16 febbraio, 2022

Quel borgo baciato dalle acque del Mylè di Gaetano Zingales - Eventi cronologici, documenti, immagini, biografie nelle terre di Longi

 

Questo è il testo di alcuni capitoli on-line, pubblicato senza foto in quanto il blog non inserisce  immagini.

Il libro completo è acquistabile  presso la casa editrice <https://www.booksprintedizioni.it/autore/gaetano-zingales>, ma anche su Amazon e nelle librerie

Prefazione di

Immacolata Pidalà


©Copyright 2018 Gaetano Zingales

Tutti i diritti riservati


"SAPERE QUELLO CHE VA FATTO

ED ESSERE CAPACE DI SPIEGARLO,

 AMARE IL PROPRIO PAESE

ED ESSERE INCORRUTTIBILE

SONO LE QUALITA' NECESSARIE

AD UN UOMO CHE DEVE

GOVERNARE LA PROPRIA CITTA' ".

(PERICLE 460 A.C.)




     




                               PREFAZIONE


 ‘L’individuo che non onora la propria terra,

non onora se stesso’ (Paulo Coelho )


L’opera di natura fortemente storica si caratterizza come un excursus che prende avvio dalle origini di Longi strettamente connesse alla distruzione dell’antica città di Demenna e della sua roccaforte, snodandosi attraverso i secoli che videro il susseguirsi degli innumerevoli casati nobiliari fino all’unità d’Italia e oltre ancora con il novecento, le sue guerre e privazioni varie arrivando sino all’era contemporanea con un particolare riguardo agli eventi storico-politici, alle attività svolte, alle catastrofi naturali e non, e da cui è stato contraddistinto questo piccolo centro montano; nonostante le difficoltà a reperire documenti vari, l’autore riesce con una meticolosa ricerca anche online a far emergere scritti importanti (es:. Concordia...) a testimonianza della presenza e della condizione complessiva di Longi nei vari periodi storici..

Nel testo trova un’ampia trattazione la realtà attuale sia sul piano territoriale, politico, demografico e le relative problematiche ad essa inevitabilmente correlate e che lasciano spazio ad un’intensa riflessione personale come la spinosa questione dell’eredità ‘smarrita’ del castello in favore del comune o l’analisi della popolazione da cui si evince un suo progressivo depauperamento dovuto a molti fattori con, di contro, l’indicazione di proposte reali per una netta inversione di tendenza e infine, non ultimo per importanza, il dilemma del dissesto idrogeologico.. Inoltre una peculiare attenzione viene riservata ai culti e alle tradizioni popolari nonché alle leggende e ai miti che si sono perpetuati nel tempo e ancora presenti e rinnovati nel tessuto comunitario; da questo punto di vista si ha la netta impressione che l’autore voglia sviscerare e al contempo valorizzare le testimonianze degli abitanti del luogo ai fini di ricostruire la vera storia del territorio circostante e di coglierne il senso più profondo. 

L’intento, apertamente dichiarato, dello scrittore è quello di fornire un resoconto oggettivo della storia di Longi che possa rimanere nella memoria dei posteri nella prospettiva di farne un buon uso per la costruzione di un futuro migliore ma senza rinnegare quel retroterra culturale da cui inevitabilmente si proviene e che si vuole nutrire con i valori dell’onestà, della giustizia e della solidarietà umana; per questo risulta importante la sezione dedicata ai personaggi illustri della collettività (Tommaso Landi, Francesco Gemma, Francesco Zingales...) che hanno fatto la storia di Longi con il loro esempio, la tenacia e le azioni svolte anche a livello nazionale meritandosi così l’appellativo di ‘eroi’ e gli onori da parte dei loro concittadini ma non sempre riconosciuti e spesso tristemente sottaciuti. 

Ed è proprio qui che affiora una precisa e puntuale descrizione autobiografica dello scrittore che annovera con scrupolo tutti gli atti e le azioni intraprese durante il suo operato in qualità di sindaco con l’implicita volontà di rendere chiarezza su quanto realizzato in quegli anni e lasciando ai lettori qualsiasi giudizio e opinione finale (‘ai posteri l’ardua sentenza’); così su questa scia ma anche in tutto l’arco dello scritto viene tratteggiato il profilo di un uomo in piena maturità che nella consapevolezza delle sue imprese, di ciò che ha ritenuto opportuno fare per il benessere della propria comunità e non, comunque sia, vuole tener fede ad un impegno con se stesso e i suoi valori di integrità e onestà assunti come doveri intoccabili :‘‘cura di essere te stesso che ti amino o no’’ recita il poeta Pessoa..

Quindi nella sua totalità l’opera si presenta come un contenitore ricco di conoscenze che ogni longese dovrebbe possedere per scoprire e irrorare le radici di un’ identità difficile da estirpare, che soggiacciono nell’interiorità di ciascuno e che l’autore scopre man mano che si addentra nel cuore della sua stessa produzione; insomma si tratta di un testo assai complesso perché ricco di eventi, caratteristiche e peculiarità di un piccolo comune nebroideo e che per questo richiede un lettore dallo spirito attento e animato dallo stesso male di cui irrimediabilmente soffre l’autore stesso: l’'amore quasi viscerale per il suo paese natio mai dimenticato. Un’immagine di Longi che, nel bene e nel male, lascia senza fiato, è quella che emerge dalla lettura di questo elaborato rimanendo come un pensiero indelebile nella mente del lettore che ama la sua terra e che, pur conoscendola e vivendola quotidianamente, potrebbe essere all’oscuro di molte vicende realmente accadute e oggettivamente discusse dallo stesso Gaetano Zingales; in fondo la mia lettura è stata continuamente accompagnata da questa espressione di Coelho : ‘L’individuo che non onora la propria terra non onora se stesso’ che mi è sempre balenata nella mente dalla prima pagina e che lasciando l’ultima pagina del libro potremmo attribuire in senso inverso a questo scrittore in grado di onorare se stesso onorando intensamente la terra di cui è frutto.

Ecco un dono che l’autore regala deliberatamente ai propri concittadini e come ogni dono va accolto e custodito con cura! 

Immacolata Pidalà




                                 PERCHE’ QUESTO TESTO


Prima di “depositare” le mie membra, già vetuste, in “quel di Ceramo”, ho voluto consegnare  al mio paese natio la sua storia, diversa da come, da altri, è stata descritta.  I fatti, per definirsi storici, devono essere raccontati così come sono accaduti. La storia, infatti, non può essere solo celebrativa ma rigorosamente descrittiva anche di eventi spiacevoli. Alcuni di questi ultimi, di cui ho memoria e conoscenza, li ho inseriti in questo mio lavoro pur non facendo riferimento diretto ai personaggi che li hanno generati perché sono viventi ancora i loro discendenti.  Seppure le colpe dei padri non possono ricadere sui figli.

L’importante è narrare il “fatto” condannandolo e deprecandolo affinchè altri non possano commettere gli stessi “reati” perché quelle azioni dolorose e illegali hanno generato danno al paese ed ai cittadini che direttamente, od anche indirettamente, ne sono stati colpiti. E vanno denunciati come crimini affinché essi non si ripetano. 

Altri storici futuri, probabilmente, fra cinquant’anni scriveranno “apertis verbis”. Io ho narrato gli episodi senza indicare i personaggi con il loro cognome: alla perspicacia dei lettori lascio la possibilità di individuare i defunti attori.

Qualcuno potrà obiettare che sono vicende del passato  e vanno taciute perché riguardano persone defunte. Non sono d’accordo nel momento in cui costoro hanno generato devastanti dispiaceri, le cui conseguenze sono state a lungo presenti nel tessuto sociale longese, cambiandone anche il decorso di vita socio-economica, ma anche delle persone coinvolte. E’ probabile che i pochi lettori che mi leggeranno non saranno d’accordo. A costoro dico che uno storico si può definire tale se la sua coscienza descrive, nel rigore della verità, gli eventi senza omissioni o reticenze, né mistificazioni oppure ingigantendo gli stessi. Cioè, nudi e crudi. Inoltre, aggiungo che personalmente l'omertà non è nella mia cultura. Io non mi ritengo culturalmente uno storico, ma un appassionato della storia in genere, di quella locale in particolare ed in tale veste mi sono cimentato per rendere un servizio socio-culturale al mio paese natio, che ho avuto l’onore si servire in qualità di Amministratore.

