole abitate, al di là del torrente che divideva i due territori degli attigui comuni, verso le alte vette ed il verde dei boschi. Da lì, il percorso era piacevole perché si scambiavano saluti con la gente affacciata sull'uscio di casa o seduta sul “bisolu”, laddove spesso le donne filavano la lana.


Finalmente si arrivava al luogo della villeggiatura: freschissime, erano le acque sorgive in contrada “Cantales” ed intensiva la coltivazione del nocciolo dove, in spezzoni di terreno, veniva coltivato l'orto di casa: pomodoro, fagioli, zucche, peperoncini, cipolle, agli, melanzane e peperoni, irrigati da acque sorgive che affluivano in capienti vasche, dette “u biveri”.

Nelle contrade, a quei tempi, non esistendo la rete idrica comunale, alcuni utilizzavano le sorgenti per attingere l'acqua potabile che serviva anche, per gli usi domestici.

A scaglioni, arrivavano il cavaliere don Antonino, ricco proprietario terriero, con la moglie donna Teresa ed il figlio Leone, il farmacista don Angelo con la figlia Rosa e la moglie donna Assunta, il sindaco don Ignazio, scapulu, con la fantesca Maria Angela, ed il parroco di campagna, don Lio. Questi si apprestavano a trascorrere l'estate chi in casolari isolati, altri nelle proprie case rurali, altri ancora in normali abitazioni di campagna, a ottocento metri sul livello del mare.

Nel tardo pomeriggio, dopo la pennichella, erano usi riunirsi, per lo più, nell’ abitazione del sindaco e, sotto un fresco pergolato, giocavano a carte: ora a briscola, ora a scopone. Maria Angela portava loro un vassoio di biscotti fatti in casa ed una teiera di bollente tè.

Don Lio e don Ignazio facevano coppia fissa contro don Antonino e don Angelo. Era uno spasso quando il sindaco perdeva e se la prendeva col prete: “santu diavuluni, ogni vota non aviti a carta giusta pi vinciri”, oppure “mi rumpistivu i cabbasisi pirchì non sapiti jucari”. Il prete, che era balbuziente, rispondeva, dopo essersi segnato con la croce: “ma ma ma chichi chi cu cu curpa n'hai jò si si i ca ca carti non mi veve ve venunu?”. Gli astanti cercavano di trattenere il riso per rispetto verso il prete, ma non tutti ci riuscivano.

Don Lio era un curato di campagna che, com’era uso a quei tempi, diceva messa in latino, ma quello di don Lio era un latino incomprensibile, tranne l'amen finale. Aveva perso un occhio durante una battuta di caccia sulla neve, ma era bravissimo tant'è che un giudice di un paese vicino, anch'egli appassionato di caccia, ospite spesso del cugino don Antonino, voleva sempre don Lio come compagno durante la sua annuale battuta di caccia. La sera, il carniere di entrambi era sempre pieno di lepri, conigli e pernici, che finivano, equamente suddivisi, sulle mense delle case del giudice, di don Antonino e di don Lio.

Durante l'intervallo delle partite, don Lio, che si vantava di essere amico di quel magistrato, tra una incespicata e l'altra della parola, raccontava ciò che al suo compagno di caccia, una volta, era successo. La moglie di don Antonino, dove alloggiava per qualche giorno il congiunto, poiché questi si doveva alzare prima che facesse giorno, mise sul fornello a carbone la caffettiera del caffè e raccomandò alla cameriera che, quando avrebbe sentito suonare la sveglia, doveva accendere il fuoco e portare il caffè assieme ai biscotti, nella camera del giudice. La poveretta, che non brillava per comprendonio, dopo che il caffè fu pronto lo portò, con tutta la caffettiera, nella camera dell'ospite. Questi non sapendo cosa fare venne preso dal panico: “susu su sua eee eccellenza gaga ga Gaetano -- così si chiamava il magistrato -- ristò chiù chiù chiù cucu cu cunfuso ca pipi pi pirsuasu” chiosò il prete. Dopo il primo smarrimento, il mattiniero cacciatore si recò nella stanza accanto e su un tavolinetto vide in mostra un servizio da caffè, ma era quello con cui le bambine giocavano; non gli rimase altro da fare se non riempire una decina di volte la mini tazzina. Il cavaliere don Antonino confermò l'episodio, e soggiunse che il nonno del giudice, cugino primo di suo padre, consigliere provinciale negli anni Venti, lo aiutò, nella veste di sindaco del paese, per la realizzazione della strada provinciale che collegava la marina con i monti.

