20 marzo, 2021

I racconti del Cavaliere

 

Il feudo di ...Borgolungo


Tra fantasia e verosimile realtà, racconto di fatti accaduti, da cui si è preso lo spunto per raccontare eventi - senza alcun riferimento a persone - che hanno accompagnato il feudo nel corso dei secoli.


Prima di addentrarmi nel racconto inserisco l'estratto di uno scritto che riferire la vita e la gestione amministrativa, tipiche, di un feudo siciliano , descrizione generica applicabile alle pagine di cui scriviamo.

Il barone vi esercita la giurisdizione baronale ed è il proprietario feudale di quasi tutto il territorio . Dal feudo ricava una rendita annua in onze , proveniente sia dai fondi tenuti in economia sia dai censi o canoni in frumento, segale e denaro provenienti dagli enfiteuti dei fondi che hanno avuti concessi tali terreni in passato. Il Principe governa il borgo mediante gli organi dell’ amministrazione feudale del tempo. I Giurati , il Magistrato municipale, il Capitano giustiziere, il Giudice criminale e il giudice fiscale. Governa, altresì, l’amministrazione del beni feudali attraverso un amministratore, un procuratore, un esattore, un cassiere e due  o più campieri.

Il feudatario soggiorna raramente nelle sue terre, tuttavia ha un rapporto quasi familiare con gli abitanti: tratta con tutti, conosce i bisogni di ognuno ed è prodigo di liberalità verso la Chiesa e verso i suoi vassalli. Riscuote il diritto dominicale sui terreni dati in concessione o in enfiteusi, irrisorio rispetto alla produzione, della quale gran parte rimane ai concessionari. In virtù del sistema feudale gli abitanti esercitano gli usi civici in promiscuità col “padrone” sulle terre dette comuni:, che possono seminare un anno sì e uno no; non devono pagare cosa alcuna quando si seminano i legumi, possono ararle in ogni tempo e pascolarle con qualunque tipo di bestiame. Il Principe percepisce il terraggio in frumento, segale ed orzo nell’ anno in cui vengono seminate, mentre quando non vengono seminate vi esercita il compascolo. Sul bosco detto comune o aperto, che è di assoluta proprietà della comunità, il Barone ha solo il diritto di esigervi il terraggio in segale limitatamente a quelle piccole porzioni che si seminano. Il bosco detto chiuso, il più bello e ricco di piante, è di proprietà del barone ; i singoli hanno diritto di pascere, raccogliere ghiande, fare legna per ardere e per carbone, nonché per costruire le case e gli strumenti di lavoro. Parte del  bosco è concesso in arrendamento, cioè in affitto. La Parrocchia è sotto il patronato del Barone che provvede al mantenimento del Parroco con una annua congrua in onze ,mentre altrettante le ricava da legati, lasciti e censi su terreni e case.

 Gli abitanti sono strutturati socialmente nella classe dei civili, composta da proprietari terrieri e concessionari delle terre feudali, da cui promanano i professionisti e gli intellettuali che saranno gli amministratori della nuova istituzione comunale dal 1818. Poi una più numerosa classe di piccoli proprietari, massari ed allevatori ed infine la stragrande maggioranza formata da bracciali, che non possiedono nulla se non le braccia per il lavoro nelle terre. Accanto a queste c’ è la classe dei maestri artigiani, formata da intere famiglie e discendenze con lo stesso mestiere: fabbri ferrai , muratori o fabbricieri, , calzolai,  barbieri ,  falegnami , i sartori o tessitori . Altri addetti al settore commerciale: i  molinari; i pastari,  i bottegai, i macellai, l’ aromatario, l’orefice , i trafficanti .  Nel settore pubblico vi sono le levatrici o raccoglitrici , il carceriere comunale, l’addetta alla  ruota dei proietti etc.

Nel complesso regna un antico equilibrio ed una relativa tranquillità sociale, assicurata dal paternalismo del Principe e dall’ occhio vigile della Chiesa, che fa del borgo un mondo a sé, isolato anche geograficamente e chiuso ad ogni influsso esterno.

Con l’abolizione del feudalesimo questo mondo viene profondamente sconvolto e 1’ antico equilibrio viene spazzato via, innanzitutto perché sulle terre dell’ ex feudo vengono aboliti i diritti dei singoli e le stesse divengono di assoluta proprietà dell’ ex feudatario e dei suoi eredi venendo meno anche gli obblighi che questi aveva nei confronti dei suoi vassalli.