L’ultimo libro sulla storia di Longi risale ad alcuni decenni addietro, mentre altre pubblicazioni succedutesi hanno trattato temi particolari. Riuscire a raccogliere notizie per un compendio completo di Storia del paese, nell’accezione specifica della materia, mi ha indotto a fare delle ricerche approfondite  per tentare di risalire alle origini per indi posare lo sguardo sui secoli successivi. 

L’archivio storico comunale, relativo ai secoli che precedettero la II guerra mondiale,  venne distrutto dalle bombe sganciate durante  il conflitto sulla biblioteca che lo custodiva, in quel di Milazzo, laddove inspiegabilmente venne trasferito presumibilmente dall’Amministrazione fascista locale. Milazzo fu ritenuta luogo più sicuro per la sua preservazione. I fatti hanno dimostrato il contrario. Durante la contemporanea era repubblicana, i documenti esistenti presso il Castello centenario vennero “asportati notte tempo”, assieme ad altri arredi, da “ignoti ladri”. Per non parlare dell’archivio parrocchiale, in cui parecchi documenti furono bruciati probabilmente per combattere, si dice, i rigidi inverni…

Ho dovuto esaminare, quindi, i pochi documenti e frammenti sparsi contenuti in alcune pubblicazioni. Da queste ultime, che hanno trattato argomenti, personaggi o eventi del luogo ho riportato le notizie più salienti. Di molto aiuto mi è stata la ricerca su internet, le interviste fatte a persone che rammentavano alcuni fatti accaduti oppure che erano la memoria vivente di leggende e tradizioni tramandate di generazione in generazione. Ne è venuto fuori un assemblaggio di notizie, discontinue necessariamente nello scorrere dei secoli, ma utili per stendere la storia del paese – senz’altro incompleta per il vuoto di alcuni secoli - dalle sue origini ai nostri giorni. 

Per quanto riguarda, invece, la contemporaneità storica mi sono avvalso di testimonianze resemi da alcuni cittadini longevi, di “relata refero”, nonché per essere stato partecipe attivamente di avvenimenti socio-politici. I quali mi hanno necessariamente indotto ad illustrarli – in quanto facenti parte di vicende recenti -  con obiettività, senza partigianeria né animosità e con il rigore che un testo di storia, affinchè sia tale, esige.

La storia ammantata da pietismo o quella raccontata per costruire un periodare simile al “Cicero pro domo sua” tradisce la sua intrinseca verità e diventa un libello da bruciare nel rogo delle inutilità. 

Il messaggio che proviene dalla pura Storia deve trasmettere ai posteri ed ai contemporanei, soprattutto ai giovani, valori che esprimano insegnamenti di un “modus vivendi” improntato ad una condotta morale socialmente giusta e solidale. E’ quello che ho tentato di mettere in piedi  attraverso questo mio modesto lavoro, durato anni di ricerche e di approfondimenti. Un lavoro, probabilmente lacunoso, ma trasparente e senza omissis né acredine e che parla di fatti lieti ma anche meno lieti. Tutto ciò che ho appreso l’ho scritto. Pagine celebrative per nessuno, semmai descrittive delle azioni e dell’operosità intelligente di alcuni; tuttavia epocali – mi sia consentito il termine - per Longi.

Fra 50 anni, probabilmente, chi scriverà una nuova Storia di Longi, riferendosi agli eventi contemporanei, lo potrà fare in maniera più esaustiva ed “apertis verbis”.

Questo secondo volume fa seguito alla mia pubblicazione precedente, “Alle pendici delle Rocche”,  in cui avevo dovuto omettere, per esigenze editoriali, alcuni documenti. Ritengo che sia venuto fuori un testo aggiornato ed arricchito sul piano storico. Infatti, questa stesura è incentrata sulla storia di Longi, dai primordi all’era contemporanea, senza ripetere eventi già pubblicati nella precedente edizione, già esaurita. Su quest’ultimo testo ho  riportato alcuni argomenti con qualche modifica rispetto all’edizione del 2003. Ho aggiunto, inoltre, altri documenti, che -  ritengo -  arricchiscono le informazioni documentali  Mi auguro di essere riuscito nell’intento senza nulla togliere alla lettura di testi analoghi, scritti da altri autori, importanti come fonti da me consultate. 

Ho dovuto narrare, in prima persona, di eventi succedutisi nel recente passato in quanto sono stato testimone e protagonista per la carica istituzionale da me ricoperta. Fatti, che, in un’ottica storica, vanno portati a conoscenza della comunità e dei lettori, anche se non lieti o dolorosi. Ometterli sarebbe stata una grave mancanza ed un occultamento della storia del paese. Oltretutto, il mio intento è quello della condivisione dell’assunto che “bisogna conoscere la propria storia passata per guardare al futuro”. E per chi si accinge alla guida della comunità, l’aggiornamento culturale su fatti ed eventi succedutisi nel tempo è un percorso doveroso ed eticamente importante per un richiamo ai valori, cui dovrebbe ispirarsi colui che vuole amministrare il paese. Ma anche per il cittadino comune la conoscenza rientra nel dovere civico.

Per una completezza di informazioni, ho inserito un mio saggio sull’esistenza della antica città di Demenna in quanto è da lì che partono le origini di Longi, dai lacedemoni, dagli spartani quindi, sbarcati sulle rive del Tirreno e rifugiatisi sulle Rocche del Crasto. Ho inserito anche altri testi di studiosi relativi a personaggi e fatti che sono stati protagonisti nel passato, lontano e degli ultimi secoli. 

 In uno con i libri dello scrittore Francesco Lazzara, ritengo che abbiamo donato al paese una ricchezza di notizie, che vanno a formare la Storia di Longi, pur essendo diverse, come contenuto, le rispettive opere.

Mi scuso per le sofferte omissioni di testi presenti nella prima edizione, ma le esigenze di natura prettamente storica e di editoria mi hanno indotto a fare siffatta scelta. In tutti i casi, mi auguro di avere reso un contributo, modesto ma completo, alla ricerca storica su  Longi.

Ringrazio la d.ssa  Immacolata Pidalà per  la profonda analisi fatta per presentare l'opera dopo la lettura del  corposo tomo.

Sono dovuto ricorrere al “fai da te” per la pubblicazione del libro essendo rimasta senza riscontro la richiesta di stampa e pubblicazione ai due enti pubblici locali. La “consueta distribuzione” gratuita, pertanto, non è stata possibile in quanto sarebbe stato un onere economico personale non indifferente, considerato il costo unitario di ciascun volume moltiplicato per le centinaia di copie che si dovrebbero stampare per tutti i cittadini. Mi scuso inoltre per eventuali errori di battitura non avendo potuto utilizzare una persona per correggere le bozze.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                     L'autore




Le origini

Da Demenna a contrada S. Pietro, e poi a Longi

Dopo la distruzione di Demenna, intorno all’anno 885 d.C., ad opera dei Saraceni, la popolazione scampata all’eccidio – greca (demenniti) e romana (latini) di  Bisanzio – si divise in diversi gruppi: alcuni si diressero ad Alcara, altri verso Longi e Frazzanò. A tal proposito riporto quanto scrive Francesco Rizzo (ma lo afferma anche il Morelli): “…ora siccome la popolazione di Crastus (secondo alcuni autori così si chiamava la città distrutta dai musulmani. Demenna venne riscoperta con la Cronaca di Monemvasia, la quale , tra l'altro -racconta che presso  la spiaggia sul Tirreno, il cui approdo era chiamato “Pietra di Roma”, nel secolo VI d.C. , si rifugiarono un gran numero di spartani cacciati dalle loro terre da invasori barbari, stabilendosi nelle colline circostanti ed estendendosi sino alle Rocche del Crasto per i pascoli) era distinta in due rami etnici ben diversi, e cioè i Greci ed i Latini, questi ultimi varcarono la cresta del monte e scesero verso il versante orientale, fermandosi per qualche tempo nella località chiamata S. Nicolò (vicino alla contrada Filippelli ), poi scesero più a valle nella grangia sovrastante il torrente Fitalia e costruirono un centro abitato protetto” da una serie di forti dislocati lungo la cresta sovrastante il detto fiume.