Mentre gli adulti giocavano a carte, i due giovani figli, rispettivamente del cavaliere e del farmacista, approfittavano per fare una passeggiata, lungo una larga mulattiera, tra alberi di noccioli e castagni, rovi pieni di gustose more, rigogliosi orticelli e una fontana le cui fresche acque confluivano in un abbeveratoio dove buoi, asini e muli si fermavano per soddisfare la loro sete. Giunti che furono presso l'antico casale nobiliare abbandonato, i due ragazzi lo aggirarono per sdraiarsi sotto un frondoso albero di gelsi neri, avevano l'uno diciotto anni, l'altra diciassette; a quell'epoca erano minorenni, ma il corpo reagiva con tutti i sensi di cui gli adulti sono dotati. Nelle loro passeggiate, quasi giornaliere, ebbero modo di conoscersi, di innamorarsi, di baciarsi e... basta. Altri tempi, altri costumi!

I ragazzi della contrada, nella piazzetta, giocavano per riempire i vuoti della giornata, alternando “a mucciatedda” (30 e 31), “cavasutta”, o “travu longu”. Oppure al pallone: si, un pallone di stracci arrotolati e imbracati in robuste cordicelle. Leone e Rosa si conobbero e si innamorarono durante il gioco del rimpiattino, che era l'unico cui potevano partecipare le ragazze perché gli altri erano riservati ai maschietti, che dovevano cimentarsi in salti per il “cavasutta” o il “travulongu”, accovacciarsi su una pila di giovanotti o scavalcare le terga del compagno abbassatosi a novanta gradi.

Non c'erano ancora né televisione né telefono subito dopo la guerra, ma c'era la radio, che solo alcuni possedevano, e già, allora, si seguivano gli avvenimenti sportivi come gli incontri di calcio e il giro ciclistico d'Italia. Le regole del calcio non erano conosciute, ma si sapeva, per averlo letto su qualche libro, che bisognava formare due squadre, con due portieri, dare calci all'improvvisata palla, segnare il maggior numero di goal.

Venne la festa di Ferragosto. Il cavaliere era il patron del Comitato per i festeggiamenti, collaborato da altri maggiorenti della contrada. In mattinata avevano preso possesso di alcuni magazzini: il macellaio con carne di castrato, salsiccia, costolette di maiale e di vaccina; il rivenditore di particolari e multicolori confetti, di vino e gassose in bottiglie di vetro con dentro la pallina colorata che fungeva da tappo; non mancava la carrozzella dei coni-gelato che venivano prodotti sul posto a mezzo di una gelatiera in acciaio di forma cilindrica entro cui venivano versati zucchero ed essenze per dare gusto e colore al gelato che, “annegata” in una tinozza in legno ripiena di neve ghiacciata, veniva fatta girare su se stessa a mezzo di una manovella con ingranaggio collegato ad una lunga vite senza fine. La neve proveniva dalla “nivera” di proprietà del duca realizzata ‘nte Curme, nella parte alta del bosco.

La “nivera”, una sorta di capiente fossa scavata nel terreno durante la stagione invernale che, ricoperta con paglia, stoppie e tavole, accumulava al suo interno acqua piovana e neve che, data la rigidità del clima, congelavano. Così, che quanti volessero il ghiaccio, lo doveva richiedere e pagare ai campieri del nobile signore. L'attrezzatura ed i prodotti venivano portati, sempre in nottata, a dorso di sceccu o di mulu , dal vicino paese.

Il 15 agosto, per la Chiesa festa liturgica dell’Assunzione, dopo la messa celebrata da don Lio, seguiva la rituale processione della Madonna Assunta lungo le viuzze del piccolo borgo, allietata dalla banda musicale di Arcara. Nel pomeriggio, i tradizionali festeggiamenti popolari venivano aperti dalle canzonette eseguite dalla banda di l'arcarisi in edizione ridotta per risparmiare sulla parcella, mentre il fratello del farmacista, Francesco, con la sua bella voce da tenore guidava il coro improvvisato per soli uomini che avevano onorato il famoso invito “bivemu?” con qualche bicchiere di troppo di buon vino locale; al “giro”, alternandosi con il musicante della grancassa, partecipava anche il giovane Francesco ed alla fine invitava le giovani donne a ballare anch’esse la tarantella paesana. Era tutto uno spettacolo di balli paesani, mottetti, chianote e canti tradizionali. Insomma, un inno alla gioia, alla bellezza muliebre ed al sereno sito bucolico della contrada.