Con legge del 1816 viene costituito il Regno delle Due Sicilie e la Sicilia perde ogni prerogativa autonomistica; abolito il parlamento siciliano, che era il più antico d’ Europa, scompare anche la dizione di Regno di Sicilia e nel 1817 viene approvata la legge amministrativa che abolisce le tre storiche valli di Sicilia, di origine araba; la Val Demone, la Val di Noto e la Val di Mazzara. Il territorio siciliano viene diviso in sette Intendenze, poi province, con a capo un Intendente, suddivise a loro volta in distretti e, quindi, in Comuni amministrati da un Consiglio Decurionale, un Sindaco e due eletti, tutti nominati dal Re. Inizia I’ amministrazione borbonica. Da queste nuove leggi ha origine uno sconvolgimento politico-economico che durerà per diversi anni prima di trovare un nuovo equilibrio. Da un lato il potere politico passa dal Feudatario al Comune; dall’ altro il potere economico si trasforma da feudale in borghese con immediate gravi conseguenze per le già precarie condizioni degli abitanti. La storia di “Borgolungo”  e del suo popolo, nel periodo feudale, il più lungo della sua esistenza, è in definitiva quella di un casale di servi della gleba, affrancatosi lentamente dal secolo XIII al secolo XIX: di una gente cioè, che, come il bestiame e gli attrezzi di lavoro avuti per dissodare i campi e costruire la fortuna del feudatario e signore, seguì in tutto e per tutto, giacché vi fu legata, le sorti stesse del feudo in cui nacque, faticosamente visse e morì, per molte e molte generazioni.”

( estratto da uno scritto di Giorgio M. Luca relativo alla descrizione di un feudo in Sicilia)


Per alcuni storici la nascita dei feudi in Sicilia ebbe inizio con la dominazione bizantina e continuò con l'occupazione araba. In effetti, i territori prima infeudati a nobili musulmani, cominciarono a prendere visibilità con la discesa dei Normanni per liberare la Sicilia dagli arabi e, successivamente, con la dominazione Sveva, ad iniziare da Federico II, intorno al 1200. Proseguì con la dominazione spagnola, nel 1288.

Il regime feudale, di cui racconto, fu instaurato dai Normanni. Il Feudatario, Barone, o comunque persona con altre corone araldiche, in tempo di guerra, forniva al Re il “frodo” – frumento, orzo, montoni, porci, vacche e vino – per vettovagliare l’esercito. Attraverso l’“adoa”, il servizio militare degli uomini del barone poteva essere convertito in denaro. Si faceva altresì l’obbligo – angariae – agli abitanti di prestare la loro opera per costruire e riparare le fortezze e le muraglie. I militi in servizio per la Guardia Nazionale erano sette, mentre, per la mobilitazione, Borgolungo doveva essere presente con sessanta soldati, più sessanta di riserva: in pratica, una mini-compagnia militare formata da tutti gli uomini abili: considerata la presenza, all’anagrafe dell’epoca, riguardava circa un centinaio di famiglie.

Presso l’ospizio basiliano, i monaci offrivano ospitalità e praticavano l’assistenza agli infermi. Altra bellissima usanza era quella di coprire gli sposi, sui gradini dell’altare, per sottrarli allo sguardo della folla, con un velo di seta bianca, detto “pallium”, quale segno di castità. Questo, allora!... Se poi gli sposi volevano avere benedetto l’anello nuziale dal Vescovo, dovevano pagare un tarì


Quì, vogliamo raccontare di uno dei più estesi feudi della Sicilia, che chiameremo – non per un falso storico, ma per parlare di eventi accaduti, senza citarne gli attori, perchè questo è un racconto, che è un misto di immaginazione, intuizione e conoscenze storiche - Borgolungo.

Precisiamo che nessuno di questi Signori ebbe i suoi natali nelle terre citate, ma, sino ad un certo periodo, col variare delle dominazioni in Sicilia, i re “stranieri”, per ringraziare i loro “capitani” dell'aiuto ricevuto, in uomini e in denaro, nelle campagne militari, assegnavano a costoro terre, casali e castelli; le cui proprietà, però, cambiavano con nuovi dominus quando il “vento” politico variava lo stemma reale. La successione , sugli scanni baronali, di padre in figlio, cominciò a consolidarsi con l'avvento di grandi e potenti famiglie nobiliari, sin quando non si ribellavano al regime reale dominante, in quel momento, e sin quando la prolificità produsse i suoi effetti di natalità.

I baroni di Borgolungo ,quelli di relativamente recente generazione, abitavano nelle città , di tanto in tanto si recavano nei loro domini e magari vi risiedevano per lunghi periodi, soprattutto in quelli estivi. A rafforzare questo assunto, a tal proposito, si rammenta che un Lancia, nel 1403, chiese alla corona di poter ipotecare terra e castello per dotare la figlia. In genere, il feudo era amministrato da uomini di fiducia del Signore.