            Da siffatta tipicità difensiva ebbe derivazione il nome primitivo di “Castrum Longum” dovuto appunto al fatto che gli edifici-fortezza erano costruiti su una lunga fila. Un gruppo di case-torri, cioè, affiancate una all’altra in modo da formare una corona fortificata le cui mura esterne sono di fatto le pareti delle case.  Ancor oggi, alla fine della via Garibaldi con inizio della strada verso “Scagliò” bassa e verso il fiume, il posto viene indicato, infatti, come “la Porta Grande”, che rammenta l’antichissimo varco, verso il centro abitato, dalla strada sopraindicata per coloro che provenivano da Galati Mamertino e dai paesi a valle attraverso l’angusto sentiero praticato sul costone roccioso della “Stretta”. Per la cronaca, la mulattiera di cui parliamo venne allargata per consentire il passaggio dei buoi che trascinavano i tronchi di alberi, abbattuti nei boschi a sud-est del paese, per realizzare, alla fine del 1800, le traversine della costruenda linea ferroviaria Messina-Palermo. Inoltre, osservando un’antica fotografia del paese, degli inizi del 1900, notiamo che l’impianto planimetrico di Longi si estendeva in senso longitudinale da Nord a Sud. E’ stato nei tempi recenti che lo sviluppo abitativo si espanse verso Ovest.

Ritornando alla denominazione del paese, essa subì, nel tempo, alcune trasformazioni: da Castrum Longum a Longium, poi Longus, anche Alongi ed, infine, Longi. Secondo fonti documentali certe, l’esitenza di Longi è documentata in una pergamena dell’ottobre del 1183, appartenente al Convento di Fragalà.



Dal mio saggio “Tra Krastos e Demenna”

Pubblico alcuni brani relativi agli “antenati” dei longesi.


  Sul Pizzo di San Nicola della catena montuosa delle Rocche del Crasto è esistita, oltre mille anni addietro, una struttura militare, di circa settecento mq di estensione: una fortezza o una torre di avvistamento. Essa serviva per il controllo delle zone della vallata del Fitalia, a nord-est, e, ad ovest, della regia trazzera, che collegava San Marco, attraversando portella Gazzana, ad altri centri della Sicilia. Il presidio usufruiva, tra l’altro, di una cisterna per l’acqua potabile, di due torri perimetrali per i soldati di guardia e, probabilmente, di una chiesetta (dedicata a San Nicola di Mira?).

E’ altresì emerso, attraverso un sopralluogo effettuato da due archeologi dell’Università di Palermo, i professori Bonacasa ed Allegro, invitati dallo scrivente ad effettuare un sopralluogo nella zona, quanto descritto nel documento di cui sotto:

                                                   Università degli Studi di Palermo                                  Facoltà di Lettere e Filosofia Dipartimento Di Beni Culturali Storico-Archeologici, Socio-Antropologici e Geografici -  Sezione Archeologica

Sopralluogo estate 2006 – Sito Paleokastro di San Nicola

Il sito di Paleocastro di San Nicola nel comune di Longi è un’alta collina calcarea  sul versante sinistro del fiume Fitalia, di cui domina l’ampia vallata. Presenta pareti scoscese e pressoché inaccessibili su tutti i lati , tranne che sul lato ovest, dal quale è possibile accedere alla vetta, percorrendo un sentiero che si inerpica sui fianchi ripidi del rilievo. La vetta è costituita da un piccolo pianoro stretto e allungato fiancheggiato da due speroni calcarei, di cui quello est si affaccia sulla valle del fiume Fitalia, quello ovest controlla il percorso di un’antica strada (la règia trazzera San Marco- Troina. NdA). Il pianoro è cinto da un muro, che sul lato NO, l’unico accessibile, presenta un secondo sbarramento. Tratti di mura collegano la cinta del pianoro ai due speroni che lo fiancheggiano. I muri hanno uno spessore di m 1,00 ca; alcuni sembrano costruiti a secco, altri con malta.  Nel pianoro sono visibili i resti di una cisterna e sparsi sul terreno si notano  frammenti di tegole a profilo curvo di impasto grossolano. Dall’esame delle strutture sembra che il complesso abbia subito nel tempo rimaneggiamenti. E’ probabile che le strutture di Paleocastro di San Nicola siano riferibili, come suggerisce lo stesso toponimo, ad un fortino di età medioevale, facente parte di un sistema di opere di difesa, distribuite nei punti strategici del territorio. La scarsa visibilità del terreno, coperto da una fitta vegetazione, non ha consentito di raccogliere cocci diagnostici e pertanto solo uno scavo archeologico e una ricognizione territoriale, potrebbero fornire elementi utili per risalire alla datazione e alla funzione del complesso. NNunzio Allegro *                    (*Archeologo - Docente universitario NdA)”


Altre testimonianze documentali sparse


 Ipotesi sul sito e sul territorio di Demenna

“... a quota 1298, sul vertice di una piramide di roccia, accessibile, e con difficoltà, soltanto da ovest, ed ai cui piedi sgorga la sorgente delle “sette fontane”, rimangono, per un’estensione di circa settecento metri quadrati, i resti di una costruzione realizzata con muri dello spessore variabile da un metro ad un metro e sessanta, legati con grande quantità di calce e con l’impiego di mattoni di argilla molto grandi”. Il punto più alto della vetta, m. 1298, presenta “un acrocoro praticabile con non più di 2000 metri quadri di incerto pianoro” ... “ L’acrocoro è bipartito da un dislivello che separa la parte orientale, più bassa ed affacciata sugli abitati di Longi e di Galati,  dalla parte occidentale, più alta ed impegnata dal sistema più cospicuo dei ruderi”. I ruderi del nucleo centrale fanno intravedere la delimitazione di “ più locali consecutivi (almeno quattro) disposti nella parte più alta  della vetta e direttamente affacciati lungo il fianco settentrionale”. (Camillo Filangeri–I ruderi di un paleocastro sui Nebrodi 1978).




Lo schema planimetrico della fortezza, secondo Filangeri



COSI' LA SOPRINTENDENZA DI MESSINA

In data 16 luglio 1999, la Soprintendenza BB.CC.AA. di Messina scriveva, tra l'altro, ai Sindaci di Longi ed Alcara Li Fusi, nonchè p.c. al Parco dei Nebrodi : " Con riferimento ai sopralluoghi del 9.06.99 e del 23.06.99 da parte della dott.ssa Gabriella Tigano, responsabile di zona, si comunica quanto segue......................Per quanto attiene tutta la zona di Rocche del Crasto, si sottolinea che essa è senza dubbio potenzialmente di rilevante interesse  archeologico in quanto frequentata in età preistorica....e lungo l'età tardo antica  e medievale ( come è indicato a livello superficiale dalle numerose concentrazioni di cocciame superficiali rilevabili sia sulle balze superiori che nei pendii). Per il Pizzo di San Nicola che sovrasta la località Settefontane, si segnala la pubblicazione di Filangeri (in Sicilia Archeologica n. 51.1983) che ha pubblicato anche un rilievo delle strutture bizantine ben in luce sull'acrocoro."


ED ANCORA

"La rocca di Demenna, la cui localizzazione non è mai stata individuata con precisione, insisteva comunque nel territorio a sud di Alcara, probabilmente sulle Rocche del Crasto. Questo sito faceva riferimento a strutture difensive che integravano le difese naturali, come il “paleocastro” individuato da Camillo Filangeri a quota 1298 su pizzo San Nicola, e ad un sistema di rimandi visivi che permettevano il controllo delle vallate, probabilmente in continuità storica con lo sviluppo dell’insediamento dei Lacedemoni.” (Fabio Tedesco- Il sistema difensivo altomedievale in Valdemone- Paleokastro maggio 2006). Derivandola dal latino castrum, i bizantini chiamarono la loro fortezza kastron, da cui paleocastro, cioè antica fortezza o roccaforte.