Nei giorni che precedevano la festa, tutto l’affaccendarsi di villeggianti, organizzatori e residenti era volto alla preparazione di tutti quei giochi tramandati da antica usanza tra quella gente, che con poco si divertiva dimenticando per qualche ora le ristrettezze economiche ed altre angustie personali. L'albero della cuccagna, detto 'ntinna, era il gioco più ambito dai giovanotti perché l’arrampicata prevedeva un premio in denaro. In molti si cimentavano nell’impresa, ma altrettanto in molti dopo essere giunti a metà del lungo palo – innalzato al centro della piazzetta - scivolavano tornando a terra. La vetta della “ntinna” veniva espugnata dopo che i numerosi protagonisti, con i loro saliscendi, avevano asciugato il sapone cosparso lungo tutta la lunghezza del robusto legno. Seguivano, poi, “a cursa 'nte sacchi,” “u tiru ca corda” ed infine i “pignateddi”, pentole in terracotta legate in alto trasversalmente alla strada, che i giocatori, bendati, con un'asta dovevano colpire un “pignateddu”: c'era chi menava fendenti in aria con la lunga pertica senza colpirne alcuno, chi girava a vuoto, chi ne colpiva qualcuno pieno d'acqua, chi, invece, il più fortunato, rompendo “u pignateddu giustu”, spargeva monete di dieci e cinque lire. Concludeva i festeggiamenti l'estrazione di alcuni premi, acquistati attraverso la vendita di biglietti al costo di una lira, il cui ammontare serviva anche per l'acquisto di ciò che necessitava per i giochi. Se occorreva, il “patron” integrava personalmente la somma mancate per la bisogna. I soldi offerti alla Madonna lungo la processione erano destinati al curato, don Lio. Infine, l’immancabile ”riffa”, che prevedeva: al primo estratto, un agnello vivo; al secondo, un utensile per la casa; al terzo, che rappresentava il clou della festa, un quadro della Madonna Assunta,“a Bedda Matri”. Quell'anno, il quadro venne vinto dalla famiglia del farmacista che, per rispetto del ruolo sociale rivestito dal professionista, il “patron” glielo ha consegnato direttamente a casa, con tanto di banda musicale al seguito cui si sono aggiunti i numerosi presenti alla festa. A ricevere il quadro sull’uscio di casa è stata donna Assunta che, in ringraziamento ha offerto ai partecipanti “giammellotte” innaffiate di buon vino d’annata. Chiudeva i festeggiamenti al tramonto, il mini-spettacolo pirotecnico che consisteva in un paio di “ruote pazze”, alcuni bengala rasoterra e dei mortaretti, il tutto autocontrollato. A quel tempo in quel piccolo paese non erano conosciuti i razzi multicolori di polvere pirica lanciati in alto, chiamati anche bengala.

In nottata, i compaesani venuti dal centro urbano rientravano alle loro case, ma alcuni, che risentivano del clima festaiolo di trascinamento dovuto al fatto che avevano onorato la giornata “a saluti” di alcuni bicchieri del famoso vino di casa, sui quattordici gradi, si soffermavano nella piazza rischiarata dalla luna ed intonavano le famose chianote.

Era usanza a quell’epoca celebrare il dio Bacco attraverso “u toccu, paru o sparu” oppure diverse partite a scopa o briscola, seguite da abbondanti libagioni con “cannate” di “vinu ca jazzusa”. C'era anche un altro passatempo “u patruni e sutta” attraverso cui, un gruppo di amici, con un gioco delle dita individuavano un padrone che doveva indicare un'altra persona per pagare da bere agli altri.

Quella notte, c'era un mandolino, c'era una chitarra e c'era un giovanotto innamorato di una bella ragazza, alla quale volle dedicare una serenata d'amore spostandosi dalla piazza del paese all'abitazione della donna. Con i musici e, sotto il suo balcone, diede inizio al mini-concerto: peraltro, lui aveva una bella voce ma, alla fine della serenata, nel buio della notte, un piccolo vaso di fiori fu scagliato in strada senza colpire per fortuna nessuno dei cantori. La ragazza non aveva gradito! Ma il giovanotto, che era un tipo tosto, nel giro di pochi mesi la fece innamorare e riuscì ad impalmarla.