Fu , durante la dominazione spagnola, che sullo scanno di quel centro abitato, troviamo un feudatario della potente Casata dei Lauria. Il quale vantava possedimenti in vari centri della Sicilia, ma anche in Italia e, addirittura in Spagna. In verità, il Lauria ebbe assegnato un casale con terre e boschi annessi, che trasformò in fortezza per le necessità belliche essendo un “miles”. Il fortilizio, che aveva mura spesse di due metri e mezzo, quindi adatte alla difesa da eventuali assalti da parte di forze nemiche, sorgeva solitario , distante dalle poche abitazioni di contadini e pastori, su una solida roccia a picco sul fiume sottostante. I Lauria, prima il padre , e poi il figlio, affidarono la costruzione ed il comando della fortezza (ricordata in un documento come “eius castrus”), munita di soldati, nonché la gestione del feudo di Borgolungo ad un suo uomo d'armi, un capitano, che fece venire dalla Catalogna: Gonzalvo Zandales, discendente da una famiglia di nobili spagnoli. Egli abitava nella fortezza e provvedeva a tutte le necessità, collaborato da un campiere ed un guardia caccia, per la conduzione dei terreni, degli allevamenti di bestiame, dei boschi e delle derrate alimentari, nonché all'incasso dei tributi, che gli abitanti dovevano al feudatario, il quale ne versava una parte consistente all'erario reale.

L'Ammiraglio Lauria, per la costruzione delle navi della sua flotta, aveva contribuito facendo tagliare parecchi alberi nei suoi boschi; fu con questi legni marini che dovette affrontare, in battaglia, la flotta avversaria nell'estuario, allora navigabile, del fiume Zappulla.

Di questo Signore, quando finì il suo dominio in questo feudo, rimase una testimonianza. Era Patrona della Catalogna la Vergine di Montserrat della quale i catalani era molto devoti. Il nobile Zandales aveva fatto costruire, fuori del centro abitato, una chiesa dedicata appunto alla Vergine di Montserrat con annesso un piccolo convento. Quando il Lauria dovette abbandonare, per le mutate condizioni politiche dell'isola, il feudo, Gonzalvo Zandales, che aveva messo su famiglia e si era costituito un cospicuo reddito economico acquistando terreni e beni del latifondo, abbandonò la fortezza per trasferirsi in un edificio, che in precedenza aveva costruito.


Successivamente, vediamo in quelle terre la presenza della potente famiglia Lancia, le cui origini provenivano dalla Baviera ma che , nel tempo successivo, e per diversi secoli, estese i suoi possedimenti in tutta la Sicilia. I Lancia trasformarono il fortilizio in civile abitazione, che venne denominato castello.


Il tesoro nascosto.

Una leggenda racconta che i monaci greci di un  convento vicino, per nasconderli alle razzie dei saraceni, nascosero i tesori del monastero in una cisterna piena d’acqua, nei pressi del complesso monastico. Dopo alcuni secoli, il testo, nel quale era stato scritto l’avvenimento, venne in possesso di un barone Lancia. Il quale, per trovare il tesoro nascosto, con l’aiuto di “genti”, svuotò la cisterna dall’acqua ed abbatté un muro che introduceva in una immensa grotta. Gli “esploratori” – sin da allora sono esistiti i razziatori di reperti e di antichi tesori - vennero investiti da aria gelida e da voci che minacciavano il Lancia. Del tesoro, però, nessuna traccia. Tre mesi dopo, questi morì , colpito da una “saetta di focu venuta dal cielo”.

Un eccidio dei baroni

La memoria orale racconta che il territorio era infestato dai banditi, i quali, provenendo dall’interno del feudo, appena svoltati da una mulattiera, apparivano in vista del paese e suonavano il corno per avvisare i cittadini della loro presenza ed indurli, quindi, a rintanarsi nelle loro case per non essere visti nelle loro scorrerie e ruberie. Si parla di un’agghiacciante tragedia avvenuta ai danni della coppia dei proprietari del castello per opera di una banda di predoni: il barone fu denudato e cosparso di lardo incandescente ed olio caldo, mentre la baronessa ebbe le mammelle tranciate dal pesante coperchio di una enorme cassapanca. Morirono tra stenti indicibili. Per vendetta?  Atto di killeraggio, visto che si parla di cassapanca dove si conservava il grano, per mancato pagamento del pizzo?

La storia locale parla di una vendetta da parte di un uomo, cui i baroni uccisero l’innocente figliolo, al loro servizio. Ma per quale motivo? Anche allora esistevano i tribunali: noto quello della Inquisizione, ma esistevano anche quelli per reati penali e civili. Non sempre, però, la mano della Giustizia arrivava nei piccoli centri. Peraltro, l’Universitas – l’antico Comune – era affidata per la sua gestione ad un baiulo nominato dal barone; i suoi compiti erano quelli dell’esercizio dei poteri di giustizia e di amministrazione ed era coadiuvato da un giudice e da un maestro notaro. “Homines jurati” era il loro appellativo ed insieme formavano la corte baiulare. Per le cause civili e per i crimini, il potere, però, era in mano ai baroni, i quali esercitavano anche la “gladii potestas”, che consentiva loro di elevare “furcas et perticas”; ancor oggi, il relativo sito viene rammentato come Piano della Forca, nei pressi di una contrada.

