15 settembre, 2020

 

Gaetano Zingales



Damànnas,

l’ultima battaglia

(Demenna sui Nebrodi)


ROMANZO STORICO


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Introduzione alla Siqilliyah

di Fara Misuraca



























































A mia madre




















Introduzione

I musulmani di Sicilia (Siqilliyah)

di Fara Misuraca *



Il quadro storico



La Sicilia durante l'alto medioevo ha avuto una storia peculiare rispetto al resto d’Italia. Sono mancati, in primo luogo, stanziamenti stabili di popoli germanici sul substrato sociale romano o romanizzato e a una breve e poco incisiva fase barbarica seguì la dominazione bizantina, che durò oltre tre secoli, orientalizzando l'isola.

Ma l’evento che rivoluzionò la realtà geopolitica del Mediterraneo, mutando il ruolo dell’isola, fu l'espansione musulmana che ebbe inizio con sporadiche scorrerie per poi culminare con lo sbarco dell’827 e si concluse nel 902, quando tutta l'isola divenne una provincia periferica dell'ecumene musulmana, un impero che si estendeva dall'Indo ai Pirenei.

La conseguenza fu che mentre in Europa si assisteva ad un lungo periodo di stagnazione, in Sicilia maturava quella che viene giustamente definita "la rivoluzione economica musulmana" il cui esito più importante, in controtendenza con la rarefazione della circolazione monetaria che colpì il resto dell'Europa, fu la circolazione di monete basata sull'oro. Non solo, ma mentre la cristianità si espandeva nel nord e nell'est, in Sicilia si diffondeva il corano e si parlava l'arabo.

Tuttavia, già prima dell'anno 1000 l'espansione musulmana inizia a esaurirsi. Nella penisola iberica si comincia a assistere al contrattacco dei piccoli stati cristiani sopravvissuti (la Reconquista), accompagnata dall’attività militare e economica delle emergenti potenze marinare di Genova e Pisa. Approfittando delle divisioni e dei contrasti interni nel mondo arabo siciliano, di lì a poco irromperanno sulla scena anche alcune poche centinaia di avventurieri normanni, fra cui i figli di Tancredi d'Auteville, Roberto e Ruggero, che, nell'arco di un trentennio, strapperanno l'isola al dominio musulmano.

Ovviamente la storia dei musulmani in Sicilia non si esaurì con l'invasione dei Normanni. Costoro per dominare la società islamica, che riconoscevano più evoluta, si adattarono a convivere con essa, creando un’organizzazione statale originale rispetto al resto d'Europa. La conquista normanna, comunque, ebbe come conseguenza quella di rimettere la Sicilia nel corso della storia del continente europeo, rientro che si completerà con Federico II, che, nel volgere di pochi decenni, causò l’eliminazione completa delle sacche di resistenza islamica ancora presenti nell'isola.

Gli studi sul periodo musulmano iniziano con il Fazello,(1498-1570) con la sua “Deche della Storia di Sicilia”. Poco o nulla si scrisse nei due secoli successivi fino a quando, grazie alla "arabica impostura" organizzata dall'abate Giuseppe Vella che, spacciandosi per profondo conoscitore della lingua e della storia araba, si inventò due codici arabi, rinnovando l’interesse per questo periodo storico. L'abate fu appoggiato dal governo borbonico che cercava, ispirandosi alle antiche amministrazioni arabe, di ridimensionare la pratica del latifondo e il potere baronale. Per lui fu creata una cattedra di arabo, e la clamorosa truffa durò parecchi anni fino a quando il canonico Rosario Gregorio riuscì ad imparare l’arabo smascherando così il Vella. L’”arabica impostura” diede comunque, l'avvio ad una serie di studi condotti da Salvatore Morso, successore del Vella alla cattedra di arabo, da Saverio Scrofani, Vincenzo Mortillaro, Giuseppe Caruso ed infine da Michele Amari con la sua colossale opera "Storia dei Musulmani di Sicilia".

Sulla Sicilia poco o nulla influirono le invasioni barbariche soprattutto perché l’isola faceva gola a Bisanzio, in quanto base logistica per la riconquista di Roma e facilmente Belisario ebbe ragione dei goti che ne tentarono la conquista. Alla conquista militare seguì il riordinamento politico e con un documento solenne (Prammatica) la Sicilia divenne dominio privato dell'imperatore. L'isola allora aveva una economia fiorente basata sull'agricoltura e sull'artigianato ed era ricca di legname usato sia come combustibile che per la costruzione di navi, case , armi ed utensili.

Gli scambi commerciali erano intensi e la realtà sociale era composita dal punto di vista etnico e linguistico. Il primo, se non l'unico fattore di coesione era il cristianesimo la cui diffusione fu favorita da Bisanzio, sradicando le ultime sacche di paganesimo.

La popolazione era distribuita tra città costiere e villaggi rurali. Accanto ai quali sorsero in questo periodo numerosi insediamenti rupestri (Ispica e Pantalica sono le più importanti) da molti ritenuti un segnale di imbarbarimento, di regressione. Queste abitazioni erano tuttavia funzionali ed economiche; per intenderci, erano una sorta di “case popolari” non gestite dal governo.

In Sicilia si protrasse a lungo la distinzione tra potere militare e civile mentre già nel resto della penisola le invasioni longobarde imposero la concentrazione dei poteri nelle mani dell'esarca e solo nel settimo secolo il pericolo musulmano adeguò le istituzioni al resto dell'Italia.

In quegli stessi anni, Maometto operava quella coesione straordinaria che ancora oggi contraddistingue le popolazioni arabe, unificandole e dando la spinta propulsiva per la conquista del nord con le ricche province bizantine, dell'est verso la valle dell'Indo e ad ovest verso l'Egitto e l'Africa bizantina e la penisola Iberica. Le conquiste arabe furono fulminee e facendo propria l'esperienza marinara di Siriani ed Egiziani, questi popoli del deserto, ben presto approntarono flotte e s'impadronirono dei segreti del mare. Secondo un'antica tradizione i musulmani sbarcarono in Sicilia per la prima volta nel 652 e certamente molti furono gli sbarchi da allora. Non a caso l'imperatore Costante II spostò la sua residenza a Siracusa (nel 663) da dove sperava di difendere sia l'isola sia i residui possedimenti bizantini in Africa.

Costante II fece una brutta fine, morì, nel 668, vittima di una congiura di palazzo.

La Sicilia venne fortificata, come riporta il cronista Ibn al Athir " i Rum (i romani, i bizantini) ristorarono ogni luogo dell'isola, munirono “le castella e li fortilizii". Le ricerche archeologiche testimoniano queste fortificazioni.

La Sicilia era ormai divenuta una terra di frontiera. La situazione era convulsa: rivolte, tentativi di secessione, intrighi e patteggiamenti con i musulmani. L'immagine negativa della Sicilia bizantina è dovuta soprattutto a questo periodo. Questo stato di cose, questa situazione di incertezza, furono mantenuti per qualche decennio, fino a quando un dissidio, forse di carattere personale, per una questione di donne, narra la storia o meglio la leggenda, spinse un ufficiale delle forze navali bizantine, Eufemio, a ribellarsi a Bisanzio, a proclamarsi imperatore ed a chiamare a suo sostegno (come più tardi avrebbero, a loro volta fatto, i musulmani di Sicilia con i Normanni) i musulmani d'Ifriqiya.

Asad ibn al Furat, vecchio esperto di diritto, fu nominato capo della spedizione, un'armata composta da arabi, berberi, spagnoli, persiani e africani.

L'armata sbarcò in Sicilia il 17 giugno dell'827. Il primo scontro, in un luogo imprecisato della Sicilia occidentale, nei pressi dell'odierna Mazara, avvenne verso la metà di luglio, l'esercito bizantino venne distrutto ed i musulmani iniziarono una rapida avanzata ma nei pressi di Siracusa la marcia trionfale si arrestò.

Asad capì che non sarebbe stato facile conquistare la cittadella fortificata. Le difficoltà di approvvigionamento ridussero alla fame gli assedianti e Asad fu costretto a chiedere rinforzi. Ma i rinforzi arrivarono anche ai bizantini e lo scontro fu tremendo. I musulmani fecero strage dei nemici, l'assedio fu ulteriormente stretto e Siracusa stava per crollare quando un'epidemia di colera scoppiò tra le fila dell'esercito musulmano. Lo stesso Asad pare ne rimanesse vittima. I musulmani tentarono dapprima di ritornare in Africa ma furono bloccati da una flotta veneta venuta in aiuto dei bizantini. A questo punto, racconta il Fazello, i musulmani bruciate le navi per precludersi volontariamente, qualsiasi voglia di fuga verso l’Ifriqiya, iniziarono a ripiegare verso l'interno. Durante la ritirata conquistarono varie città e posero l'assedio a Castrogiovanni (l’odierna Enna). Qui Eufemio fu attirato in un'imboscata e ucciso. La conquista della Sicilia era ormai completamente in mano saracena ma non si dimostrava impresa facile. Ma una successiva spedizione, composta questa volta da ben 40.000 soldati, comandata dal generale Alcamet, sbarcò in Sicilia nell'831. Le forze congiunte della prima e della seconda spedizione investirono le grandi città siciliane. Palermo cadde, dopo un anno di assedio, nell'832; secondo una fonte islamica dei 70.000 uomini rinchiusi a Palermo ne rimasero in vita solo 3.000. Successivamente caddero Lilibeo (oggi Marsala) e poi Trapani ed Erice.

Ma la totale conquista dell'Isola durò altri quaranta anni ancora. Difatti Castrogiovanni, formidabile fortezza naturale arroccata su un acrocoro a circa 1000 metri d'altezza cadde nell’859, solo per l'aiuto di un traditore che indicò ai musulmani l'imboccatura di un acquedotto, che permise ai musulmani di penetrare nella città, Siracusa nell'877 e solo nel 902, per ultima, Taormina.

 La conquista impegnò le truppe islamiche per ben 75 anni, e non fu facile né breve come comunemente si suol far credere. Né, inoltre, i Bizantini si rassegnarono alla perdita della Sicilia. Furono inviate in Sicilia due armate da Costantinopoli, una marittima ed un'altra di fanteria, ma furono inesorabilmente sconfitte, a Rometta e a Demenna, nel 965.

La pace che ne seguì, nel 967, decretò la perdita dell'Isola per Bisanzio. Ma, nonostante le vittorie sui Bizantini, la Sicilia musulmana non ebbe mai pace. A cominciare dal 910, pochi anni dopo la presa di Taormina, iniziarono nell'Isola le lotte intestine tra i capi musulmani, riflesso, d'altronde, di ciò che accadeva in Asia ed in Africa, nel cuore dell'impero arabo.

La Sicilia era stata conquistata dagli Aghalabiti ma, alcuni decenni dopo, i Fatimidi avevano sostituito con la forza i principi aghalabiti nel governo dell'Isola, dopo una feroce lotta che si era svolta in Sicilia ed in Africa.

Il governatore nominato dai Fatimidi, però, non si mostrò all' altezza della situazione, per cui l'emiro Qurhub, legato agli Abassidi di Bagdad, dichiarò l'Isola indipendente; ma i Berberi di Sicilia consegnarono il ribelle ai Fatimidi, che lo fecero uccidere; così questi ultimi ritornarono al potere; siamo nel 917.

Questo periodo non fu felice per la nostra Isola perchè caratterizzato da sommosse e violenze inaudite. Solo nel 948, dopo decenni di lotte, con la vittoria di Hasan Ibn Alì, ritornò la pace e con la nuova dinastia Kalbita la Sicilia conobbe una benefica prosperità e Palermo emulò in splendore Bagdad e Cordova.

Con la morte dell'emiro Yusuf nel 998, cui successe il figlio Giafar (998-1019) , ricominciarono i disordini e le congiure, e i Berberi, considerati la causa di tali torbidi, furono espulsi dall'Isola. Successivamente, i musulmani di Sicilia si divisero in tre fazioni: una capeggiata da Ibn ath Thumma nella Sicilia orientale, quella dei Musulmani “siciliani” nella Sicilia occidentale, e quella di Ibn al Awas nell'Ennese.

Per meglio difendersi dai suoi avversari, Thumma si rivolse ai Normanni, che vennero nell'Isola come mercenari e finirono per conquistarla.



Le ripercussioni sociali ed economiche



A partire dallo sbarco avvenuto nell'827, si trovarono di fronte due gruppi, culturalmente fortemente diversi: gli invasori , di lingua araba e religione musulmana, i vinti  ad esclusione degli ebrei, di lingua greca e/o latina e di religione cristiana. Alle differenze culturali si sovrapponevano quelle etniche. Gli islamici provenivano da parti diverse del dar al-Islam: Maghreb, Egitto, Arabia, berberi, persiani, sudanesi e sicuramente altri. Nell'isola vivevano indigeni di lingua greca e latina (greci e romani di Sicilia), immigrati provenienti dalle varie province dell’impero romano e da quello bizantino, barbari, rimasti come mercenari, ed ebrei.

 Le grandi stragi dovute a 70 anni di guerra e la fuga di molti avevano depauperato l’isola e l'arrivo di immigrati musulmani servì dunque a ripopolare intere città ma dopo due secoli di conquiste, l'Islam aveva adottato una serie di norme che coniugavano da un lato il gihad, la guerra santa, e dall'altro i rapporti con la gente non musulmana sottomessa. Quando non ci si trovava di fronte ad un eccidio, dovuto all'eccitazione delle truppe dopo un lungo assedio ( come avvenne per Enna, Siracusa, Taormina, Demenna e Rometta, dove la popolazione fu ridotta in gran parte in schiavitù e gli uomini adulti passati a fil di spada) i musulmani, dopo due secoli di conquiste, avevano messo a punto una sorta di “protocollo” che regolamentava sia il gihad sia i rapporti con i non musulmani sottomessi. Più che la strage o la riduzione in schiavitù molto più spesso si preferiva la sottomissione che avveniva dietro negoziati e quindi a “patti” , minuziosamente descritti nell’accordo di Umar (Amari, Storia dei musulmani in Sicilia). Ai non islamici l’Islam riconosceva il diritto a vivere ed esprimersi, anche se come “altri”, all’interno delle proprie strutture sociali.

 Ai cristiani di Sicilia che accettarono i patti, veniva concesso l’aman (la sicurezza, la protezione) e da quel momento venivano chiamati ahl adh dhimma (gente del patto) e veniva loro riconosciuto il diritto all’incolumità, alla libertà personale, alla libertà religiosa, alle proprie usanze, al possesso degli averi in tutto o in parte. La dhimma aveva come contropartita il pagamento di un’imposta sulla persona ( la giziah) e di una tassa fondiaria (il kharag) e tutta una serie di limitazioni e obblighi come, ad esempio, il divieto di erigere nuove chiese , di fare processioni, di suonare le campane, di portare armi, di bere vino in pubblico, l’obbligo di porre contrassegni di riconoscimento sulla persona e sulle case, di cedere il passo ai musulmani …. Dalle imposte della dhimma i musulmani erano, ovviamente, esentati ma erano tenuti al versamento della zakàt (elemosina legale)”, che serviva e serve tuttora per il mantenimento ed il soccorso dei meno abbienti.

L’osservanza di queste regole era tuttavia assai elastica e dipendeva soprattutto dalla maggiore o minore concentrazione di musulmani, senza contare che per evitare l’aman bastava convertirsi all’Islam. Il carattere tollerante di tali norme è dimostrato dal fatto che al loro arrivo i Normanni trovarono ancora moltissimi cristiani e molti monasteri greci, specie nella parte nord orientale dell’isola. Nella stessa Palermo, capitale islamica, officiava all’arrivo di Ruggero d’Altavilla un arcivescovo greco.

Nonostante questo fenomeno di persistenza del cristianesimo nell'arco di circa due secoli la Sicilia conobbe un processo di acculturazione arabo-islamico assai profondo. All'islamizzazione e all'arabizzazione concorsero gli immigrati dell'ecumene musulmana provenienti da diverse parti del dar al-Islam, i loro discendenti e l'imponente numero di conversioni che affrancavano gli indigeni dal pagamento della giziah ed infine un ruolo importante ebbero anche i matrimoni misti.

A testimonianza delle facili ed interessate conversioni il viaggiatore Ibn Hawqal che visitò la Sicilia tra il 972 ed il 973, riferisce del tiepido slancio religioso dei contadini e della possibilità delle figlie di seguire il credo religioso cristiano della madre. La lingua (araba) era poi molto rozza, specie all'interno dell'isola e risultava incomprensibile ad Ibn Hawqal.

Un ruolo importante nell'acculturamento lo ebbe anche il programma d' "incastellamento" voluto dal califfo Muizz (attorno al 966), per difendersi dalle recrudescenze bizantine: la costruzione cioè di cittadelle fortificate all'interno delle quali la popolazione era invitata a soggiornare. Una tale politica aumentava il territorio da coltivare e favoriva il mescolamento fra cristiani e musulmani, favorendo l'insegnamento musulmano. L'effettiva islamizzazione è dimostrata ancor oggi dalla toponomastica. I nomi delle montagne (gebel) delle sorgenti (fawara) dei promontori (rais) ecc., come anche i grandi centri, ebbero il nome arabizzato, pensiamo, ad esempio, Panormus che divenne Balarm o Drepanis che divenne Itrabnis

Dopo la conquista l’isola venne divisa in tre grandi distretti amministrativi: il Val di Mazara che comprendeva la parte centro-occidentale dell’isola, il Val Demone che comprendeva la parte nord-orientale e il Val di Noto che comprendeva la parte meridionale.

La capitale della Sicilia venne spostata da Siracusa a Palermo provocandone così il passaggio dall’area culturale greco-bizantina a quella del Mediterraneo occidentale.

Palermo, scelta come sede del governo, fu dotata di tutte le strutture burocratiche e dei servizi che si confacevano ad una capitale amministrativa.

Gli arabi iniziano ben presto un’opera di lottizzazione delle terre e sostituirono in buona parte con colture intensive le colture estensive del granaio di Roma; con l’impianto di ingegnose opere idrauliche i conquistatori migliorano e bonificano le campagne incentivando, specie nelle zone costiere nord occidentali e nella piana di Catania la coltivazione degli agrumi, del papiro, delle piante di cotone. Si assiste così, nel giro di pochi anni, al sorgere di opifici per la lavorazione delle stoffe, dello zucchero e dei papiri per la scrittura. Palermo, e la Sicilia, diventano un importante emporio per il commercio. Ha inizio un periodo di vero benessere sotto la dominazione degli arabi, portatori di una vigorosa ed originale civiltà che ben si armonizzò, modernizzandola, con quella millenaria locale; la città di Palermo e la Sicilia tutta vivono un eccezionale periodo di fioritura che investe l’arte, l’edilizia, le scienze, l’agricoltura e la cultura in tutte le sue manifestazioni con un conseguente aumento demografico.

Tale fermento percorre l’intera isola, ma Palermo è al centro di questo risveglio culturale. A tal proposito l’Amari riporta un brano di un compilatore arabo del XIII secolo , Ad-Dimasqi dove si sostiene che la Sicilia “sotto il dominio musulmano fiorì per dottrina e gran numero di scienziati, di letterati e di uomini illustri e rivaleggiò con la Spagna” (Amari, Biblioteca arabo-sicula). La mancanza di documentazione in tal senso è presumibilmente dovuta alle distruzioni belliche della conquista normanna che determinarono la totale scomparsa della documentazione araba nell’isola e alla scarsa ricerca negli archivi arabi e turchi relativi alla Sicilia di quel tempo.

Di sicuro c’è il fatto che la Sicilia assurge al rango di emirato e ciò è di grande rilevanza politica perché “emirato” equivale a regno (e prima di allora la Sicilia non era mai stata regno).

La conquista araba portò pertanto un problema di “integrazione” non di poco conto: gli invasori erano di religione musulmana e di lingua prevalentemente araba, i vinti erano, ad esclusione degli ebrei, di religione cristiana e parlavano greco e/o latino. La questione religiosa fu risolta con l’applicazione dell’aman e con la tolleranza, ma alle differenze culturali e religiose si aggiungevano anche quelle etniche, presenti sia tra i vincitori che tra i vinti. Le genti di religione islamica provenivano da parti diverse del dar al-Islam: vi erano arabi provenienti dalla penisola arabica trapiantati nel Magrheb ed in Egitto, berberi, sudanesi, persiani, andalusi di discendenza indiana, ecc. Nell’isola vi erano indigeni (ancora gli abitanti non si chiamavano “siciliani”; solo da ora si chiameranno “siqilly” dal nome arabo dell’isola, Siqillya) di lingua greca e latina, antichi immigrati provenienti da varie zone dell’impero romano-mediterraneo, immigrati più recenti provenienti da varie zone dell’impero bizantino, vi erano certamente anche “barbari” arruolati come mercenari e piccoli gruppi di ebrei.

 Nonostante queste “diversità” in Sicilia si verificò un vasto movimento di acculturazione e integrazione che determinò da un lato l’islamizzazione e l’arabizzazione dei residenti ma dall’altro si assisté alla “sicilianizzazione” degli invasori , così come a suo tempo si erano sicilianizzati i Greci ed i Romani. A tale fenomeno concorsero gli immigrati provenienti dall’ecumene musulmano (soprattutto dall’Ifriqiya) che si insediarono soprattutto nelle città del val di Mazara e del Val di Noto che dopo qualche generazione cominciarono a “sentirsi” “siqiylli”, (siciliani). Le città che erano state distrutte dopo lungo assedio come Siracusa, Rometta, Taormina ed Enna, divennero totalmente musulmane. Numerose colonie musulmane si immisero nelle città costiere abitate dai siciliani come Palermo, Messina, Marsala, Girgenti. E fu proprio l’insediamento nei centri urbani che determinò la sicilianizzazione dei musulmani. Qui i vincitori si trovarono di fronte ad antiche società urbane, ricche di storia millenaria, di arte e di cultura, ricche di case , di strade, di teatri! Palermo all’epoca aveva già più di 1500 anni! Scegliere fra la tenda e la casa, tra una città ed un villaggio non fu difficile. E i musulmani conquistatori non tardarono ad adattarsi “sicilianizzandosi” pur mantenendo un forte carattere islamico nell’organizzazione dello stato . Fu così che in Sicilia si ebbero più città musulmane che in tutta l’Ifriqqya”.

Il processo di acculturazione si riflesse anche sulla lingua, dove troviamo una situazione assai complessa ed intricata.

La lingua ufficiale dello stato era l’arabo classico del Corano ( come il latino per la chiesa di Roma), poi vi era la lingua ufficiale delle istituzioni locali, della burocrazia, dei letterati, che era soprattutto una lingua scritta e colta, peculiare delle classi dominanti, ed infine l’arabo veicolare, quello di uso comune, data però la multietnia si parlavano anche il greco veicolare, il latino veicolare, l’ebraico veicolare. Tutte lingue assai lontane dai corrispettivi classici a causa dell’analfabetismo diffuso.

L’arabo veicolare era a sua volta un ibrido tra arabo, berbero e parlate isolane, diverso da quello dell’Ifriqiya”; una parlata “originale” che chiameremo “arabo-siculo”, così come c’era l’arabo-ispanico o l’arabo-persiano, ad esempio. Insomma per farla breve si venne a creare una parlata mista, una specie di Sabir costituito da qualche migliaio di parole in buona parte arabo-siciliane, e in minor parte greche e latine, la cui percentuale era in relazione alla maggiore o minor presenza di musulmani nei vari distretti dell’isola.

Un raffronto simile a quello linguistico si è avuto anche in altri campi, ed in particolare in quello dell’agricoltura, ed anche in questo caso più o meno pregnante in relazione alla presenza islamica.

Rivoluzionaria è la scomparsa del latifondo romano-bizantino in seguito all’applicazione dell’iqta, cioè della legge agraria islamica. L’iqta per l’Islam era quella che per Roma era stata la legge agraria per la colonizzazione delle terre occupate. Ad ogni cittadino islamico o convertito che ne avesse fatto richiesta, veniva assegnato un pezzo di terra da coltivare (come coltivatore diretto o con l’aiuto di servi, a secondo della grandezza e della posizione sociale ma che non poteva in ogni caso superare certi limiti) e su cui pagare le tasse. Da queste terre ogni coltivatore cercò di ottenere il massimo, grazie alle “moderne” tecniche di coltivazione che si sovrapposero, arricchendole, alle tecniche agricole presenti nell’isola che fino ad allora aveva prodotto prevalentemente grano,olio e vino. Ma questa società agricola ebbe un limite che la indeboliva: ne beneficiavano soprattutto i Musulmani, conquistatori o convertiti, che erano in gran numero nelle campagne centro-occidentale. Troviamo pertanto una società egalitaria nella parte più musulmana dell’isola, quella centro-occidentale e assai meno egalitaria nelle zone orientali, dove solo i musulmani conquistatori e i pochi convertiti avevano diritto all’iqta.

Le maestranze arabe seppero utilizzare al meglio le risorse idriche del sottosuolo; recenti ricerche di speleologia urbana hanno rivelato nel sottosuolo di Palermo e della Conca d’Oro, una straordinaria rete di condotti sotterranei di drenaggio delle acque. Analoghe strutture sono tutt’ora in funzione a Marsala. Essi sono costruiti secondo la tipologia dei qanat, strette gallerie scavate artificialmente e collegate alla superficie da pozzi seriali. Grazie alla leggera ma costante pendenza dei cunicoli, l’acqua scorre dal punto di captazione per centinaia e centinaia di metri, a volte per chilometri . Il razionale utilizzo delle acque determinò la comparsa e/o la diffusione della coltivazione di cotone, lino, canapa , ortaggi, legumi, papiro, canna da zucchero, agrumi, datteri e anche i gelsi, necessari per l’allevamento dei bachi da seta. Dello sviluppo dell’orticoltura e di coltivazioni arboree pregiate ne sono ancora oggi testimonianza termini come nuara , senia, cubba, gebbia, vattali, garraffu, ecc. Si continuò a produrre ancora grano, olio e vino ma in quantità minore anche in considerazione del fatto che per via delle guerre erano andati perduti i mercati esteri tradizionali, in particolare Roma. Dello sviluppo dell’agricoltura e dell’arricchimento del patrimonio botanico non poca parte ebbe l’estensione dell’ecumene islamico e l’intensificarsi dei commerci con le regioni asiatiche fino all’India . Si creò pertanto un’apertura di commerci paragonabile a quella che qualche secolo più tardi causò , ma in campo atlantico, la scoperta delle Americhe.



Balarm, la Medinah



I conquistatori arabi, come precedentemente detto, non sono intervenuti a modificare il tessuto urbano, piuttosto che adattare la città ai loro modi di vivere, si sono adattati loro a quella di città quali Messina e Palermo , fra le più importanti del mediterraneo.

 Palermo, secondo l’usanza magrebina, da città marinara sarebbe dovuta diventare una città interna lontana dalle insidie e dai pericoli del mare, ma non fu così e la grande strada centrale che dal mare portava a piedimonte , fino al vecchio nucleo fortificato (Qasr, Castello, da cui Cassaro) venne mantenuta ed arricchita.

Gli scrittori arabi la descrivono affiancata da botteghe e pavimentata (simat al balat)

Oltre alle botteghe, che occupavano determinate vie della città in ragione della categoria merceologica, si svilupparono i suq (mercati). Ibn Hawqal ci descrive i suq di Palermo indicando per ciascuno il luogo ed il tipo di commercio che vi si svolgeva.

Un’altra cittadella fortificata, la Eletta (al-khalisah, l’odierna Kalsa) venne edificata, successivamente, nei pressi del porto. Attorno alle due cittadelle fortificate sorsero numerosi quartieri aperti, popolarissimi ed attivissimi.

 Palermo si arricchisce, in quest’epoca, di palazzi, di moschee e di parchi diventando una metropoli orientale; fioriscono scuole di medicina, di matematica, di diritto, di teologia musulmana, poeti e storici fanno splendere il suo nome nel mondo intero. La città araba esercita un ruolo predominante su tutta la Sicilia; questa posizione elitaria è sottolineata anche dal nome significativo di Medinah con il quale viene chiamata, termine che sta a significare città capo di molti domini.