Ma torniamo nella contrada dove si svolgono i fatti che raccontiamo. A metà agosto, le nocciole verdi -”primintì”(primaticce) - hanno un gusto per certi versi indescrivibile, ma che può essere definito come avellane polpose, fresche, amarognole, che i ragazzi si divertivano a staccare dall'albero per consumarle sul posto. Se venivano scoperti dai proprietari, venivano “assicutati” con i seguenti improperi: “mascarati, se vi pigghiu, nuddu vi leva ‘na scarica di lignati”. Ma i ragazzini avevano gambe veloci e riuscivano a mettersi in salvo: mai nessuno conobbe le mani pesanti del padrone,

Si appressava la fine del mese d’agosto e le nocciole erano mature per essere raccolte. Don Antonino, accompagnato dal suo “mitateri”, si fece il giro della contrada per ingaggiare un certo numero di donne per raccogliere le nocciole, direttamente sul terreno, stando “calate” per ore e ore. Al mattino presto, mastro Ciccio, il mezzadro e suo figlio, impugnando “u virganti” battevano i rami più alti per fare cadere il frutto maturo, mentre quelli più bassi venivano tremati a forza di braccia. Il terreno, che in precedenza era stato pulito con la ronca, era un tappeto coperto di nocciole, quando l'annata era “carica”. Dieci o quindici donne, giovani ma anche mature, ma c'erano anche bambini volontari, formavano una fila in testa alla quale c'era sempre la moglie del “mitateri” (mezzadro) che segnava “l’antu”, cioè la linea che delimitava il tratto di terreno su cui lavorare, e che spostava quando in quella parte di terreno le nocciole erano state raccolte.

La più giovane delle raccoglitrici era incaricata di riempire le borracce d’acqua per dissetare le lavoranti, mentre gli uomini preferivano il vino perché, sostenevano: “ni duna a forza pi trimari i nucidderi”. Tranne che qualcuno pensava che assumendo più bicchieri di vino, aumentavano le forze; il risultato, però, era assai diverso: il vino anzicché rinvigorirli procurava loro una tale sonnolenza da farli crollare a terra. A quel punto, interveniva la vigorosa moglie del mitateri per disciplinare l'assunzione del dolce liquore, controllando soprattutto l'amico di Bacco.

Prima di mezzogiorno, la mitatera si staccava dal gruppo, andava a raccogliere nell'orto pomodoro, cipolle, fagioli verdi per farli cuocere con tutta la fava assieme a delle patate, in un grosso pentolone, mentre pomodoro e cipolle venivano amalgamati per una ricca insalata con l’aggiunta di basilico; il tutto con pane di casa, vino ed aranciata fatta con le bustine. Lavoranti e proprietari mangiavano assieme nel magazzino.

Rammento un fatto particolare. Le donne anziane indossavano gonne lunghe sino ai piedi. Quando qualcuna di loro doveva fare il suo “piccolo bisogno” si allontanava dal gruppo, cercava un luogo nascosto da una “troffa di nucidderi” e, non vista, provvedeva alla bisogna. Cen’era una fra queste, che soffriva di incontinenza, tanto da non riuscire ad allontanarsi dal gruppo, così, ergendosi dritta, facendo finta di volersi sgranchire, nello spazio visibile tra la gonna ed il terreno, scorreva un copioso fiotto. Con nonchalance, aveva pisciato. Incredibile!


Si racconta che il feudatario locale, che vantava alcune decine di ettari coltivati a noccioleto e, quindi, doveva assumere parecchie donne, quando costoro finivano il loro turno di lavoro, per assicurarsi che non avevano rubato un paio di “junte” di nocciole (il concavo di mani unite) mettendole nelle capienti tasche delle lunghe sottane sino ai piedi, faceva attraversare loro un solco d'acqua largo quanto una falcata per cui le lavoratrici erano costrette ad alzare le gonne e, pertanto, se avevano nocciole in tasca facevano rumore ed il sovrastante, uomo di fiducia del duca, le invitava a svuotare le tasche ed a non tornare l'indomani. Il barone pagava gli operai dopo avere venduto il prodotto, agli uomini corrispondeva cinquanta lire al giorno mentre le donne percepivano la metà, cioè venticinque lire a giornata. Gli altri proprietari vi si sono adeguati.