Il duplice omicidio, dalla cronaca recente, venne attribuito al feroce bandito Testalonga. Egli, per punire coloro che gli si opponevano, usava mozzare le orecchie e il naso, e non quindi le mammelle alle donne e la tortura del lardo brucente e dell'olio caldo sul corpo dei malcapitati. Testalonga si diede alla macchia vivendo di estorsioni, di furti di mandrie ed applicava la legge del taglione: ricatti e sequestri furono le sue armi più usate per colpire potenti e ricchi commercianti. Potrebbe, invero, essere possibile ciò che si racconta, considerata la grossa entità della banda, che il Di Blasi spostava, da Pietraperzia e da Barrafranca,  avendola divisa in gruppi, sguinzagliandoli, come lupi famelici, per tutta la Sicilia centrale; ma il “Robin Hood siciliano” operò, con i fatti di sangue attribuitigli, nel XVII secolo, mentre il tragico eccidio in questione avvenne in altro periodo storico. E poi, le comunicazioni dal suo quartiere generale al lontano luogo del delitto, a quei tempi , erano molto precari, se non inesistenti. C’è da dire, però, che il Castello venne abbandonato a cavallo tra il XVI ed il XVII secolo. Probabilmente per questa tragedia. Tornò ad essere abitato verso la fine del millesettecento . Per dovere di cronaca, Antonio Di Blasi, detto il Testalonga, catturato dal principe Giuseppe Lanza di Trabia, imparentato con i Lancia di Borgolungo, incaricato dal re quale comandante dell’esercito appositamente approntato, ebbe mozzata  la testa senza che abbia avuto il tempo di confessare in un pubblico giudizio i nomi dei suoi protettori, che il Lanza peraltro conosceva. Egli buttò l’acqua sporca e salvò il bambino. Che, cresciuto, si fece mafia.

Ritengo, pertanto personalmente, che si sia trattato di un mancato pagamento del “pizzo”, a seguito di un ricatto posto in essere da un anonimo gruppo di banditi che imperversavano nella zona e che colpivano a sorpresa per poi nascondersi in qualche convento o torre di avvistamento, abbandonati tra alti cocuzzoli inaccessibili. D'altronde, a causa del propagarsi del brigantaggio, il Vicerè spagnolo fu costretto ad usare la maniera forte e conferì l’incarico di Capitano d’armi a Francesco Ventimiglia, membro della potente famiglia siciliana di nobile retaggio. L’ordine era di reprimere banditi, facinorosi, omicidi e ladri in metà provincia di Messina e mezza provincia di Catania. Le pene inflitte consistevano nella decapitazione o in battute di corde. Ma, la presenza banditesca nella zona non venne sconfitta del tutto. Questo mio convincimento è corroborato dal fatto che anche , nel dopoguerra , una feroce banda di delinquenti, la soprannominata “Banda rossa”, ebbe ad imperversare nella zona.



La tragedia “du Passu 'a Zita”