* * *

Le piccole ma razionali fortezze Bizantine erano concepite  per avvistare il pericolo e per resistere temporaneamente ai raid in attesa di aiuto  in quanto il grosso dell’esercito viveva nelle città e si spostava all’occorrenza.

* * *

“...Potrebbe essere questa la Gran Via che, passando per le Rocche del Crasto, collegava la marina di San Marco a Demenna, sito fortificato ove soprattutto in età prenormanna potevano trovare rifugio  nei momenti di pericolo gli abitanti di questi territori.” (Roberto Motta – Alta via: la Dorsale dei Peloritani e dei Nebrodi ed il sistema delle trazzere – Paleokastro – maggio 2006).

* * *

Sugli antichi collegamenti viari del “territorio demennita” , la Prof.ssa Lucia Arcifa, tra l’altro, scrive che “l’asse tra Troina e S. Marco, attraverso i monti di S. Elia di Embula, Portella Maulazzo, Scafi, Mangalavite  giungeva a S. Marco dopo avere oltrepassato il convento di S. Filippo di Fragalà; una serie di assi minori, dipartendosi da questo dromos, garantivano i collegamenti con i centri di Alcara, S. Fratello, e Militello”. Ed, in un altro passaggio del suo saggio, continua col dire : “ Se esaminiamo nel dettaglio la strada tra Troina e S. Marco sono istallati lungo questo tracciato anzitutto il S. Filippo di Fragalà, la grangia di S. Pietro Deca all'incrocio con l'antica via Valeria e,in direzione sud,  S. Nicola di Paleocastro, S. Pietro di Mueli, S. Giorgio di Grappida e infine il S.Elia di Ambula, fino al S. Michele di Troina” ,… “ma anche kastellia, roccaforti di più piccola entità, che svolgono un preciso ruolo nel controllo strategico del territorio, come Pizzo Mueli o il sito di Rocche del Crasto, sito d'altura, posto a circa 1000 metri di altezza, con evidenti resti di strutture”.


( da Viabilità e insediamenti nel Val Demone. Da età bizantina a età normanna -Lucia Arcifa)

ALCUNI  REPERTI VENUTI ALLA LUCE NEL TERRITORIO IN ARGOMENTO 


(Foto) "Parte terminale di una grande spada di bronzo...spezzata .. e ..riutilizzata ..come cuspide di lancia, con una immanicatura". Il ferro, che si trova, a Siracusa, presso la Soprintendenza alle Antichità, è attribuibile, secondo il predetto Ente, alla tarda età del bronzo ( X-XIII sec. a. C) ed è stato trovato in contrada Miglino dal Sig. Vincenzo Lazzara di Longi, il quale l'ha consegnato alla Caserma dei Carabinieri del luogo.

Gli studiosi della storia siciliana, soprattutto della sua preistoria, affermano che i Sicani sarebbero approdati in Sicilia 6000 anni circa prima della nascita di Cristo. Essi erano pastori e agricoltori ed abitavano le alte vette dei monti. Insediati in origine su tutta l’isola, furono sospinti nelle parti occidentali a seguito di una forte eruzione dell’Etna , che ricoprì vaste zone dell’isola, e dopo alcuni scontri con i Siculi, approdati nell’isola nel corso del secondo millennio a. C., che li rinchiusero nella parte sud-occidentale dell’isola. Gli studi archeologici, però, fanno risalire al III millennio a.C. l’insediamento sicano nella Sicilia occidentale, in particolare nella parte situata ad ovest dell’Imera del sud. Soppiantando lentamente i sicani, i Siculi si insediarono nella parte orientale dell’isola.

Ho ritenuto di dovere riassumere la presenza ed i movimenti dei due popoli perché c’è chi sosterrebbe che quel “ferro”, che si trova presso il Museo di Siracusa, sia da attribuirsi ai sicani abitanti di Krastos, sui Nebrodi. E’ chiaro, invece, che quella lancia appartenne al popolo siculo, se è vero che il reperto risale alla tarda età del bronzo (XIII – X sec a.C.). Inoltre, in un mio saggio ho confutato la tesi di alcuni studiosi, secondo i quali Krastos era sulle Rocche del Crasto; infatti , attraverso ricerche e studi sono arrivato alla conclusione che Krastos era nella Sicilia occidentale, sui Monti Sicani, in quel territorio che oggi fa parte della provincia di Agrigento.


Graffiti sulla parte orientale del Pizzo del Crasto : antica nave ?

Dal “cimitero dei saraceni”, salendo verso la parete orientale inferiore del Pizzo del Crasto, si scorgono alcuni graffiti, i quali, malgrado sbiaditi dal tempo, fanno intravedere sagome di antiche navi a vela. Rammentiamo che i demenniti erano provenienti dal Peloponneso, da una località marina. Lo sconosciuto “artista” venne ispirato da un tale ricordo?

Ph sopra: Monete bronzee trovate nei pressi del “Chianu du Cori”, Valle di Sfannumu


Frammento monile femminile trovato nei pressi del “Chianu du Cori”


Fregio sepolcrale ?    

                               



 Frammenti di mattoni sul Paleokastro S.Nicola

                 Grosso mattone bizantino, sul Paleokastro, nel quale, al centro, è possibile vedere la crosta di un pezzetto di intonaco dipinto. Chiaramente doveva fare parte di un ambiente chiuso, molto probabilmente dell’annessa chiesetta di San Nicola di Mira.


Anello bizantino

Sigillo di Costantino, con cui il comandante delle forze bizantine in Sicilia ha autenticato un suo dispaccio inviato ai difensori di Demenna e rinvenuto al Piano Miglino, alla base del Pizzo di S. Nicola ( cfr. G. De Maria in Storia illustrata di Alcara…)


Nota. Alcuni dei reperti di cui sopra sono stati ripresi da una pubblicazione del prof. Gaetano De Maria.


Cartina geografica è di Liliane Dufour, dei primi anni del 1700. Nell’immagine, a SO di Longi, è riportato il sito di un “ Castro”: ovviamente, quello di S, Maria o di S. Nicola. L’esistenza della fortezza bizantina in posizione strategica, sul Pizzo di S.Nicola, aveva un motivo d’essere in quanto era a presidio di un concentramento umano. Quale, se non Demenna? Non avrebbe avuto senso costruire un “castro” in un territorio privo dell’elemento umano insediato in un centro abitato lontano o in nuclei sparsi, anche se contigui.


Rilevamento grafico del Paleokastro sul Pizzo di S. Nicola a cura dell’Arch. Franco Brancatelli.

 

 


Resti di cinta muraria nel Pianoro di Miglino alle falde occidentali del Pizzo di San Nicola (Rocche del Crasto), sulla cui vetta era stato costruito il Kastro a difesa di Demenna- (De Maria, I Quaderni della valle del Fitalia)

Rocche del Crasto. Parte del territorio in cui verosimilmente  vissero i demenniti






Legenda: ( A )  Pizzo di S.Nicola (Castro); ( B )  Contrada Miglino; ( C ) Chianu du Cori ;

( D) Cimitero Saraceni; ( E ) Scontro armato


       

   L’importanza delle leggende e dei toponimi

Se è vero che le leggende traggono origine soprattutto da antichi fatti accaduti e che i toponimi spesso derivino dal nome di persone o da avvenimenti che abbiano avuto a che fare con quell’area territoriale, di essi non può non tenersi conto nel supporto alla dimostrazione di realtà ivi esistite, seppure scomparse; soprattutto quando bisogna confrontarsi con elementi, ritenuti probanti ma che, invece, sono fievoli testimonianze. Ebbene, esistono posti che il “passa parola” nel corso dei secoli, trasformatosi in leggenda, ha fatto pervenire a noi una loro denominazione per essere stati teatro di avvenimenti. La vicenda magari sarà stata manipolata, rispetto ai fatti originari, man mano che il racconto passava di bocca in bocca, di generazione in generazione, assumendone contorni ed aggettivazioni diversi; ma nella sostanza rimaneva una forte impronta veritiera.     