La raccolta prevedeva tre fasi in quanto il frutto maturava a poco a poco. Dopo una settimana dalla prima, si procedeva alla seconda e, dopo una settimana ancora, alla terza. Il frutto raccolto, in genere, era avvolto da una jadda, cioè una cupola campanulata per cui occorreva procedere a sgusciare le nocciole. Questa operazione veniva fatta, in genere, la sera, dopo cena. Nel magazzino del proprietario, dove erano deposte le nocciole della giornata, si riunivano parenti, amici ed anche lavoranti e, tra canti popolari, motti, qualche bicchiere di vino o gassose, si andava avanti per alcune ore per “spatiddari i nuciddi”. Negli anni successivi, con l'avanzare del progresso, i gelati confezionati arrivarono anche in quel piccolo centro ed il padrone, per coloro che li volessero, ed erano quasi tutti, li comprava “a putia da lallà”. C'era un uomo, che di mestiere faceva il muratore, che si univa al gruppo e con la sua voce tenorile allietava l'allegra brigata “spatellenante” intonando canti popolari del luogo. Un vero peccato che non siano stati registrati.

Alla fine, veniva consentito ai lavoranti, di fare “u buscugghiu” delle nocciole rimaste a terra, cioè di raccogliere le ultime maturate e che non erano cadute con la terza raccolta. Quest'ultime, come gusto, erano le più buone; e ciò accadeva a settembre inoltrato.

Le nocciole, ancora verdi ma mature, venivano messe al sole per asciugare e, periodicamente, venivano spalate, cioè rigirate. Dopo, il mitateri misurava le nocciole asciutte con un “du munneddu”, recipiente in cui ne entravano circa 16 chili e venivano versate in sacchi di juta. A quel punto, il proprietario faceva il conteggio di quanti quintali erano stati insaccati.

Dopo qualche giorno, veniva il compratore dal paese vicino, il quale, strozzino qual'era, per pochi soldi si portava via il tutto. Pesava i sacchi appesi ad una statia, che era sempre oggetto di contestazione tra acquirente e venditore in quanto il primo cercava di imbrogliare agendo sul “romano” che scorreva sull'asta dove sono segnati i pesi: il peso esatto si aveva quando l'asta era in perfetto equilibrio, ma quell'imbroglione fermava il “romano” (il contrappeso in bronzo) prima che si allineasse, mentre ancora doveva scendere di qualche chilo. A volte il ricavato bastava per pagare i mezzadri e le raccoglitrici; talaltra, occorreva integrare il ricavato. Quell'anno, però, don Antonino raccolse 30 quintali di nocciole per cui gli rimase un certo utile.

Nei decenni seguenti, il noccioleto perse di interesse perché la politica della Comunità europea aveva consentito il libero mercato delle nocciole agevolando la Turchia, che prativa prezzi molto concorrenziali approfittando del fatto che in quella nazione i lavoratori venivano retribuiti con un salario molto basso. Inoltre, la paga giornaliera era lievitata, secondo i contratti di lavoro nazionali, per cui divenne impossibile continuare a coltivare i noccioleti e raccogliere il frutto perché il relativo bilancio, tra entrare ed uscite, si chiudeva in rosso. L'usanza, però continuò col raccogliere pochi chili per uso di casa. Dal punto di vista organolettico, la nocciola dei Nebrodi era ed è la migliore tra quella prodotta in altre regioni d'Italia ed all'estero, ma l'economia di mercato determina l'ascesa o la discesa di un prodotto, fregandosene della bontà del prodotto.


Donna Teresa aveva una sua ricetta particolare per fare il Nocciolino - lo chiamava lei -, un rosolio casalingo. Sgusciava un certo quantitativo di nocciole verdi e le metteva a macerare nell'alcol a 90° aggiungendovi un paio di stecche di cannella e foglie di menta essiccate. A dicembre le toglieva dall’alcol, filtrava il tutto ed ecco il liquore per l'inverno. Donna Teresa, durante l'anno, aveva raccolto bottiglie vuote di gassose locali, quelle con la pallina colorata sotto il tappo meccanico in porcellana, che riempiva di Nocciolino per donarle, in occasione delle festività natalizie ad una ristretta cerchia di amiche, tra cui la duchessa, accompagnando ciascuna bottiglietta con una “guantera” dei famosi biscotti di nocciole, le “ramette”. Il rimanente “Nocciolino” - peccato che non si sia commercializzato – lo travasava in eleganti bottiglie con il tappo in vetro e lo offriva durante i suoi ricevimenti o nelle feste comandate alle persone che andavano a fare visita a lei o a suo marito, il Cavaliere Antonino.