In un periodo di un secolo imprecisato avvenne una tremenda tragedia, che sconvolse la popolazione del borgo, ma soprattutto colpì le famiglie gentilizie coinvolte. Il giovane erede del barone di Borgolungo, Tancredi, assieme ai genitori, venne invitato, dal Principe di Aluntium, ad un ricevimento in occasione delle nozze di un suo figliolo. Fu durante la festa che il baronetto conobbe la figlia ventenne del Principe, Sofia. Fu un amore a prima vista! Trascorsero insieme una intera giornata conoscendosi sempre di più. Rientrati a casa, il baronetto confidò al padre di essersi innamorato di Sofia e lo pregò, pertanto, di chiedere al Principe la mano della figlia. Venne inviato un messaggero in Aluntium con una richiesta, sottoscritta dal barone di Borgolungo, attraverso la quale questi comunicava all' illustrissimo signor principe che suo figlio si era innamorato della dolcissima e bella Sofia e, pertanto, chiedeva l'onore di volerla concedere in sposa al proprio figliolo, Tancredi. Nella stessa missiva pregava di comunicare tale messaggio a Sofia e, nel caso in cui lei corrispondeva il sentimento del suo figliolo, di consegnare al messaggere la risposta. Che fu positiva. Si concordò, da entrambe le parti , di annunziare il fidanzamento dei due giovani nel castello del principe. Nel giorno fissato, il padre di Tancredi si ammalò per cui il giovane fu costretto ad andare da solo alla festa portando in regalo l'anello di fidanzamento, un gioiello in oro con incastonata una pietra preziosa. Tancredi era accompagnato da una guardia armata lungo la mulattiera che collegava i due centri abitati. Durante la festa venne concordato tra gli interessati che, siccome il barone non era potuto intervenire, di andare a fargli visita ; venne inviato, quindi , un messaggero a Borgolungo affinché la fidanzata ed i suoi venissero accolti in maniera degna, precisando anche la data. Tancredi fu ospite dei suoceri per una settimana, dopo di che, alla data stabilita, la nobile comitiva si mise in marcia verso il castello del fidanzato. Preceduto da soldati a cavallo del Principe, il corteo si avviò lungo la mulattiera, che soltanto una carrozza biposto tirata da un solo cavallo, poteva percorrere. Dopo le guardie, seguivano : la carrozza dei genitori di Sofia, la carrozza di Sofia con la sua cameriera, Tancredi a cavallo, un calesse con i servitori e gli indumenti della comitiva. Si procedeva lentamente a causa delle asperità e della ristrettezza della strada. Il Barone aveva dato ordine ad una sua guardia di avvisarlo non appena il corteo sarebbe apparso in vista del paese. Infatti, non appena la colonna fu avvistata , per dare il benvenuto agli illustri ospiti, dal bastione partì una salva di diversi colpi sparati da una bombarda. I cavalli del corteo si spaventarono perchè non erano abituati al boato di quelle armi: gli uomini a cavallo riuscirono a domarli,mentre i cocchieri delle carrozze stentavano a controllare la paura del loro destriero; il cavallo della carrozza di Sofia, terrorizzato, si era imbizzarrito e, dopo ripetuti tentativi di controllarlo, andati a vuoto, la carrozza venne sbalzata fuori dalla carreggiata e precipitò dall'alto in un lungo pendio che si arrestò alla fine della forra, ai piedi di una parete rocciosa, nella cui stretta scorreva un fiume. Alcuni secoli addietro, quel sito, nella zona piana, nei dintorni di Passo d'Armi, era stato teatro di uno scontro armato tra bizantini e saraceni; costoro, sconfitti, fuggendo per salvarsi dal nemico che li inseguiva per ucciderli, a migliaia caddero in quella “orrenda fossa”, come venne definita dagli storici. Nulla poterono fare Tancredi, i genitori e le guardie se non assistere impotenti ed inorriditi al precipitare della carrozza con il loro affetto più caro. Dagli spalti della fortezza, impietriti assistettero all'orrenda tragedia e lanciarono l'allarme nel centro abitato attraverso i rintocchi a distesa della chiesa attaccata al castello. La gente si radunò nella piazza ed il comandate delle guardie informò gli astanti di quanto era accaduto. Immediatamente, guardie e volontari s'avviarono verso il luogo della disgrazia attraverso il viottolo che li conduceva al fiume. Ivi arrivati, i rottami erano sparsi qua e là, i corpi delle vittime irriconoscibili e a brandelli. Solo un volto era rimasto intatto, insanguinato, si, ma intero. Avvolsero i resti umani in teli e lenzuoli, ritornarono al paese e li deposero nel salone del castello. Nel frattempo, erano giunti i viaggiatori da Aluntium. Di quei resti umani visibili agli astanti, uno solo venne riconosciuto: il volto di Sofia. Che, ripulito del sangue, venne messo in una teca per mostrare a tutti la bellezza di quell'immagine ancora adolescente, ma anche le incantevoli fattezze di quell'incarnato, che incorniciava uno stupendo sguardo sopra un bocciolo di rosse labbra. Superfluo narrare i pianti disperati dei congiunti, cui si aggiunse la commossa partecipazione di tutti gli abitanti, i quali la chiamarono, non con il suo nome, ma con quello di “zita”. Si, perchè quella fanciulla inseguiva il suo sogno d'amore attraverso il matrimonio con il suo amato ed andava a salutare i suoi futuri suoceri, non come sposa, ma ancora promessa e nubile. Quindi, in siciliano “zita”. Da qui nacque la leggenda del Passo Zita, che ancor oggi vene tramandata di generazione in generazione. Fu così che veramente accadde? Non lo so, ma è intuibile, nei suoi più ampi contorni avendo appreso i fatti storici ed i personaggi dell'epoca da antiche fonti narrative.

Una disgrazia

Gli inquilini del castello feudale attingevano l’acqua potabile da una cisterna ubicata nel cortile dello stesso. Una giovane donna, Giulia, scomparsa nel paese, venne trovata morta al fondo del pozzo. Si tramanda che essa era al servizio della baronessa. Non si potè accertare se fu un suicidio oppure un omicidio: la voce che corse, allora, fu quella d’una storia d’amore. Con chi? In parecchi lo sapevano, ma nessuno parlò. Se qualcuno avesse parlato, avrebbe potuto fare la fine di Parrinieddu, l'informatore dei carabinieri nel romanzo di Sciascia, “Il giorno della civetta”. Ucciso! L' omertà ha origini antiche ed era già presente in quello sperduto borgo di montagna. Si racconta, però, che durante le notti di luna, nel cortile, si udivano lamenti, provenienti dal fondo della cisterna. Che venne murata!