Si narra che, per sfuggire alla crudeltà dei saraceni -che praticavano lo stupro, la schiavitù e le percosse -, la moglie del Governatore della città, Pistolla, assieme alle sue ancelle e con i gioielli, preferì lanciarsi in un burrone profondo circa cento metri. Esisteva ed esiste ancora, a sud-ovest del Pizzo del Crasto, la cosiddetta “Buca della Regina” o “Sciacca di Pistolla”, raggiungibile dalla vecchia città attraverso un sentiero, che, dopo aver attraversato la “valle du sfànnamu”, continuava tra le rocce per arrivare alla Rocca Calanna, uno strapiombo di circa 80 metri. Una versione, leggermente rimodulata, asserisce che gli abitanti di quell’agglomerato urbano di cristiani, che vivevano nella vallata compresa tra le falde dei Pizzi di San Nicola e del Crasto, dominata dalla fortezza sul San Nicola, resistettero per ben ventisette anni agli assalti dei “turchi” (sic!) e che, per salvarsi dal massacro saraceno, la loro regina, che si chiamava Calanna, fuggendo, cadde nella profonda fenditura delle rocce, le quali da essa presero il toponimo di Rocca di Calanna. 

* * *

Si racconta che, sempre parecchi anni fa, sia venuto alla luce alle falde del Pizzo dell’Acquafridda, a sud-ovest delle Sette Fontane, in occasione del lavoro di aratura del terreno, uno scheletro umano di corpulente dimensioni, sepolto con la sua arma, una scimitarra. Appartenne ovviamente ad un musulmano. La zona è denominata “Cimitero dei Saraceni”. Nella stessa area esistono altre tombe contrassegnate da grosse pietre, di una certa lunghezza, ma portate da altre contrade, in quanto quel tipo di materiale litico ivi è inesistente. Ed ancora: proseguendo oltre, sulla cima del Pizzo del Crasto, è possibile vedere delle lastre di pietra di grande dimensione (“ciappe” in siciliano), sulle quali è stata scolpita una croce: si tratta ovviamente di loculi cristiani.  In quella zona ed a Piano Miglino, nonché sul Pizzo di San Nicola, a detta di alcuni, sono stati trovati reperti antichi: monete bronzee, vasi dipinti, frammenti marmorei, cocci vari.       * * * 

Il gong trovato e perduto

Il Paleokastro, chiamato anche kastron di Santa Maria, dopo il suo abbandono o distruzione, venne donato dai normanni all’Abbazia di Fragalà con tutto il territorio attorno divenendo la grangia di San Nicola di Paleokastro. La sua denominazione di fortezza venne dimenticata perché la struttura fu utilizzata quale mulino a vento per la macinazione dell’enorme raccolto di grano, cui quei terreni vennero destinati. Oggi, si possono vedere le tracce murarie e qualche rudere attribuiti, dai contemporanei, ad un esistente “mulino a vento” – la posizione è quella ideale – con relativo magazzino per il deposito del grano, raccolto nella grangia di San Nicola di Paleokastro, servente appunto il Monastero di San Filippo di Fragalà. 

La conferma, però, che la costruzione sia stata quella di un kastron o fortezza, o torre di avvistamento di una certa dimensione, mi venne dal Sig. Beniamino Lazzara, oggi defunto, che, parecchi anni addietro- allora ragazzino-, da una crepa della roccia sul Pizzo di San Nicola, tirò fuori un manufatto in bronzo di forma romboidale, spesso tre dita: in pratica, un gong per dare l’allarme. Scivolatogli dalle mani, per il suo peso, rotolò in un baratro e fu impossibile recuperarlo. Mi è stato indicata, però, la zona in cui sarebbe caduto e, presumibilmente, ove non scavato da qualche tombarolo, è ancora lì, sepolto da scivolamenti, lungo un arco di circa ottanta anni, o più, di terra e pietre. Gli smottamenti di terreno o il rotolamento di massi, a seguito di eventi sismici, nel tempo, hanno coperto il prezioso reperto archeologico. Il povero capraio, qualche anno prima che morisse, mi indicò la parete rocciosa del Pizzo da cui il gong era caduto: quella di sud-ovest. Sarebbe opportuno fare apposite ricerche geo-archeologiche da estendere, oltretutto, a tutta l’area del Paleokastro e dintorni.

Si tramanda, inoltre, che una porta di rame chiudesse una “struttura” pubblica dell’epoca, raggiungibile scendendo attraverso i gradini scavati nella roccia: non si sa quando, questo “ufficio” è stato coperto da massi franati dalla montagna sovrastante. Altre versioni sul medesimo sito, denominato “Portella di rame”, fanno sapere che gli abitanti assediati, avendo avuto la consapevolezza che la loro fine era prossima, gettarono in un crepaccio della roccia i loro averi di un certo valore nascondendoli con una grande lastra di rame che coprirono con enormi sassi.


La cima del Pizzo San Nicola vista da quello del Crasto. 

"U chianu du cori" (ph. sotto) e la " Valle dell'acero" (foto sopra), che  si trovano alle falde del Pizzo del Crasto -  

Altre considerazioni e conoscenze tramandate

Gli studiosi della storia siciliana, soprattutto della sua preistoria, affermano che i Sicani sarebbero approdati in Sicilia 6000 anni circa prima della nascita di Cristo. Essi erano pastori e agricoltori ed abitavano le alte vette dei monti. Insediati in origine su tutta l’isola, furono sospinti nelle parti occidentali a seguito di una forte eruzione dell’Etna , che ricoprì vaste zone dell’isola, e dopo alcuni scontri con i Siculi, approdati nell’isola nel corso del secondo millennio a. C., che li rinchiusero nella parte sud-occidentale dell’isola. Gli studi archeologici, però, fanno risalire al III millennio a.C. l’insediamento sicano nella Sicilia occidentale, in particolare nella parte situata ad ovest dell’Imera del sud. Soppiantando lentamente i sicani, i Siculi si insediarono nella parte orientale dell’isola.

Ho ritenuto di dovere riassumere la presenza ed i movimenti dei due popoli perché c’è chi sosterrebbe che quel “ferro”, che si trova presso il Museo di Siracusa, sia da attribuirsi ai sicani abitanti di Krastos, sui Nebrodi. E’ chiaro, invece, che quella lancia appartenne al popolo siculo, se è vero che il reperto risale alla tarda età del bronzo (XIII – X sec a.C.).                                                           * * *

E’ verosimile che, prima dell’insediamento dei demenniti nel territorio in trattazione, esistessero piccoli e remoti villaggi posti in cima alle colline, i cui abitanti trovarono idonei alla loro difesa le asperità montagnose ed i luoghi inaccessibili, che, per quei tempi, costituivano una barriera naturale alle incursioni di uomini, che, per sopravvivere, non erano certamente nè miti, nè civilmente avvicinabili.

Sempre secondo i racconti del defunto Francesco Pidalà, molto pratico della zona e cantore delle leggende e delle storie centenarie, la cosiddetta “valle del liquido” prenderebbe la denominazione dalla circostanza che in essa venivano buttati i cadaveri dei nemici uccisi in combattimento e sciolti con un qualche acido (calce?) in uso a quei tempi. (Ma anche qualche tempo addietro…la calce è stata adoperata da…malavitosi, come parecchi ricorderanno).

Oltre alla grotta della contrada “cucinato” ed altre ancora nei frontali inferiori del Pizzo del Crasto (una di queste fu abitata sino a circa settant’anni addietro da un pastore longese con la sua famiglia), sulla parete orientale del Pizzo dell’Acquafridda ne esiste un’altra, che ha le dimensioni e la conformazione di una “cappelletta” (1°foto pagina seguente ), adatta al rifugio degli uomini ingrottati, vissuti nell’epoca preistorica.

Ricordo un’escursione, fatta negli anni cinquanta, alla Grotta del Lauro (2°foto pagina seguente ). Dopo esserci addentrati sino alla profondità raggiungibile, con rudimentali torce di pezzi di copertoni di gomma, ed avere attraversato uno stretto cunicolo, trovammo, con i miei compagni, frammenti di una mandibola; considerata la nostra giovane ignoranza, non fummo in condizioni di stabilire se essa appartenesse ad essere umano oppure animale. Mi sembra un po’ strano che un animale (pecora, capra o cane) abbia cercato rifugio nel profondo di una grotta per morirvi. E’ certo, comunque, che questi ricoveri naturali costituivano, allora, un sicuro nascondiglio contro le avversità atmosferiche, le aggressioni di animali feroci e di nemici.