Nel linguaggio comune, comunque, la città continua ad essere chiamata con il suo antico nome anche se si assiste alla trasformazione fonetica del toponimo Πανορμος (Panormus) in Balarm o Balarmuh.

Nel X secolo i due viaggiatori arabi, Al-Muqaddasi ed Ibn Hawqal, forniscono delle descrizioni dettagliate della città; Al-Muqaddasi nella sua opera intitolata Ahsan at-taqàsim fì mà rifat al-aqalìm (La migliore delle ripartizioni per la conoscenza delle regioni) scrive: “Palermo capitale di Sicilia, è situata sul mare in quell’isola. È più grande di al-Fustàt (il Cairo vecchio), ma è ripartita in diversi settori; i fabbricati della città sono di pietra e calce ed essa appare rossa e bianca. La circondano sorgenti e canneti, le fornisce acqua un fiume chiamato Wadì Abbàs (l’odierno fiume Oreto). I mulini sono numerosi nel suo mezzo ed essa abbonda di frutta e di produzioni del suolo e d’uva. L’acqua batte le sue mura. Possiede una città interna, nella quale si trova la moschea gàmî; i mercati sono nel sobborgo (rabad). Ha inoltre una città esterna dotata di mura e chiamata al-Halisah, in cui si aprono quattro porte” (De Simone A., Palermo araba, in La Duca R., 2003).

 Sul punto più alto della città gli arabi costruiscono il primo nucleo dell’attuale Palazzo dei Normanni. L’Emiro e la classe dirigente risiedono all’interno delle mura dell’antica città di impianto punico-romano fino al 937-938; le antiche mura racchiudevano i quartieri della Galka (al-Halqâh, la cinta), sede degli spazi amministrativi, e quello del Cassaro (al-Qasr, il castello), corrispondenti rispettivamente alle primitive paleopoli, e neapoli attraversati dalla simat al balat, l’odierno Corso Vittorio Emanuele ( Cassaro). Al di fuori delle mura, via via che aumenta il numero degli abitanti per il naturale accrescimento demografico, si vanno formando altri quartieri: l’hârat al masgid Ibn Siqlâb (quartiere della moschea) e l’hârat al gadîdah (quartiere nuovo) che abbracciano quelli che saranno i quartieri dell’Albergheria e dei Lattarini, compresi fra le mura meridionali della città e l’odierno corso Tukory; l’hârat as Saqâlibah (quartiere degli Schiavoni), sede di mercanti e milizia mercenaria, situato a settentrione, al di là delle rive del Papireto; il muaskar, sede di stanza delle truppe, una vasta contrada suburbana scarsamente edificata situata ad occidente. Tutti i quartieri che vengono edificati al di fuori delle antiche mura vengono indicati dagli arabi con il termine di rabad cioè borgo.

Vengono costruiti numerosi bagni pubblici, gli hammâm, profondamente legati alla cultura ed alla religione islamica. Oggi l’unica testimonianza di bagni arabi in Sicilia è data da quelli di Cefalà Diana che rappresentano anche una delle poche opere appartenenti con certezza a questo periodo, tutto il resto è stato distrutto o modificato o costruito dai re Normanni.

Una delle più belle descrizioni della Sicilia di quel periodo è quella offertaci dal geografo e scienziato Al-Idrisi il quale afferma: “Diciam dunque che l’isola di Sicilia è la perla del secolo per abbondanza e bellezze; il primo paese del mondo per bontà di natura, frequenza di abitazioni e antichità. Vengovi da tutte le parti i viaggiatori e i trafficanti delle città e delle metropoli, i quali tutti ad una voce la esaltano, attestano la sua grande importanza, lodano la sua splendida bellezza, parlano delle sue felici condizioni, degli svariati pregi che si accolgono in lei e dei beni d’ogni altro paese del mondo che la Sicilia attira a sé. Nobilissime tra tute le altre che ricordi la storia, furono le sue dominazioni; potentissime sopra tutt’altre le forze che i Siciliani prostrarono chi lor facesse contrasto. E veramente i re della Sicilia vanno messi innanzi di gran lunga a tutti gli altri re, per la possanza, per la gloria e per l’altezza de’ proponimenti”

La cultura arabo-islamica elaboratasi in Sicilia è di stampo maghrebino e quindi fortemente dipendente da quelle dell’Ifrìqiya e della Spagna islamica con la quale l’isola aveva molteplici scambi culturali.

Nella prima fase che segue la conquista dell’isola si assiste ad una sorta di conversione di massa; la gente del libro abbandona il proprio credo per avvicinarsi alla nuova religione islamica. Questa ondata di “islamizzazione” non è tanto legata a motivi religiosi ma quanto alla possibilità di godere dei privilegi riservati ai musulmani e ad evitare il pagamento della jizya e della kharàj. Non c’è da stupirsi quindi se questo primo periodo è segnato da una totale assenza di rispetto verso le leggi coraniche come è sottolineato da Michele Amari il quale, riportando le impressioni di Ibn Hawqal sulla gente siciliana afferma che “Non usano la circoncisione, né osservano le preghiere, né pagan la limosina legale, né vanno in pellegrinaggio; appena avvien che digiunino il ramadhan e che facciano il lavacro in un sol caso. […] non essere in Palermo begli ingegni né uomini dotti, né sagaci, né religiosi, non vedersi al mondo gente meno svegliata, né più stravagante; men vaga di lodevoli azioni né più bramosa di apprendere vizi”.

Oltre che nei costumi della vita quotidiana, gli Arabi lasciano profonde tracce del loro passaggio nella cultura scientifica; a Palermo si studiano la geometria della Terra e i punti cardinali e l'astronomia.

La Sicilia e, più in generale, tutta l'Italia meridionale acquistano nell'epoca musulmana conoscenze d'ogni tipo: mediche, filosofiche, astrologiche, scientifiche. Questo fenomeno continuerà durante il periodo normanno, soprattutto alla corte di Ruggero II, facendo della Sicilia uno dei punti più importanti attraverso i quali sono penetrati in Occidente gli influssi delle arti e delle scienze orientali.

Non solo nelle città ma anche negli insediamenti rurali gli scavi archeologici hanno riportato alla luce monete e oggetti di uso quotidiano riccamente decorati che indicano un livello di vita tutt’altro che miserabile. Ancora oggi in certe zone della Sicilia si costruiscono le case alla maniera elaborata dagli arabi, presumibilmente sui modelli romani: un grande cortile interno, ornato di piante e fiori e piccole peschiere, sul quale si affacciano le stanze o gli appartamenti. 

Non ci rimane alcuna Moschea, perché trasformate in chiese cristiane, e lo stesso Alkazar (l'attuale Palazzo dei Normanni di Palermo), non lascia più riconoscere la parte costruita dagli Arabi e ben poco di altri monumenti di quell'età è giunto fino a noi.

Ma quanto ci manca d'architettura è fortemente rimpiazzato nella storia linguistica della Sicilia. Numerosissimi toponimi: Caltanissetta, Caltagirone, Caltavuturo, ecc, derivano il loro nome da "Kalat", castello; Marsala, Marzameni, da "Marsha", porto; Gibellina, Gibilmanna, Gibilrossa, da "gebel", monte; Racalmuto, Regalbuto, da "rahal", casale e così via. E poi abbiamo anche termini commerciali come: funnacu (fondaco), tariffa, sensale; termini agricoli come fastuca (pistacchio), zagara (i fiori dell'arancio o del limone), zibibbu (una varietà di uva), giggiulena (sesamo); vocaboli come "calia" (ceci abbrustoliti) "giurana" (rana) , "zotta" (frusta); o cognomi come Badalà o Vadalà (servo di Allah) Fragalà (gioia di Allah) ecc.



La fine



Come già accennato, le lotte intestine che si scatenarono tra gli emiri dei tre valli, in assonanza con le lotte d’Ifriqya, richiamarono l’attenzione di Bisanzio, che spedì un esercito al comando di Giorgio Maniace. Dopo alcuni successi iniziali, questi fu, però, costretto alla ritirata. Successivamente scoppiarono altre profonde liti, la leggenda narra, ancora una volta, per una questione di donne, che determinarono la chiamata degli Altavilla, i quali, ben presto, da mercenari al soldo di Ibn at Thumma , caid di Siracusa, si trasformarono in conquistatori.

La guerra di conquista durò 30 anni e alla fine le parti si rovesciarono e questa volta furono i furbi normanni ad applicare l’aman nei confronti dei musulmani siciliani. Riconobbero, comunque, l’alto grado di preparazione e civilizzazione araba e, apprezzandone la cultura, l’arte e i costumi, si adattarono felicemente continuando quel periodo di splendore e floridezza. La gestione dello stato cambiò radicalmente facendo precipitare la Sicilia in pieno feudalesimo quando Federico II, imperatore di Germania, avviò un processo di persecuzione che portò allo sterminio degli arabi e alla deportazione dei sopravvissuti in Puglia! Le terre musulmane del Val di Mazara rimaste deserte furono graziosamente donate a profughi ghibellini lombardi, che però non le coltivarono più “alla siciliana”. E così anche ciò che di materiale rimaneva della cultura dei musulmani di Sicilia non rimase più niente.



*Docente presso l'Università di Palermo





















I


Nel corso della sua tormentata storia e nell’alternarsi dei popoli che la dominarono, la Sicilia conobbe anche il giogo delle scimitarre arabe.

Nel nono secolo, Siracusa, che era la città più importante dell’isola e più florida economicamente, fu distrutta dai musulmani, i quali preferirono scegliere Balarm quale sede dell’Emirato. La nuova capitale isolana venne graziosamente denominata “Aziz”, cioè fiore del Mediterraneo. La regione, sul piano amministrativo, fu divisa in tre Valli. Il Valdemone, nel cui territorio, nei secoli trascorsi, si svolse parte della nostra storia, aveva inizio dalla “Montagna di Fuoco”, l’Etna, e si estendeva sino alla parte centro-settentrionale dell'isola

La presenza imperiale di Bisanzio sull’isola, man mano che i musulmani avanzavano, andava restringendosi. I bizantini, però, avevano costruito centri fortificati prevalentemente sulle alture, muniti di mura e baluardi quasi inespugnabili. Da essi s’irradiò la resistenza all’invasione islamica.

Demenna, sui Nebrodi, fu prescelta per essere trasformata in fortezza. Vi si era installata precedentemente una popolazione greca, detta dei Demenniti, che diedero il nome alla città. Durante la loro dominazione , gli arabi la chiamarono Damànnas, ed ebbe un ruolo centrale nel Valdemone per le vicende che vi si svilupparono.

Prima di addentrarci negli avvenimenti, è bene rendere gli onori al popolo che l’abitò: un popolo indomito, fiero, intrattabile. Così è descritta, in un antico inedito, quella gente ed in questo giudizio erano comprese anche le donne.

A Demenna si organizzò la resistenza contro i Saraceni, i quali, per annientare quei focolai di opposizione, sferrarono quattro attacchi con i loro poderosi eserciti. Il suo territorio fu saccheggiato più volte da parte delle gualdane islamiche a cavallo, che, dopo avere distrutto le messi ed essersi impadronite del bottino, sottratto soprattutto ai contadini, trascinarono costoro prigionieri per venderli come schiavi. La città resistette per quasi mezzo secolo, essendo munita di una solida struttura organizzativa per la difesa dei suoi abitanti e dei valori cristiani, che essa impersonava.

Per capire quanto terrore incutessero i saraceni, che erano preceduti dalla fama di essere crudeli predoni, in Sicilia, circolava una leggenda popolare, che metteva in risalto la ferocia del moro. Si raccontava, infatti, che viveva, in oriente, una bellissima ninfa di nome Fitalia, la quale possedeva enormi ricchezze. Un giorno la vide, che si bagnava nuda nel fiume, un satiro, che immediatamente se ne innamorò e tentò di possederla ad ogni costo, ricorrendo anche alle aggressioni fisiche. Ella lo rifiutò e lo respinse con l’aiuto dei suoi schiavi, ma viveva nella paura continua. Prese, pertanto, i propri tesori ed assieme ai suoi schiavi fuggì; giunta in un luogo, che le piacque moltissimo, vi si stabilì. Nel più folto e tra la frescura di un boschetto costruì la sua dimora dietro una grandissima roccia. E quando ella si dipartì dalla terra, per salire all’Eliso, lasciò in quella sua reggia, nascosto, un tesoro immenso di gemme e d’oro; a guardia di esso mise un uomo corpulento con la pelle nerissima e l’aspetto infernale, un moro, che ruggiva come un leone quando qualcuno si avvicinava a quella roccia. La scelta di un percorso di fuga era, pertanto, l’unico scampo. Quel luogo prese il nome della leggiadra divinità dal tratto, dopo la stretta gola, dalla quale prosegue il fiume Mylè, che sorge sui monti Nebrodi. Nato come Mylè, prosegue come Fitalia verso la sua foce.


Governatore della città di Demenna, da poco nominato dall’Imperatore Romano d’Oriente, era il nobile bizantino Basilio Macrojanni, il cui potere si estendeva su tutto il territorio delimitato dalle due vallate, quelle di Chidas e di Mylè, nonché sui casali e centri abitati che si affacciavano su di esse. Come Ufficiale imperiale di rango elevato, con la nomina a governatore gli erano state assegnate vaste proprietà e poderi, nei quali veniva allevato il bestiame e coltivato il grano. Egli aveva sposato l’avvenente Hirene, la quale asseriva di avere sangue misto, orientale e siciliano, in quanto, da parte di madre, era discendente – sosteneva la donna – da una famiglia patrizia, originaria dell’antica Haluntium, sulle alture nebroidee.

Demenna era un centro agricolo, che contava circa cinquemila abitanti, ma che aveva raddoppiato quel numero da quando era stata trasformata in città-fortezza perché divenuta un punto di riferimento della resistenza organizzata contro i Saraceni. Gran parte della popolazione stanziale viveva di rendita essendo proprietaria di terreni e fattorie, in cui lavoravano molti contadini; la restante parte era dedita all’artigianato o ricopriva incarichi negli uffici pubblici. Molti avevano trovato lavoro, come graduati, attraverso l’arruolamento permanente nell’esercito.

L’economia era, quindi, abbastanza florida in quanto, oltre a vaste estensioni di terreno coltivate a grano, si praticava l’allevamento del bestiame essendo il territorio ricco di pascoli e di acque sorgive. Ma, una non meno importante fonte di guadagno per le famiglie era l’allevamento del baco per la produzione della seta. Annualmente, fuori le mura della città, quando vigeva la pace, si teneva una fiera-mercato dove venivano venduti principalmente capi di bestiame e la seta. La “seta di Damànnas” era rinomata in tutto il bacino del Mediterraneo come tessuto molto pregiato.

La città si estendeva, ai piedi di una cresta rocciosa, su un'area, delimitata e riparata, sul lato settentrionale, da un’imponente doppia palizzata di robusti tronchi di quercia. Questo, infatti, era l’unico lato per un accesso alla città poiché vi giungeva una vecchia strada romana, che, partendo dal litorale marino, si addentrava verso l’interno montuoso sino a giungere alla città di Demenna, per proseguire oltre. Il massiccio baluardo ligneo, che aveva una sola robusta porta d’ingresso, era stato costruito congiungendo le falde di due contrafforti e racchiudeva al suo interno le sorgenti d’acqua del piano delle Sette Fontane, necessarie per i bisogni della collettività. Dagli altri tre lati, l’abitato era difeso da baluardi naturali di rocce dolomitiche, con le pareti a strapiombo. Nei pianori ondulati di Miglino e di Sette Fontane, si sviluppava la città con le sue case. Essa era dominata dalla cima del Krastos ed emergeva da un altipiano in lieve declivio, dove sorgeva il Kastron. Quest’ultimo era protetto da un’altra cinta muraria, innalzata alla periferia settentrionale, per separarlo dalla restante parte della città: gli abitanti vi si rifugiavano in caso di attacco nemico. In pratica, era la “cittadella”. Sulla sommità della vetta, una torre era visivamente collegata con un’altra di avvistamento, costruita sulla prospiciente cima, a cavallo delle due vallate, di Mylè e di Chidas, denominata di S. Nicola; i soldati di guardia in quest’ultima, nel momento in cui avvistavano il nemico, avvisavano la torre dirimpettaia, la quale provvedeva ad allertare la guarnigione di stanza in città.

La rocca di S. Nicola, che sorgeva su una piramide rocciosa, ad una quota di 1.298 metri, era accessibile soltanto da una porta. Essa si apriva attraverso le mura costruite sull’orlo di un precipizio, a meridione della cresta rocciosa, e vi si perveniva per mezzo di un erto viottolo, il cui percorso in salita, iniziando dal lato occidentale della montagna, era percorribile soltanto dall’elemento umano. Il sentiero terminava, sfruttando le anfrattuosità e le sporgenze della parete, venti metri sotto l’entrata al fortilizio. Indi, era possibile accedervi salendo lungo un ponte levatoio a scalini, che veniva calato appositamente. La rocca, ad est era protetta da uno strapiombo pauroso, inaccessibile, mentre dagli altri due lati non era penetrabile se non scalando un tratto roccioso sul quale erano costruite le mura; da cui, attraverso i buttatoi, veniva respinto qualsiasi assalto.

La costruzione, con una superficie di circa mille metri quadrati, era delimitata da una cerchia muraria spessa un metro e mezzo ed era attrezzata per resistere a lungo ad un eventuale assedio: venne dotata, infatti, di cisterna per l’acqua potabile, di magazzini per le derrate alimentari e di ricoveri al coperto per i soldati. S’affacciavano, inoltre, sulle vallate del Chidas e del Mylè, una per ciascun versante, le torri del Kastro, che servivano per il controllo del territorio circostante, nonché per la ricezione di segnali dagli altri presidi militari bizantini, dai castelli, dai casali e dalle vedette raggiungibili dall’occhio umano. Antichi manoscritti riportano che questa fortezza bizantina era la “formidabile roccaforte” di Demenna.

In un angolo del suo perimetro interno addirittura era stata costruita una chiesetta, dedicata a S. Nicola di Mira. La venerazione di questo santo, irradiatasi da Costantinopoli, nel VI secolo, raggiunse i luoghi più remoti dell’Impero Romano d’Oriente, tra i quali Demenna. Nel prosieguo del tempo, in Italia, il Santo incorporò anche l’appellativo ”di Bari” e la vetta in narrazione assunse, in seguito, il toponimo di “Pizzo di S. Nicola” per rammentare che, ivi, quei sudditi dell’impero, venerarono il Santo che, a Bisanzio, aveva dedicate ben 26 chiese.

Il Kastro di S. Nicola faceva parte di un cuneo militare triangolare del Val Demone, i cui vertici era individuabili negli altri capisaldi bizantini di Rametta, Miqus e Tauromenio; la funzione del triangolo militare era quella di preannunciare eventuali attacchi di nemici dallo Stretto di Messina e dalla Val di Mazara. Dalle torri sulla vetta del S. Nicola si potevano raggiungere, a vista d’occhio, i Castelli di Kolat, di S. Filadelfio, di Muely nonché altri avamposti militari della zona attorno, inviando e ricevendo segnali convenuti. Sulle alture attorno agli avamposti erano dislocate le vedette, che dovevano rimandare visivamente i segnali di eventuali pericoli nemici , che incombevano sul territorio . In tal modo, il controllo delle vallate era assicurato.

La roccaforte rivestiva, inoltre, importanza strategica in quanto dominava la regia trazzera, che, lungo l’asse nord – sud della dorsale dei Nebrodi centrali, si snodava ai piedi del versante roccioso occidentale. L’arteria, denominata Gran Via, era percorsa dai muli, che sul basto trasportavano merci e derrate, oltre le persone, le quali, dai centri rivieraschi del Tirreno dovevano raggiungere l’entroterra della Sicilia, tra cui Traina, importante centro montano del Val Demone. Oltre alle decine di “bordonari”– ognuno di essi guidava otto muli – con i relativi assistenti spesso transitavano anche lettighe con a “bordo” ricchi commercianti e patrizi; nell’avvicinarsi a Demenna, che doveva essere attraversata, i soldati bizantini fermavano i viandanti per esigere una sorta d’imposta doganale, nonché per accertarsi che non vi fossero malintenzionati musulmani .

I viaggiatori, assolto all’obbligo del controllo e del pagamento della tassa, proseguivano e, oltrepassata Demenna ed attraversato il non lontano bosco, si fermavano per la notte al crocevia di Gazzana, laddove, nel fondaco, trovavano alloggio, cibo, foraggio per le bestie e, talvolta, un “servizio di prostitute”. Il posto di ristoro era una tranquilla stazione di riposo, costruita al centro di una radura circondata da alberi secolari, che segnavano l’ultima propaggine del bosco; ai bordi del piano, una sorgente d’acqua freschissima richiamava viandanti e bestie da soma. Superato il crocevia, i terreni a mezzogiorno erano una interminabile distesa coltivata a grano. E’ comprensibile, pertanto, il ferreo controllo preventivo esercitato dalle guardie bizantine al fine di assicurare non solo un ambiente sereno a quei viandanti, ma anche la crescita ed il raccolto del frumento, insostituibile sostentamento di quelle popolazioni.

Durante la belligeranza bizantina-saracena la regia trazzera veniva preclusa al transito.


Nella piazza centrale del Kastron si affacciavano gli edifici civili e religiosi: il palazzo del governatore con gli uffici pubblici, a fianco dei quali sorgeva la casermetta per la guardia civile e per l’emergenza, in caso di asserragliamento, una piccola chiesa dov’era una cripta, sbarrata da una porta di rame, che custodiva il tesoro sacro. Un busto dell’imperatore d’oriente aveva trovato collocazione nello spiazzo antistante il palazzo governativo. Ai due lati di esso sventolavano la bandiera della città e quella del governatore. Il vessillo di Demenna, a due bande rosso-blù, racchiudeva uno scudo rosa, su cui era dipinta, col colore dell’oro, una croce a chiave: lo scudo era sormontato dall’aquila bicipite, anch’essa di colore oro, raffigurante l’impero romano d’oriente. Uno scudo giallo con due spade incrociate, su un drappo verde, era lo stemma gentilizio dei Macrojanni.

Al riparo delle sue mura era attiva la chiesa cristiana di Bisanzio, che contava su un consistente numero di monaci dell’Ordine Basiliano, i quali erano divenuti gli animatori dell’opposizione agli “eretici”. In questo loro ruolo, i religiosi trovarono un terreno fertile sia sul piano della cristianità, sia sotto l’aspetto socio-politico. Nel pianoro di Miglino, con i suoi fondi personali, l’imperatore aveva fatto costruire un tempio cristiano a croce greca, in stile bizantino. La chiesa internamente aveva le pareti in gran parte rivestite di marmo rosa proveniente da Aluntio, che si alternava con stucchi e mosaici; due colonne in marmo sorreggevano l’arco di ingresso all’abside: sullo sfondo di essa, un mosaico riproduceva il volto del Cristo, colto nella sua espressione ieratica di giovane profeta. La navata centrale era coperta da volte a crociera

Erano basiliani, inoltre, i centri monastici di S.Filippo e S. Barbaro di Demenna, nonché di S.Pietro di Muely, che gravitavano attorno al territorio circostante la città.

Demenna diede i natali a due monaci basiliani, i fratelli Luca e Fantino, figli dei nobili Giovanni e Theodibia. Erano assegnati al cenobio di S. Barbaro di Demenna, ma si spostavano spesso presso i conventi, i paesi e le contrade della zona per assistere spiritualmente i fedeli, i bisognosi, i poveri.

Pur non avendo fatti studi profondi nel campo della letteratura, Luca affrontava gli argomenti filosofici più ardui, discutendoli, e spiegava le sacre Scritture. Poichè aveva la favella facile, venne assegnato dal vescovo della città come predicatore presso il tempio di Piano Miglino, dedicato a Cristo Salvatore.

A Demenna, però, ed a S. Barbaro egli dimorò per poco tempo in quanto i saraceni gli davano la caccia per il suo dinamismo religioso, che lo portava ad attaccarli assieme alla loro fede musulmana. Di ciò rimase una testimonianza. Infatti, prima di andare via, volle tenere il suo ultimo panegirico nel “cuore” di Demenna, nella piazza centrale del Kastron: <<Dio ha voluto che questo centro di cristianità sorgesse per mano di un popolo forte: i discendenti dagli antichi spartani. Una stirpe in grado di tenere testa alla crudeltà di una razza selvaggia, composta da infedeli. Voi siete i continuatori dei loro valori e del loro coraggio: siatene degni depositari. Il Salvatore è con noi e, sono certo, libererà questa meravigliosa terra di Sicilia dall’oppressione che vuole soffocare la sua fede cristiana e la sua libertà civile. Egli caccerà il demone nero che scorazza lungo le valli ed i litorali della nostra terra. Come Mosè ed il suo popolo furono protetti e guidati da Dio, così Egli non abbandonerà i suoi figli cristiani all’odio ed alle scimitarre della “mezza luna”>>. Levando le braccia e lo sguardo verso il cielo, in atteggiamento ieratico, concluse gridando: “ Io Ti invoco, Cristo, assieme ai miei concittadini, supplicandoTi di fare scendere lo Spirito Santo su questa mia terra, chiedendoTi pietà e protezione per la mia Demenna, che forse non vedrò mai più. In nome del Salvatore, io vi benedico, fratelli e sorelle, e bacio le pietre che mi hanno visto nascere”. S’inginocchiò per baciare la terra e, poi, alzandosi, benedisse i suoi concittadini.

Diversa, forse, sarebbe stata la sorte della roccaforte della cristianità bizantina se il monaco non fosse stato costretto ad obbedire all’ordine del suo superiore di allontanarsi dal territorio demennita.

Luca, dopo aver girato per diversi cenobi basiliani, si stabilì in Calabria, laddove divenne famoso per i suoi miracoli operati in vita, la guarigione di ammalati ed il soccorso agli ossessi ed ai bisognosi. Durante una carestia, ordinò che si distribuissero i viveri del convento dove egli era abate: i magazzini, anziché svuotarsi, divenivano sempre più stracolmi.

Il prodigioso monaco, oltre ad elargire copiosi atti benefici, era anche un organizzatore: fondò, presso il castello di Armento, un monastero, fortificandolo; accorse in difesa della popolazione e della sorella Caterina, che lo aveva raggiunto dando vita ad un convento di monache, quando esse vennero minacciate dagli onnipresenti saraceni: imbracciò, infatti, le armi e, su un cavallo bianco, preceduto dalla Croce, mosse contro gli assalitori. Dio, invero, gli aveva fatto giungere la sua voce: “...Tu prendi il tuo bastone e precedili (i monaci ndr) per scacciare questi cani poichè non potranno resistere allo splendore della grazia dello Spirito Santo a te conceduta, avendo tu trovato grazia presso di Me”. Al grido di “sorga Iddio e siano dissipati i nemici di Lui”, ne vennero uccisi parecchi, altri fatti prigionieri, altri ancora fuggirono.

Morì il 13 ottobre 993 essendo nato, a Demenna, intorno al 910. Un Angelo gli preannunciò la sua morte mentre svolgeva ancora l’attività pastorale malgrado la sua età avanzata: “...Dio vuole che tu lasci questa vita mortale e passi agli eterni godimenti; hai abbastanza patito per amore Suo; vuole che riposi per sempre”. L’abate Luca, rientrato in convento, si distese sul suo ruvido pagliericcio e serenamente rese la sua anima a Dio.

La sua “scheda morale” registrava numerosi miracoli, in vita e dopo la morte, un’ intensa attività non solo religiosa ma anche sociale, un comportamento che lo vedeva macerare dolorosamente il suo corpo, un’ardente e continua preghiera, mansuetudine e dolcezza nel parlare: fu acclamato santo.