Oggi ci domandiamo quale possa essere stato il movente. Se qualcuno degli abitanti del palazzaccio avesse voluto commettere un omicidio ( per cosa?) , riteneva di essere al sicuro buttando il corpo della giovane in fondo al pozzo dove si attingeva l'acqua per gli usi igienici? Sarebbe stato troppo ingenuo. Se, invece, si è trattato di suicidio, ci si chiede a cosa possa essere imputato. Molteplici sono le ipotesi; ma siccome, in paese, circolava la voce che s'era trattato di una delusione amorosa, si potrebbe ipotizzare che se l'amante fosse stato un servo o un uomo del popolo, non ci sarebbe stato niente di più facile che convolare a nozze riparatrici. Diversa, invece, è l'ipotesi che la ragazza sia stata sedotta da un membro della famiglia baronale, un figlio o il barone stesso , e che, pertanto, ne era rimasta incinta. Riparare alla conseguenza di un atto sessuale, singolo o ripetuto, peggio se con promesse subdole, tra un nobile ed una contadina erano cose dell'altro mondo; né si trovava una mammana disponibile a farla abortire. Giulia fu combattuta , quindi, tra la vergogna se avesse partorito , da nubile, ed il dolore per essere stata ingannata credendo forse nell'amore (sincero). La soluzione più a portata di mano, nottetempo, fu quella di buttarsi nella profondità della cisterna, all'interno del maniero. A quei tempi, la Giustizia faceva il suo corso a secondo delle convenienze sociali. Perchè, ora si? E' vero che, qualche secolo prima, una lama, in Francia, aveva pianificato la parità e l'applicazione di principi di giustizia, ma l'attraversamento delle Alpi fu faticoso, lungo e dovette percorrere due guerre mondiali. D'altronde, è risaputo che chi paga è sempre “u povireddu”.

Un immenso bene perduto da un popolo.

Ci fu un periodo in cui il borgo , attraverso l'Universitas, era gestito da homines jurati, con a capo il Baiulo, nominato dal feudatario. Per controllare il gruppo, il barone aveva nominato in tale carica il suo guardia caccia, che, per intenderci, chiameremo Camillo. Figlio di un contadino, si era conquistato la fiducia dei baroni e bazzicava all'interno del castello quando non andava in giro per il latifondo assieme ad altre guardie, di cui egli era il capo. Non bello, né brutto, ma dalla sua aveva la prestanza della gioventù ed una certa furbizia.

Durante una battuta di caccia , a cavallo, la muta dei cani scoprì in una macchia alcuni cinghiali, ne snidò uno e si diede al suo inseguimento; il Barone e gli altri cacciatori si diedero all'inseguimento ma vennero attaccati dalla mandria degli altri cinghiali. Successe il finimondo, che vide a terra alcuni cavalieri mentre il nobile venne disarcionato dal cavallo imbizzarrito, che si difendeva dalla ferocia dell'animale selvaggio che ne voleva fare un lauto cibo per sé e la figliolanza che lo seguiva. Un mastodontico cinghiale si gettò sul corpo a terra del barone, supino, facile preda per sbranarlo; riuscì a strappargli gli attributi maschili prima che le guardie, intervenute,lo abbattessero. Portato al castello, il medico non potè che constatare la perdita della sessualità del capo del castello ed altre ferite, che dovevano essere curate per potersi rimarginare.

La baronessa, ancora giovane trentenne, di tanto in tanto si faceva accompagnare da Camillo durante le sue escursioni. In una di queste, si fermarono per una colazione in un capanno disabitato di pastori. Era una giornata di un afoso mese di luglio per cui entrambi tolsero alcuni indumenti per una rinfrescata nel vicino ruscello. Camillo era a torso nudo, la nobildonna , per rinfrescarsi, aprì la camicetta e la sella del seno apparve in tutto il suo turgore. Il desiderio travolse entrambi e giacquero insieme all'interno del capanno. Era naturale che tra i due si sviluppasse una reciproca attrazione dal momento in cui la donna non poteva più giacere col marito “evirato”. La loro relazione clandestina continuò a lungo con incontri in casolari e capanni nelle campagne dei due nobili, dal momento in cui, peraltro, non c'erano di mezzo eredi.

