Gen.
della Giustizia Militare Avv. Leone Zingales da Longi (1882-1962)
Gen.
della Giustizia Militare Avv. Leone Zingales da Longi (1882-1962)
Laureatosi
in giurisprudenza presso l’Università di Messina nel 1908, entrò,
per pubblico concorso, nella MAGISTRATURA MILITARE a PA-LERMO.
L’impresa
libica lo trovò presente, dall’inizio del 1911 fino al 1915, nella
sua funzione di magistrato militare.
Nel
maggio dello stesso anno, venne inviato fra i reparti mobilitati sul
fronte austriaco sino al 1918. Su tale fronte, il 15 agosto 1918,
ven-ne concessa una medaglia d’argento al V.M. per fatti di guerra.
Nel
settembre 1933 fu inviato in Somalia. Fu a capo di quella Procu-ra
militare e fu dipendente e diretto collaboratore del Maresciallo
GRAZIANI.
Della
sua attività giudiziaria, fatta di disciplina e di umanità, dava
at-to un avanzamento per meriti di guerra, così motivato: “per
avere svol-to un’attività fervida, appassionata, veramente
eccezionale. Magistrato coltissimo, carattere integro, adamantino, ha
mantenuto sempre alto in ogni circostanza il prestigio della
giustizia militare ed ha reso preziosi servizi all’Esercito ed al
Paese. Fronte SUD 1935-1936”.
Rientrato
in Patria, nel 1941 chiese ed ottenne di essere inviato sul fronte
russo e vi rimase fino al 1943, ove, attraverso la sua opera,
l’indigeno imparò a conoscere la bontà intrinseca della giustizia
italia-na, a gloria della civiltà occidentale, di contro alla
giustizia imperiale, asservita agli interessi dell’assolutismo
zarista, ed a quella più recente e settaria legata al carro
stalinista.
La sola volta che fu
richiesta la pena di morte fu a carico di un mili-tare colpevole di
omicidio aggravato a danno di una giovane russa: venne condannato,
invece, a pena temporanea perchè la stessa madre della vittima
chiese che il Tribunale volesse essere misericordioso, la-sciando al
reo la possibilità di continuare a vivere nella grazia di DIO.
Al
sopravvenire dell’8 settembre 1943, e prima che sopraggiungessero
le truppe tedesche, mise in libertà numerosi detenuti renitenti al
lavoro obbligatorio e detenuti politici; rimasero esclusi per
doverosa opera di giustizia i soli detenuti per gravi reati comuni.
Ricercato
dalle SS, si diede alla latitanza insieme ai suoi due figli
uf-ficiali, pluridecorati al Valore Militare. Nei primi di febbraio
1944, pre-via perentoria diffida, raggiunse la sua sede di Padova.
Si
era nel tempo della Repubblica Sociale Italiana. Dal 2 febbraio al 12
aprile, furono quelli 70 giorni densi di lotte e di vittorie contro
la morte.
Non
una sola condanna a morte venne richiesta ed emessa, nono-stante che
si trattasse di parecchie centinaia di denunciati in stato di arresto
per reati di favoreggiamento o prigionieri nemici, evasi da campi di
concentramento o mancanti alla chiamata alle armi: reato che
comportava la pena capitale. Essi furono tutti prosciolti in
istruttoria.
Un
alto Presule del Veneto, che ebbe liberati tutti i suoi parroci,
de-tenuti sotto l’accusa di favoreggiamento, disse e scrisse dello
Zingales: “Potrei conferire circa i sentimenti suoi di giustizia e
di coraggio anche contro le disposizioni che gli erano imposte. Non
volle condannare a morte nessuno. I miei sacerdoti, dei quali mi
servivo come intermedia-ri, trovarono presso di lui sempre
comprensione ed appoggio”.
Fra
moltissimi altri, un capo patriota, liberato dalla fortezza di
Vero-na, dove era stato rinchiuso dai tedeschi e votato alla morte
(egli era ed è di fede comunista), scrisse: “Mi risulta che il
generale Zingales prima e dopo di me si adoperò con tutte le sue
possibilità affinché altri patrio-ti fossero messi in libertà”.
Tale
attività non rimase ignota ai nazisti che avevano già deciso
l’arresto dello Zingales, che, messo in avviso dai nostri servizi
di infor-mazione, riuscì a sottrarsi alla cattura.