Come sempre accade – i proverbi sono fonte di saggezza -, “nessuno è profeta nella sua patria”. L’Archimandrita Luca fu osannato ed onorato nella sua terra di adozione e non da quella della sua nascita. La sua vita fu scritta in greco da un monaco, suo compagno, e dal suo immediato successore nel monastero di Carbone. Alcuni anni dopo, già santo, un gruppo di armati sottrasse il suo corpo dalla cripta della chiesa campestre della B.V. Maria, da Luca edificata, per portarlo ad Armento, dove ne fu proclamato Patrono.






II


Lo stemma gentilizio dei Conti di Castelmylè portava inciso su uno scudo con fondo turchino, sagomato e bordato da rametti di agrifoglio, un nibbio reale in volo, dalle piume fulve macchiate di nero. La bandiera, con al centro lo stemma della Casata, era bianca.

Il giovane Federico De Palmis, a sedici anni, era stato avviato dal padre, il conte Giulio, ad imparare l’arte militare presso la Scuola di Guerra dell’Impero d’Oriente, a Bisanzio. Appena ventenne, fu nominato al grado iniziale della carriera di Ufficiale dell’esercito bizantino. Aveva venticinque anni quando il padre cadde vittima di un’imboscata di una banda di avventurieri mentre guidava una battuta di caccia al capriolo nei suoi possedimenti boschivi, che si estendevano dalle falde del Pizzo di Muely sino alla Foresta Vecchia ed al Bosco di Grappidà. Federico, per amministrare i suoi beni, che erano nel territorio contiguo a quello di Demenna, fu costretto a rientrare al Castello di Mylè, ma, essendo un ufficiale dell’esercito, fu destinato alla guarnigione bizantina acquartierata presso la città di Demenna

Il giovane ufficiale fu chiamato dal Governatore a fare parte dello Stato Maggiore dell’esercito, con l’incarico di Vice Comandante. Federico era un giovane di bell’aspetto, brillante e già maturo; soldato dalla forte tempra e dotato di parecchio coraggio, nonché capace di assumere decisioni lucide e tempestive; il suo animo profondamente umano e liberale era sempre pronto ad aiutare i bisognosi. Era ascoltato in quanto dotato di equilibrio e di forte carisma.

Trasferendosi in città, il conte lasciò una guarnigione di uomini presso il suo castello, che spesso raggiungeva, essendo ad un’ora di cavallo, per un controllo e per impartire le disposizioni all’amministratore dei suoi beni.

De Palmis consigliò al Governatore di rendere più sicure le mura della città dal lato dove era l’accesso. Furono, quindi, rinforzate le difese esistenti. La palizzata lignea esterna venne incatenata tra quattro robuste torri, innalzate con travi di faggio abbattute nei boschi vicini. All’esterno, davanti alla palizzata, fu scavato un fossato largo cinque metri, ricoperto, poi, da tavolame sottile cosparso di terriccio dopo che erano stati saldamente conficcati sul fondo dei pali di legno appuntiti: i nemici, che lo avrebbero attraversato per aggredire la cinta della città, cadendo nella trappola, con il loro peso sarebbero sprofondati nel fossato e sarebbero stati trafitti dai pali acuminati.

A fianco della porta di accesso alla “cittadella” furono costruite altre due torri, mentre, sullo strapiombo roccioso di circa cinquanta metri, difesa naturale a sud-est della città, furono collocati cinque argani, cui venne assicurata una piattaforma, capace di sopportare un carico considerevole. Questi macchinari dovevano servire, in caso di lungo assedio alla città, a rifornire di viveri gli abitanti od anche a farli fuggire se essa fosse stata espugnata.

Le piattaforme erano custodite in una adiacente grotta naturale, opportunamente mimetizzata. Sul posto montavano la guardia, giorno e notte, alcune sentinelle. Poco più in giù della caverna nascosta, dalla parete rocciosa si dipartiva un vallo, formato da robusti tronchi di albero, che si congiungeva, racchiudendo un’area in pendio, con il basamento di Pizzo Acqua Fredda, nei cui pressi sorgeva il cimitero della collettività. La palizzata, analoga a quella costruita dal lato nord, all’ingresso, era regolarmente controllata da sentinelle. Fu, questa, una precauzione ulteriore giacché vi giungeva un sentiero, che intersecava la regia trazzera. La mulattiera, dopo aver attraversato un fitto bosco, perveniva alla contrada di Murrupò, prima, per poi proseguire verso il Pianoro delle Rose, Castelmylè ed altre contrade.

Sulle torri frontali erano posizionate alcune baliste per il lancio multiplo di frecce. Un po’ più giù dell’apice delle mura della “cittadella” erano state fissate spranghe di ferro di tre metri, rivolte verso l’esterno e saldate, nella parte finale, con un’altra sbarra, in modo da impedire agli assalitori, che sarebbero riusciti ad arrivare in cima alle scale a pioli, appoggiate alla parte esterna dell’inferriata, di saltare sugli spalti e penetrare, quindi, nella fortezza: in pratica, una barriera di ferro, distante un paio di metri dagli spalti, che avrebbe consentito, tra l’altro, di rovesciare, con una pertica, le scale su cui gli aggressori si sarebbero arrampicati.

L’addestramento dei soldati al corpo a corpo con la spada ed all’uso dell’arco era frequente mentre i cittadini, che costituivano la guardia civile, si esercitavano settimanalmente all’uso delle armi. Federico De Palmis, in persona, quasi giornalmente controllava le postazioni militari e le esercitazioni. Gli uomini erano preparati a sostenere l’attacco, dato per scontato, da parte dei musulmani.










III


Frequentando il palazzo del Governatore, Federico ebbe modo di conoscere una giovane donna. S’incontrarono, la prima volta, percorrendo il corridoio che portava alla sala delle udienze. Le lunghe vesti della ragazza coprivano le sue linee sinuose e già pronte all’amore, lo sguardo profondo, tipico delle donne orientali, colpiva in maniera carezzevole chi s’indugiava ad ammirarne la bellezza; le labbra, dischiudendosi ad un sorriso dolcissimo, suscitavano invitanti scambi di baci sfiorati. Quello splendore si chiamava Bianca Maria ed era la figlia del Governatore. La sua bellezza eguagliava quella della madre, Hirene, ma era accentuata dalla freschezza del volto.

Per festeggiare il ventunesimo anno della figlia, i genitori diedero un sontuoso ricevimento a palazzo invitando i nobili ed i maggiorenti della città. Il conte Federico De Palmis era tra questi. Bianca, malgrado corteggiata dai molti giovani, fu attratta maggiormente dal fascino che emanava da Federico. I due danzarono insieme parecchie volte e, finita la festa, s’intrattennero a conversare sino a notte inoltrata nei giardini del palazzo, che, per l’occasione, erano illuminati con lumini ad olio disposti ai lati dei vialetti.

- E’ la prima volta che i miei genitori mi permettono di stare alzata sino a notte avanzata – disse Bianca – e soprattutto di conversare da sola con un uomo.

- Questa notte – proseguì Federico- ho avuto il privilegio ed ho conosciuto il vero piacere di stare accanto ad una bellissima donna mentre tutt’intorno rivive il mondo delle favole: l’odore, che emana dai gelsomini e dalle rose, si armonizza con i suoni che aleggiano intorno a noi: lo zampillio dell’acqua nella fontana e gli altri che, da lontano, si accavallano nella notte.

- In effetti, è incantevole ciò che ci circonda e le sensazioni che si provano sono deliziose. Sono stata in diversi posti – rispose la fanciulla - in quanto mio padre, come ufficiale dell’imperatore di Bisanzio, era spesso trasferito, ma mai ho avuto la possibilità di trascorrere dei momenti così belli ed indimenticabili. Ascoltarti è veramente piacevole, sapere della tua vita sarebbe per me un onore; se vuoi, quindi, parlami di te, Federico.

- Provo un certo imbarazzo a narrarti di me. Ma visto che ne hai piacere- disse di rimando il giovane ufficiale-, lo faccio ben volentieri. D’altronde, c’è ben poco da narrare. Uscito dalla Scuola di Guerra, a Bisanzio, per qualche anno fui assegnato alla guardia dell’Imperatore Leone ed ebbi modo di frequentare la corte della coppia imperiale: era un ambiente frivolo e dedito ai piaceri dei sensi, niente che potesse soddisfare lo spirito. Fui poi trasferito al seguito delle legioni per combattere i turchi ai confini sud orientali dell’Asia Minore. Mi trovavo a Creta quando fui raggiunto dalla notizia della morte di mio padre; chiesi di rientrare in patria e di essere destinato alla guarnigione bizantina di Demenna. E qui ho avuto la fortuna di conoscere te.

Nei giorni successivi s’incontrarono spesso.

- Io ti ho raccontato di me – esclamò un giorno Federico –ma, di te, Bianca, so ben poco o quasi niente…

- Da qualche anno mi trovo qui, a Demenna, dopo essere vissuta prima a Bisanzio, poi ad Atene, in seguito a Ravenna ed a Cosenza; da quest’ultima città sono finita in Sicilia, seguendo mio padre, il quale quando pervenne al grado di Generale ed essendo bene introdotto a Corte, fu nominato Governatore di questa città. Ho potuto farmi una mia cultura attraverso maestri di varie discipline letterarie, ai quali mio padre mi ha affidato.

- Tua madre racconta di essere discendente da Taide – proseguì Federico-. Tu sei a conoscenza di ciò? Chi era quella donna?

- Il ramo materno di mia madre, una nobile casata orientale, discende da uno dei figli di Taide. Si tramanda in famiglia che, quando la città natale della lontana antenata, Krastos, sui monti Sicani, venne conquistata - incominciò a raccontare Bianca - essa venne fatta schiava da un soldato greco, che la vendette ad un ricco personaggio di Corinto. Lì, ebbe modo di erudirsi per potere accedere agli ambienti più elevati di quella società; conobbe molti uomini illustri; divenne un’etera. Da Corinto spiccò il salto verso Atene, la fascinosa culla della civiltà ellenistica e della cultura classica.

-Era bellissima e colta – proseguì Bianca - ed era ricercata quale ospite brillante nei salotti bene della città. Era ammirata e corteggiata da Demostene, Socrate, da Euripide e persino da Apelle, il quale, per le sue opere d’arte, si ispirò anche a quell’incantevole donna. A quei tempi, in Oriente, il titolo di etera per una donna come Taide o Frine, o come Aspasia che fu legata a Pericle, era più importante di un titolo nobiliare.

- Cosa le capitò, ad Atene?, interruppe Federico

- Fu introdotta alla corte di Alessandro Magno, il quale se ne invaghì – soggiunse Bianca - e la volle al suo seguito, come facente parte dello Stato Maggiore; quel grande conquistatore ricambiò l’amore che lei gli donava. Divennero amanti. Taide, dopo averlo conquistato oltre che nel corpo anche nello spirito, convinse il condottiero a distruggere Persepoli per vendicare Atene, che era stata incendiata dai Persiani. Ella, infatti, aveva adottato la città-faro della cultura ellenica quale sua nuova patria, che amava al pari di quella nativa. Durante l’attacco a Persepoli, la donna scese in campo personalmente per incitare lo stato maggiore ellenico a distruggere la città e massacrare i suoi abitanti, i quali, infatti, furono tutti trucidati.

- E, dopo l’improvvisa morte di Alessandro, il quale, come tutti sanno, ne fu stroncato in giovane età, – interruppe Federico - che sorte ha avuto Taide?

- Dopo la scomparsa del grande monarca, avvenuta nel 323 a.C., - proseguì la giovane - l’impareggiabile cortigiana si unì a Tolomeo Sotere, uno dei generali di Alessandro, divenuto re d’Egitto nella spartizione, tra i diadochi, del vasto impero macedone. Da Tolomeo I, fondatore della dinastia reale egiziana dei Soteri, Taide ebbe tre figli. Uno di questi, Lagos, fu il capostipite della Casata, cui appartiene mia madre.

- Taide, quindi, assurse al rango di regina?- la interruppe Federico.

- No. L’ambiziosa donna non divenne regina d’Egitto, ma i suoi figli – affermò la nobildonna - ebbero titoli nobiliari e ricoprirono posti di rilievo nell’amministrazione del loro paese. Fu una signora discussa, moralmente condannata, ma lasciò il suo nome legato, in maniera indelebile, alla memoria dei secoli. Commediografi, scrittori, artisti e poeti la ricordarono, non importa come e se in bene o in male: la leggenda le ha riservato un posticino nel divenire dei millenni; e non è cosa da poco e di molti.

- Non ero a conoscenza di questa storia – esclamò l’uomo-, malgrado abbia studiato, a Bisanzio, le vicende storiche dell’oriente. Credevo che quanto tua madre asserisce fosse una sua invenzione.

- Non è un’esagerazione della verità, o una vanteria. Anche se sono trascorsi alcuni secoli, - dichiarò Bianca- noi, mia madre e più modestamente io, vogliamo rendere giustizia alla memoria della nostra ava. Taide fu strappata alla nativa Krastos. La quale, voglio rammentare, trovandosi nella parte sud-occidentale della Sicilia, fu in guerra contro gli eserciti di Agrigento e di Gela, e venne distrutta nell’anno 405 a.C. La donna, come prima ho detto, giunta ad Atene, allora luminosa, per dottrina e per civiltà, voleva riscattarsi come schiava, essendo nata libera, e fare fortuna: s’impegnò, quindi, ad acquisire un certo livello culturale con l’ intento di raggiungere una gratificante posizione sociale. La sua intelligenza, la superba bellezza e l’irresistibile suo fascino glielo consentirono e fecero dell’illustre etera quasi una regina: fu amata, infatti, da due re.

Dopo una breve pausa, Bianca proseguì:

- A questo punto, visto che mi hai chiesto di raccontarti di questa mia lontana antenata- concluse Bianca – devo fare una considerazione. A distanza di oltre mille anni, una donna orientale di nome Hirene, di rango principesco, è approdata, quasi al pari livello di una “vice imperatrice”, nella medesima regione dove nacque Taide. In mia madre,- remota discendente del principe Lagos, nel quale ovviamente scorreva anche sangue siciliano - e, perché no, di conseguenza pure in me, esiste una componente dello stesso sangue di Taide. Un capriccio del destino: torna nella sua terra, quindi, attraverso noi due, il sangue di colei che è stata ricordata, in prosa ed in poesia, come donna di facili costumi. Le prostitute non vengono amate in pubblico dai re; da Taide, invece, nacquero principi e principesse. Essa venne restituita, con tale sua condizione sociale, al rango nel quale era nata, quello di donna libera. Che, ripeto, fu schiavizzata dai greci che occuparono l’antica Krastos.






IV


In una notte afosa di luglio, illuminata dalla luna piena, Federico eseguiva il suo turno alla postazione dei soldati di guardia al Palazzo Governativo. Bianca Maria, non riuscendo a dormire, scese al piano terra e si diresse verso il corpo di guardia; sconoscendo il regolamento militare, chiese a Federico se poteva accompagnarla per una passeggiata.

L’ufficiale rimase per qualche attimo titubante e cercò di spiegarle che era vietato allontanarsi dal posto di servizio; ma la ragazza insistette ed egli cedette al suo fascino. Passò le consegne del comando al suo subalterno, comunicandogli che avrebbe fatto, senza scorta, un giro d’ispezione ed un controllo delle sentinelle; avviandosi, offrì il braccio alla donna per uscire all’esterno.

Arrivarono sino alla palizzata ed alle mura di cinta della città, salirono sugli spalti facendosi riconoscere ogni volta dagli uomini di guardia; ridiscesero e si diressero verso la torre, posta sulla vetta del monte sopra la città, vi s’inerpicarono lungo le scale a chiocciola sino a raggiungere, in cima, la cinta merlata.

Per meglio ammirare il panorama tutt’intorno e per mettersi al riparo dagli sguardi indiscreti delle sentinelle, entrambi s’introdussero nella garitta centrale, sopraelevata di due metri rispetto alla piattaforma della torre, e si affacciarono dal terrazzino, posto in cima.

La luna piena, sopra il Pizzo di Muely, e il rutilante Marte al suo fianco erano i fari accesi su quel palcoscenico naturale. La luce perlacea del firmamento penetrava sin nel profondo dei loro sensi. Laggiù, ad oriente, si staccava nell’aria un pennacchio di luce rossastra: era l’Etna, mai dormiente, il cui brontolio, in quell’assoluto silenzio, giungeva sino alle loro orecchie. Il riverbero di cascate d’acqua, lontane, perveniva col sussurrio, appena percettibile, dei numerosi ruscelli. Da lassù, i due esseri si sentivano sospesi nel vuoto dell’oblio ed i loro animi si aprivano al richiamo d’amore.

- Non è certamente quest’incanto- proruppe Federico - che m’induce a dirti ciò che è andato maturando, in questi giorni, dentro di me, ma è l’intensità di un sentimento genuino, che vuole manifestarsi interamente a chi n’è l’ispiratrice. La magia della parola “t’amo” ti giunga accompagnata da questi canti notturni. Proprio così, Bianca, io ti amo.

Così dicendo, le prese la mano per stringerla tra le sue.

- Anch’io, Federico, ho attraversato notti insonni e giorni col pensiero rivolto a te. Se non fossi stata certa del mio sentimento d’amore, non t’avrei invitato ad accompagnarmi in questa passeggiata notturna.

- So cosa rischio nell’avere abbandonato il corpo di guardia, ma solo un sentimento forte poteva indurmi a quest’atto, che, militarmente, è da definirsi irresponsabile. Bianca, io ti voglio come moglie e compagna della mia vita.

Il giovane poggiò la mano della fanciulla sul suo cuore per farle ascoltare i battiti impazziti, dopo di che le cinse la vita con le braccia e l’attirò al suo corpo. Lo sguardo di entrambi si tuffava in quel reciproco agitarsi di un sano e carezzevole sentimento, che s’innalzò a contatto sublime nel fuggevole sfiorarsi delle labbra: esse sigillarono, un istante dopo, una promessa d’unione eterna. Bianca si sciolse tra le braccia di Federico in quel suo primo bacio d’amore, cui ne seguì un altro, più intenso, più travolgente, ed un altro ancora, più tenero.

Si videro spesso in quei giorni e di frequente uscirono a fare delle escursioni a cavallo nei dintorni.

Si frequentarono per alcuni mesi. Federico decise, indi, che era giunto il momento di presentarsi al Palazzo per essere ricevuto dal Governatore e dalla moglie con un preciso intento: chiedere la mano della loro figliola. Sei mesi dopo erano marito e moglie.

Le nozze furono celebrate dal Vescovo di Demenna, Manuele, assistito da Epifanio, Egumeno del Monastero di Muely, che tenne un ispirato panegirico; i nobili della città e di quelle vicine, gli Abati dei Monasteri bizantini circostanti, nonché i proprietari dei castelli e dei casali, vennero invitati ai festeggiamenti.

I cittadini di Demenna brindarono agli sposi nella piazza della città, laddove per loro erano state imbandite delle tavolate con carni arrostite di diverse specie di animali, con dolciumi e vino locali.

Trascorsero la loro luna di miele presso il Castello di Federico, ma furono anche ospiti, per un paio di giorni, del nobile musulmano Aghlabita, lo sceicco Ammàn. Il quale era Signore delle terre annesse al Casale, che fulgeva al Pianoro delle Rose per le sue mura bianco avorio, innalzate sul naturale terrazzo che si affaccia sul sottostante fiume Mylè.

Ammàn, quale regalo di nozze, donò agli sposi una coppia di cavalli arabi: il maschio, di un anno, per Federico; la femmina per Bianca. Quello di Federico era un superbo esemplare con il mantello nero, figlio di un purosangue appartenuto al capo di una tribù, più volte vincitore di corse lungo la pista che circondava l’accampamento beduino, nei pressi di un’oasi del deserto africano. Quel cavallo e, successivamente, il puledro, nato dall’accoppiamento con la femmina donata a Bianca, accompagnarono Federico durante le battaglie e le cavalcate con la moglie.

A Castelmylè si deliziarono andando a visitare i possedimenti: le masserie ed i campi coltivati, i boschi di loro proprietà percorrendone gioiosamente i sentieri.

Spesso, di giorno, salivano in cima al mastio per ammirare il paesaggio che dal fiume Mylè, ai piedi del castello, si snodava verso la “pietra grande” ed ascendeva alla collina montuosa. Sotto il vessillo della casata, Federico indicava alla moglie alcuni particolari del castello che ne potenziavano la difesa: “Le mura verticali – le spiegava – vennero rese più stabili attraverso protezioni di sostegno a scarpa, chiamate “barbacane”; in caso di assalto al castello, i torrioni, ai lati della fortificazione, venivano utilizzati per il lancio delle pietre e dell’olio bollente, nonchè per le balestre di precisione”.

Indicò, inoltre, a Bianca l’accesso nascosto e segreto alla galleria sotterranea, che congiungeva il castello con l’esterno, fuori le mura, ove si presentasse la necessità di fuggire per mettersi in salvo. La informò che se la vedetta sulla torre principale dava l’allarme per l’avvicinarsi sospetto di uomini armati, la gente del contado era autorizzata a rifugiarsi nel maniero; ma, principalmente, gli abitanti del borgo ai piedi della fortezza, oltre il fiume, avevano riservate le stanza perimetrali del castello.

- Costoro sono i fedelissimi della nostra famiglia - diceva Federico-, i quali lavorano, trattenendo per loro i tre quarti del reddito, le terre più prossime alle loro abitazioni; in caso di necessità, si trasformano in guardie del corpo a nostra difesa. Questa loro condizione, diciamo di privilegio, venne a realizzarsi, più o meno, trecento anni addietro, quando un mio antenato, Pietro, per garantirsi la loro fedeltà, costruì e donò la casa, dove ora abitano, in usufrutto perpetuo sin tanto che i membri della famiglia avrebbero assicurato i propri servigi ai De Palmis. La concessione è ancora in vigore ed io intendo rispettarla. Chiunque della nostra famiglia volesse rimangiarsi il patto d’onore con quelle persone commetterebbe un’azione riprovevole, che si potrebbe ritorcere contro di noi.

Il nome di Mylè al borgo– continuò Federico – venne dato in quanto nei pressi del fiume, in mezzo ad alberi boschivi, c’era ed esiste ancora un mulino per la macina del grano, che è di nostra proprietà. Infatti, il toponimo deriva dal greco “mylè”, che vuol dire “mola, macina”.

- Questa obbligazione nei confronti di contadini è un gesto – interruppe Bianca – che dimostra la nobiltà d’animo del tuo antenato e fa onore ai membri della tua casata, che, nei decenni, l’hanno voluta rispettare.

- La donazione – proseguì il marito - trasse origine, però, da un avvenimento sanguinoso. Era il periodo in cui gli arabi cominciarono a sbarcare sulle coste della Sicilia con incursioni piratesche. All’incirca tre secoli addietro. Essi, allora, venivano respinti dalle truppe bizantine, ma talvolta avevano il tempo di saccheggiare il territorio procurandosi bottino e prigionieri. Avvenne che una schiera di musulmani di duecento armati, comandati da un certo Habib, si sganciò dalla spedizione disertando. Si addentrò all’interno della Sicilia depredando i contadini nelle campagne ed assalendo i casali isolati. Arrivarono fin sotto le mura di questo castello.

- Come mai non vennero fermati dai soldati regolari? – lo interruppe la moglie.

- I bizantini che li inseguivano non poterono intercettarli perché essi si spostavano velocemente e sapevano ben mimetizzarsi nei boschi. Il conte Pietro – continuò Federico – riuscì ad inviare un messaggero alla piazzaforte di Demenna chiedendo l’invio delle truppe. I predoni, nel frattempo, avendo constatato che il castello era, ed è, imprendibile da tre lati, tentarono di penetrarvi dalla porta principale. Nel buio della notte, due di essi, vestiti di nero, arrampicandosi su un tronco d’albero, divelto dal bosco intorno ed appoggiato, in diagonale, alle mura del castello, riuscirono a penetrare al suo interno.

- Perchè le guardie non si accorsero dei loro movimenti? – obiettò Bianca

- Era una notte troppo buia e, peraltro, fredda per cui le sentinelle erano rintanate nelle loro guardiole. A piedi nudi, - proseguì il conte - riuscirono a guadagnare la porta d’ingresso ed aggredirono alle spalle le guardie, pugnalandole. I musulmani in attesa fuori, acquattati per terra, irruppero nel cortile non appena venne aperto il varco. La guarnigione fece appena in tempo a prendere le armi per difendersi, mentre un manipolo di fedelissimi riuscì a far rifugiare il conte Pietro e la sua famiglia presso il mastio. Nel trambusto, però, la figlia minore, Stella, in preda al terrore, si mise a correre lungo l’angusto camminamento della torre, perse l’equilibrio e precipitò fino ai piedi della roccia, su cui sorge il castello.

- E’ agghiacciante ciò che è successo, Federico, - disse Bianca-. Mi sento profondamente sconvolta.

- E’ certamente ancora più orrendo il fatto accaduto dacché tutti gli occupanti vennero trucidati. I miei antenati, asserragliati nel ben munito torrione, si salvarono perché l’indomani, all’alba, i soldati di Demenna irruppero nel castello passando per le armi i predoni. Fu in occasione di quell’evento che il conte Pietro assegnò alla sua “guardia personale” i terreni e le case del borgo Mylè.

- Si trovò il corpo di Stella? -chiese Bianca-.

- Si, a pezzi.- rispose Federico – Ma, ogni anno, nella notte dell’eccidio, un’ombra vestita di bianco si aggira sui camminamenti del bastione. Un fantasma buono, che, prima di svanire, si arrampica sul pennone del mastio e, salutando, s’invola verso il cielo.

- Questo luttuoso avvenimento è una grande tragedia. Povera Stella, tenero fiore che si affacciava alla vita...Quanto saranno stati strazianti, per lei, quegli attimi che la separarono dall’impatto contro le rocce qua sotto. Hai mai visto il suo fantasma, Federico?

- Si, qualche volta – rispose l’uomo-. Nella chiesa del castello c’è una colonna bianca “mozzata”, ai cui piedi arde sempre una fiammella, dedicata alla nostra piccola antenata, vittima dei predoni saraceni. La finestrella tra i due merli della torre, da cui precipitò, venne denominata “porta del Paradiso” perché certamente Stella, che aveva appena dieci anni, sarà salita in quel luogo santo.

Bianca si rifugiò tra le braccia del suo uomo, quasi a cercare protezione dai “mali di quel mondo...”

- Si racconta, inoltre, una storiella – continuò a narrare il conte -. Di tanto in tanto, nella notte inoltrata, al centro del cortile, si dice che si muova una lucerna; non appena la sentinella di guardia vi si avvicina la luce scompare. Si tramanda ancora che, sempre di notte, e più di una volta, alcuni abitanti del castello abbiano avvistato, singolarmente però, in un angolo del cortile, una botola accanto alla quale c’era uno gnomo incappucciato, vestito di rosso. Vincendo la paura, i più coraggiosi si sono avvicinati: ma, a pochi metri di distanza dal folletto, torna l'ombra buia. L’omino viene chiamato “scavuzzo”, cioè schiavetto messo a guardia del tesoro nascosto. Catturandolo, si troverebbe anche il tesoro. Mai nessuno, però, ha raccontato di averlo acciuffato. Fantasie? Potrebbe anche darsi. Ma, nelle leggende e nelle storie tramandate, in fondo in fondo esiste una qualche verità.

- Potrebbero essere eventi soprannaturali, che però hanno un loro fascino – esclamò Bianca – nel momento in cui il misterioso, la paura ed il rischio dell’avventura si intrecciano e, forse, ci fanno desiderare inconsciamente di esserne protagonisti...

- In questo episodio che ho narrato, - riprese il marito - potrebbe anche darsi che ci sia una qualche verità. Che un mio antenato, per sfuggire a qualche pericolo incombente, abbia nascosto i suoi averi in un certo posto. E che, per qualche fatto accadutogli, non sia stato nelle condizioni di recuperare i suoi beni preziosi. Da questo avvenimento, bada bene, ipotetico,la fantasia popolare, dal momento in cui il tesoro non si è trovato,si è sbizzarrita nel racconto…tramandato, poi, a noi posteri.