Le continue scappatelle produssero i loro effetti: la giovane baronessa rimase incinta. Una mammana, consultata, prescrisse alcuni intrugli per farla abortire, senza, però, alcuno effetto. Laonde, l'amante del guardia caccia , con la scusante di dovere andare a trovare i genitori anziani ammalati, si recò in città e trovò il modo di abortire dopo avere sborsato una lauta somma . Rientrando, ovviamente, i due amanti continuarono nella loro clandestina relazione , ma adottarono tutte le precauzioni del caso. Ma, quando il diavolo ci mette la coda, un messaggio anonimo venne fatto pervenire al marito. Peste e corna, successe il finimondo, il guardia caccia venne licenziato ma, per dimostrare la sua estraneità alla tresca , nel giro di qualche mese sposò una giovane con la quale, contemporaneamente, filava. Naturalmente, i due amanti, interruppero di frequentarsi ma, quando capitava l'occasione propizia, non disdegnavano di giacere ancora insieme; magari per una sveltina.. Nel frattempo, il barone si ammalò gravemente e, nel girò di qualche anno , raggiunse il suo creatore. La baronessa divenne la proprietà di tutti i beni del marito. L'età avanzava pure per lei e cominciava a sfiorire il suo non più giovanile e non più appetitoso aspetto.

Per ringraziare Camillo dei suoi “servigi sessuali” , nel fare testamento, la nobildonna dispose che una estesa tenuta venisse donata a lui mentre il resto dell'immenso patrimonio, essendo senza eredi, sarebbe dovuto andare alla Universitas. Avvenuta la sua morte, poiché il Camillo ne era il baiulo, in effetti il capo del borgo, egli trafficò in maniera tale che il notaio dovette riconoscere e registrare , quindi, i beni al donatario in virtù del fatto che nessuno rivendicava la proprietà del latifondo. A distanza di alcuni anni, un blasonato, discendente dalla nobiltà asburgica, dimostrò di essere lontano congiunto del barone defunto e chiese al Tribunale reale di sentenziare il possesso degli estesi possedimenti alla sua persona. Naturalmente l'ex guardia caccia si oppose , ma , alle fine del contenzioso, il Tribunale emise la sentenza favorevole all'illustre “parente “sconosciuto. Il quale, nel giro di pochi anni, vendette tutto con il risultato che egli si arricchì ancora di più, mentre il borgo fu privato di quella immensa ricchezza, che lo avrebbe portato ad essere l'Universitas una delle più ricche della regione.



La vita nel feudo

La giornata era segnata da diversi suoni di campana: alle ore 6.00, un’ora prima dell’alba, suonava la campana del castello, alla quale, all’alba, seguiva quella della chiesa Madre per il Pater Noster e la Salve Regina; ed ancora, la nona a mezzogiorno, il vespero alle ore 19, il Credo alle ore 21, la compiuta alle ore 23 e l’Ave Maria alle ore 24. Una disposizione regolava l’uscita di notte (xiurta).


Esistevano tre Monti frumentari, la cui funzione era quella di limitare i disagi dei consumatori nell’acquisto del grano. Questo cereale veniva comprato quando il prezzo era meno caro, indi immagazzinato e distribuito ai contadini per la semina. Costoro lo restituivano al Monte con un modico interesse – misura colma, anziché rasa – per sopperire alle spese dello stabilimento. Nel 1781, il Re Borbone Ferdinando II dispose di assegnare a questi enti gli spogli dei vescovi e le rendite dei beni vacanti. Leggo anche, da documenti vari, che erano stati fondati due istituti: l’uno per la distribuzione del pane ai poveri e l’altro per l’istruzione degli uomini (sic!): probabilmente, la cultura somministrata si fermava nel sapere leggere e scrivere. Infatti, sino a qualche secolo addietro, molti non conoscevano i rudimenti di un’istruzione scolastica. Le donne del XVII secolo e di quelli precedenti dovevano rimanere “ignoranti”! Benvenuta civiltà, quindi!

Quando il barone passava “a miglior vita”, si formava un corteo che dal Castello si recava, per nove giorni consecutivi, in chiesa per partecipare alla messa in suffragio del defunto. Per siffatta cerimonia, i cittadini che partecipavano al corteo ricevevano le vesti da lutto dalla cassa del Comune o da quella del barone.

Tutti gli uomini, ad eccezione dei pubblici ufficiali e degli ecclesiastici, traevano la loro qualifica dal terreno posseduto o coltivato: “burgenses” – abitanti dei borghi – erano i proprietari di terreni, mentre i villani che coltivano la terra ed i servi facevano parte di un elenco denominato “platiatavole”.

L’industria, rappresentata dalla lavorazione della canapa e del lino tramite appositi telai, era concentrata nella corte feudale, nelle abbazie, nelle masserie e nelle case dei borghesi e vi lavoravano i servi per conto del domino. Il villano che lavorava a giornata era indicato col termine “affannaturi”. Non occorrono spiegazioni! I forni per la vendita del pane al pubblico erano di proprietà baronale, così come i mulini e le neviere; questi ultimi “opifici” venivano dati anche in affitto. Nell’agricoltura era fiorente la coltivazione dei cereali, la raccolta delle castagne e dei gelsi (le cui foglie servivano per l’allevamento del baco da seta), la cura delle viti. Questi prodotti, soddisfatte le esigenze familiari, venivano anche esportati.  