Con gli ultimi allestimenti, il soggiorno estivo si chiudeva, per riaprirlo in occasione della vendemmia. Chi non doveva raccogliere nocciole era già andato via a fine agosto. Prima di andar via, don Antonino predisponeva il magazzino per la vendemmia, che si sarebbe tenuta da lì a qualche mese: faceva pulire u parmentu dove si sarebbero versati i cufini di rossa uva, che mastru Cicciu avrebbe pestato, ballando sui grappoli a piedi nudi ma ripetutamente lavati col sapone fatto in casa, per fare uscire il dolce mosto.


I due giovani, Rosa e Leone, vollero chiudere in modo particolare la loro villeggiatura montana e si diedero appuntamento per incontrarsi di soppiatto, dopo cena, ai piedi di una “troffa” (cespuglio) di nocciolo. Stesero sul nudo terreno una “pizzara” e incuranti dei ranocchi che saltellavano nei pressi, del cri-cri dei rospi e del gracidare delle rane, ma sotto la vigile attenzione di Blach, il pastore tedesco di Leone, si scambiarono baci e promesse che, per lo strano gioco della sorte, non furono mantenute in quanto il corso dei loro studi li portava in città differenti e non avevano la possibilità di strumenti di comunicazioni, tranne le epistole, ma che, probabilmente per “lagnusia” o altro non vi ricorsero: per un predisposto disegno del destino, i due giovani presero strade diverse per il loro lavoro e, quando, dopo parecchi anni si rincontrarono, era tardi per ...riprendere la loro relazione d'amore. Si sentirono spesso, però, come due vecchi amici. Per alcuni anni successivi a quella magica notte, i due protagonisti del racconto, hanno rivissuto quelle “emozioni”. Dopo tutto cambiò.


Ritengo doveroso concludere questa modesta pagina di uno spaccato del ridente borgo in quel triste dopoguerra, con un breve richiamo a ciò che veniva fatto. Anche ivi ferveva la voglia di rinascita e del nuovo; tanto che, a mezzo la raccolta di firme da presentare al sindaco, si avanzavano richieste alla novella Amministrazione, si costituivano cooperative di lavoro, si chiedeva la realizzazione di alcune strade rurali per migliorare le aziende ed il lavoro. Ma non tutti aderivano alle varie iniziative popolari, motivando il rifiuto col semplice: “a mia non mi interessa, basta chi non mi toccunu u mia”, cioè, sin da allora non si avvertiva lo spirito comunitario di fratellanza e di altruismo per mettere in piedi iniziative sociali o per la realizzazione di opere che potessero migliorare il tenore di vita di ciascuno o di tutti.


Il paese, uscito dalla gestione fascista che aveva praticato la violenza escludendo la solidarietà tra persone, in pratica, trovava la popolazione schierata in due gruppi politici contrapposti che, nella nuova democrazia, si odiavano. Rammento che c'erano famiglie di parenti che avevano rotto i rapporti appunto per il contrapposto schieramento politico. Ricordo pure che nei comizi elettorali, che si tenevano in contemporanea su due balconi di rimpetto, il confronto non era dialettico su progetti e proposte, bensì con toni molto accesi, tanto da arrivare all'offesa personale. Vecchi odi, che derivavano dal ventennio e dovuti al fatto che l'ex gerarca fascista, prima epurato, fu successivamente riabilitato per riciclarsi nella Diccì e si presentò quale candidato a sindaco. Ma, udite udite, malgrado i suoi trascorsi, sconfisse il sindaco uscente, rieletto per due legislature, che aveva risollevato in qualche modo le sorti economiche del paese, portando lavoro attraverso la realizzazione di tutte quelle opere di cui prima abbiamo parlato. Il paese aveva dimenticato!