L’ultima sera di permanenza al castello vollero salire sulla torre per assaporare la bellezza della notte in quell’angolo della loro terra. Udito nelle notti precedenti, taceva, in quella, lo zufolo di canna del bovaro; egli aveva già goduto dell’amplesso del fondale della natura. Ma, nei loro nidi, gli uccelletti ancora implumi erano desti : pigolavano attendendo l’alba. Nascosti nel canneto presso il greto del Mylè, ranocchie in amore e grilli insonni debuttavano in coro. Dalla non lontana masseria giungeva il belare degli agnellini che, giocherellando con i vitellini da latte, si nascondevano sotto il ventre lanuto della madre. Ad intervalli, un cane a guardia della mandria, insospettito da un rumore sconosciuto, emetteva qualche latrato: e si svegliavano, protestando alla loro maniera, la mucca e l’asina. Era la “prima” di una meravigliosa sinfonia per le orecchie dei due giovani: lontani, infatti, dalla quotidianità dei momenti di vita, i loro animi erano inondati dal continuo idillio di quei giorni felici.

Bianca e Federico vollero festeggiare il primo mese delle nozze. Invitarono, pertanto, ad un ballo notturno nel loro castello, amici e nobili dei dintorni. Il grande salone aveva le pareti, dove erano le porte d'ingresso, affrescate e quelle laterali coperte da arazzi importati dai mercati di Bisanzio; uno di questi, però, che raffigurava Alessandro e Taide portati in trionfo dopo la distruzione di Persepoli, proveniva dal palazzo dei genitori di Bianca essendole stato regalato dalla madre; il pavimento, in legno, era coperto da tappeti lavorati.

La sala venne inondata dalle note dei musici di Demenna. Aleggiava nell’aria spensieratezza giovanile ed allegria. Dopo la mezzanotte, irruppero al centro della sala alcune ballerine orientali. Una sensuale danzatrice si scatenò nella danza del ventre e, subito dopo, altre si esibirono in un coinvolgente spettacolo: languidi movimenti dei corpi si alternavano a ritmi incalzanti, a scene d’amore mimate. Furono momenti di esaltazione della bellezza fisica di giovani donne orientali, offerti, per la prima volta, al godimento di quelle persone, da uno sceicco musulmano. Infatti, il gruppo di artiste fu fatto venire, da Ammàn, appositamente da Balarm; lo sceicco si era rivolto al suo congiunto, l’Emiro Ahmen Ibn, per fare una sorpresa al suo amico Federico.

Se la realtà non fosse stata diversa, sembrava di trovarsi in una civiltà, nuova, che faceva convivere i diversi usi e costumi di popoli differenti: l’integralismo islamico, che si concedeva al piacere dei sensi, per conquistare la rigidità dei valori cristiani. Le ballerine, nel seguito della notte, si esibirono altre volte alternandosi con giocolieri, menestrelli e comici. Nell’allietare gli ospiti, costoro avevano il compito, con le loro esibizioni, di interrompere la fatica degli ospiti trascinati dal vortice delle danze: tant’è che la festa proseguì sino al primo chiarore del giorno.

Una gara di ballo, tra le giovani coppie, organizzata dall’inesauribile Ammàn, - dopo che una tavolata imbandita di pietanze deliziose, dolcetti e vino locale fu ripulita dagli astanti – vide vincitrice l’incantevole Magdala, figlia di Benedetto Ferraris, che si cimentò nelle danze in coppia con l’Aiutante di Campo di Federico, il prestante Ufficiale Costantino Faber.

La notte precedente, il solito sceicco Ammàn, si era presentato alla porta dei suoi fraterni amici, a Castelmylè, insieme agli artisti, che erano già giunti da Balarm. La sua bussata notturna seguiva la deliziosa voce di un menestrello, che emetteva canti d’amore, accompagnato da una lira e da un liuto. Era, quella, una serenata agli sposi, che diffondeva la sua eco nella vallata, rischiarata da una giuliva luna piena.

Il dono dei purosangue arabi agli sposi, la musica, i canti, lo spettacolo, offerti da Ammàn, erano i segni tangibili di un’autentica amicizia, che, nel tempo, sarebbe rimasta tale; anzi, si sarebbe accresciuta. L’ironia della vita univa con un sincero affetto e con reciproca stima due famiglie, una musulmana ed una cristiana, mentre le rispettive opposte civiltà si odiavano e si affrontavano in lotte sanguinarie.

Lo sceicco Amman invitò, inoltre, i due giovani sposi a trascorrere un piacevole soggiorno a Balarm, presso una sua abitazione nel rione del Kasr. Il nobile arabo aveva una sola moglie, della quale era innamoratissimo; assieme a lei accompagnò gli amici nella capitale facendo loro da guida nei luoghi più belli della città.

Il soggiorno fu reso piacevole con escursioni ai parchi, dove, oltre ad ammirare le varie specie arboree e gli alberi da frutto, si dedicarono alla caccia della selvaggina; ma anche le gite al fiume 'Abbâs si mostrarono interessanti poiché, essendo l’alveo del corso d'acqua prevalentemente a regime torrentizio, vi erano alcuni mulini ad acqua a ruota verticale, con macine per la molitura dei cereali, ed ebbero modo di vederne il funzionamento. Assistettero alla macinazione del grano che, schiacciato fra due mole, movimentate dalla forza dell'acqua, usciva come farina, più fine o più grossolana in rapporto alla distanza fra i due massi enormi. Ma si fermarono anche a pescare i pesci che affioravano a livello d’acqua, tra cui la trote ed il persico. Amman riuscì a farsi accompagnare, da conoscitori dei luoghi, per scendere nei Qanat, strette gallerie sotterranee scavate dai muqanni, “maestri d’acqua”, le quali rappresentavano un'eccezionale opera di "ingegneria idraulica"; in pratica, dei cunicoli intercettavano la falda acquifera e, tramite la gravità e una leggera pendenza, trasportavano l’acqua in superficie per usi irrigui e potabili. Gli ingegneri arabi ebbero una cultura dell’acqua, che sfruttarono per gli usi più diversi. Federico osservava attentamente tutto ciò che potesse servire per essere applicato al suo territorio; memorizzava, pertanto, le spiegazioni che gli venivano fornite, fotografando nella sua memoria strumenti e “macchine” che vedeva in funzione. L’emiro mise a disposizione degli ospiti il grosso battello personale per una mini-crociera lungo la riviera, territorio dell’emirato. Le due famiglie, quella di Federico e quella di Amman, ne approfittarono per raggiungere, via acqua, - dopo aver fatto avvisare la guarnigione - la fortezza del Castello a Mare, laddove trascorsero una intera giornata e riuscirono anche a pescare del pesce che cucinarono sul posto. La rocca da tre lati era circondata dal mare e dotata di un sistema difensivo prospiciente il porto, con un grande maschio sul cui basamento era stata scolpita un'epigrafe. C’erano gli alloggiamenti per l’emiro, gli ufficiali arabi e i soldati della guarnigione, ma c’erano anche piccoli luridi buchi sotterranei dove a stento entrava un uomo, che erano le prigioni del Castello. Aderente allo stesso, gli arabi costruirono una moschea in onore di Maometto.

Dormirono a Castello a Mare per salpare, a notte fonda, verso Gafludi, già annessa all’emirato balarmense, dove giunsero alle prime luci dell’alba.. Si presentò alla loro vista, la "fortezza fabbricata sopra gli scogli", come la descrive Edrisi, le cui mura, integrate da torrette, si incastravano direttamente sulla scogliera. I primi raggi del sole, di quella mattina, illuminavano la baia e quella terra, che era stata punto d’incontro commerciale e culturale di popoli diversi. Scesi sulla terraferma, ammirarono la bellezza del balcone naturale che si affaccia sulla insenatura, dove da poco erano attraccate le barche dei pescatori con il pesce freschissimo della notte.

La fine sabbia dorata della spiaggia li accolse festosamente e vollero bagnarsi nella tiepida acqua marina del primo mattino. Poi, percorsero a piedi le vie strette che conducevano su verso la montagna, sino al Tempio di Diana sulla Rocca e le mura megalitiche, per dopo discendere a visitare il “lavatoio”, un capolavoro di ingegneria idraulica. Dalle sue bocche, infatti, lungo le pareti, sgorgava una grande quantità d'acqua proveniente dall'antico fiume Cefalino, che, nascendo dalle montagne madonite, giungeva a Gafludi attraverso un percorso sotterraneo.

La sera furono ospiti dell’hàkim Hosein. Il quale, avendo saputo che lo sceicco Amman era il cognato dell’emiro, suo signore, in onore della coppia principesca, imbandì, sulla spiaggia illuminata da lucerne ad olio, una tavolata con una varietà di pesce appositamente pescato nel pomeriggio e cucinato sulla brace. La festa notturna, accompagnata, tra l’altro, dalla luna piena, fu allietata da un gruppo di cantori e musici locali, L’indomani, a mezzogiorno, salutati dai notabili della città, gli ospiti salparono per la capitale, dove, dopo qualche giorno, furono invitati a visitare la cittadella dell’emiro.

Bianca e Federico rimasero affascinati dalle bellezze della residenza fortificata, all’interno di Al Halisah, dell’emiro Ahmen Ibn, fratello della moglie di Amman. Le stanze del maniero erano ricche di tesori d’arte, importati da paesi orientali, di tappeti e di mobili, opera di artigiani musulmani. Intorno, giardini pensili con fiori d’ogni specie, dai gelsomini alle rose, dagli hibiscus agli oleandri, si accompagnavano a zampilli di fontanelle e canti di uccelli nelle voliere, alcuni esotici di rara bellezza. La “reggia “ dell'emiro si trovava al centro di un genoard, un vero anticipo di “paradiso in terra”, che era stato progettato da architetti, ingegneri idraulici e giardinieri specializzati: era un intreccio di giochi d'acqua, profumi naturali e diversità di colori, che emanavano da fiori, piante, arbusti sempreverdi, tra cui cycas e magnolie; lungo i viali, cosparsi di ciottoli variopinti, sorgevano cipressi, simboli, secondo il Corano, dell'eternità e della bellezza femminile; ai loro bordi si alternavano piante di mirto e di bossi; accanto al giardino, erano stati impiantati alberi di limoni e di arance, sconosciuti ai siqiliahni, provenienti dai luoghi di origine dei musulmani.

All’interno della cittadella, sorgevano, inoltre, la moschea e le terme, luoghi dove l’emiro e la nobiltà araba s’intrattenevano per pregare Dio e, nel contempo, per sollazzarsi e purificare lo spirito ed il corpo.

L’incanto di tanto splendore e la sontuosità del sito, dove l’emiro amministrava il potere e la giustizia, ma amava trascorrere con la sua corte le giornate al riparo della calda estate Isqiliahna, furono coinvolgenti per l’arricchimento culturale dei due nobili siqiliahni.

L’amico Amman, qualche giorno prima del rientro a Damànnas, fece invitare, da suo cognato, i due sposini al banchetto di una festa araba, alla quale parteciparono quali notabili senza alcun riferimento preciso alla loro provenienza poiché l’emiro sapeva che Damànnas era una città che non voleva sottomettersi al dominio arabo in quanto cristiana e sotto la protezione bizantina.

Nel salone della cena erano disseminati cuscini, finemente ricamati, attorno anche ai vari tavoli per la mensa, oggetti d’oro e d’argento, tappeti iraniani che coprivano l’impiantito e, per illuminare l’ambiente, parecchi candelabri di pregio erano sparsi qua e là. Tende di seta – forse proveniente dal territorio circostante Damànnas, laddove si allevava il baco per la produzione della stessa- erano appese alle finestre e coprivano la vista sui colonnati che si affacciavano su un laghetto , nel mezzo del genoard, che circondava il palazzo di Ahmen Ibn.

Prima di accomodarsi sui cuscini per l’inizio del banchetto, i giovani siqiliahni vennero presentati, dallo sceicco Amman, all’emiro ed alla sua prima moglie, nonché ad alcuni principi e generali musulmani. Tra questi, il generale Giafar col quale Federico, in battaglia, incrocerà la propria lama ed il principe Ibraim; con quest’ultimo sarà protagonista del duello finale nell’epica “battaglia di Demenna”. L’incontro fu deferente, ma non cordiale: inconsciamente, attorno ad essi aleggiava già l’aria di un ostile rapporto.

Stava per accadere uno spiacevole incidente, bloccato immediatamente dallo sceicco Amman. Bianca fu oggetto di ostentata ammirazione per la sua bellezza, da parte di tutti, ma di sfacciati complimenti allusivi ad una frequentazione di una più intima amicizia, da parte di un maturo dignitario, tronfio dell’arroganza del conquistatore. Federico riuscì a frenarsi, ma Amman redarguì il saraceno con toni duri e lo invitò ad un contegno più confacente e rispettoso degli ospiti. L’emiro, che seguiva a distanza la scena, intervenne per sedare gli animi e, nel contempo, per scusarsi con la nobildonna.

L’inizio della musica e l’invito a lavarsi le mani ed a servirsi il tè, prima della cena, restituirono il clima festaiolo alla serata. Le note, emesse dai musici, provenivano da diversi strumenti a corda, tra cui, dal suono dolcissimo, il liuto ed il flauto, nonché da quelli a percussione.

Il menù, vario, con cibi piccanti secondo la tradizione della cucina araba, andò dal couscous iniziale, - preparato da cuochi berberi specializzati a cucinarlo con carne grassa di montone, arricchito di una varietà di ortaggi, di spezie e di ceci – a portate di cacciagione (anatre, lepri, pernici farcite) per continuare con agnello e riso fritti con ortaggi, innaffiati da succo di limone. Alla fine, vennero portati ai tavoli i dolci, di cui gli arabi andavano fieri: le “corna di gazzella”, dolcetti alle mandorle, e il caglio dolce al cucchiaio, che i cuochi arabi, arricchendolo con artistiche decorazioni e armonizzando tra loro sapori diversi, chiamarono cassata. La cucina veniva alimentata dalla legna dei boschi delle Madonie, che spandeva nell'ambiente il suo profumo particolare. I giovani sposi, prima dell’inizio del pasto, vennero informati da Amman che bisognava prendere, dal vassoio collettivo, pezzettini di cibo con tre dita della mano destra perché la sinistra è considerata impura e, per non recare offesa all’anfitrione, occorreva assaggiare tutte le portate

All’improvviso, la musica cessò e, al ritmo di tamburi, irruppero al centro del salone, bellissime ballerine magrebine, con addosso il reggiseno, la gonna ed il velo. Iniziarono a danzare, al ritmo di una musica araba erotizzante, con movimenti sinuosi, raffinati, sensuali. Le danze, con l’alternarsi delle danzatrici, continuarono per un lungo lasso di tempo. Per la prima volta, Bianca e Federico assistevano alla danza del ventre. Che li rapì, assieme agli astanti, sollevandoli dal loro giacere su questa terra.

L’emiro, a conclusione della serata, ringraziò i commensali per essere stati gradevolmente insieme e si congedò da loro con il rituale “sahteyn”. La cena aveva avuto inizio con l’invocazione ad Allah e si concluse col ringraziarLo.

Quella notte, nella loro stanza, i due giovani sposi misero in libertà i loro sensi repressi durante l’eccitante spettacolo delle danze orientali. Ma non fu certamente senza colpe il pasto ricco di spezie con cibi che, per il loro condimento, si trasformarono in strumenti afrodisiaci. Probabilmente fu in quella notte balarmita, di passione e di amore sublime, che concepirono il loro figliolo.

Dopo qualche giorno, rientrarono a Damànnas mentre il loro amico e la moglie s’intrattennero a Balarm, spesso ospiti del loro congiunto. Amman ne approfittò, ovviamente, per condurre in porto alcune questioni riguardanti i propri interessi patrimoniali.



















V


Nella loro città, gli sposi presero alloggio presso un’ala del Palazzo. Dopo nove mesi, Bianca diede alla luce un bambino: lo chiamarono Roberto.

Trascorsa qualche settimana dal rientro del congedo matrimoniale dell’Ufficiale De Palmis, il Governatore lo chiamò per approfondire con lui le vicende politiche, ma non solo quelle, che in quel periodo interessavano i paesi del Mediterraneo. “Tu saprai che gli arabi hanno conquistato gran parte dei territori che gravitano attorno al mare Mediterraneo e che il loro obiettivo sarebbe quello di distruggere l’Impero Romano conquistandone Istambul e vietando la religione cristiana di rito bizantino, nonché cacciando da Roma il Papa con tutto ciò che Egli rappresenta per i cristiani di rito latino. Tu saprai anche – proseguì Macrojanni – che, già da qualche tempo, la spada dell’Islam domina gran parte della Sicilia. Ma è in quella orientale, però, che sono alimentati focolai di resistenza ai musulmani: Demenna ne é divenuta uno dei pochi poli di riferimento, assieme a Rametta ed a Tauromenio”.

- E’, quindi, un privilegio per la nostra città essere considerata un punto di richiamo, non di secondo piano, per combattere l’invasore – interloquì Federico – anche se ciò ci fa diventare, agli occhi dei nostri nemici, obiettivi primari da distruggere.

- Certamente. Laddove é possibile, - continuò il Governatore - i sicilianii, aiutati dalle forze dell’Impero d’Oriente, dai bizantini quindi, resistono all’invasore perché ai “dimmi”, i cittadini delle città vassalle, i musulmani impongono le proprie leggi di schiavitù, di subordinazione incondizionata a loro, di una forte imposizione tributaria, di divieto a praticare pubblicamente la religione cristiana, a portare la spada ed altre armi, di andare a cavallo, di costruire case eguali a quelle dei musulmani, di piangere i propri morti e di altri atti, che, tutti quanti insieme, mortificano la loro esistenza di esseri umani, nonché di discendenti da gloriose ed antiche civiltà.

- Tutto ciò è veramente umiliante e, nel contempo, desolante dal momento in cui non si riesce a ribellarsi a questi oppressori- protestò Federico.

- I fieri siciliani si vogliono opporre a quei feroci saraceni – riprese il nobile Macrojanni - pur sapendo che, se verranno sconfitti, saranno passati per le armi mentre le loro donne, in parte, saranno stuprate e fatte schiave, e, quelle più belle, assieme ai fanciulli, inviate in Africa per divenire oggetto di piacere dei conquistatori.

- E’ una sfida contro temibili avversari – incalzò Federico – che comporta, da parte dei siciliani, un coraggio non da poco conto. Pur sapendo che potrebbero essere passati per le armi, mi è noto che preferiscono sfidare coloro che sono considerati più forti, ma barbaramente crudeli.

- L’orgoglio induce questa popolazione a sfidare la morte – proseguì Macrojanni - anziché vivere soggetti ad un popolo odiato, che li umilia e toglie loro la libertà. I siciliani vogliono continuare a pregare il Dio dei loro padri, Quello dei cristiani, che li ha accompagnati sin dalla loro nascita, Quello dei Martiri, che hanno sacrificato la propria vita per difenderLo.

- Noi siciliani - lo interruppe il genero – siamo profondamente religiosi, crediamo nel Dio dei cristiani e siamo disposti a prendere in mano la nostra spada per difendere la fede che i nostri padri ci hanno trasmessa.

Avviandosi verso la fine del dialogo, il Governatore affermò:

- Per quello che Demenna rappresenta, quindi, per la cristianità, in Sicilia, e per l’Impero - essa è investita di una grande responsabilità. A questa città, essendo l’estremo baluardo dello spirito del cristianesimo, i nostri correligionari guardano con speranza poiché si oppone alla negazione, perseguita dagli islamici, dei principi, religiosi e civili, del singolo individuo di diverso credo. Pertanto, dobbiamo aspettarci che prima o poi, così come è accaduto altre volte, Demenna venga attaccata in forze dall’esercito saraceno.

- Mi rendo conto che essa – intervenne il giovane - , nata come borgo, abitato in gran parte da pastori, oggi è divenuta una grossa città, importante sul piano militare, sociale e religioso, ma direi anche economico. Gli scambi commerciali, infatti, tra cui la vendita di manufatti in seta, che peraltro è venduta anche allo stato grezzo, sono importanti per l'economia della popolazione.

I demenniti, quindi, - concluse il suocero - hanno bisogno un capo militare che li sappia guidare, difendere, organizzare. Ho avuto modo di apprezzare le tue capacità in questo breve periodo, ma ho letto anche le tue note personali, ottime, inviatemi dal Comando Generale di Bisanzio. E’ per questi motivi, non perché sei divenuto mio genero, che ho deciso di conferirti l’incarico, pur avendo il grado di capitano, di Comandante in Capo dell’Esercito; oltre tutto il posto è vacante perché il precedente è stato trasferito da alcuni mesi.

Federico rimase incredibilmente sorpreso della decisione del suocero. Lo ringraziò e corse a comunicare l’evento alla moglie.

A distanza di qualche giorno, di fronte all’esercito schierato nella piazza centrale, ed alla presenza delle autorità militari, civili e religiose, Federico prestò giuramento. “ Ringrazio Sua Eccellenza, il Governatore – iniziò il suo dire – per l’alto onore che mi ha voluto concedere nell’affidarmi il comando delle nostre truppe; spero di esserne degno”. Indi, poggiando la mano destra sul Vangelo: “ Giuro di servire Demenna e di proteggere i suoi abitanti. Che Dio mi sia sempre guida e non mi abbandoni nei momenti più importanti del mio assolvimento del dovere di Comandante. Su questa bandiera e su questi sacri testi io mi impegno a difendere la città ed i valori religiosi, che essa personifica. Con Dio, per Dio e con Demenna”.

Con la spada sguainata, salutò e baciò la bandiera della città e riverì il Governatore, il quale, in nome dell’Imperatore Romano d’Oriente, nel conferirgli il grado di Generale, quale “simbolo del comando”, gli consegnò lo spadino. Questo dono voleva significare il compiacimento imperiale ed il privilegio concesso nell’avere avute riconosciute capacità di comando, di guida e di strategia militare per le quali un soldato veniva chiamato a capo di un esercito o di una legione. Lo spadino, che poteva adoperarsi come un pugnale, aveva il manico cesellato in argento e portava inciso sulla lama lo stemma dell’Impero bizantino.

Ad appena trent'anni, il capitano Federico De Palmis era stato promosso generale dell'esercito demennita, un distaccamento della legione dell'Impero Romano d'Oriente, di stanza in Italia. Il neo Comandante, indi, assieme a Macrojanni, passò in rassegna le formazioni dell’esercito, schierate per rendergli gli onori. Li accompagnava “La marcia del Salvatore”, che i musici avevano intonato. L’inno veniva eseguito da una formazione musicale, composta prevalentemente da trombe accompagnate dalle note ritmate dei tamburi, quando le legioni, sfilando davanti all’imperatore ed al primate della chiesa cristiana d’oriente, lasciavano Bisanzio per avviarsi alla guerra o per avvicendarsi con i loro commilitoni di presidio nelle varie regioni dell’Impero. L’icona del Cristo benedicente affiancava lo stendardo dell’imperatore sotto il palco delle autorità.




VI


Demenna, per l’ennesima volta, si apprestava ad affrontare i saraceni in una disperata ed impari lotta per la sua sopravvivenza. L’esercito bizantino era integrato da oriundi da altri paesi siciliani, che, fuggendo dalle loro case distrutte dai musulmani, avevano trovato accoglienza nella città fortificata. Era tanta la gente che molte persone si dovettero accampare alla periferia; alcuni nel pianoro sotto il pizzo Acqua Fredda, altri, invece, nella zona antistante la parete rocciosa ove era stata realizzata la “via della fuga” attraverso gli argani.

Gli stanziali, in caso di aggressione da parte del nemico, erano disponibili ad accogliere quegli esseri umani dentro il centro abitato, sistemandoli lungo le strade e le piazze. Costoro erano armati alla buona: qualche spada, alcuni forconi, tanti nodosi e robusti bastoni appuntiti da usare come arma di difesa ed, a secondo delle situazioni, anche per uccidere.


Tra i rifugiati c’era un gruppo di scampati all’eccidio di Tauromenio, distrutta dagli arabi. Invero, diverse volte questa città venne assalita dagli invasori in quanto rappresentava la capitale della Sicilia bizantina. Addirittura, ivi si rifugiarono i capi della rivolta contro i musulmani e numerosi cittadini di Balarm dopo che questi stranieri ebbero ad occupare la città.

L’episodio bellico più cruento si ebbe quando Ibrahim marciò su Tauromenio. La battaglia si svolse nella piana di Naxos: l’esito fu favorevole ai musulmani quando il loro comandante si gettò nella mischia con i suoi uomini migliori incitando i guerrieri saraceni allo sfondamento delle linee bizantine. Gli imperiali ed i locali, non avendo un valido condottiero, fuggirono verso i monti: alcuni vennero raggiunti e spinti nei burroni, altri riuscirono a riparare in città. Ma anche qui vennero inseguiti fino al Kastron, dove fecero in tempo a rifugiarsi arrampicandosi lungo un sentiero ripido che portava al monte sovrastante la città.

L’emiro Ibrahim voleva annientare del tutto quella piazzaforte. Mandò in giro i suoi esploratori, che riuscirono a scoprire un percorso attraverso il quale, arrampicandosi con notevole sforzo ed impegno, poteva essere raggiunto il Kastron. Fece inerpicare per quel dirupo un gruppo di schiavi negri promettendo loro consistenti premi: non senza difficoltà, costoro presero alle spalle gli increduli assediati. Contemporaneamente all’urlo di guerra dei soldati del “commando” saraceno, il generale arabo ordinò l’attacco alla rocca: sfondatane la porta, diede il via ad un spietato eccidio consentendo il libero sfogo degli istinti predatori ed omicidi dei suoi guerrieri.

Parecchi, compresi donne e bambini, vennero scannati assieme al loro vescovo, Procopio, il quale, confortando i suoi concittadini, affrontò la morte poiché non volle abiurare la sua fede. Per questo rifiuto, il feroce saraceno inferse al religioso una morte atroce: da barbaro, qual’era, gli fece spaccare il petto e ne mangiò in pubblico il cuore.

Le ragazze, alcune vennero vendute al califfo di Bagdad per popolarne gli harem, altre furono utilizzate come “fattrici” per incrociare la razza araba con quella mediterranea.

Quella di Tauromenium, l’odierna Taormina, voluta dall’emiro Ibrahim Ibn Ahmed, fu una tra le più spaventose stragi compiute dai saraceni nelle roccaforti espugnate, che avevano opposta resistenza alla loro bramosia di conquista della Isqiliah.

Questi fatti vennero raccontati a Demenna da un gruppo di scampati all’eccidio saraceno, che riuscì a raggiungere nottetempo una nave bizantina nella baia di Naxos. Con la quale raggiunsero la foce del fiume Mylè, da dove, dopo esservi sbarcati, si avviarono, inerpicandosi nel tratto finale lungo la montagna, verso l’altra piazzaforte bizantina sui Nebrodi: Demenna, appunto.

Tra gli altri ospiti della città erano anche alcuni scampati agli eccidi saraceni nella città di Castrogiovanni; tra essi figurava un ragazzo, di nome Giovanni Rachiti, che, assieme ai suoi genitori, aveva trovato rifugio presso il kastron di S.Maria. Da adulto, vestì l’abito monacale, visse una vita di santità, ma il suo percorso umano fu molto travagliato ed avventuroso; infatti, fu catturato per alcune volte dai musulmani riuscendo, però, a fuggire. Girò parecchio operando ovunque miracoli. Dopo la sua morte venne proclamato santo: S.Elia, il Giovane, da Enna.


Per fortuna, il raccolto del grano e di altri prodotti della terra, quell’anno, era stato abbondante e non mancavano le scorte nei capienti magazzini della collettività, guardati a vista dai soldati.