1°- L’ingresso della grotta sul Pizzo dell’Acquafridda -  Ph. Salvatore Migliore


2° - Grotta del Lauro con fossili – f.to R. Patroniti

Quanto analizzato va a formare un pannello di segnali positivi che rafforzano la convinzione che, in quei dintorni, siano esistiti sparsi insediamenti umani e, tra questi, nuclei che si richiamavano all’antica città di Demenna: perché “valle del cucinato”? perché “valle del liquido”? perché “buca della regina”? perché quei graffiti sulla parete del Pizzo del Crasto? perchè la “portella di rame”? Non può essere che il tutto sia stato inventato dalla fantasia popolare. Qualcosa, a cui i toponimi fanno riferimento, sarà senz’altro accaduta in quei luoghi.


Il territorio tra Longi ed Alcara li Fusi visto dal satellite. Sul pianoro del Pizzo di San Nicola (al centro della foto in marroncino chiaro), a sud-ovest di Longi, sorgeva l’antica fortezza. Da essa si controllavano le vallate attorno, a 360°. I suoi muri perimetrali appaiono, in maniera chiara, nelle ortofoto, scattate da un aereo attrezzato per il rilevamento fotografico dall’alto, visibili presso gli Assessorati Ragionali dei BB.CC e del Territorio ed Ambiente della Regione Siciliana.

Nella recente archeologia, per la scoperta di antiche città sepolte sotto una spessa coltre di terra, vengono utilizzate le riprese fotografiche dal satellite. Sarebbe interessante avvalersi di queste tecniche  moderne per la ricerca della città di Demenna nel territorio delle Rocche del Crasto. Un tentativo andrebbe fatto.

Nascita di Longi

In contrada Lemina (territorio di Alcara li Fusi) sarebbe esistita Demenna…(dalla pubblicazione del Prof. Gaetano De Maria, “Le origini del Valdemone nella Sicilia bizantina”), …mentre nella contrada San Pietro (territorio longese) è stata posta la prima pietra per la nascitura Longi, intorno al IX secolo.

Considerando le varie ipotesi e valutando le diverse tesi, concordo con il compianto professore Don Gaetano De Maria quando sosteneva che il grosso concentramento umano della “Chora Demennon” era da individuare nella località, in territorio alcarese, denominata ancor oggi Lemina, e che il suo nucleo abitato era  chiamato Demenna, mentre il relativo kastron – allora indicato “di S. Maria” ma oggi segnalato topograficamente come paleocastro di San Nicola – era ed è  nell’attuale territorio di Longi. E' altresì da annotare che, dopo la distruzione di Demenna ad opera dei Saraceni, la popolazione scampata all’eccidio – i soldati bizantini, intesi latini o romani (ma non romani di Roma) sol perchè provenienti dall’Impero Romano d’Oriente, di stanza al Kastro di S. Maria ( o di San Nicola), ed i demenniti (greci) – si divise in diversi gruppi: alcuni si diressero ad Alcara, già esistente, altri verso destinazione ignota. I pochi documenti in materia dicono che avrebbero fondato, nel tempo, i centri abitati di Longi e di Frazzanò.

Ma - e questo è un fatto nuovo-, è convinzione di qualche morfologista che gli abitanti della contrada del Comune di Galati Mamertino, San Basilio, presentino caratteri somatici, relativi all’aspetto strutturale e formale, dissimili dagli abitanti del centro di cui, dal punto di vista urbanistico, fanno parte. Essi hanno parecchie affinità con la gente la cui religiosità faceva riferimento ai basiliani: ne è un segno preminente il toponimo dato al loro agglomerato urbano, nonché la festività, la più importante localmente, dedicata al fondatore dell’Ordine dei monaci basiliani: l’orientale San Basilio Magno. D’altronde, il loro sito era una dipendenza, non lontana da essa, della grancia del monastero basiliano di S. Pietro di Muely. Conseguentemente, una “quota” della discendenza degli esuli di Demenna potrebbe essere assegnata, quindi, ai "sanbasiloti (o sammasiloti)" (così vengono comunemente definiti e non galatesi).  

Francesco Rizzo (ma lo afferma anche il Morelli) scrive: “… la popolazione di Crastus (secondo alcuni autori- ripetesi - così veniva chiamata la città distrutta dai musulmani; Demenna venne riscoperta con la Cronaca di Monemvasia, n.d.r.) era distinta in due rami etnici ben diversi, e cioè i Greci (i demenniti) ed i Latini (i bizantini dell’Impero Romano d’Oriente)”. Questi ultimi, soldati di stanza sul Kastro, che peraltro non venne mai distrutto ma solo assediato e preso per fame, molto probabilmente o si arresero ai saraceni o fuggirono; i greci, invece, quelli che si salvarono, varcarono la cresta del monte e scesero verso il versante orientale, fermandosi per qualche tempo nella località chiamata San Nicolò (vicino alla contrada Filippelli), poi scesero più a valle nel pianoro sovrastante il torrente Fitalia e costruirono un centro abitato protetto ”da una serie di forti dislocati lungo la cresta sovrastante il detto fiume”. Questo evento sarebbe accaduto intorno al XII secolo.

Viene riferito che “i villaggi e i centri minori per motivi di economia e di pericolo continuo si svilupparono velocemente sul modello del “CASTRUM BIZANTINO” ovvero un gruppo di case-torri affiancate una all’altra in modo da formare una corona fortificata le cui mura esterne sono di fatto le pareti delle case; questi CASTRUM vennero edificati solitamente su alture, su colline, sulle antiche acropoli, sulle coste sfruttando i dislivelli come terrazze per elevare le abitazioni dal livello strada, le costruzioni avevano un aspetto ermetico con poche aperture all’esterno mentre l’interno era elegante e razionale illuminato spesso da piccoli cortili”. Da questa tipicità difensiva, quindi, ebbe derivazione il nome primitivo di “Castrum Longum”, cioè edifici-fortezza costruiti su una lunga fila. Tutto questo rafforza ancor più la tesi che i fondatori ed i primi abitatori dell’odierna Longi sono stati i demenniti, sfuggiti al massacro saraceno, i quali, essendosi integrati con i bizantini, da costoro avevano appreso gli strumenti di difesa militare.  Nel tempo, Castrum Longum viene modificato in Longium, poi Longus, indi Castel Lungo, anche Alongi ed, infine, è chiamato Longi. Forse ci si fermerà qui. Tranne che, riducendosi a piccole contrade per la massiccia emigrazione giovanile, i tre comuni dell'Unione non decidano di darsi, divenuti borghi al pari di Capri Leone, una nuova denominazione: magari… Demenna, "risorta", considerato che le origini genetiche della gente sono comuni e comune è il sentire religioso ed il loro "modus vivendi".

Nella contrada San Nicolò, gli esuli costruirono un villaggio ed una chiesa dedicata a S. Pietro, che diede, in seguito, la denominazione alla omonima contrada: il posto divenne una “grancia” governata da un monaco alle dipendenze dell’Abate del Monastero di S. Filippo di Fragalà. Nei pressi della chiesa avrebbero realizzato, tra l’altro, un palmento (la zona era vocata all’impianto di vigneti) ed un opificio per ricavare il filo dalla pelle degli animali, ovviamente in Filipelli, laddove insistevano animali da pascolo.

Il pianoro di San Nicolò, ahimè, venne investito da grossi massi franati dal monte sovrastante ed interessato da uno smottamento del terreno: tant’è che la chiesetta di S. Pietro scivolò verso valle. Alla zona, denominata “angara (ammasso di pietre) di Santu Petru", malgrado il lungo tempo trascorso, è rimasta aperta la grossa ferita, un crepaccio, inferta   dallo scivolamento del pianoro verso il basso. Nell’area circostante sono stati trovati dei reperti, pietre squadrate che potevano fare parte dello stipite della chiesetta.  Uno studio geologico del luogo ci potrebbe dire molto di più. La colonia degli esuli, che ha sostato – probabilmente per alcuni secoli- a San Nicolò, prima di trasferirsi definitivamente nel bassopiano dove ebbe a fondare l’attuale Longi, chiamava questo sito “ la Craparìa”, cioè luogo di ricovero per le capre, ma anche di pascolo.