 

Nota sulla peste in diverse epoche ed i suoi riflessi nel feudo.

Nel 1918, la pestilenziale “spagnola”, nell’arco di tre anni, depauperò la popolazione del feudo mietendo parecchie vittime e non distinguendo tra ricchi e poveri. “Oltre cento anni or sono, mentre si consumavano gli ultimi fuochi della prima guerra mondiale, milioni di uomini e donne furono vittime della cosiddetta ‘spagnola”, che cominciava con i sintomi di una normale influenza. Il morbo divenne virulento, in Sicilia, tra l’agosto 1918 e il marzo 1919. Fu un’ecatombe di giovani, tra cui molte donne; alcune di queste – si racconta – riuscirono a salvarsi, mentre erano a letto ammalate, col sopravvenire del flusso mestruale (sic!). La malattia stroncò la vita nel mondo a ben 100 milioni di persone.

La Spagnola – viene affermato da Barry in una sua ricerca – uccise in un anno più persone che la Peste Nera del Medioevo in un secolo e, in 24 settimane, quanto l’AIDS ne ha ucciso in ventiquattro anni” (estratto da La Repubblica del 30-7-2008).

Sono ricorrenti nella storia i periodi pestilenziali o di colera. Nell’ottobre del 1347, i tartari, che assediavano Caffa, in Crimea, misero in atto deliberatamente una forma di bioterrorismo. Infatti, per espugnare la città, catapultarono oltre le mura i cadaveri di soldati morti di peste. I mercanti ed i soldati genovesi, per non essere contagiati dal morbo, fuggirono dalla città ed approdarono al porto di Messina. Ma il virus era già penetrato nel loro corpo ed il contagio bubbonico si diffuse in Sicilia e nel resto d’Europa: l’acme della pestilenza si ebbe nel 1348. Ad intervalli decennali, l’epidemia tornava a farsi viva colpendo ora l’una, ora altra regione o città. E ciò si ripeté per i successivi tre secoli. Il depauperamento della popolazione europea viene stimato intorno al trenta per cento.

Non si hanno notizie di ciò che accadde in quegli anni tra la popolazione del nascente Borgolungo. Ma c’è una presenza significativa verosimilmente apparsa in quei ciclici ritorni del terribile morbo. Durante le frequenti epidemie successive al 1348, si diffuse anche il culto di San Rocco. Egli, mentre si recava in pellegrinaggio da Montpellier a Gerusalemme, facendo sosta a Roma, s’imbatté nella Peste Nera. Per alcuni anni assistette i malati della città facendo guarigioni miracolose, che diffusero la sua fama. Rientrando a Montpellier, nei pressi di Piacenza, fu colpito dalla nera malattia: con l’aiuto di un cane e di un angelo vi sopravvisse. Invocato nelle campagne contro le malattie del bestiame e le catastrofi naturali, il suo culto si diffuse straordinariamente nell’Italia, legato in particolare al suo ruolo di protettore contro la peste.

Quando ebbe inizio, a Borgolungo, il culto di questo santo, la cui statua col cane è presente nella chiesa madre? In quegli anni pestilenziali? Purtroppo, non esistono documenti al riguardo, ma possiamo ipotizzare che anche in quel centro abitato l’epidemia mortale fece la sua ciclica comparsa nel corso dei secoli.

La storiografia ci riporta indietro negli anni citando alcuni eventi luttuosi dovuti a “pestilenze” endemiche, ma anche pandemiche. Nel 2000-1500 a.C., in Egitto, nel 431-430 a.C. ad Atene, nel 165 d.C. l’esercito romano, nei suoi spostamenti, la diffuse in gran parte dell’Impero, nel 541 si abbatté sui territori dell’Impero Bizantino e venne definita “peste giustinianea”. E così via di seguito, sino ad arrivare ai secoli XIX e XX. Queste calamità erano causate da movimenti di eserciti in guerra, da carestie a seguito soprattutto di difficoltà di approvvigionamento alimentare, da parassiti trasmessi dai ratti che popolavano le stive delle navi onerarie.

Tutto ciò allora. Ma adesso? Come si è diffusa la pandemia del Covid 19?. Un virus sfuggito da un laboratorio di ricerca scientifica in Cina? Un ratto o un pipistrello? Una improbabile guerra batteriologica scatenata da qualche pazzo? Tutte leggende metropolitane, a cui ancora la scienza non è riuscita a dare una risposta precisa. Si sa che c'è ma non si sa la sua origine. Uno scienziato, di recente ha affermato che, dopo avere sconfitto la pandemia attuale, con la vaccinazione di massa, non è improbabile che essa dopo un certo periodo possa ritornare, magari con nomi diversi. Africano, cinese, giapponese, australiano, americano? In pratica, non bisogna mai abbassare la guardia. Belle prospettiva di vita , per noi e per le generazioni future!



Gaetano Zingales












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