Nella primavera dell’anno successivo, dalla roccaforte di S. Nicola venne dato l’allarme: una colonna di musulmani avanzava verso la città. Immediatamente, i cittadini si rifugiarono nella roccaforte. Il Generale arabo Abù-Abbas riuscì a portare il suo esercito di fronte a Damànnas: per diciassette giorni di seguito, con i mangani, ne bombardò la palizzata. E, giacché l’esercito cristiano oppose un’ostinata resistenza, le truppe musulmane continuarono, per alcuni mesi, a porre l’assedio. Durante questo periodo, i saraceni non abbandonarono i tentativi di penetrare nella città; ma la vigile reazione, da parte degli assediati riuscì a respingere tutti gli assalti nemici. Nei primissimi giorni dell’assalto, parecchi musulmani perirono cadendo nel fossato tappezzato di pertiche appuntite, mimetizzate ai piedi della palizzata.

Federico De Palmis di continuo percorreva la città per controllare le postazioni militari, dare gli opportuni ordini ed incitare i difensori a resistere. Di notte, di tanto in tanto, il giovane comandante organizzava delle sortite silenziose con gruppi di volontari, che guidava di persona, per sorprendere i saraceni nel sonno: dopo aver eliminate le guardie, ne decimava silenziosamente le fila. L’indomani, gli assalti alla città erano particolarmente aggressivi, ma venivano regolarmente respinti.

Poiché le persone concentrate a Demenna superavano la possibilità di attingere a lungo alle disponibilità delle derrate alimentari, ed il prolungato assedio cominciò a farle scarseggiare, il Governatore predispose l’invio di un corriere a Rometta, il Quartiere Generale bizantino della Thema siciliana, per farsi mandare gli approvvigionamenti che dovevano integrare le scorte in esaurimento.

Percorrendo i sentieri montani a tappe forzate e sostituendo il cavallo presso le altre postazioni militari bizantine, che si trovavano lungo il tragitto, il messaggero impiegò circa due giorni per giungere a destinazione. Fu fissato, nella rientranza della foce del fiume Mylè, il punto d’incontro tra la carovana di cento bestie da soma, che doveva trasportare il carico a Demenna, e la nave bizantina.

Alla data stabilita, gli uomini, sia della nave sia quelli provenienti da Demenna, durante l’oscurità notturna, scaricarono gli approvvigionamenti caricandoli su dieci chiatte. Gli asini ed i muli, per mezzo di robuste corde, trainarono il carico sulle zattere risalendo la riva del fiume, giacché era navigabile, sino alla confluenza di due diversi corsi d’acqua, provenienti dai monti, il Mylè ed il Mangabah. A quel punto, già approssimandosi l’alba, le merci furono caricate sui basti degli animali per nasconderle nei dintorni della boscaglia, che si snodava lateralmente alla fiumana.

I duecento uomini, che accompagnavano i quadrupedi, ripresero il cammino notturno verso l’imbrunire. Dopo aver attraversato la “stretta” gola sul Mylè, di difficile agibilità, percorsero una mulattiera che costeggiava il fiume, passarono sotto il Casale del Pianoro delle Rose, dello sceicco Ammàn; indi, nelle adiacenze del Castello di Mylè, s’inerpicarono lungo un sentiero e, lasciandosi alle spalle Murrupò, raggiunsero le inaccessibili rocce che proteggevano la città, a sud-est. Gli argani, già predisposti, conclusero l’operazione recuperando alla popolazione la carovana ed il suo carico.

Federico De Palmis, per costringere gli assedianti a togliere le tende, mise in piedi un tentativo temerario che potesse indurre i saraceni alla fuga. Durante una notte, assieme alla sua scorta, si fece calare, con uno dei noti argani, lungo la parete rocciosa per raggiungere l’Egumeno Epifanio, capo del Monastero di S.Pietro di Muely, che si trovava non molto lontano da Demenna. Era questi un monaco basiliano, confessore della famiglia De Palmis ed amico del padre di Federico, il conte Giulio. Lo pregò di organizzare con gli altri suoi confratelli dei metochi vicini, nonché con i capi dei casali confinanti, dei gruppi di volontari disponibili a sorprendere alle spalle i musulmani. Essi si sarebbero trovati serrati in una morsa, se attaccati alle spalle, in quanto sul fronte opposto sarebbero stati attaccati dall’esercito e dai civili combattenti di Demenna, dopo un preventivo “bombardamento”, che sarebbe stato effettuato dal kastro di S. Nicola.

Federico ritornò da Epifanio, per la risposta, dopo una settimana. Fu inaspettatamente positiva. Fissò la data, dieci giorni dopo, e l’ora, quella del passaggio dalla luce notturna alla diurna, in modo da sorprendere i nemici ancora assonnati.

Dalla torre della cima del Krastos, il comandante inviò un segnale visivo alla guardia sulla dirimpettaia torre della cima di S. Nicola con il quale comunicava che un portaordini li avrebbe raggiunti. Questi, a notte inoltrata, dopo avere oltrepassate le linee nemiche percorrendo un viottolo impervio, al tipico verso del gufo venne prelevato dal ponte levatoio di ingresso alla fortezza e trasmise gli ordini per l’indomani mattina al comandante del presidio.

La sera della sortita, Federico dormì poche ore; a mezzanotte, abbracciò il figlioletto e la moglie, la quale gli mise al collo una sciarpa azzurra su cui aveva ricamato in oro le parole: “Ti amo. Bianca”. Indossata l’armatura da combattimento, montò a cavallo assieme ai suoi ufficiali, che lo attendevano nel cortile del Palazzo, e si diresse verso la piazza centrale per apprestarsi a varcare le mura. Gli abitanti della città ed il Governatore erano lì, in silenzio, per salutarli.

All’ora convenuta, il Comandante fece aprire la pesante porta della città ordinando l’avanzata. Si mossero verso l’accampamento nemico, ancora dormiente: i cavalli, con gli zoccoli fasciati con stracci e paglia secca, per evitare ogni rumore, e gli uomini appiedati, nel silenzio assoluto, armati di arco e spada. Nel frattempo, i volontari si erano inerpicati, nottetempo, attraverso i sentieri attorno alle contrade di Chidas, per raggiungere alla spicciolata il luogo fissato, in contrada Citarea; ne aveva assunto il comando – come precedentemente aveva stabilito De Palmis - Benedetto Ferraris, Capitano delle Guardie Civiche di Al-Qaraq.

De Palmis fece inviare il segnale di inizio dell’offensiva: un nugolo di frecce incendiarie, con tre lanci consecutivi dalla rocca di S. Nicola,si riversò sulle tende nemiche; parimenti venne fatto dagli arcieri che precedevano la cavalleria. Subito dopo, al rullo sostenuto dei tamburi da guerra, il grosso degli attaccanti, costituito dalla cavalleria e dai fanti demenniti, si lanciò in avanti per aggredire frontalmente i saraceni. I volontari, che avevano circondato il campo musulmano sul fronte opposto rispetto a quello donde provenivano i regolari, dopo lo sfondamento della cavalleria, attaccarono alle spalle i saraceni. Contemporaneamente, una squadra di bizantini aveva provveduto a sciogliere i cavalli arabi e ad aprirne i recinti lanciandovi, poi, all’interno, un nuvolo di frecce incendiarie: gli animali, spaventati, fuggirono.

La sorpresa riuscì in pieno. Moltissimi musulmani vennero uccisi: circondati dal fuoco delle tende incendiate, raggiunti dalle frecce tirategli dietro, travolti dalla cavalleria, abbattuti nel corpo a corpo. Parecchi saraceni riuscirono a fuggire raggiungendo i boschi, tanti altri, però, furono fatti prigionieri. Questi ultimi, dopo essere stati privati delle armi, furono lasciati liberi poiché Demenna non poteva né “ospitarli” in appositi recinti, né nutrirli. I viveri, i cavalli catturati ed altri animali furono requisiti ed assieme agli strumenti bellici furono portati dentro le mura della città.

Il generale Abù-Abbas, protetto dalla sua scorta e dagli ufficiali del suo Stato Maggiore, che tenevano i cavalli nei pressi delle loro tende, riuscì a forzare il blocco dell’accampamento, operato dalle forze demennite, ed a porsi in salvo attraverso la fuga; De Palmis, con uno squadrone di cavalleria, si lanciò al suo inseguimento; raggiuntolo, i due schieramenti opposti ingaggiarono un serrato combattimento. I musulmani si difendevano molto bene, ma i cristiani non erano da meno nell’aggredirli ed abbatterli.

Da entrambe le parti caddero uomini valorosi; lo stesso generale Abbù-Abbas venne ferito nella mischia e fu costretto ad arrendersi. Venne fatto prigioniero assieme agli uomini rimastigli. Condotto in città, subì un regolare processo. Abbù-Abbas fu condannato a venti anni di carcere; gli altri,con provvedimento del Governatore,vennero liberati, ma ad un loro ufficiale fu dato l’incarico di portare, a Balarm, un messaggio scritto all’Emiro, Ahmen Ibn.

Macrojanni comunicava al rappresentante musulmano, in Isqiliah, di essere disponibile a graziare, ed a liberare quindi, il loro generale purché gli arabi si impegnassero a non aggredire Demenna ed a sottoscrivere, pertanto, un trattato di pace.

Abbù-Abbas apparteneva ad una nobile e potente famiglia magrebina ed, essendo anche un abile stratega, non poteva essere abbandonato alla sua sorte. L’Emiro fu costretto, quindi, ad accettare le condizioni per la pace. Per sottoscriverle, inviò a Damànnas, un suo emissario, lo sceicco Fahdlem.

Il Generale arabo fu liberato ma, dopo circa cinque anni, i saraceni infransero i patti e ricominciarono le ostilità. L’invasore musulmano, infatti, pretendeva che anche la popolazione demennita versasse un sostanzioso contributo all’erario dell’emirato; il Governatore Macrojanni rispose al rappresentante dell’Emiro, Fahdlem, il medesimo emissario di cinque anni prima, che i patti non erano questi e, pertanto, non potevano essere disattesi quelli sottoscritti; soggiunse che, in tutti i casi, Demenna avrebbe difese la sua indipendenza tributaria e la sua libertà.



VII


Con la vittoria, parecchie famiglie rientrarono alle loro case nei paesi o ai casali vicini, che avevano lasciati per rifugiarsi nella più sicura roccaforte di Demenna.

I contadini seminarono i campi e metà del raccolto del grano venne immagazzinata per far fronte alle eventuali necessità di sopravvivenza della popolazione poichè non ci si fidava dell’impegno di pace sottoscritto dai musulmani.

Dopo il successo contro il nemico, il Governatore volle organizzare un Natale di ringraziamento a Dio e di festeggiamenti civili. Mille luminarie rischiararono le strade e la piazza centrale di Demenna nella notte della Natività, mentre fuochi venivano accesi in ogni rione: attorno ad essi la gente cantava, ballava e brindava alla vittoria. Durante il pomeriggio della vigilia venne acceso, nella piazza centrale, un immenso falò, alimentato da legna e grosse radici d’albero, che fu tenuto vivo sino all’indomani del Capo d’Anno.

Quest’iniziativa festaiola fu ripetuta negli anni successivi sin quando la guerra non tornò ad affliggere la popolazione. Assurse a tradizione quando essa fu ripresa, e trasmessa di anno in anno, dagli esuli fuggiti da Demenna, che fondarono il paese al “Pianoro delle Rose”. I loro discendenti perpetuarono nel tempo, sino ad oggi, le iniziative particolari dei fuochi e dei canti, arricchendole ed adattandole alla evoluzione delle cose. Ma, l’impronta originaria, nata dalla genialità demennita, è tuttora presente nel centro montano, che ha fortemente recepito i valori religiosi, difesi un millennio addietro da quel faro siciliano di cristianità, identificato con l’eroica Demenna; valori, evolutisi nel tempo, dal rito bizantino a quello latino, ma pur sempre cristiani.

Nella Chiesa, alla messa di mezzanotte, c’erano tutti per ringraziare Dio e per pregarLo anche di continuare a proteggere la popolazione contro i sacrileghi invasori.

- Dio, che Ti sei degnato di scendere su questa terra attraverso Tuo Figlio, Gesù, – disse, tra l’altro, nell’omelia il Vescovo Manuele – noi imploriamo la Tua particolare attenzione nei nostri confronti, così come finora l’hai avuta, perché i Tuoi, e nostri, nemici possano essere cacciati da questa terra di Sicilia ed affinché i suoi figli possano tornare a pregarTi con la serenità di prima nelle Tue chiese, disseminate in tutta l’isola. Dai forza ai nostri soldati e coraggio perché possano difendere sempre questa nostra amata città, la sua gente, i suoi simboli religiosi.

L’indomani, nella piazza centrale, alla presenza dei soldati e della popolazione civile, il Governatore Basilio Macrojanni volle festeggiare anche il più giovane Generale dell'esercito bizantino, Federico De Palmis, per avere cacciato il nemico da sotto le mura della città.

In suo onore, il Governatore invitò la popolazione, gli ospiti ed i religiosi dei metochi viciniori al pranzo natalizio, che venne apprestato in quella stessa piazza, riscaldata da enormi falò, accesi ai quattro canti. I cori, le danze e le abbondanti libagioni protrassero la festa sino a notte. La moglie del Governatore, Hirene, e quella del Comandante De Palmis, Bianca Maria, andarono tra la gente.

Federico, portandosi in braccio il figlioletto Roberto, s’intrattenne con i suoi uomini per complimentarsi di persona con ciascuno di loro per il comportamento in battaglia e per instaurare un rapporto umano e di solidarietà reciproca. Nel giorno della vigilia del Natale, Federico e Bianca, accompagnati da Hirene, fecero visita agli ammalati della città portando loro dei doni.

I due giovani sposi vollero approfittare del clima natalizio per trascorrere un periodo di riposo e d’intimità familiare, presso il loro castello. Furono allietati da un’abbondante nevicata, che coprì di bianco il paesaggio. Il freddo intenso consigliava, però, di starsene in casa ed i due innamorati ne approfittarono per rinnovarsi i loro reciproci sentimenti d’amore. Il piccolo Roberto era felice di poter giocare assieme al suo papà.

- Amore mio, vorrei che il tempo si fermasse attorno a Castelmylè per offrirci in dono – gli diceva Bianca – un’esistenza serena e felice da trascorrere insieme a nostro figlio ed a quelli futuri, se verranno; desidererei non tornare a Demenna per vivere ogni giorno di questo nostro sentimento, non solo fisicamente ma anche, e soprattutto, con lo spirito. E questo posto ci consente di stare insieme gran parte della giornata, se non addirittura tutta. Quando tu sei lontano da me, ed intuisco i rischi ed i pericoli che affronti, il mio animo conosce solo il tumulto dell’incognito e la paura: si acquieta quando riesco a scorgere la tua inconfondibile sagoma.

- Quella di fare il soldato è una scelta di vita – rispose Federico-. Non saprei vivere senza sentire l’odore acre che emana da un cavallo spronato verso la battaglia, senza stringere nella mano la gelida impugnatura di una spada; ma è anche vero che non saprei vivere senza sapere che, dopo l’azione, una splendida donna mi attende per donarsi a me. Anche quando sono lontano da te e mi debbo concentrare nel dare gli ordini, la tua immagine mi è accanto.

- Anch’io, marito mio, ti sono costantemente accanto col pensiero, apprensivo e pieno del sentimento del mio amore – intercalò la moglie.

- Io ti amo, Bianca, - incalzò Federico - e ti confesso che anch’io vorrei trascorrere parecchio tempo, nelle stanze di questo nostro maniero, assieme a te ed ai nostri figlioletti. Vorrei che si realizzassero le condizioni affinchè questi nostri desideri si sostanziassero in una reale dimensione, ma non posso prometterti alcunché per la responsabilità militare di cui sono investito. Il mio amore per te è immenso, Bianca, ma forte è il mio senso del dovere verso quella gente che in me ha riposto la fiducia per la difesa della propria casa, della propria vita, dei propri figli.

- Sono pienamente cosciente – soggiunse Bianca – della grossa responsabilità che pesa sulla tua persona; d’altronde, sono cresciuta e sono stata educata per assolvere anch’io ai doveri sociali e di donna, che non sia solo madre di famiglia, ma anche di moglie pronta a stare accanto al marito nel ruolo di rappresentanza o di responsabilità, del quale egli è investito.

- Trascorriamo felici questi giorni, dimenticando anche,perché no, di essere ciò che rappresentiamo – chiuse il dialogo l’uomo - vivendo invece come due comuni abitanti di questa terra.

Così dicendo, Federico la sollevò tra le sue braccia, la portò nella loro camera da letto e, con passione infinita, entrambi si abbandonarono ai piaceri dell’amore. Il fuoco acceso nel grande camino rischiarava il susseguirsi delle ore accompagnate da candidi fiocchi di neve che s’adagiavano sul davanzale del nido dei due innamorati. I loro pensieri, in quei giorni, vagavano alto, nel limbo dei sogni.

Rientrando in città, essi continuarono ad assaporare la soavità dei momenti di gioioso amore. La loro vita, e quella dei cittadini, scorreva nel quotidiano vivere dedicandosi al lavoro ed alla famiglia.

Con l’approssimarsi del bel tempo, i due giovani sposi facevano frequenti uscite a cavallo fuori delle mura, spingendosi talora sino a Castelmylè, laddove soggiornavano per qualche giorno.

Un pomeriggio di fine giugno, vollero raggiungere la cima più alta dei monti attorno a Demenna, il pizzo di S. Nicola: lasciarono i cavalli alla scorta nella pianura sottostante alla vetta, che raggiunsero a piedi inerpicandosi lungo il sentiero che conduceva all’ingresso della roccaforte, dove furono prelevati dal ponte levatoio mobile. Mentre salivano verso la meta, Bianca chiese al marito se conoscesse il motivo per cui erano stati attribuiti certi toponimi alle contrade attorno al monte.

- I greci importarono in Sicilia il culto al dio Bacco,- iniziò a raccontare Federico - in onore del quale innalzarono templi e facevano sacrifici con giovani cerbiatti, che, essendo sacri alla divinità, erano protetti. Ebbene, non molto lontano da qui sorgeva un tempio dedicato a Bacco i cui sacerdoti indossavano le pelli dei cerbiatti sacrificati; anche molti suoi devoti si coprivano col medesimo abbigliamento. Il tempio venne distrutto ma i sacerdoti si salvarono rifugiandosi in una contrada, che venne in appresso denominata Filipelli, cioè abitata da uomini che si coprivano con pelli ( di cerbiatto o di capra). Filipelli, infatti, è una derivazione dal greco “filoderma La contrada si trova sotto la rocca del Pizzo di S. Nicola.

- Federico, ti prego, continua ad erudirmi … – chiese Bianca.

- Come vedi, - rispose Federico - Demenna è attorniata da vette. Abbiamo, quindi, i Pizzi di S. Nicola a settentrione, di Acqua Fredda ad est, Aglio ad ovest, del Krastos a sud. La città sorge parte nel piano Miglino e parte in quello di Sette Fontane, ma la parte più alta e più suggestiva è formata dall’acropoli, il vero cuore del Kastron, o anche “cittadella”. Ebbene, questi nomi sono stati dati dai demenniti, che, come tu saprai, provengono dalla Grecia, esattamente dal Peloponneso. Ovviamente, i nomi non potevano non essere di derivazione greca.

- Strano, però, che i romani non abbiano lasciato il segno della loro dominazione nella toponomastica della zona – intercalò Bianca.

- Da qui le legioni romane sono soltanto transitate - riprese l’uomo- lasciando, però, alcuni legionari in congedo o feriti, che, nel tempo, diedero vita ad una colonia di origine latina. I romani si insediarono nei territori limitrofi, come Haluntium e Kolat.

- Eppure, sono parecchi i nostri concittadini che rivendicano la loro discendenza dai latini ed hanno formato una loro comunità all'interno della città. Tu stesso, d'altronde, sei di origine latina dal momento in cui i tuoi antenati lo erano- osservò la donna.

- Parecchi romani – concluse Federico - lasciarono le due anzidette città e si trasferirono qui a Demenna, sposandosi anche con le donne locali. Ma torniamo ai toponimi del nostro territorio. Acqua Fredda è quel monte alla tua sinistra, da dove sgorga acqua freddissima, mentre ai suoi piedi, bagnato da altrettante sorgenti d’acqua, c’è il Piano Sette Fontane; sulla tua destra, invece, c’è Aglio, dove cresce spontaneo dell’aglio selvatico; al Piano Miglino, quando nacque la città, furono piantati alberi di mele di una specie particolare, resistente al freddo, ma che dovettero essere spiantati quando la città cominciò ad espandersi; ed infine, Krastos, così denominato perché i demenniti, quando arrivarono qua, furono lieti di trovarvi“κρα̃στις” (kràstis) da dare in pascolo ai propri armenti, cioè erba in abbondanza e d’ottima qualità .

- Adesso ho capito perché hanno denominazioni strane questi posti, questi monti- esclamò Bianca.

La coppia ricevette il benvenuto della guarnigione, che, per l’occasione schierò la guardia nel cortile della fortezza. Ma, i due ospiti dissero che la loro era una visita privata e, pertanto, gradivano fare il giro della rocca da soli. Iniziarono dalla chiesetta, laddove si raccolsero in preghiera; si rinfrescarono, poi, attingendo l’acqua della cisterna.

Il tramonto di quel giorno primaverile offrì loro una conchiglia appena dischiusa che mostra la sua perla: quella valle, infatti, si apriva alla vista dei due giovani con i suoi scenari, dipinti con boschi e con vegetazioni infiorate, che si alternavano col biondo dei campi di grano, pronto per la mietitura, e con le macchie verdi, attorno alle fattorie, pennellate dagli ortaggi prossimi ad essere colti.

I corsi d’acqua sorgiva, scroscianti verso l’alto dalla profondità della valle, dopo aver irrigati gli orti dei valligiani, tagliavano il traguardo continuando a danzare nel placido Mylé: rio tra i monti, fiume nella piana prima di congiungersi al mare Tirreno.

Armenti, con le bestie in fila che facevano tintinnare i campanacci al collo, si accingevano, al segnale del mandriano, ad avviarsi verso il luogo dei loro recinti. Asinelli e muli, lungo i sentieri dei poderi, erano pronti per tornare alla loro greppia ospitando sul dorso il contadino esausto della giornata di lavoro nei campi.

Il sole si era nascosto dietro l’orizzonte montano, alle spalle dei due giovani , i quali si soffermarono ancora a mirare la mole del maniero di Mylè, sulla cui torre sventolava l’insegna della casata De Palmis. I mulini ad acqua, lungo il fiume, attiravano la loro attenzione, che si spostava, indi, verso il grosso presidio militare formato dal Castello di Kolat. Adagiato sul Pianoro delle Rose, il Casale dello sceicco Ammàn sembrava in attesa di essere trasformato in dimora patrizia di rango elevato. Giù in fondo, a settentrione, l’angusto ingresso alla verde valva della valle del Mylé: stupenda nella sua bellezza, essa s’adagiava tra la stretta gola, penetrata soltanto dalle fredde acque del fiume, e le Rocche di Krastos, sentinelle ad occidente sulla lontana distesa di boschi fitti ed impenetrabili, che chiudevano a sud-est il panorama montano.

Era impossibile resistere alla tentazione di un abbraccio: stretti a formare un’unica sagoma, che si mimetizzava nell’alta vetta incastonata nello sfondo del cielo, sul pinnacolo più alto del plesso militare, le loro labbra si cercavano per stordirsi ancor di più in quello spazio dove s’udiva solo il silenzio dell’infinito. Pochi baci d’amore conobbero eguale sublimazione dei sensi, mai tanti furono i colori e le cellule viventi della natura che assistettero alle effusioni d’amore che Bianca Maria e Federico si scambiarono. Essi, tasselli di quel paesaggio, erano gli inconsapevoli testimoni di un destino che avanzava. Da una catastrofe sarebbe sorto, laggiù, ai loro piedi, un nuovo nucleo di vita: i due innamorati ne erano i protagonisti, quella valle e quei monti lo scenario.



















VIII


Gli anni successivi trascorsero relativamente sereni, offuscati, di tanto in tanto, da fugaci incursioni delle gualdane islamiche nei territori attorno a Demenna.

Sulla cima di S. Nicola, le sentinelle di guardia sulle torri di avvistamento vigilavano incessantemente. Ma, ahimè, intorno al mezzodì del dieci agosto del 965 esse lanciarono l’allarme alle vedette sull’altra torre in cima al Monte Krastos: dal presidio di avvistamento sul Pizzo Asa e dal dirimpettaio Castello di Kolat, avevano ricevuto, infatti, segnali, che facevano intendere che erano state avvistate truppe musulmane, che, dal litorale marino, si apprestavano a risalire il percorso lungo la sponda del fiume Chidas. I messaggi erano stati trasmessi dalle postazioni alleate, disseminate sui monti e che arrivavano a controllare i movimenti di truppe sino alla fascia costiera. Dal pinnacolo, sopra Demenna, venne lanciato l’allarme dell’approssimarsi del nemico.

Il saraceno aveva infranto i patti inviando il suo esercito contro la roccaforte: nel giro di qualche decennio era il quarto attacco, guidato, questa volta, dal principe arabo Ibrahim, conquistatore di Tabarmin. Egli si proponeva di annientare l’altro baluardo, politico e religioso, del bizantinismo siciliano.

Federico De Palmis aveva previsto quest’evento ed aveva preparato il piano di difesa. In quegli anni di tregua, era stato acquistato un gran numero di puledri: si erano potuti addestrare, quindi, altri uomini per farne parte delle truppe equestri di Demenna, aumentandone l’organico. I cavalieri furono divisi in due gruppi: l’uno rimase in città, l’altro, invece, si nascose nel bosco, distante circa duemila metri, attraversato dalla strada che conduceva fin sotto la palizzata. Era, questo, un piano che lo stratega De Palmis aveva già sperimentato positivamente.

La cavalleria musulmana procedeva distanziando di parecchie ore la fanteria, che era appesantita oltretutto dal trasporto delle macchine da guerra, dei carri con le munizioni e con le vettovaglie. I saraceni a cavallo, superato il punto in cui si erano celati i cavalieri bizantini, che erano guidati dal Vice Comandante Teodoro, furono attaccati da dietro, mentre Federico De Palmis, uscito dalla città, si trovava già frontalmente a sbarrare il passo al nemico. Molti musulmani furono uccisi, quelli disarcionati fuggirono, ma i più si batterono. Ibrahim, però, si trovava con la retroguardia.

Dopo aver decimata la cavalleria nemica, Federico, rendendosi conto che gli arabi erano numericamente superiori a loro, attese che Teodoro lo raggiungesse per fare suonare la ritirata: i due squadroni, ricongiuntisi, volarono verso Demenna. Furono inseguiti, ma a lunga distanza, poichè le schiere saracene dovettero indugiare per ricomporre le loro fila avendo subito un duro colpo. Pur tuttavia, le scimitarre musulmane rimanevano uno smisurato pericolo per le forze bizantine.

Sugli spalti della palizzata, realizzati lungo “il cammino di ronda”, i soldati di Demenna erano già pronti a difendersi ed a respingere gli assalti. Una gragnola di grosse pietre e di frecce venne lanciata dalle catapulte e dalle baliste sui cavalieri musulmani, presentatisi ad aggredire i cristiani. Gli invasori, dopo questo primo impatto con la città, stabilirono il loro accampamento a due chilometri di distanza da essa, nell’altopiano del Lupo.

Il principe Ibrahim, reso furioso dall’imboscata tesa alla sua cavalleria, ordinò alla fanteria di assalire, l’indomani all’alba, la città.