La conoscenza di questi accadimenti ci viene dal racconto orale, trasmesso nei secoli, ed a me riferito da lucidi ottantenni, che l'hanno avuto tramandato, a loro volta, dai loro nonni e costoro dagli antenati, e così via indietro nel tempo.

Le foto  della pagina seguente riguardano reperti disseminati nella Contrada San Pietro, già San Nicolò, e sono state riprese dal Dott. Salvatore Migliore

   

Pietre squadrate appartenenti alla chiesa di San Pietro o forse al palmento

Il muro sulla strada ha coperto i resti della distrutta chiesa di S. Pietro, che arrivavano sino a metà della strada e che sono stati dispersi o adoperati per consentire l’inoltrarsi della carreggiata che porta a Filipelli

  


In alto, nella foto, la cresta esterna dell’altopiano sul quale la gente, sfuggita all’eccidio saraceno, aveva ricostruito la nuova residenza. Dall’attenta visione della foto, osservando il posto dove la chiesa di San Pietro è scivolata rispetto alla linea orizzontale del tavoliere abitato, è chiaramente desumibile un grosso smottamento di tutto il nucleo abitato verso valle. Nelle foto panoramiche del versante sopra Longi è ancora visibile la ferita inferta…dalla natura.

Attraverso la ricostruzione, generata dai fatti, di cui sono venuto a conoscenza, nonché attraverso l’esame dei documenti, e da considerazioni induttive ritengo di potere descrivere così l’esodo dei cristiani sopravvissuti: i soldati bizantini, impropriamente intesi latini o romani – ma non romani di Roma -  in quanto provenienti dall’Impero Romano d’Oriente, di stanza al Castro di S. Maria ( o di S. Nicola) avrebbero deciso di praticare la più agevole via della fuga dirigendosi verso il pianoro di fondo valle, sul Fitalia. Non è da escludere, però, che alcuni demenniti (greci), fuggendo dalla città distrutta, che, come detto, era ai piedi della roccaforte, abbiano cercato scampo, anzichè dirigersi verso Alcara, nella fortezza medesima attraverso la regia trazzera che collegava, e collega tuttora,  le contrade Bacco e Ciraseri- nei cui dintorni sorgeva appunto Demenna- con Filipelli; oppure, è possibile altresì ipotizzare che codesto gruppo di demenniti abbia atteso in quest’ultima contrada l’arrivo dei soldati bizantini che abbandonavano la fortezza, non altrimenti difendibile in quanto- come detto - sarebbe caduta per fame dopo il lungo assedio musulmano. Insieme – bizantini (romani d’oriente) e demenniti (greci)-, si sarebbero diretti verso i due nuovi centri, oggi individuati con Longi e Frazzanò, dividendosi per etnia: i demenniti fondarono Longi, i bizantini Frazzanò, nei cui pressi già esisteva una ramificazione religiosa, i basiliani di S.Filippo di Demenna o Fragalà . Per quanto riguarda la fondazione definitiva di Longi, va rammentato il passaggio e lo stanziamento per alcuni secoli, presso la contrada S.Nicolò (oggi S. Pietro), il cui abitato venne distrutto da una frana. Longi nasce intorno al XII secolo sopra l’ acrocoro roccioso che s’innalza dal fiume Mylè


Una breve digressione sulle origini delle popolazioni limitrofe

  Di fronte alla tragedia della distruzione e dell'eccidio saraceno, ritengo molto più razionale che le due etnie abbiano solidarizzato - sempre che esse, nel tempo,  non avessero già dato vita a comuni nuclei familiari, miscelando, ovviamente, il loro DNA, considerato che i demenniti (discendenti dagli antichi spartani) approdarono alle coste sicule protetti dai soldati bizantini-  ed intrapreso, quindi, un percorso di fuga comune dividendosi, poi, per gruppi familiari, o per  comuni rapporti amicali o, forse, per clan.

Dalla loro fusione, dopo tre secoli circa di convivenza in terra di Sicilia, non ha senso parlare, quindi, ancora di etnia bizantina o demennita. Sarebbe più logico parlare di greco-bizantini venuti da oriente amalgamatasi nell'eterogeneità globulare del popolo siciliano. Ma tutto ciò, ai fini archeologici e storici, ha relativa importanza. Potrebbe averne, semmai, per uno studio antropologico.

Considerata la pochezza della documentazione a disposizione, è nel territorio delimitato dalle contrade Lemina, Miglino, Calanna, Pizzi del Crasto e di San Nicola, nonché nella vallata interclusa tra questi due ultimi, che vanno incentrate le ricerche archeologiche: esplorazione a ventaglio dei luoghi ipotizzati quali possibili deputati al ritrovamento di reperti archeologici e di ruderi, analisi di laboratorio e del sottosuolo con gli appositi strumenti (indagini: tomografica elettrica, sismica, georadar), studio delle fotografie aeree della zona (esistono ortofoto di voli aerei in cui ho avuto la possibilità di vedere il perimetro delle mura, non più esistenti in superfice, del Paleokastro di San Nicola), indi scavi laddove lo studio preventivo abbia dato risultati positivi. Ma è fortemente verosimile che gli studi e le ricerche vadano concentrati soprattutto sul Pizzo di San Nicola, sulla Rocca Calanna, ai piedi del Pizzo del Crasto (versante di sud-est) ed a Lemina, nonché dove si sono trovate tombe.


ANTICHE STRADE CHE ATTRAVERSAVANO IL TERRITORIO DI LONGI

La regia trazzera Cesarò-Zappulla, di circa 36 km e larga 40 m, penetra nel territorio di Longi presso il feudo di Barilà e segue questo percorso: superato il torrente Martello, attraversa il feudo di Botti, Portella Scafi, sorgiva Settefrati, Case Mangalavite, Piano Mastro Vincenzo, Pizzo Mueli e Portella Gazzana. Oltrepassato l’incrocio di Gazzana, la strada , proseguendo lungo il triplice confina intercomunale Longi-Alcara- S.Marco, si raccorda presso Zappulla con la trazzera Messina-Palermo. Ad essa sono collegabili le trazzere Longi-Alcara, lunga 6 km, e Longi- S.Marco- Torrenova , lunga circa 12 km.

Altra trazzera è quella che congiunge il lago di Maulazzo, nel Comune di Cesarò, a Longi, passando per il territorio di Alcara li Fusi.

Si cita anche la strada che, partendo da S.Marco d’Alunzio, lambendo il Pizzo Difesa, si congiunge con il monastero  di Fragalà; prosegue indi nel territorio di Longi, perviene a portella Gazzana, s’inoltra verso Mangalavite giungendo a portella Scafi e indi a portella Balestra;giunta a Pizzo Mangalaviti scende la serra Grillo, oltrepassa le case Botti  si addentra nel bosco di Grappidà fino al pianoTre Arie per sboccare nei pressi del Castello Nelson vicino Bronte.

La realizzazione delle antiche arterie in Sicilia risale a diverse dominazioni, dalla greca e romana a quella bizantina e musulmana, alcune delle quali vennero successivamente ripristinate dai normanni.

 ( da uno scritto di Shara Pirrotti su “I quaderni della Valle del Fitalia)

L’antica regia trazzera, partendo da Alcara li Fusi, passa da contrada Lemina (o Limina), dove sarebbe esistita Demenna, e, lambendo la  base a nord  del Pizzo di San Nicola, costeggia la “Rocca che parla”, perviene alla contrada San Pietro (già  San Nicolò), dove si fermarono per lungo tempo alcuni fuggiaschi, per finire alla “Craparìa” (divenuto, come detto, il sito su cui è stato edificato Castrum Longum).