Dal punto di vista sociale, è stato anche notato che la gente non si ribellava quando qualcuno - rappresentante delle istituzioni, civili o religiose - si apprestava a distruggere oggetti e manufatti che gli antenati avevano costruito, opere che nel tempo, contribuirono a formare il patrimonio di beni culturali ed architettonici della comunità. C'è la convinta presunzione, ovviamente, che c'era un sottofondo personale nel distruggere un interesse economico, se ad esso seguiva una costruzione, magari non gradita ma subita con colpevole omertà, che si tramutava, ahimè, in acquiescente fenomeno collettivo. Alcuni valori morali e la rigidità nella conservazione del patrimonio collettivo imposti dai nostri avi, nel tempo - nel passaggio dalla società rurale in quella industriale, con i suoi piaceri e con il lassismo tout court - si sono persi ed è cambiato il volto di quel centro urbano, a cui non poterono e non possono, essere tolte le bellezze naturali.




                                                                          

GAETANO ZINGALES







6 commenti:

gaetanozingales ha detto...

Antonino Vicario
IL SAPORE DELLE NOCCIOLE VERDI... E’ come fosse per l’Autore un'andata e ritorno dall'infinito mare di leopardiana memoria che, dopo essere stato spiaggiato, ancora tramortito, si rivede giovincello tra le "ciacate" del borgo dov'era nato ancora ferito dalla guerra ma in tempo per essere testimone della sua rinascita post-bellica. Lo Zingales, cui non manca la fantasia, nel suo girovagare, d’estate “transumante” qual è, fa una capatina "o Locu", amena località di villeggiatura per i proprietari terrieri ma luogo di fatica per i residenti. Incontra don Lio il curato, aggregato com’era solito fare ai notabili, per una battuta di caccia e la pomeridiana consueta partita a "briscola". E a Mezzagosto, per la festa dell'Assunta, assiste all'audace scalata del palo "da 'ntinna". Risente l'odore delle "giammellotte" di donna Assunta e il profumo del vino locale “ca’ jazzusa” e del gustoso "nocciolino". In autunno fa il suo ritorno al borgo e lo scopre già paese, non incontra più i volti amici di un tempo, ma s’avvede che quella che era stata considerata "angheria" aveva cambiato pelle e si era fatta "gratitudine"; dove l'iconoclastia aveva preso il posto del "bello" lasciato in eredità dagli avi ai posteri. Era tutto cambiato. Insomma, che dire di più? Per parte mia ho già gustato, in segreto, il sapore delle nocciole verdi.

gaetanozingales ha detto...

Fabio Cannizzaro
Complimenti caro Tanino, mi hai permesso di viaggiare nel tempo e di vivere quei tempi trascorsi . Grazie.
· Rispondi · · 2 g
Carmen Basile
Bravo Tanino, un bel racconto che condivido con piacere

gaetanozingales ha detto...

Un caloroso ringraziamento agli amici che mi hanno voluto onorare di un loro commento

gaetanozingales ha detto...

I commenti di cui sopra , sono riportati dalla pagina FB, Eventi di G.Z.

gaetanozingales ha detto...

Rita Costanzo Alfieri
Letto tutto d’un fiato! Grazie Gaetano. Grazie per avere riportato alla luce vecchi ricordi legati a Crocetta e il sublime sapore delle nocciole verdi!

Ines Di Nardo ha detto...

Che bel racconto, Tanino! L'ho letto due volte. Una prima lettura fatta tutta d'un fiato, la seconda, soffermandomi a riflettere su quanto hai scritto, sulla difficile situazione dell'immediato dopo guerra che tanti strascichi di dolore, miseria, povertà, sofferenza, aveva lasciato. Dei grandi sacrifici che la piccola comunità, in prevalenza contadina ed artigianale del nostro paese, ha dovuto affrontare e della sua grande voglia di rinascita e di riscatto. Traspare evidente, dal racconto, oltre alla malinconia, l'amore per questa tua terra, ferita e sfinita dalla miseria, da una guerra terribile e dall'emigrazione che toglieva le forze migliori. Mi sono piaciuti, però, molto i racconti gioiosi della vita che riprendeva, delle campagne che si animavano, dei lavori contadini, dell'aria di festa e religiosità delle "feste di agosto", del fervore della " rinascita e del riscatto". Ho rivissuto momenti felici di cui anche io ho goduto nella mia fanciullezza e, forte e quasi reale, mi è tornato alla memoria il sapore e l'odore di quelle nocciole, ancora verdi, schiacciate e mangiate sotto ai rami in cui erano state raccolte. Magari rubate dai rami che prendevano sullo stradale durante le passeggiate con le amiche. Momenti di ieri che, nel tuo racconto, lasciano intuire l'amore per la tua terra e la tua gente, quel sentimento ancestrale che ci lega a Longi. Complimenti davvero.