L’esercito musulmano si predispose all’avanzata con le divisioni appiedate, protette nell’avanguardia da una barriera di scudi. Giunti a poca distanza dall’obiettivo, i fanti si spiegarono in formazione di testuggine ed attesero l’opera demolitrice delle macchine da guerra. Queste erano trascinate, in retroguardia, dai cammelli sino alla postazione scelta per lo sfondamento delle mura della città. Prima dell’assalto, il comandante maomettano si raccolse in preghiera invocando il suo Dio; indi, al grido: “Non li temete”, spiegò il pennone e si lanciò per primo alla testa dei suoi soldati. I quali risposero col grido di guerra: “Akbar Allah”.

L’aggressione ebbe inizio con le catapulte che lanciarono all’interno della città grosse palle di pietra, da duecento libbre, che ferirono qualche soldato e sfondarono alcuni tetti delle case; una testa di ariete tentò di sfondare la porta,ma lo spesso strato, peraltro puntellato nel retro, di doppie travi di roverella resistette egregiamente. I mangani venivano caricati con pietre grezze e con barili di miscele incendiarie, ma squadre antincendio intervenivano prontamente per domare le fiamme che aggredivano le abitazioni.

Dalla città grossi sassi furono catapultati sulla “testuggine saracena”. Dopo questo scambio, a distanza, di “munizioni”, Ibrahim ordinò a due fila di fanti di aggredire la palizzata con scale e corde, ma parecchi caddero nella trappola approntata sotto la cinta difensiva. Nel fossato, le pertiche appuntite infilzarono non pochi saraceni. La battaglia a questo punto subì un arresto per oltrepassare l’ostacolo: furono realizzati e gettati dei ponti mobili sulla fenditura del terreno. Che fu superata con molte difficoltà perché i fanti dovevano portarsi dietro scale, corde ed armi.

Dai camminamenti e dalle torri lungo la palizzata, gli arcieri bizantini lanciarono frecce mirate ed i soldati svuotarono caldaie di olio bollente sui saraceni che tentavano d’inerpicarsi lungo le scale a pioli; le quali venivano riversate con l’apposita pertica. Al tramonto gli assalti non avevano sortito i risultati sperati; perciò i saraceni, che contavano già parecchie perdite, decisero di porre l’assedio a Demenna, a tempo indeterminato. Nella nottata, i suoi abitanti si trasferirono nella “cittadella”.

Nei giorni successivi, gli esploratori musulmani perlustrarono la zona riferendo al loro comando che la città era attaccabile soltanto frontalmente.


Demenna, adagiata sul massiccio delle Rocche del Krasto, era considerata la sentinella delle valli che si snodavano ai suoi piedi e che racchiudevano paesi e cenobi, castelli e casali, arrampicati sulle basse montuosità ed ai margini delle colline boscate. Sulla torre, in cima all’alta vetta, garrivano le insegne della città e dell’impero romano d’oriente; sui torrioni della “cittadella” era stata innalzata la bandiera da combattimento, che racchiudeva lo stemma civico e quello del Comandante in capo dell’esercito, il “Cavaliere dalla Sciarpa Azzurra”. Così, infatti, fu soprannominato Federico De Palmis, sia perché il colore dello scudo della sua Casata era il turchino, sia perché portava sempre addosso la sciarpa azzurra regalatagli dalla moglie, talvolta intorno al collo o al braccio sinistro, talaltra annodata alla cintola.

L’uomo d’armi era apprezzato per la sua sagacia, per le doti di condottiero valoroso e di abile stratega militare. Nel loro triste destino, i cittadini di Demenna avevano avuto il privilegio d’imbattersi in un uomo dalle elevate capacità, che consentirono di scrivere nel buio secolare della storia il nome di quella fortezza.

Il Conte di Castelmylè ricambiava la devozione delle truppe manifestando loro la sua solidarietà ed amicizia, non facendo pesare il proprio grado ma dimostrando con le azioni di essere un soldato tra i suoi soldati. La sua nobiltà gli derivava, oltre che dalla nascita, soprattutto da questi atti; l’agire democratico si sostanziava nell’umana presenza accanto agli umili.

- Signore, - gli diceva la gente- il nostro braccio sarà un’arma ai vostri ordini quando deciderete di affrontare in campo aperto gli infedeli. Se sarà destino che questa città debba scomparire dalle cartografie, nessuno di noi cadrà vivo nelle mani di quei barbari…

- Il nome di Demenna vivrà nei millenni – rispondeva Federico-. Dio non consentirà la disfatta storica e morale della sua gente, di coloro i quali credono in Lui, di coloro che offrono la propria vita per cacciare via l’invasore che vuole distruggere la nostra religione, la nostra fede, la nostra stessa dignità di uomini.

- Noi, non vogliamo che le nostre donne ed i nostri figli siano fatti prigionieri per divenire schiavi : salvateli, vi preghiamo, nostro Generale – proseguivano i demenniti -.

- Abbiate fiducia, tutto è già predisposto in caso di catastrofe: loro saranno portati al sicuro da mia moglie.

Ed il comandante esponeva il piano di emergenza, cercando di trasmettere una certa serenità a quell’eroica popolazione.

Trovava anche il tempo, il fascinoso Federico, nei rari momenti di distacco dagli affari militari, di dedicarsi alla sua amata Bianca Maria ed al figlioletto Roberto. Un giorno, le disse:

- Se la città dovesse cadere, ed io con essa, tu avrai il compito di riunire i sopravvissuti presso il “cuore del Kastron” e, per la “via degli argani”, di fuggire verso la salvezza. Tu, assieme a nostro figlio, ti rifugerai al nostro Castello di Mylè o, meglio ancora, per maggiore sicurezza, presso il nostro amico, Padre Epifanio, Priore del Monastero di Muely. Prima, però, dovrai mettere in salvo i cittadini che ti seguiranno. Li condurrai al casale dell’altro nostro amico Ammàn, che appartiene ad una tribù avversaria, e spesso in lotta, con quella di Ibrahim: egli è già avvisato e si prodigherà per offrire un rifugio ai superstiti. Il pianoro, detto delle Rose, si presta ad accogliere la nostra gente, scampata alla rovina. Consegno a te questo nostro sigillo di famiglia affinché lo dia a nostro figlio, quando sarà adulto, e, nel contempo, perché tu lo possa adoperare nel caso in cui ne avrai bisogno.

- Tu mi stai preannunciando la tua morte, Federico, - le rispose Bianca prorompendo in lacrime -. Non è possibile che la nostra breve vita insieme finisca così tragicamente, sacrificata ad un'altra religione, il cui Ente Supremo viene chiamato Allah, ma che, poi, è lo stesso Dio di noi cristiani.. Né potrò accettare che il nostro Roberto cresca nell’odio, come figlio della guerra e senza la guida paterna. Tutto ciò è terribilmente crudele, irrazionale e disumano.

- Amore mio, calmati, - le disse Federico stringendola tra le braccia – non è detto che io debba morire; potrei anche salvarmi e raggiungerti dove tu ti sarai rifugiata. Ma è necessario che io ti dica quello che tu dovrai fare nell’eventualità del peggio perché io, noi, siamo investiti di una grande responsabilità, che trascende il nostro interesse individuale e che riguarda, invece, la difesa e la salvaguardia della popolazione, che crede in me. In noi, suoi capi. Dio solo sa come vorrei condurre la mia vita accanto a te ed a nostro figlio sino all’età canuta. Ti amo, per la vita, mia dolce Bianca.

Così dicendo la baciò, a lungo ed appassionatamente: la notte, abbandonandosi ai piaceri dell’amore, dimenticarono l’incombente realtà.

L’indomani mattina diede alla moglie un pacchetto; “sei il nettare della mia vita” erano le parole vergate di proprio pugno su una pergamena, che accompagnavano un meraviglioso gioiello, che Federico aveva ordinato, in precedenza, ad un orafo locale. Una spilla: una rosa in oro, poggiata su una stupenda pietra turchese.























IX


L’assedio alla città durò tutto l’inverno, che, quell’anno, fu particolarmente rigido. Ad oltre 1300 metri d’altezza sul livello del mare, il gelo si faceva sentire e produsse molti eventi luttuosi tra le fila saracene, non abituate a quelle temperature sotto lo zero. Parecchi musulmani furono trovati congelati nelle loro tende, anche se fu abbattuta una gran quantità di alberi dai boschi attorno per accendere dei falò nelle piazzole tra gli attendamenti. Ad altri furono amputati uno o due arti andati in cancrena. La loro decimazione avveniva per un evento della natura. Nell’inverno, i demenniti rientrarono alle loro case e si rifugiarono di nuovo nel Kastron a primavera, non appena gli arabi ricominciarono le ostilità.

Ma, anche con le temperature rigide, i cristiani non se ne stettero con le mani in mano; anche perché la città cominciava ad avere fame. Pertanto, durante una notte di fitta nevicata, alcuni robusti demenniti, abituati ai rigori invernali, coperti con un manto bianco, penetrarono nella staccionata al limitare dell’accampamento nemico per razziare alcuni capi di bestiame. Non sapendo, però, dove fosse ubicato il recinto dentro il quale stavano rinchiusi gli animali, gli uomini si divisero in due squadre per cercarlo: l’appuntamento era al fronte opposto rispetto a quello da dove erano entrati. Il percorso, per rientrare con gli animali nottetempo a Demenna, era stato già tracciato: risalita la vallata del Chidas, lasciando fuori del tragitto l’attraversamento di Al-Qaraq, avrebbero raggiunta la Contrada di Gazzana per rientrare, infine, a Demenna, dalla parte della palizzata posteriore, attraverso la via degli argani.

Un gruppo fu scoperto, purtroppo, dalle sentinelle musulmane, che diedero l’allarme: gli uomini furono fatti prigionieri e condannati alla pena capitrale, la cui esecuzione sarebbe dovuta avvenire l’indomani, al centro del campo. Uno di loro, un demennita robusto, riuscì a nascondersi e, dopo qualche ora, a fuggire; procedendo a fatica nella tempesta di neve, raggiunse la città. Alla porta si fece riconoscere con la parola d’ordine dalle sentinelle e riferì l’accaduto al Vice Comandante, che era nell’attesa del rientro dei soldati dalla missione. Teodoro svegliò immediatamente il suo Comandante. De Palmis, nel pieno della notte, partì con gli “incursori demenniti” per soccorrere i compagni in ostaggio dei saraceni, portandosi dietro alcuni cavalli non montati. Faceva da guida il soldato sfuggito alla cattura.

I loro compagni, già intirizziti dal freddo, erano legati ad un palo, all’addiaccio: tanto, l’indomani – secondo i disumani loro nemici - dovevano morire! Federico fece segno ad alcuni dei suoi di tagliare con il pugnale la gola delle sentinelle, ad altri di liberare i prigionieri caricandoseli sulle spalle per rientrare. Egli stesso fece fuori un saraceno. Costeggiando il campo, la squadra si diresse verso il posto ove era penetrata nell’accampamento, nelle cui vicinanze aveva lasciati i cavalli e, di corsa, salvatori e salvati rientrarono a Demenna.

L’altro gruppo, acquattatosi nei pressi dei recinti degli animali, riuscì a portare a compimento il piano predisposto. Era quasi l’alba. Oltre un centinaio di animali, tra pecore, ovini e capre, fu issato dagli argani all’interno del Kastron. Ci fu latte per i bambini e carne per tutti.

I rifornimenti bizantini, richiesti in tempo, arrivarono quando la non prevista “scorta musulmana” si era esaurita da qualche giorno.

Giafar, che era subentrato nel comando ad Ibrahim, dopo aver trascorso l’inverno a Balarm, raggiunse le truppe accampate a Demenna con viveri e rinforzi di uomini. All’inizio della primavera si preparava a sferrare l’assalto finale alla roccaforte. Giornalmente, la città era bombardata dai mangani che lanciavano pietre al suo interno; arieti possenti venivano scaraventati contro la porta e le mura palificate della città nel tentativo di aprirvi una breccia.

La duplice fila delle grosse travi resistette e quando qualche asse della pesantissima porta veniva spezzato, i saraceni, con una formazione a testuggine, si facevano sotto per tentare di sfondare l’intero portale. Dall’alto delle torri laterali ad esso e dal camminamento sovrastante rispondevano lanciando sugli assalitori una fitta scarica di macigni e di olio bollente; contestualmente, gli arcieri colpivano con precisione gli uomini che venivano a trovarsi allo scoperto, espulsi dalla formazione a testuggine. Nel contempo, una squadra, addestrata e munita di apposita attrezzatura per un rapido intervento, provvedeva a sostituire il tronco spezzato per ricostituire il robusto baluardo d’accesso alla città, rimpiazzandolo con quello posto dietro, manovrato dall’alto. Un nuovo tronco occupava il posto di quest’ultimo.

Per ben un mese Demenna resistette respingendo le armate avversarie, che giornalmente, precedute dai martellanti arieti, si presentavano sotto le sue palafitte. Parecchi cittadini furono colpiti dai “proiettili” lanciati dalle catapulte musulmane; l’ospedale da campo non riusciva a fare fronte alle richieste di prestazioni mediche. Molte erano le donne che si prodigavano a curare coloro che non potevano muoversi.

I rinforzi, che il governatore della città aveva chiesti al quartiere generale bizantino, a Rometta, assieme ad un ulteriore rifornimento di viveri, non raggiunsero, in tempo, Demenna. Ormai quasi l’intera regione era in mano agli occupanti africani, che intercettavano carovane e schiere sospette, che percorrevano le poche vie di comunicazione esistenti. Anche il mare era pattugliato dalle galee saracene.

Non c’erano più animali che potessero essere uccisi per farne cibo; il grano poteva essere sufficiente per ancora una settimana; le uniche verdure provenivano dalle erbacce amare divelte sui muri e tra le rocce raggiungibili nottetempo; niente legumi, non olio, niente cibo fresco se non quello che poteva pervenire dai cadaveri dei soldati e dei cittadini uccisi dalle armi nemiche. Le ossa spolpate venivano pestate e bollite per essere ingoiate.

I bambini, che avevano bisogno di nutrimento, soprattutto i più deboli, cominciarono a perire: anche loro divennero cibo per i vivi. I quali, per sopravvivere, dovettero trasformarsi in esseri umani antropofagi e subire questa abominevole e disumana costrizione; erano, infatti, schiacciati dalla fame violenta ed arrivarono a respingere ogni forma di ribrezzo e di sentimento naturale. Le epidemie, scoppiate a causa delle infezioni procurate dal tipo di alimentazione antigienica, procurarono alla gente convulsioni, piaghe, paralisi, perfino, la morte.La resistenza divenne una fosca tragedia. La disperazione si aggirava per le strade di Demenna.

Il governatore Macrojanni decise di radunare i cittadini nella piazza centrale e, senza nascondere loro la cruda realtà, comunicò la sua decisione:

Per ben tre volte, in questi anni, abbiamo respinto il feroce nemico, ma questa volta egli ci soverchia in uomini e mezzi, né possiamo sperare che il quartiere generale imperiale, di stanza in Italia, c’invii rinforzi e generi alimentari. L’eroismo e la tempra dei soldati, i sacrifici dei cittadini non saranno sufficienti a salvare la nostra città. Saremo costretti ad arrenderci per fame. Ma, poiché sappiamo quale sorte toccherà a tutti noi quando i nemici entreranno in città – i vecchi e gli anziani saranno sgozzati, le donne stuprate e rese schiave mentre le più belle tra loro, assieme agli adolescenti, diverranno oggetto di piacere dei capi e dei ricchi musulmani –, ebbene, per evitare tutto ciò, abbandoneremo le nostre case evacuando la città attraverso la “strada degli argani” consentendo ai cittadini, che costituiscono la fascia più debole della popolazione, di raggiungere altri paesi e città. Qui resterà l’esercito ad opporre l’ultima disperata resistenza per consentire la fuga agli scampati”.

Federico De Palmis chiese di poter parlare per integrare le indicazioni del Governatore:

Mia moglie, Bianca, ha avuto da me l’incarico di condurre quei cittadini, che ha indicato il Governatore, fuori la città, da dove, indipendentemente dallo loro etnia, greca o latina, potranno raggiungere alcune località vicine, i cui abitanti sono nostri amici: Al-Qaraq, il Casale di Fraxino e quello sul “Pianoro delle Rose”.

La mia sposa si recherà presso quest’ultimo sito, che sorge dirimpetto al Castello di Kolat, in quanto attorno al Casale esiste un nucleo abitato, difeso con alcune fortificazioni costruite su una lunga fila sul crinale del fiume Mylé. L’insediamento è, inoltre, sotto la particolare protezione dell’Emiro di Isqiliah, che è un principe della Casata dei Banu Kalb; egli, malgrado nominato dal Sultano appartenente alla dinastia dei Fatimidi, non può non avere un particolare riguardo nei confronti del nobile arabo Ammàn, proprietario del Casale, in quanto ha con lui un rapporto di stretta parentela. Ammàn appartiene ad una casata, l’Aghlabita, con la quale non è schierato il generale Giafar, che è, invece, un seguace dei Fatimiti”.

Coloro che si recheranno al Pianoro delle Rose vi assicuro che saranno considerati ospiti dello sceicco e saranno, pertanto, sotto la sua protezione. Il nobile Amman, nato in Sicilia da genitori musulmani, è un quarantenne arabo, non è un guerriero, ma un uomo di cultura, molto disponibile a recepire le innovazioni sociali e civili e, soprattutto, è un tollerante dal punto di vista religioso rifuggendo da qualsiasi forma d’integralismo; è un musulmano, che si è integrato, però, nell’ambiente isolano convivendovi pacificamente: se non fosse per il colorito brunastro della sua pelle, potremo affermare che ci troviamo di fronte ad un cittadino dell’Impero Bizantino. Il Casale, tra l’altro, è difeso da una guarnigione di soldati d’etnia mista, musulmana ed indigena. Un gruppo di uomini scorterà la carovana sino a destinazione assieme a quei feriti o ammalati in condizione di potersi muovere autonomamente”.

Dopo che questi nostri cari saranno in salvo, io suggerisco di non stare qui ad aspettare passivamente la morte, ma di aprire le porte della città, non per consentire l’ingresso agli eretici, bensì per attaccarli in campo aperto. Demenna non sarà espugnata, né si arrenderà, ma sarà occupata solo quando la spada dell’ultimo prode demennita sarà abbattuta. Verrà, forse, distrutta, ma noi non assisteremo a questo scempio. Prima che ciò avvenga, un fiume di sangue arabo tingerà di rosso queste nostre splendide contrade. Guiderò personalmente la carica della nostra cavalleria nell’ultimo duello col nemico invasore, pur essendo cosciente che le sue forze superano notevolmente, con i nuovi arrivi di soldati saraceni, gli uomini che li oseranno sfidare. Il vice comandante, Teodoro, darà inizio allo scontro guidando gli arcieri, gli addetti alle macchine da guerra, per il lancio di frecce e di pietre di copertura, ed i fanti sino a quando i cavalieri non raggiungeranno le prime linee nemiche”.

Gente di Demenna, noi siamo un forte popolo, un crogiolo di razze, unite per difendere quella che abbiamo scelta, o che già lo era, come nostra patria: agli ex legionari romani si saldarono gruppi di origine greca, e, su questo ceppo, s’innestò il popolo dei demenniti”.

Soldati, – concluse Federico De Palmis – dalla nostra parte avremo Dio Creatore, la fortezza del nostro animo, non abbattuto, che non dispera di potere ancora respingere le masse barbare. Questi incivili, con la forza delle armi, hanno soggiogato la civiltà e la gente di Sicilia, umiliando il glorioso impero romano d’oriente, personificato dall’imperatore di Bisanzio. Sulla punta delle nostre spade, delle nostre lance, delle nostre frecce è deposta la volontà della vittoria. Nei nostri cuori è la forza dei giganti; le nostre mani saranno gli artigli che spezzeranno l’odiato saraceno. Uomini di Demenna, che il vostro animo non conosca tentennamenti perché Dio è con noi”.

Un’ovazione salutò l’oratore: “Viva il Conte Federico; viva il nostro Comandante”.

Il Governatore riprese la parola per dare il suo assenso alle proposte del genero e dichiarò che egli, assieme alla moglie ed alle sue ancelle, nonché alla Guardia del Palazzo ed alla servitù, sarebbe rimasto in città quale presidio, anche se simbolico, della roccaforte. Si sarebbero rinchiusi nella cittadella, che rappresentava il cuore della città. Il Vescovo Manuele, il Clero ed i Consiglieri del Governatore si unirono alle decisioni del patrizio bizantino.

I giorni della tragedia, ahimè, si erano presentati alle porte di Demenna!




X


Il giorno antecedente l’evacuazione della città, Federico lo volle trascorrere con la sua famiglia. Passò le consegne al vice comandante dell’esercito, il capitano Teodoro, e si chiuse nel suo appartamento.

Sentiva dentro di sé che quelle due creature, che tanto amava, non le avrebbe più viste né abbracciate; ma, il suo dovere di soldato e la responsabilità, di cui era investito, lo portavano a compiere il supremo sacrificio della propria vita per mettere in salvo, non solo la popolazione, ma quei due suoi tesori.

S’intrattenne a lungo con Roberto narrandogli la storia della loro Casata e trattenendosi sui valori perseguiti dai De Palmis.

I nostri antenati furono insigniti della patente nobiliaresi soffermò a raccontare Federico - dall’imperatore d’Oriente, Giustiniano, allorquando il suo generale Belisario liberò, prima, la Sicilia dai Goti ed, indi, sbarcò sul suolo della penisola per continuare l’opera di bizantinizzazione dell’Italia. In quell’evento della storia d’Italia, un nostro antenato, Leone, discendente da un legionario romano, che aveva sposato la figlia di un ricco proprietario terriero siciliano, riuscì ad arruolare cento uomini con i quali scese in campo a fianco di Belisario”.

Leone – continuò il padre di Roberto - combatté con gli imperiali anche sul suolo italico; per i suoi meriti e per gli atti di eroismo compiuti in battaglia, su proposta del Generale, l’Imperatore Giustiniano gli conferì il titolo di Conte di Castelmylè dotandolo di terre. Il castello fu costruito da questo nostro avo ed ampliato successivamente dagli altri suoi eredi.

Era l’epoca – il VI secolo d. C.- in cui i demenniti, fuggiti dalla loro terra, il Peloponneso, approdarono in Sicilia e fondarono questa città. Lacedemoni, discendenti dagli spartani, i quali avevano innati lo spirito guerriero e la rigidità dei costumi. Essi erano protetti dall’imperatore romano di oriente; di conseguenza, il territorio contiguo a Demenna era sotto il dominio dei bizantini. L'emissario di Giustiniano, pertanto, delimitò una cospicua estensione di campi da coltivare e di boschi per assegnarla al nostro antenato Leone.

Il territorio concesso ai demenniti, per fondare la loro città,- proseguì il conte - venne indicato con il toponimo di “Limani”, tramutato poi in Lemina, anch’esso importato dalla nativa Lacedemonia. La città, invece, assunse la medesima denominazione della originaria loro residenza greca, Dhaimonia.

Riandando al nostro antenato, fondatore della Casata, - riprese Federico - il Generale Belisario, come segno d’amicizia e per ricambiare la fedeltà di Leone nei suoi confronti, gli regalò una spada, che, da allora, è stata tramandata ai figli primogeniti della Casata. Leone De Palmis diede un nome alla spada, Nicòmaca, che vuol dire “vincitrice in battaglia”. Infatti, negli scontri che egli ed altri membri della famiglia ebbero con avversari, Nicòmaca n’è uscita vittoriosa. La prestigiosa lama è conservata nella sala d’armi del Castello, chiusa in una teca, in quanto, essendo alquanto pesante, non è di agevole maneggio. Nelle battaglie e come arma da portare addosso, oggi, esistono delle spade più leggere”.

I De Palmis, - asserì Federico concludendo la conversazione con Roberto - sotto l’amministrazione bizantina, ricoprirono diversi incarichi, che svolsero richiamandosi ai valori della giustizia, dell’altruismo, della democraticità e di una profonda religiosità cristiana. Incarichi che, a tutt’oggi, come tu ben sai, Roberto, a noi vengono conferiti tramite la mia modesta persona”.

Tutto ciò volle trasmettere al suo figliolo. Parlò, poi, con Bianca e fece trasparire, tra l’altro, il dovere che a lei sarebbe derivato, se lui non fosse tornato, di educare il figlioletto secondo i principi morali che erano patrimonio di entrambi; di metterlo a conoscenza delle vicende, alle quali Demenna era andata incontro nella difesa della cultura cristiana e dei valori di civiltà del popolo siciliano; di raccontargli gli ultimi episodi che segnarono l’epilogo della sua vita nell’opporsi al popolo invasore, cui nessuno aveva concesso il diritto di oppressione. La quale, invece, privava della libertà colui il quale aveva un credo religioso diverso dall’islamico per obbligarlo al servizio della volontà altrui, che collideva contro i principi di giustizia, di amore, di libertà, di rispetto della personalità dell’individuo.

Nel suo animo, non certamente sereno e distaccato, i cui sentimenti, però, Federico riusciva a controllare con fredda determinazione, egli aveva dato un muto, tormentato addio alla sua amata ed al figlio, che insieme avevano generato.

Bianca, dal canto suo, fece in modo che la giornata trascorresse in maniera normale, come le altre, senza lacrime né rimpianti: una giornata serena. Anche se questa tale appariva solo esteriormente.

Quella notte, si amarono più volte con il trasporto di sempre, pur essendo coscienti che quegli amplessi sarebbero stati probabilmente gli ultimi; tuttavia, dopo i baci, le carezze ed il vibrare dei corpi,Federico riuscì ad immergere i suoi sensi nell’abbandono di un breve sogno notturno: “cavalcava il suo destriero volando su un tappeto di cirri”.

L’indomani, la contessa Bianca Maria De Palmis, nobile dell’Impero Romano d’Oriente della Casata dei Macrojanni e remota discendente dell’etera Taide di Krastos, nonché del principe egiziano Lagos, guidò una carovana di oltre mille persone verso una speranza di sopravvivenza ed una novella culla: pianoro delle Rose fu per loro il “nuovo giorno”.

Qualche altro migliaio di esuli volle prendere strade diverse verso altri insediamenti abitativi: la città di Al-Qaraq, i Casali attorno a Myrtus e Fraxinus.

I fuggiaschi s’adunarono al centro della cittadella, denominato “piano del kore”; a gruppi, s’incamminarono verso il pizzo del Crasto, donde avrebbero preso la strada del volontario esilio. Li accompagnava l’esile speranza che, forse, sarebbero potuti tornare se la vittoria avesse arriso alle truppe demennite. Lasciavano, però, con la morte nel cuore, la casa natia ed i cortili dove i loro figli, giocando spensierati, erano cresciuti; lasciavano i luoghi sacri, che li avevano accompagnati nei momenti lieti della loro vita, ma anche tristi, quando avevano dato l’addio a coloro i quali li avevano lasciati per sempre. I monti, le rocce di natura e forma dolomitica, i tetti rossi dei paesi lontani, il verde dei pascoli e delle foreste si allontanavano dalla loro vista domestica.

Fuggivano i cristiani di Demenna dalla morte corporale, ma erano accompagnati da un sordo dolore; lasciavano le persone amate a combattere gli infedeli perché dovevano porre in salvo coloro ai quali era affidata la continuità della loro specie: i bimbi ancora in fasce e gli adolescenti, nonché coloro che erano già nel grembo della madre. Il gruppo era composto, oltre che dalle donne, dagli ammalati e dagli anziani nella condizione fisica di potersi muovere autonomamente. I non deambulanti, con immenso strazio, vennero lasciati nelle loro case. Tragedie personali e familiari che si sovrapponevano ai funesti eventi, cui la città andava incontro.