Il
Consiglio di Stato, Sezione Speciale per l’Epurazione, con sua
de-cisione del 28 febbraio 1946, affermava nei confronti del Generale
Zin-gales: scarcerò e prosciolse gran parte di tali detenuti
esponendosi a ri-schi che, profilandosi sempre più minacciosi, lo
costrinsero a cercare un pretesto per venire a Roma, da dove non
rientrò più nella sua sede.
Rientrato in servizio dopo
la Liberazione e destinato al Tribunale di Firenze, veniva, nel
dicembre 1946, inviato in missione al Tribunale Militare di Milano
per sostituire temporaneamente il titolare, assente per malattia.
Dovette, quindi, indagare nel procedimento penale per la sparizione
del tesoro della Repubblica Sociale Italiana (il cosiddetto TESORO DI
DONGO – vale a dire tutto l’insieme dei valori, valute pre-giate,
metalli preziosi confiscati alla colonna fascista in fuga verso la
Svizzera), il cui processo gli era pervenuto nei primi di gennaio
dalla Corte di Cassazione per ragioni di competenza.
Ricercò senza timore e con
coscienza i responsabili fino a che, im-provvisamente, il 15 marzo
venne sostituito e rinviato alla sua primitiva sede, ch’egli,
peraltro, non raggiunse.
Contro il provvedimento,
sia per la forma che per la sostanza, prote-stava serenamente ma
energicamente nell’unico modo consentito ad un magistrato:
presentando, cioè, una lettera di dimissioni dalla magistra-tura
militare di cui, con fede di apostolo, aveva fatto parte per circa 40
anni, di cui quindici spesi nell’assicurare il rispetto del diritto
nel di-sordine della guerra.
A
Sua Ecc. il Ministero della Difesa
“Con nota n. 1070
dell’11 Marzo il Procuratore Generale Militare mi ha convocata per
le ore 10 del 18 c.m., onde prestare il giura-mento previsto per il
personale civile di ruolo, di cui nella circolare n. 10917, in data
22 febbraio 1947 di codesto ministero.
Mi
permetta di astenermi dal prestare tale giuramento.
Il trattamento
recentemente usatomi offende la mia dignità di magistrato e
demolisce l’opera da me prestata in tale qualità nello
espletamento di un compito in cui le supreme ragioni della
giusti-zia, che non può essere uguale per tutti in regime di
libertà, si asso-ciano ad altri interessi materiali e morali del
Paese in questo perio-do di travagliata sua rinascita.
Sento
quindi venuta meno in me la fede di potere continuare o saldamente
reggere il mio Ufficio per una coscienziosa, serena e li-bera
applicazione delle leggi della Patria; pertanto chiedo di essere
collocato a riposo”.
F.to
Leone Zingales
(
Dalla
pubblicazione di Rosario Priolisi “Per Ricordare”.)
Dal mio saggio storico
“Quel borgo baciato dalle acque del Mylè”, estraggo i
capitoli relativi alle biografie di alcuni personaggi longesi che
hanno onorato il nome del loro paese natio attraverso atti e
comportamenti che li hanno resi illustri e degni di essere ricordati
dalle generazioni future.
Ma il nostro paese,
invero, nel corso degli anni e delle Amministrazioni che si sono
succedute, non ha inteso rendere loro i giusti onori rammentandoli
attraverso l'intestazione di una strada, di una piazza, di un
monumento anche. Forse perchè non hanno operato nella comunità
longese oppure perchè non sono morti a Longi né ivi hanno avuto
sepoltura.
Qualcuno di questi è
stato rammentato per iniziativa personale dei loro discendenti.
Voglio rammentare il detto “ nemo propheta in patria”, secondo
una frase scritta nei Vangeli che riportano le parole che
Gesù
stesso aveva proferito: “un profeta non riceve onore nella sua
patria”.
E'
triste!
Negli
annali storici della loro attività sociale, religiosa ,
professionale e del cursum honorum nell'ambito della propria
condizione “lavorativa” , viene riportato il nome e cognome
seguito dall'epiteto “da Longi”. La Storia li ricorda così, il
loro paese no.
Pubblico,
a puntate , le loro vite riguardanti l'impegno sociale, senza foto
purtroppo per motivi tecnici in quanto estrapolate dalla bozza del
mio libro di cui sopra. La pubblicazione ha lo scopo di rammentarli
ai concittadini longesi ma soprattutto ai giovani affinchè sappiano
“a quali personaggi famosi” Longi ha dato i natali. Buona lettura
P.S.
Mi riprometto , tempo libero permettendo, di pubblicare , circa ogni
settimana, una biografia per volta
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