Le autorità tutte, i loro uomini in armi, con lacrime asciutte, li abbracciarono…, consapevoli che quella sarebbe stata l’ultima volta. Il “Cavaliere dalla Sciarpa Azzurra”, il Governatore ed il Vescovo se li strinsero al cuore, uno per uno, mentre salivano sulla piattaforma degli argani. Anche il cielo pianse: le grosse gocce d’acqua piovana, che caddero sulle Rocche del Crasto, erano, infatti, di un sapore amaro. Quando, infine, l’ultimo esile raggio diurno si nascose alla loro visione e rimase l’ombra ondulata dei monti, gli strumenti, posti per la fuga, avevano traghettato, al di là delle pietre amiche, circa duemila anime della nobile Demenna. Dentro le sue mura, gli uomini si preparavano al cruento scontro. Una grande fede li sorreggeva e le loro mute preghiere s’innalzavano verso l’Onnipotente invocandoLo a far ritornare coloro da cui si erano dovuti dividere.

A sera inoltrata, illuminando il sentiero con lanterne ad olio, le tre carovane s’incamminarono e l’indomani chiesero asilo ai capi dei luoghi che avevano precedentemente scelti.

Bianca con la sua gente ed il figlio Roberto- già preannunciati da fidati messaggeri – vennero accolti, dallo sceicco amico Ammàm, all’ingresso della sua dimora.

Nei giorni avvenire, gli infelici attesero invano l’invito a rientrare al luogo natio. Con la spada in pugno, erano tutti caduti gli uomini di Demenna ed Essa già rovinava. I rapaci, a centinaia, volteggiavano su quei cieli di morte!













XI


Il giorno dopo l’evacuazione della città, alcune ore prima dell’alba, alla luce delle torce, Federico De Palmis passò in rassegna le truppe schierate nello spiazzo dietro la palizzata. Indossava una corazza di acciaio brumito ed aveva il capo coperto da un elmo nero: la famosa sciarpa di Bianca gli cingeva i fianchi. Il destriero, figlio dei cavalli regalati da Ammàn alla giovane coppia De Palmis, era un meraviglioso animale, che mordeva il freno ubbidendo a stento al suo cavaliere. La spada, regalatagli dal padre, quando conseguì i gradi di ufficiale dell’Impero Romano d’Oriente, era appesa al suo fianco sinistro: l’acciaio della lama era stato temprato dal forgiatore di fiducia del conte Giulio ed un orafo aveva saldato, sull’elsa ed il pomo in argento, il guardamano in oro sul quale aveva inciso, miniaturizzato, lo stemma di famiglia. Al fianco destro aveva affibbiato alla cintura il pugnale donatogli dall’Imperatore quando gli venne conferito il comando dell’esercito demennita. I cavalieri, in omaggio al loro comandante, avevano legato al braccio sinistro un nastro azzurro.

Dopo il controllo dell’assetto delle truppe, il Vescovo Manuele distribuì, richiamando le sue virtù sacramentali, pezzetti di pane consacrato ed impartì la benedizione invocando, per quei valorosi, l’aiuto di Dio.

Durante la notte era successo un avvenimento inatteso. Il comandante della piazzaforte di Kolat, lasciatovi un presidio di guardia, con il grosso della truppa era corso in aiuto del conte Federico, col quale intercorreva una forte amicizia. Il capitano Demetrio Capris, nobile di Kolat, sapeva della possibilità di accedere a Demenna dal versante sud, attraverso la cosiddetta strada degli argani. Dopo aver segnalato la sua presenza al posto di guardia, il drappello di circa cento uomini venne issato sù: Federico ringraziò il suo amico Demetrio con un abbraccio e lo volle accanto a sé durante l’avanzata delle truppe demennite. Nel feroce scontro con il musulmano, al Vallo di Demenna, il comandante di Kolat cadde, da eroe, difendendo alle spalle il generale De Palmis.

Mancava ancor meno di un’ora al levare del giorno e De Palmis volle approfittare del buio per condurre le truppe, senza essere avvistate, di fronte al campo musulmano. Fu aperta la pesante porta della città e Federico ordinò, con voce alta e ferma: “ Per Dio, con Dio e per Demenna, avanti”. Il vessillo della città e dell’Impero bizantino, le insegne del Governatore e del Comandante De Palmis, i gagliardetti della cavalleria, degli arcieri, dei fanti ed una Croce greca, portata su una lunga pertica da un monaco basiliano, precedevano lo snodarsi delle schiere.

Le armi di Demenna erano pronte, in formazione da combattimento, a sfidare, per la battaglia finale, le soverchianti forze musulmane. Che erano accompagnate dalla nomea di agire sovraccariche di odio, alimentato da animalesca ferocia contro chi professava una religione diversa. I siculo-bizantini si sentivano forti perché difendevano il loro diritto alla libertà ed alla vita e perciò attaccavano, non volendo subire un’aggressione. Essi, inoltre, credevano fortemente che l’unico vero Dio fosse il loro, il Dio Padre di Gesù, nel quale cercavano rifugio e soluzione dei loro problemi. Lo scontro, quindi, era quello tra titani.

Giunto al cospetto del nemico, Federico De Palmis ordinò l’inizio della battaglia, secondo il piano predisposto in precedenza con il suo Stato Maggiore, scaturito dal lavoro degli esploratori, che avevano comunicato la dislocazione dei reparti nell’accampamento saraceno. I musulmani furono colti di sorpresa; ma la loro meraviglia era accentuata dal fatto che le truppe avversarie erano uscite allo scoperto in campo aperto; essi, quindi, non fecero in tempo ad organizzare lo schieramento da combattimento e subirono l’assalto in ordine sparso. Il Piano del Lupo fu trasformato in scenario per un epico scontro armato.

Il vice comandante, Teodoro, fece avanzare gli uomini appiedati per lo sganciamento delle frecce. Dopo due lanci consecutivi degli arcieri, la formazione si aprì per lasciare un varco al passaggio della cavalleria, che stava dietro; ma, sino a quando quest’ultima non entrò in contatto col nemico, le macchine da guerra vomitarono sui saraceni sassi e frecce.

Federico, superato lo schieramento di fanteria, sguainando la spada, gridò ai suoi cavalieri la “carica”. Liberò dal freno l’impaziente cavallo e lo lanciò contro il nemico: il puledro fendeva, volando, le schiere musulmane per arrestarsi laddove gli ordinava il suo padrone. La manovra era quella dello sfondamento al centro. Il rullio dei tamburi, con ritmo accelerato, spronava gli animi a gettarsi nella mischia con lucido furore.

Gli uomini a cavallo si divisero in tre squadroni e distanziarono le file per potere manovrare le lance abbassate ad altezza d’uomo: il primo squadrone penetrò sino al fondo dell’attendamento travolgendo nella sua corsa i musulmani che tentavano di opporvisi; il secondo, per potere colpire gli avversari che avevano preso il posto dei caduti nello spazio creato dalla prima ondata di cavalleria, si lanciò dopo due minuti attaccando i saraceni nell’area centrale del campo, mentre l’ultimo, dopo altri due minuti, coprì lo spazio prossimo all’uscita ingaggiando anch’esso la lotta con gli arabi che si erano parati loro innanzi. Dopo che il campo di battaglia fu impegnato dalla cavalleria, Teodoro ordinò agli uomini della fanteria di raggiungere di corsa i cavalieri, già duellanti, guidandoli, assieme ad un altro ufficiale, ad aprirsi a forbice per aggredire, con le daghe, gli avversari dislocati ai fianchi della mischia centrale.

I cavalieri arabi, quelli che ebbero il tempo di raggiungere i loro cavalli e di montarli, si batterono in ordine sparso; violento fu l’impatto che i saraceni dovettero subire a causa della forza d’urto generata dalla carica dei bizantini, che travolsero ogni improvvisata barriera dei fanti musulmani; le lance atterrarono parecchi uomini e tanti altri musulmani furono uccisi dalle spade dei cavalieri cristiani. I fanti demenniti non furono da meno degli uomini a cavallo.

De Palmis, oltre che battersi contro chiunque gli volesse sbarrare il passo, si spostava continuamente nei vari focolai di scontro per spronare i suoi ed impartire i necessari ordini. Salvò la vita a parecchi dei suoi uomini circondati dalle scimitarre saracene. Riusciva a far fronte simultaneamente anche a tre o quattro di esse abbattendole ad una ad una: era agile e forte come un leopardo. I suoi affondi mortali provenivano da innate doti di combattente, allenato peraltro a confrontarsi, ai più alti livelli, con eccelse lame. Egli, però, cercava il comandante avversario, Giafar.

In parecchi caddero da entrambe le parti; molti combattenti demenniti perirono compiendo atti di estremo eroismo. Alla fine, i due Comandanti in capo si trovarono l’uno di fronte all’altro.

Il “Cavaliere dalla Sciarpa Azzurra” con fierezza incrociò lo sguardo del nero generale musulmano; non c’era odio nei loro occhi, ma un’espressione volitiva di vittoria. I due Comandanti si scrutarono vicendevolmente per parecchi istanti. Giafar alzò, indi, la sua scimitarra nel segno del saluto tra avversari, prima dello scontro, quasi a voler rendere omaggio all’invitto difensore della roccaforte cristiana. Il capo saraceno s’inchinò, quindi, dinanzi a colui il quale per mesi gli aveva resistito ed alla fine aveva osato sfidarlo in campo aperto pur essendo cosciente del rapporto di forza di uno a cinque: un soldato demennita contro cinque musulmani. Federico ricambiò il saluto ed entrambi diedero inizio al duello.

Un confronto tra due “acciai” forti e veloci; un incrociarsi di armi che li vide alternativamente primeggiare e soccombere, attaccare con potenti affondi e difendersi con parate da manuale. Uno scontro che impegnò al massimo della tensione le forze di entrambi.

Ad un tratto, Federico riuscì a buttare da cavallo Giafar, gli fu sopra per colpirlo ma il musulmano si riparò dietro l’animale, che fu infilzato. Entrambi erano disarcionati ed il duello continuò con i contendenti appiedati.

Attorno a loro il combattimento s’era fermato e s’udiva solo il suono delle due lame che si colpivano: i rivali dei due fronti avevano cessato di scannarsi per assistere a quel lungo duello, che produceva negli astanti il fiato sospeso per i colpi e gli affondi che i loro due comandanti si scambiavano.

Sembrava che la sorte pendesse dalla parte di Federico poiché, incalzando Giafar con stoccate ben assestate, riuscì ad inchiodarlo con le spalle contro un mangano abbandonato sul campo e lo investì con affondi, che puntavano al cuore ed al capo. Giafar parò con maestria i colpi della spada cristiana e ce la fece a saltare sopra la macchina bellica, dalla cui sommità si lanciò, con un agile balzo – nonostante i suoi quaranta anni -, sull’avversario menando l’affilata scimitarra. Avanzò volteggiando con l’arma. Per tentare di fermarlo, De Palmis gli lanciò contro il pugnale. Il musulmano fece in tempo a schivarlo. Federico, sfuggendo al raggio della lama rotante, contrattaccò tentando vari affondi; cercò di disarmare l’avversario adoperandosi a fargli saltare l’arma di mano o, almeno, ad imprigionargliela. Giafar, a sua volta, riuscì a divincolarsi, ad eludere la presa allorquando Federico volle mettere in atto manovre incalzanti senza esclusione di colpi.

Il generale musulmano riprese l’iniziativa con una serrata carica. Federico, per schivare i fendenti, fu costretto ad indietreggiare senza potere volgere lo sguardo a tergo: inciampò, ahimè, in un cadavere e cadde supino scoprendo il suo petto ai colpi dell’avversario. Il saraceno approfittò di quell’attimo in cui la guardia era venuta meno per tentare di piantare la sua arma nel torace del “Cavaliere dalla Sciarpa Azzurra”. Ma una freccia sibilò nell’aria andandosi a piantare sulla fronte di Giafar: il capo degli arcieri demenniti aveva fermato la morte del suo comandante. Nicola Damaso – così si chiamava – era campione del tiro con l’arco ed a caccia non sbagliava una preda in movimento; si era riparato alla vista dei musulmani dietro alcuni scudi bizantini e si teneva pronto ad intervenire ove si fosse presentata una situazione come quella poc’anzi scongiurata. La sua mira infallibile e la mano ferma avevano operato un “miracolo”, se così può essere definito quel tipo di accadimento operato dall’intervento umano.

I musulmani, rimasti senza guida, cominciarono a fuggire precipitosamente, ma il loro comandante in seconda chiese a Federico un armistizio. Considerato che lo scontro non aveva visto né vincitori né vinti, la richiesta di tregua venne accolta a condizione che gli arabi togliessero il campo.

Dopo essersi rifocillati, Federico si trovava riunito con il suo Stato Maggiore presso il Quartiere Generale per esaminare la situazione. Aveva convocato anche Damaso per ringraziarlo e per donargli un pregevole arco romano, accompagnato da un encomio scritto per il gesto compiuto.

Due portaordini chiesero di conferire d’urgenza con il Comandante. L’uno accompagnava Benedetto Ferraris, che aveva condotto a Demenna oltre duecento cavalieri siciliani, provenienti dal contado e dai centri limitrofi, pronti a schierarsi con i combattenti; l’altro per informarlo che era stato inviato un segnale in codice dal Kastro di S. Nicola. Infatti, le vedette sulle torri di avvistamento e dei casali, allertate lungo le vallate del Mylè e del Chidas, avevano comunicato che una numerosa schiera di nemici, sbarcata al porto Pietra di Roma, guidata dal generale Ibrahim, dal litorale marino si stava dirigendo, attraverso la Gran Via , in direzione della città; era preceduta da un drappello di uomini al galoppo. L’avanguardia si era staccata dalle truppe verosimilmente per avvisare Giafar del rinforzo in arrivo; ovviamente, i nuovi arrivati non erano a conoscenza di ciò che era accaduto qualche ora prima.

Lo Stato Maggiore bizantino, di fronte alla nuova minaccia, decise di intercettare i saraceni lontano dalla città per evitare un altro assedio. La fanteria e gli arcieri partirono immediatamente. Mentre la cavalleria, dopo le opportune disposizioni ai nuovi arrivati per integrarsi con i veterani, li raggiunse lungo il percorso. Staffette, inviate ogni ora dalla fortezza di S. Nicola, comunicavano a Federico l’itinerario che i nemici stavano percorrendo. Il congiungimento dei due gruppi musulmani avvenne alcune ore dopo ai piedi del Pizzo Difesa.

Giunto a Portella di Vina, il Generale De Palmis fece attestare la fanteria ordinando al Vice Comandante Teodoro di guidarla seguendo il percorso degli uomini a cavallo e tenendola pronta ad attaccare; nel contempo, inviò un squadrone di cavalleria incontro al nemico per attirarlo in un agguato. A Passo d’Armi, nascosti sulle alture adiacenti, gli arcieri demenniti attendevano i saraceni: la cavalleria, che inseguiva i bizantini che li avevano attirati nel tranello, venne decimata. Così pure, subito dopo, i soldati appiedati. I musulmani, che riuscirono a scansare le frecce cristiane, erano attesi da Federico, alla testa del suo squadrone a cavallo.


Alle lame dei cavalleggeri si aggiunsero, qualche ora dopo, le spade dei fanti. I due eserciti erano entrati nel vivo della battaglia. I musulmani, malgrado falciati, soverchiavano in numero le forze alleate, le quali, pur tuttavia, si battevano con ardimento. Al centro dello scontro uno squadrone di cavalieri neri di scorta al giovane principe Ibrahim era pronto a recapitare i suoi ordini ai vari capi dei reparti saraceni . Federico De Palmis, avvistatolo, con gli uomini della sua guardia e preceduto da una bandiera bianca, si avviò ad incontrare il suo pari grado avversario.

Poche ore separavano la giornata dal calare del sole e gli uomini, da entrambe le parti, ad esclusione delle truppe fresche, erano stremati. Il conte di CasteMylè, dopo i convenevoli del protocollo militare e dopo avere rammentato a Ibrahim di essersi conosciuti durante il suo soggiorno a Balarm, fece presente al comandante in capo musulmano che era stata concordata, alcune ore prima, una tregua con gli ufficiali agli ordini del defunto generale Giafar e che, pertanto, con l’avanzata dell’esercito saraceno verso Demenna, essa veniva violata. Pur tuttavia, per porre fine alla tenzone, considerato peraltro l’approssimarsi del tramonto, il Comandante De Palmis propose al suo avversario di incrociare le loro lame: il vincitore del duello avrebbe dettate le condizioni allo schieramento contrario per una resa onorevole.

La proposta venne accettata ed il tintinnio delle spade dei giovani comandanti fece udire il suo suono tra il silenzio dei belligeranti, che assistevano in ansia. I due nobili si batterono da pari loro provenendo da rispettive scuole di guerra, che addestravano i propri ufficiali con le tecniche schermistiche scelte tra le migliori conosciute. Lo scontro sonoro delle spade andava avanti da oltre mezz’ora: Federico aveva dovuto affrontare una durissima e faticosa giornata sin dalla notte precedente ed aveva sulle spalle due duelli gravosi.

Il condottiero arabo intuì lo stato fisico del suo avversario ed intensificò gli assalti con agili movenze del corpo con aggressioni che cercavano un punto da colpire. Federico riuscì a pararli, ma una stoccata più vigorosa e mirata arrivò a superare la sua guardia e la punta della scimitarra saracena penetrò nel suo petto. Il capo dell'esercito demennita era sulla terra nuda, morente. Era l'inizio dell'ultima battaglia di Damànnas.

Alto un urlo si levò nel silenzio del paesaggio di morte: era quello di Costantino Faber. Al suo fedele aiutante di campo, subito accorso, il prode Federico consegnò l’ultimo respiro: “ Costantino, io muoio con la serenità di avere fatto il possibile per salvare la nostra gente e la nostra città. Dalle ceneri di Demenna, però, risorgerà la volontà, ancor più decisa, di cacciare l’invasore da questa terra. Sarà un’impresa difficile. E’ per questo che Iddio ha voluto che oggi si compiesse sì drammatico avvenimento; per questo motivo sembrerebbe che ci abbia abbandonati. Ma non è così. Questa tragedia armerà le menti e le braccia dei siciliani, i quali intensificheranno la lotta della resistenza al saraceno: oggi, quest’ultimo ne uscirà baldanzoso e maggiormente deciso a rivoltare la sua scimitarra contro Cristo. Ma, presto, i siciliani si affrancheranno dalla tirannide saracena e ritroveranno la libertà perduta”.

Dopo una brevissima pausa per dar modo al dolore fisico di attutirsi, il Conte di Castelmylè, con un fil di voce, proseguì:

Mio fedele amico, raccomando a te la mia Bianca ed il mio figlioletto, Roberto. A loro ho affidato la missione di salvare la nostra gente: coloro che vorranno seguirli, andranno a fondare una nuova collettività e la nostra civiltà, i nostri valori spirituali e la nostra fede continueranno a vivere nella nuova terra. Pianoro delle Rose li attende! Dopo che io avrò consegnato la mia anima a Dio, cerca di fuggire da quest’inferno, Costantino, non sarai tacciato di essere un vile perché ti do il mio ultimo ordine: raggiungi la nostra gente ed i miei congiunti per proteggerli ed aiutarli al posto mio. Che Dio sia con te”.

Poi, .....:

Padre, io ti vedo, lassù, su quella nuvola… si… prendo la mano che mi porgi… per congiungermi a te… conducimi, ti prego, alla presenza di Dio nostro perché possa accogliermi per sempre, dopo aver perdonato i miei peccati… Addio Bianca, addio Roberto… addio Demenna, baluardo dei cristiani e della civiltà di questa splendida isola”.

Chiusi per sempre gli occhi, il suo giovane volto, non più sconvolto dal dolore, divenne luminoso e sereno come quello di chi dell’Amore e della Giustizia ha fatto una costante della sua vita.

Il generale musulmano invitò gli uomini di entrambi gli schieramenti a continuare la sospensione della battaglia, fece deporre su assi intrecciate il cadavere dell’avversario, con accanto la sua spada ed il suo pugnale, e lo consegnò al vice comandante bizantino; acconsentì, indi, che una squadra di cavalieri demenniti scortasse il corpo del loro generale, trasportato a spalla da alcuni fanti, sin dentro le mura della città. Guidava il drappello Costantino Faber.

Teodoro ordinò ai suoi di presentare le armi mentre il corpo di Federico lasciava il campo di battaglia; eguale ordine impartì ai musulmani il generale Ibrahim. Alcuni stendardi bizantini, caduti, furono sollevati da terra per unirli agli onori resi dagli uomini al loro prode Capo.

Scomparso il corteo funebre alla vista delle due armate, il vincitore invitò gli avversari a deporre le armi.

Rimaneva ancora qualche ora prima che il buio della sera avvolgesse il teatro di guerra. Il vice comandante demennita percepì che loro sarebbero stati passati per le armi o fatti schiavi e che, comunque, la loro città sarebbe stata aggredita e distrutta. Tentò, quindi, la soluzione disperata. “Finché una spada cristiana si alzerà nel cielo, - rispose Teodoro –la memoria di Federico De Palmis non sarà disonorata con l’onta della resa”. Così dicendo si gettò sul nemico con incredibile accanimento e coraggio, seguito dai suoi. Molti eroici demenniti caddero in quel campo di battaglia, fieri di avere abbattuto almeno un paio di saraceni, mentre i più furono incalzati dalla cavalleria e sospinti verso il non lontano pendio, laddove gli arcieri ed i fanti musulmani li massacrarono. Chi riuscì a sfuggire all’odio saraceno, precipitò, scivolando lungo la scarpata, nell’orrida gola sottostante, a picco sul torrente Mylè, laddove venne sommerso dai cadaveri rotolati dall’alto. Migliaia di morti, una carneficina.

A Passo d’Armi avvenne, quindi, uno dei più cruenti scontri, nella storia della Isqiliah, tra cristiani e musulmani: da un lato, siciliani, demenniti e bizantini; dall’altro, arabi del Nord Africa.

A Passo d’Armi si decise la sorte di Demenna, la quale, dopo lunga, eroica ed ostinata resistenza al saraceno, venne espugnata e totalmente distrutta dall’odio accumulato nei decenni dallo straniero invasore. Dai menestrelli contemporanei, l’evento venne ricordato come “L'ultima battaglia di Damànnas”, mentre i musulmani, per festeggiarlo, denominarono quel territorio circostante con il toponimo di “Fragalà”, che in arabo significa “gioia di Allah”


U pricipiziu supra u Mylè

(Originale,in lingua sicula)


Ggiòia di Allah

i saracini vincitura

chiamare u locu

unni scannaru i cristiani.

Chiddi chi scamparu

ddà scimitarra

fujeru versu pinnina

ma foru junciti

e ‘mmuttati

‘nta ddu orribili pricipiziu.


Javi mill’anni

ca ‘nte notti di timpesta

iiettunu vuci

dd’animi ammazzati

e acchiananu di ddu funnu

c’u fracassu

di lami omicidi

e furriunu ‘nta vaddata

‘nvistuta dù ventu furiusu.


Miravigghiusu

è u paesaggiu chi cummogghia

i làpidi chi non esistunu

di ddi corpi sfracellati.

Furria u nibbiu

cu so volu pumatusu

prontu a ‘mpiccchiata

dannu vuci

o cantu di bbattagghia

p’mmpriggiunari

‘nte so zampi

a preda di guerra.


E’ sempri

u pricipiziu da morti

ma puru da natura

tantu, ma tantu bedda.



(In libera traduzione nell’altra lingua, quella italiana):

La gola sul Mylè


Gioia di Allah

chiamarono

il sito della vittoria

quei saraceni vincitori.

Coloro che si salvarono

dalle scimitarre

fuggirono verso valle

ma furono raggiunti

e spinti

in quell’orribile precipizio


Eppure

dall’orrida gola

montano

nelle notti di uragano

le urla dei caduti

sotto il ferro saraceno

e da mille anni

l’eco

di daghe duellanti

vaga

nel vuoto della vallata

attraversata dal vento.


Tuttavia

splendido è il fondale

che ammanta

le inesistenti lapidi

dei corpi straziati.

Volteggia il nibbio

con eleganti volute

pronto a tuffarsi

col suo inno di guerra

per ghermire la preda:

è ancora

la gola della morte

ma anche della natura

dolcemente bella.







XII


Non appena il drappello che trasportava il cadavere di Federico ebbe ad oltrepassare la porta della città, la Guardia del Governatore provvide a chiuderla in grande fretta. Coloro che non avevano potuto o voluto lasciare la città, si asserragliarono nel Kastron.

Le orde saracene, dopo un paio d’ore di martellamento della porta esterna, lasciata sguarnita, riuscirono ad abbatterla a colpi di arieti, ma si dovettero arrestare sotto le mura della ben munita “cittadella”. Le ombre di quella sera di primavera inoltrata videro i musulmani saccheggiare le case, che si stendevano tra la palizzata ed il Kastron, ed appiccare il fuoco a tutto ciò che capitava loro sottomano. L’assalto al baluardo, essendo già calate le tenebre, fu rimandato all’indomani.

Nel “piano del cuore”, intanto, era stato approntato il catafalco, sul quale fu deposto il feretro di Federico. La bara era poggiata su un carro da balista, disarmato, ed era coperta con la bandiera di Demenna; la famosa “sciarpa azzurra” e le insegne del Comandante De Palmis erano a fianco della macchina bellica.

Durante la notte accadde un fatto insperato, anche se inutile perché tardivo. Il messaggero che il Governatore aveva inviato alcuni giorni prima al Quartiere Generale bizantino del sud dell’Italia per chiedere aiuti, era riuscito a tornare con mille uomini, imbarcati su tre navi. Avevano navigato dal tramonto all’alba per evitare le galee musulmane che, di giorno, pattugliavano il mare Tirreno, ed erano sbarcati, alle prime luci, nei pressi della solita foce del fiume Mylè.

Si nascosero nel boschetto vicino e si mossero durante la notte, costeggiando il fiume lungo il solito percorso montano. La guida condusse gli imperiali alla palizzata a sud della città. Da lì, già alba, lungo il sentiero scavato tra le rocce, accanto agli argani, entrarono nella roccaforte, cioè nel Kastron, e subito presero posizione a difesa delle mura.

Quando i musulmani attaccarono, si trovarono, con incredulità, di fronte ad una forte resistenza, che proveniva dagli spalti, da dove venivano lanciati sugli assalitori frecce e sassi; le scale arabe, appoggiate alle mura per scalarle, erano regolarmente rovesciate. I saraceni subirono un arresto nella loro avanzata. L’improvvisa difesa, messa in piedi dai bizantini sotto il comando del Governatore Macrojanni, il quale impugnò nuovamente le armi, da tempo deposte, fece sì che il nemico divenisse maggiormente aggressivo.

Gli assalti alla “cittadella” si protrassero per tre giorni con martellanti lanci, oltre le mura, di palle di pietre, mentre gli arieti, appesantiti con l’aggiunta di un altro tronco legato a quello di sfondamento, vennero lanciati contro la robusta porta esterna.

I soldati imperiali, non avendo l’addestramento di quelli demenniti, erano lenti nelle iniziative di difesa delle mura e della porta, se non addirittura insufficienti. Ciononostante, la rocca tenne per tre giorni sino a quando i musulmani non decisero l’attacco massiccio. Essa venne aggredita con uomini che contemporaneamente si arrampicarono sia per mezzo di corde arpionate tra la merlatura, sia con scale tenute lontane dal ciglio delle mura e che vi venivano appoggiate dopo che i soldati giungevano in cima, sia inerpicandosi lungo le travi, appoggiate di traverso sugli spalti. Alla fine, fascine impregnate di grasso animale vennero deposte ed incendiate dietro la massiccia porta in modo da indebolirne la struttura, attraverso il fuoco, per prepararla allo sfondamento finale.

La forza distruttiva dei saraceni ebbe il sopravvento sui mille della guarnigione, aggrediti dopo che gli infedeli riuscirono a scalare le mura e ad abbattere la porta. Nessuno fu fatto prigioniero; chi non fu trucidato era un ferito, inerme, da abbandonare alla sua sorte.

A Demenna non vinse il valore musulmano, ma il soverchiare delle lame saracene. L’eroismo dei vinti divenne, però, la bandiera della resistenza contro la intolleranza islamica.

Il cinquantenne Basilio Macrojanni, con le sue guardie, affrontò, soccombendo, con la spada in pugno, la furia omicida di uomini molto più giovani di lui.

Impaurite dalle urla e dalla ferocia, e dall’aspetto anche, degli assalitori, la moglie del Governatore e le sue ancelle, scortate da alcune guardie scampate all’eccidio, cercarono di fuggire attraverso la solita “via degli argani”; erano seguite dai servi, che trasportavano il tesoro sacro e la porta di rame della cripta con l’intento di nascondere i preziosi in qualche anfratto delle adiacenti rocce. I musulmani, però, avvistarono il gruppo dei fuggiaschi e si diedero ad inseguirlo. Raggiuntolo sul pianoro della Rocca di Calanna, ingaggiarono una lotta con le guardie del governatore ed i servi armatisi di spade. Hirene e le sue ancelle riuscirono a fuggire con il tesoro, ma, resesi conto che sarebbero state raggiunte, preferirono suicidarsi piuttosto che essere catturate da quelle belve umane. Si gettarono in un crepaccio. I saraceni, dopo avere abbattuto il manipolo demennita, imbestialiti per aver perso la ricca preda, coprirono i loro corpi con lancio di grossi massi. I gioielli ed i monili, personali e quelli sacri, restarono per sempre di proprietà delle vittime …!

I saraceni, che attendevano il momento di darsi ai saccheggi e di scaricare i loro istinti animaleschi, quando si accorsero che la città era deserta, furono accecati dall’ira e distrussero ciò che trovarono. Depredarono gli oggetti di valore che non poterono essere salvati dato il loro ingombro, quali vasellame d’argento, immagini sacre decorate con preziosi. Alla fine, per festeggiare la vittoria, si ubriacarono e si addormentarono dove crollavano. Ma, prima sfogarono la loro rabbia trafiggendo il vescovo Manuele con i sacerdoti ed i chierici, nonché i pochi altri rimasti con loro. Li uccisero, assieme agli ammalati ed ai feriti non trasportabili mentre pregavano accanto ai cadaveri dei caduti.

Durante la notte, i fuochi dell’incendio appiccato alla città si scorgevano da lontano. Nei giorni a seguire, i musulmani, con tutti gli attrezzi a loro disposizione, diedero inizio alla distruzione delle case, delle chiese, dei monumenti ed, indi, allo smantellamento delle mura della roccaforte e di tutte le altre difese della città. Non rimase alcun rudere che potesse indicare ai posteri che lì era esistita una città. In un arco di pochi mesi, Damànnas cessò di essere la Signora dei Nebrodi e scomparve dalla geografia isolana. Essa, però, divenne un mito e fu glorificata dal tempo galantuomo consegnandola alla leggenda, quale testimonianza di “ciò che fu” nei secoli del bizantinismo siciliano.

Un istante prima che i nemici penetrassero dentro il Kastron, Costantino Faber, per eseguire l’ordine ricevuto dal suo Comandante morente, abbandonò gli spalti. Raggiunse la postazione del drappello di cavalieri e di fanti, che aveva continuato a vegliare il corpo esanime di Federico e lo trasportarono nella grotta dove venivano custoditi gli argani.

Faber, prevedendo che tutti sarebbero stati abbattuti, si attardò nella grotta, prima di raggiungere la vedova di Federico, per consegnarle, oltre che il corpo del suo uomo, anche quello del padre. Con alcuni uomini della squadra, nottetempo, uscì dalla grotta per recuperare il corpo del governatore; ce la fece, infatti, a portare via, attraverso la solita “via della fuga”, anche i cadaveri di Macrojanni e di Manuele. Vi riuscì poiché i musulmani, in preda ai fumi dell’alcool e dell’haschisch, dormivano alla grande e non si accorsero di alcunché.

Il drappello mortuario, nottetempo, raggiunse il Castello dei De Palmis, laddove Bianca, in gran segreto, poté dare sepoltura ai due congiunti; il cadavere di Manuele, invece, fu consegnato ai monaci del Monastero S.Pietro di Muely.

Dopo la caduta della città, il Kastro di S.Nicola si chiuse in difesa respingendo tutti i tentativi di assalto; ma, venne stretto d’assedio per parecchi giorni. Esaurite le scorte dei viveri, gli occupanti furono costretti ad alzare bandiera bianca; consegnatisi al saraceno, subirono la stessa fine dei loro commilitoni trucidati nella città.

Venne cancellata, quindi, nel territorio, ogni presenza bizantina e demennita essendo state divelte le pietre, una per una, sia delle mura sia delle case di Demenna.

Quell’accumulo di macerie, nel tempo, divenne una cava dalla quale estrarre sassi per la costruzione, nei borghi vicini, di nuove case; le quali venivano completate con le tegole ed i mattoni forniti dalla non lontana fabbrica in quel di Ceramo, impiantata in una zona ricca di argilla. Il sito era stato denominato in tal modo dai bizantini perchè in greco l’argilla veniva chiamata “kéramos”: uno dei tanti toponimi di derivazione bizantina attraverso i quali è rimasto un segno, a futura memoria, della presenza del popolo demennita, originario del Peloponneso, provincia greca dell’Impero Romano d’Oriente.

















XIII


Bianca Maria De Palmis, attraverso i sentieri, che si dipartivano dalle falde orientali delle Rocche del Krasto, condusse gli esuli, quelli che scelsero di seguirla, presso il Casale, del quale era Signore l’amico musulmano dei Conti di Castelmylè.

Il nobile Ammàn accolse quelle sventurate creature e concesse loro di sistemarsi a monte del suo fortilizio, nella contrada S.Nicolò, non lontana da Filipelli. Nel tempo, gli esuli vi costruirono una chiesetta dedicandola a S.Pietro; addirittura, cambiarono la denominazione del loro insediamento in contrada S.Pietro.

In quel dì, mentre si spegneva un faro della cristianità siciliana, veniva alla luce una nuova comunità, che in seguito si sarebbe trasformata in ridente centro abitato della vallata montana di Mylè. Era un luogo accogliente, ricco di acque e di animali da cacciare, circondato da alberi boschivi mentre, più in alto, sulle rocche, ricchi pascoli attendevano le mandrie di animali allevati per i bisogni della gente.

Bianca, dopo un paio di giorni, fu raggiunta dai cavalieri che avevano trasportato il cadavere di Federico al suo castello. Essi divennero la scorta permanente della contessa e di suo figlio, per proteggerli dai musulmani, che percorrevano quelle contrade occupate. Bianca volle dare il comando della scorta all’ex aiutante di campo di suo marito, Costantino Faber, il quale aveva portato a conoscenza la contessa delle ultime volontà e delle parole espresse dal suo Comandante. Egli fu accanto a Bianca ed a Roberto per tanti lunghi anni, anche dopo aver sposato Magdala Ferraris; e, quando loro si trasferirono al Pianoro delle Rose, Faber divenne il capo del primo nucleo di Guardie Civiche del nuovo insediamento urbano, che sorgeva non distante dalla loro abitazione.

La vedova, dopo essersi prodigata per una sistemazione, anche se precaria, dei suoi concittadini presso l’ospitale amico musulmano, si diresse, con il figlio Roberto, verso il proprio castello per le onoranze religiose ai suoi congiunti, i cui corpi aveva già sepolti all’interno della chiesa del castello. Amman, i capi dei monasteri vicini e dei casali, amici dei De Palmis, erano presenti alla mesta cerimonia.

Bianca era pietrificata dal dolore, ma non una lacrima nè un lamento di disperazione uscirono dal suo essere. Cacciava all’indietro, nel fondo del suo animo, la sofferenza che avrebbe voluto fare esplodere, invece, tutt’intorno; ma, ella era la giovane vedova di un eroe. E gli eroi, in genere, hanno compagne dalla forte tempra.

Durante il rito funebre, Bianca non tradì la dignità che si era imposta pur tormentata dai sentimenti che il tragico avvenimento in lei aveva scatenati: aveva perso nella sciagura di Demenna l’uomo amato, la madre ed il padre uccisi da armi sacrileghe. In questa vicenda di estremo dolore, accresciuto da una convinta solidarietà verso quello della gente nella cui comunità si sentiva pienamente integrata, non le rimaneva che l’onore e l’orgoglio di essere appartenuta ad un grande uomo di quella terra, di essere nata da genitori che avevano sacrificato la propria esistenza per quella che non era la loro patria di origine, di essere vissuta in una città abitata da fieri cristiani.

Bianca e Roberto, dopo qualche giorno, raggiunsero il Monastero di Muely, dove chiesero rifugio all’Egumeno Epifanio.

Vi trovò un gruppetto di esuli che si era perso nella notte della fuga dalla città; li abbracciò singolarmente e pregò l’Egumeno di aiutarli per una loro sistemazione. Essa stessa fece dono di una vasta estensione di terreno dirimpetto al castello dei De Palmis, oltre il fiume, perché vi si potessero insediare e coltivare la terra per il loro sostentamento. Anche lì sorse un borgo nuovo.


Non molto tempo dopo, un gruppo, fuggito da Rametta quando questa venne distrutta, raggiunse gli scampati da Demenna. I ramettesi, durante il saccheggio saraceno della loro città, si nascosero in un cunicolo segreto sotterraneo e, nottetempo, quando i predatori erano in preda ai fumi del vino, recuperarono il sentiero della fuga. Attraverso le montagne ed i boschi dell’entroterra raggiunsero Demenna, per chiedere asilo, ma la trovarono rasa al suolo.

Gli esuli raccontarono che, in un sanguinoso scontro tra la spiaggia e la roccaforte, l’esercito bizantino fu sbaragliato perdendo circa diecimila uomini dei trentamila in armi, malgrado il coraggio della fanteria e l’impeto della cavalleria, profusi sul campo di battaglia . Il generale arabo Ibn-Ammar, vincitore del combattimento, pose le tende ai piedi della città e, dopo un lungo assedio, sferrò l’attacco decisivo alla roccaforte di Ratmeh. I pochi guerrieri, che vi si erano asserragliati, vennero trucidati e la città fu saccheggiata ed incendiata.

Distrutti l’abitato e la rocca, Ratmeh, la thema bizantina in Sicilia, cessò di essere l’acropoli di Messina, la cui popolazione vi si rifugiava in presenza di un incombente pericolo nemico.Questi fatti ed atti di eroismo contro il crudele saraceno narrava quella piccola schiera di profughi di Rametta approdati anch’essi, dopo tante traversie, al nascituro borgo di Castrum Longum.

Per un ignoto evento, non certamente casuale, quest'ultimo insediamento umano e la risorta Rometta ebbero in comune, quale Protettore, S.Leone vescovo, nativo di Ravenna. La quale, com'è noto, fu la capitale, in Italia, dell'Impero Romano d'Oriente. Di conseguenza, il monaco Leone era un cittadino bizantino, che, durante l'iconoclastia bizantina, essendosi opposto all'editto imperiale, venne colpito da mandato di arresto. Egli fuggì e riparò sui Nebrodi e, successivamente, a Rometta.

Le due città bizantine, Demenna (attraverso il nuovo insediamento dei suoi cittadini fuggiti dalla loro originaria cittadina, la futura Castrum Longum) e Rometta rimasero spiritualmente unite attraverso la comune Protezione religiosa di un santo, che, guarda caso, era anch'Egli bizantino. Nel silenzio della storia, è l'intuizione ragionata che ricostruisce gli avvenimenti, ignoti ma non sempre incomprensibili.


Quando i saraceni abbandonarono il territorio di Damannas, Bianca rientrò al castello, da dove, di tanto in tanto, si allontanava per andare a visitare, accompagnata dal figlio, la gente che lei aveva guidata verso la salvezza: ed era sempre bene accolta.

Roberto, intanto, cresceva tra gli insegnamenti della madre, che non si lasciava sfuggire occasione di raccontargli del padre, della sua bontà, del suo eroismo, del sacrificio della sua vita per salvare la loro e quella di molti altri cristiani, che abitavano o si erano rifugiati a Demenna.


Qualche decennio appresso, quelle contrade furono invase da una squadraccia di predoni saraceni, che devastava, rubava ed uccideva tutto ciò che incontrava sul proprio percorso. Dopo che costoro ebbero ad uccidere i monaci del Monastero di Muely, Bianca e Roberto De Palmis, sebbene il loro castello fosse ben munito per la resistenza passiva, decisero di abbandonarlo ed, assieme alle guardie ed alla servitù, chiesero ospitalità ad Ammàn.

I conti di Castelmylè eressero una loro abitazione accanto al casale del nobile musulmano ritornando a far parte della nuova comunità cui Bianca aveva dato vita per rispettare l’ultima volontà del marito.

I predoni s’insediarono nel Castello dei De Palmis; vi rimasero qualche anno, ma vennero cacciati dall’esercito regolare musulmano, che eliminò la possibilità di residenza ad altri eventuali ospiti mandando giù le mura del maniero.


Non molto tempo più tardi, i bizantini riuscirono a sferrare l’ultimo massiccio attacco alle forze arabe mettendo fine al governo isolano degli Emiri della Casata dei Banu Kalb: fu l’inizio della riscossa, da parte dei Isqiliahni, avviata dopo l’eccidio di Damannas, per la cacciata saracena da tutta la regione. Evento, che ebbe a concretarsi, però, parecchi decenni dopo. Con i normanni d’Altavilla.























PAROLE ARABE NEL TESTO:

'Abbâs = fiume Oreto

Al Halisah= Kalsa

Al-Qarah = Alcara Li Fusi

Balarm = Palermo

Gafludi= Cefalù

Kasr = Cassaro

Chidas = Rosmarino

Damannas = Demenna o Demina

Fawarah = sorgente che bolle

Fraxinus = Frazzanò

Kolat = Galati Mamertino

Mangabah = Tortorici

Mylè = Fitalia

Miqus= Monte Scuderi nei pressi di Fiumedinisi

Mirtus = Mirto

Ratmeh o Rametta = Rometta

Tabarmin o Tauromenio = Taormina


Akbar Allah (grido di guerra) = Dio è con noi

Fragalà = Gioia di Allah

dimmi= cittadini delle città vassalle

dirhem = denaro

Isqiliah = Sicilia

Hàkim= rappresentante dell’Emiro nelle città minori

kharàg= imposta fondiaria

Qadi= governatore di città

sahteyn = due volte la salute a voi




Topografia del territorio, dove si sono svolte le vicende narrate






Post-fazione


Le pagine di questo libro sono nate dalla trascrizione di racconti, certamente ornati, nel tempo, dalla fantasia di chi li ha trasferiti ai propri eredi; di conseguenza, devono essere lette come storie romanzate. Alcune di esse, infatti, sono figlie della leggenda!

Avrei dovuto iniziare il manoscritto con la solita frase: “C’era una volta...” poiché il mito ha preso il sopravvento sulla Storia mai scritta di fatti verosimili. Ho preferito, invece, trascriverli con la medesima sensazione provata: quella di essermi sentito proiettato indietro nei secoli e nei luoghi, indossando la veste di cronista, che ha appuntato sul taccuino i fatti ed i personaggi, descritti dal fantastico cantore; avvenimenti che, quindi, ho vergato come veridici. Ho integrato il racconto, talvolta, con qualche notizia pervenuta attraverso “frammenti” giunti dal lontano passato. Mettendo insieme questi pezzetti, li ho sottoposti ad un’opera di recupero, ove sceneggiatura e soggetti raffigurati sono stati “forniti”... dall’estro.

In “Demenna”, la sintesi del racconto orale tramandato nei secoli, probabilmente si allontana, in taluni aspetti, da ciò che gli agiografi hanno scritto. E’, comunque, un tributo alla memoria di demenniti e bizantini, uomini speciali, che sacrificarono la loro vita battendosi contro la scimitarra saracena, i cui nomi, però, non sono stati tramandati dalla storia Isqiliahna.

D’altronde, il manoscritto, pur essendo un mix tra fatti realmente accaduti, personaggi esistiti e fantasia, va inteso come un onore reso “a posteriori” a ciò che gli eredi degli spartani – i demenniti – hanno fatto, insieme agli altri, per questa terra, lontani dalla patria di origine schierandosi a difesa della cristianità e combattendo per la libertà.

La genia demennita non si è estinta con la distruzione dell’omonima città perché i sopravvissuti hanno dato vita ad altri insediamenti umani. Nei quali, ancor oggi, alcune peculiarità del patrimonio genetico dei demenniti sono presenti: la fierezza e la forte religiosità, nonché l’amore incondizionato per la terra natia.

Nella presente edizione si è revisionato, integrato ed aggiornato il contenuto della precedente narrazione, “Demenna, l’impatto saraceno”, con altri fatti: le distruzioni di Taormina e Rometta ad opera dei musulmani, la presenza di San Luca nella sua terra natia, la descrizione e la leggenda del Castello di Mylè, quadri della Palermo araba, sede dell'emiro.

Infine, la vicenda narrata è stata introdotta nel periodo storico dall'intervento scritto dalla Prof.ssa Fara Misuraca, che ringrazio per la sua disponibilità e per la chiara esposizione degli avvenimenti, che hanno attraversato la Sicilia nel periodo della dominazione musulmana.

Per concludere queste note, stralcio da un mio lavoro documentale il seguente testo:

“Soffermandosi sui ruderi archeologici della città esistita nei dintorni del Pizzo del Crasto, cima più alta delle Rocche omonime, il Surdi, nel 1700, scriveva: “fino ad oggi si scavano lapidi, mattoni e vestigi di fabbriche”. Ho consultato documenti o frammenti di essi, immagazzinando anche le poche notizie che contengono un riferimento al territorio attorno alle Rocche del Crasto.

…......

Si è imposto all’attenzione un manoscritto, riferito ad una antica popolazione greca del Peloponneso, gli abitanti di Lacedemonia o Sparta, che facevano parte della tribù dei Dimani, una delle tre in cui erano divisi gli spartiati. Mettendo insieme quanto ci viene fornito dalla storia greca con ciò che il documento in questione asserisce, la cosiddetta "Cronaca di Monemvasia", all’epoca dei Bizantini in Sicilia, appunto nel VI secolo d.C., quei lacedemoni furono cacciati dallo loro terra. Essi emigrarono e si insediarono sulle montagne dei Nebrodi, nella cui fascia rocciosa di difficile accesso diedero vita ad una loro tipicità sociale e religiosa. Ribattezzarono la città, dove si ristabilirono, per ricordare la patria lontana, col nome di Demenna, che deriva, modificato con la loro pronuncia dialettale, dal toponimo Lacedemonia o Dimani (demenniti). C’è da aggiungere che, nella terra da cui provenivano, esiste, e quindi sarà esistita anche allora, una città o paese chiamato Dhaimona.

…....

Sintetizzando un passaggio di un testo storico apprendiamo: “Dopo che gli Arabi ebbero conquistato Cefalù (858), Castrogiovanni (859) e Siracusa (878), la resistenza bizantina si concentrò fino al 956 intorno alle formidabili fortezze di Demenna, Taormina e Rometta......... Demenna, ancor più di Taormina e Rometta, è il punto di riferimento del bizantinismo siciliano, la città in cui si raccoglievano profughi e fuggitivi dal resto dell'isola e si organizzava la resistenza. “

….....


Da un sopralluogo, sollecitato dal Centro Studi “Castrum Longum” ed effettuato da due archeologi dell’Università di Palermo, Dipartimento Di Beni Culturali Storico-Archeologici, Socio-Antropologici  E Geografici , emrge che “Il sito di Paleocastro di San Nicola nel comune di Longi  è un’alta collina calcarea sul versante sinistro del fiume Fitalia, di cui domina l’ampia vallata. Presenta pareti scoscese e pressoché inaccessibili su tutti i lati , tranne che sul lato ovest, dal quale è possibile accedere alla vetta, percorrendo un sentiero che si inerpica sui fianchi ripidi del rilievo. La vetta è costituita da un piccolo pianoro stretto e allungato fiancheggiato da due speroni calcarei, di cui quello est si affaccia sulla valle del fiume Fitalia, quello ovest controlla il percorso di un’antica strada (la regia trazzera S. Marco A. - Troina ndr).

Il pianoro è cinto da un muro, che sul lato NO, l’unico accessibile, presenta un secondo sbarramento. Tratti di mura collegano la cinta del pianoro ai due speroni che lo fiancheggiano. I muri hanno uno spessore di m 1,00 ca; alcuni sembrano costruiti a secco, altri con malta. Nel pianoro sono visibili i resti di una cisterna e sparsi sul terreno si notano frammenti di tegole a profilo curvo di impasto grossolano. Dall’esame delle strutture sembra che il complesso abbia subito nel tempo rimaneggiamenti.

E’ probabile che le strutture di Paleocastro di S. Nicola siano riferibili, come suggerisce lo stesso toponimo, ad un fortino di età medioevale, facente parte di un sistema di opere di difesa, distribuite nei punti strategici del territorio. La scarsa visibilità del terreno, coperto da una fitta vegetazione, non ha consentito di raccogliere cocci diagnostici e pertanto solo uno scavo archeologico e una ricognizione territoriale, potrebbero fornire elementi utili per risalire alla datazione e alla funzione del complesso.” L'autore

Il romanzo è stato pubblicato, in I edizione, da “ilmiolibro.it” del Gruppo editoriale l’Espresso, raggiungibile con questo URL:

<http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=597210 >

con il titolo:


Di recente, la casa editrice

Leucotea” di Sanremo, dopo aver sottoposto ad editing il testo ed eliminato alcuni brani (documenti e riferimenti storici) per farne una storia romanzata, ha presentato al

XXV Salone Internazionale del Libro Torino Lingotto Fiere 2012, Giovedì 10 Maggio, Sala Incubatore, "La leggenda di Demenna" di Gaetano Zingales.


Il romanzo è stato recensito da:


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Tutto lo splendore della cultura arabo-cristiana nella Sicilia del X secolo, la guerra, la speranza, la distruzione e l’amore.
La storia di Sicilia, tra il IX e X secolo. L'impero romano, ormai decaduto e governato da Bisanzio, resiste e coesiste pacificamente con gli arabi in rapida ascesa nel Mediterraneo. Nello sfondo la tragica storia d'amore tra Federico conte di Castelmylè, giovane comandante dell'esercito bizantino acquartierato a Demenna, e la figlia del Governatore Macrojanni, Bianca. I novelli sposi, Federico e Bianca, trascorrono la loro luna di miele a corte del loro amico, il nobile musulmano Amman, cognato dell'Emiro, nella città di Palermo in un soggiorno da mille e una notte. I giorni della quiete sono destinati ben presto a finire in favore della spada.
Questa la storia della caduta dell'ultimo avamposto di Bisanzio in terra di Sicilia, degli onori, degli eroismi, della passione, della disperazione.
Un romanzo storico dove lo svolgersi avvincente degli eventi è ritmato da una struggente storia d'amore.
Demenna o Dàmannas è un'antica città, o forse un insieme territoriale, della Sicilia fondata dai Bizantini. Il nome dovrebbe derivare dal termine greco Lacedemonion (abitanti di Sparta) che dovettero abbandonare il Peloponneso nel VII secolo. Ne dà ampi ragguagli la cosiddetta "Cronaca di Monemvasia". Per la sua ubicazione fu città importante in epoca bizantina e diede il nome alla Val Demona. Fu conquistata dai Saraceni intorno all'anno 885 e perse la sua importanza. Era ridotta ad un nucleo di poche case con scarsi abitanti quando nel 920 vi nacque San Luca di Demenna. Nel XII secolo, durante la dominazione normanna cessò di esistere come borgo autonomo. (fonte:
www.wikipedia.it)


I fatti nella storia. Il libro è un romanzo storico , a cui s’intreccia una storia d’amore, il che lo rende interessante sia ad un pubblico appassionato della materia e, più specificatamente, della storia medioevale, sia ad un pubblico più attento alle tematiche dell’avventura e del romantico.
L’opera si avvale di un’impeccabile premessa storica di Fara Misuraca, professoressa all’università di Palermo.
La vicenda narrata è in parte vera e documentata, per altre parti riprende invece vecchie leggende popolari locali.

L’autore Gaetano Zingales,Siciliano di Longi, la meraviglia dei Nebrodi. Scrittore e giornalista, appassionato cultore delle storia delle sua terra. Personalità forte con una passione che lascia un segno indelebile.

Altri brani di recensioni:
Oreste Maria Petrillo

Romanzo storico interessante e appassionante. Dopo poche pagine ci si affeziona alla storia dei personaggi e all'eroe Federico De Palmis. Tratta della storia di un marito-padre-guerriero, che combatte da eroe per la sua terra e per la sua gente. Storie di guerra si intrecciano con storie d'amore. Scritto con una prosa scorrevole

* * *

Laura Caputo

Sembra di ascoltare un troubadour, un cantastorie attento come uno studioso, che racconta un arazzo di mille colori dove prendono vita, schiacciati dagli avvenimenti storici, delicate figure perfettamente caratterizzate. Mi piace molto.

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Nicoletta Stecconi …. Ha questa elegante atmosfera che riesce a catapultarti in epoche remote.. Gaetano Zingales, appassionato di storie della sua terra, ci svela così La leggenda di Demenna (pubblicato da Leucotea Edizioni nel 2012), con uno stile un po’ particolare che sembra uscito da una tragedia greca, narrando di atmosfere che ricordano le mille e una notte e di battaglie cruente che rimandano la memoria ai meravigliosi miti dell’antichità. E proprio come in ogni leggenda che si rispetti, si assiste alle gesta di nobili combattenti pronti a sacrificarsi per un destino che li prevede innanzitutto eroi, ed altrettanto coraggiose principesse all’altezza dei loro consorti.

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La storia è ambientata nella Sicilia del IX secolo, e la situazione storica dell’isola è delineata già all’inizio da una dotta e piacevole prefazione. Poi inizia il romanzo, incentrato su un particolare episodio della lotta tra cristiani siciliani e invasori musulmani, episodio diventato emblematico e leggendario, che vede protagonista la città di Demenna. Bianca e Federico sono i veri protagonisti; giovani, belli, ardenti, si vedono, si conoscono, si amano. Lui un soldato coraggioso, lei una donna forte e dolce insieme.”(Giuliana Borghesani)

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“L’interessantissima prefazione storica (Prof.ssa Fara Misuraca) introduce molto bene il tutto e colma le lacune di chi, come me, poco o nulla conosceva di quel particolare periodo in Sicilia. Comunque un bel libro, da leggere”.
(Mario Zulberti)


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"Ho trovato molto piacevole la storia e le vicende dei due protagonisti, come pure le battaglie, il coraggio e la temerarietà dei cristiani nel difendere il loro avamposto dai saraceni, come pure la prefazione storica, che mi ha aiutata non poco a capire l'argomento e ad immedesimarmi nella vicenda". (Francesca Orelli)


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Demenna come... Troia? E’ ipotizzabile un’analogia! Con la differenza che l'avvenimento epico della città orientale distrutta circa 12 secoli a.C fu cantato da un grande aedo cieco e ....."pubblicizzato", tra l'altro, con lo studio nelle scuole , dei relativi testi classici, mentre la tragedia della citta siculo-bizantina è rimasta sconosciuta sino ai nostri giorni.
Sarebbe giusto che alcuni avvenimenti storici, che hanno fatto parte della storia della Sicilia, e, quindi, di quella più vasta compendiata nei secoli e che forma la grande Storia d’Italia, fossero portati a conoscenza degli italiani. Attraverso la divulgazione di un romanzo storico, tra fantasia e realtà, per mezzo di opportuni scavi archeologici nel territorio abitato dai demenniti, e, perché no?, affidandone alla produzione cinematografica la realizzazione di una pellicola. Tutti abbiamo visto “Troy” con Bad Britt…… A Troia c’erano , in prima persona, i re orientali dell’epoca e le belle donne, a Demenna c’erano i bizantini dell’Impero Romano d’Oriente, i musulmani, i cristiani e… la Sicilia. Che, comunque, fanno parte della Storia a noi tramandata.

ISBN: 978-88-97770-01-5
112 PAGINE
BROSSURA
Prezzo: 9,90€






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