 

Demenna, dopo mille anni

“Cercando Demenna”, con la Rai Educational

E’stato definito evento storico. In pochi potremo dire: “c’ero anch’io”. E’ per questo motivo che è stato, per me, un onore l’aver fatto rivivere sulle Rocche del Crasto sovrastanti la natia Longi – ma non solo mia– un pezzo di storia millenaria siciliana, quella del Valdemone bizantino, riferita alla “chorha demennon” (territorio dei demenniti). Ho assaporato il privilegio di avere accanto a me un valoroso studioso: lo storico alcarese e ricercatore paziente e minuzioso, il compianto Prof. Don Gaetano De Maria, della Curia vescovile di Patti, il quale, con la sua appassionante e pregevole monografia  “Le origini del Valdemone nella Sicilia bizantina”, in un intrecciarsi di storia, di religione e di ricerca scientifica, ha scritto la parola” fine” sulla “vexata qaestio”relativa alla individuazione stanziale dei demenniti e di Demenna. Nel medesimo tempo, ho provato l’intensa emozione di avere resa alla RAI un’intervista sulle vestigia di quella che fu la fortezza bizantina a difesa di Demenna,. E’ il caso di rammentare che alcuni  brani di storia parlano dell’eroica Demenna, quale centro di resistenza cristiana e militare, assieme a Taormina e Rometta, all’invasore musulmano. Mentre queste ultime due città sopravvissero, Demenna fu distrutta pietra su pietra. Ma essa continuò a vivere attraverso la nascita di altri centri urbani nell’alta valle del Fitalia. Mentre raccontavo della presenza di soldati dell’Impero Romano di Oriente, che occupavano quel presidio militare, mi sovveniva che alcuni di quegli uomini del IX secolo d.C., venuti da chissà quale territorio orientale, furono i nostri lontani antenati. O meglio di coloro i quali discendono direttamente da quella gente. E riflettevo, anche, sulla catabasi demennita e bizantina, figurandomi il percorso effettuato da quegli sventurati: longesi “in nuce”, ma anche  futuri frazzanesi e  sanbasiloti . Per non parlare di coloro i quali hanno trovato riparo nella vicina Alcara. Pensavo al destino che perseguita talune genti, o taluni individui, in fuga da qualcosa: emigranti, per adoperare un termine attuale.

Non vorrei sembrare immodesto, né retorico, se affermo di essere riuscito – ritengo - nell’intento di aver fatto conoscere una spaccato di storia antica siciliana, scavando nella leggenda ed inseguendo il passa-parola tramandatosi nei secoli, nonché attraverso una paziente ricerca documentale. Storia, che ho avuto il privilegio di fare rivivere sul Pizzo di San Nicola affidandola peraltro all’etere sulle onde del documentario di RAI Educational.

Questa antica e sconosciuta civiltà, vissuta sulle Rocche del Crasto, le vicende occorse a questi paladini del cristianesimo, nonché i pochi reperti e resti archeologici non possono restare patrimonio di pochi, nel chiuso dei confini dati dalle rocce dolomitiche che ci sovrastano. E’ indispensabile continuare nella nostra azione di espansione culturale dello spaccato storico per addivenire al traguardo degli scavi archeologici nel territorio di cui si è parlato e descritto. Giuseppe Marino Batà scriveva nel 1998: “Alla devastante furia umana, vi si aggiungano una lunga seria di sconvolgimenti sismici, succedutisi nel corso dei secoli, nonché la lenta erosione carsica, determinata dalle acque meteoriche ristagnanti negli incavi di natura calcarea, di cui è costituita tutta l’area circostante, per giustificare la totale scomparsa di ogni traccia della fiorente città”. Ed io vi aggiungerei il disinteresse culturale delle varie amministrazioni degli enti locali, succedutesi nei decenni, soprattutto del decorso ultimo secolo. Ma, sotto la coltre millenaria di materiale terroso, ancora c’è parecchio tesoro archeologico da riportare al godimento culturale di questa odierna civiltà!

Valenti studiosi ed archeologi, quali Kislinger, Amari, Lavagnini (interrogare "il territorio, archivio della memoria",) Filangeri, De Maria ed altri ancora hanno reso la loro testimonianza scritta su Demenna e sul suo territorio. Possibile che non esista interesse culturale, da parte degli Enti, di dar luogo ad appositi scavi archeologici? Forse perché la storia di Demenna non ha l’eco di una Troia? Oppure dell’antico Egitto dei Faraoni? O di una Morgantina?


Ph. Durante la ripresa della RAI EDU sul Pizzo di S. Nicola, tra il forte vento ed il cielo coperto.

La gola di Dimnas? Ma è la “Stretta di Longi”!


Il Prof. Giuseppe Sirna, studioso di glottologia, da me interpellato sulla famosa “Gola di Dimnas”, mi rispose che essa è da identificarsi con la “Stretta di Longi”, sul fiume Fitalia. Ho visionato la cartina topografica della zona e, non distante dalla Stretta, è segnata la “Contrada Passo d’Armi, che si trova a ridosso del Convento di San Filippo di Fragalà; ad ovest di essi, c’è il Pizzo Difesa. Sappiamo che Fragalà deriva dalla corruzione di un termine arabo, fràg’al-Allàh, ossia “la gioia di Allàh” od anche “vittoria di Allàh”. E’ possibile dedurre, quindi, che in quella zona si sia svolta una battaglia (quella finale?) che vide la vittoria dei saraceni, i quali, con simile denominazione della contrada, vollero ringraziare Dio. Riporto qualche passaggio tratto dall’opera di ‘An Nuwaryri, relativamente allo scontro presso la gola di Dimnas. “Anno 289 (A.D. 16 dicembre -4 dicembre 902). …Egli (Ibrahim, emiro di Sicilia…mandò a Demona, con un esercito, il proprio figliuolo Al Aglab, il quale trovò che gli abitanti erano fuggiti ed egli prese la roba che v’era…) “.        “Anno 353 (A.D. 19 gennaio 964- 6 gennaio 965) …Manuele (comandante dell’esercito bizantino in Sicilia) marciò con tutto il suo esercito… così numeroso che uno simile non era mai sbarcato in Sicilia” “Ibn Amman….pose una schiera nella gola di Miqus e un’altra nella gola di Dimnas (Vito Amico, nel suo Dizionario topografico della Sicilia. Palermo 1856, la pone situata non molto distante da Alcara). Manuele, dal canto suo, mandò due schiere a far fronte a quelle (nelle due gole sopra citate); nello stesso tempo ne fece avanzare una terza sulla via che porta a Palermo, per tagliare il passo alle forze ausiliarie che venivano da quella parte”. Durante la battaglia, Emanuele fu ucciso. “Gli infedeli (i bizantini) andarono in ritirata ed i musulmani ad inseguirli ed a farne strage. Piegando i fuggitivi verso un luogo che parea pianeggiante, trovarono aspri sentieri e arrivarono al ciglio di un gran burrone, sì profondo che sembrava un fosso; nel quale caddero e si uccisero l’un l’altro onde ne fu pieno quant’era lungo, largo e profondo e i cavalli galopparono sopra i cadaveri. I superstiti fuggirono in alpestri sentieri e burroni spaventevoli…tutta la notte i Musulmani uccisero i fuggitivi per ogni luogo…Il numero degli uccisi passò i diecimila”. La traduzione è stata fatta da M. Amari,1880, Biblioteca…, dal testo di ‘An Nuwaryri, il quale lo scrisse nel XIV secolo assieme ad altri avvenimenti sugli scontri avvenuti in Sicilia tra Musulmani e Bizantini. Egli trasse le fonti da altri autori a lui precedenti. Oltre a ciò, non possiamo non sottolineare che erano trascorsi oltre tre secoli tra la stesura del testo arabo e gli avvenimenti bellici descritti.

Nota aggiuntiva 

“ L'origine bizantina di Demenna è assicurata dagli scrittori arabi che narrano della conquista della Sicilia. ….. Fra gli storici arabi, il più accreditato, perché più vicino ai fatti narrati, è Ibn al Atir, il quale ricorda di Demenna in occasione delle imprese militari di Ibrahim, condottiero musulmano che espugnò Taormina nel 902 d.C. In quest'occasione, infatti, il comandante decise di sferrare un colpo decisivo alle forze bizantine conquistando anche le vicine fortezze di Miqus e Demenna, entrambe già sgomberate. Demona / Demenna, dunque, rientrava nel novero dei kastra bizantini, fondamentali per il controllo territoriale della Sicilia nord/orientale, ultimo baluardo greco sull'isola. Ibrahim. così come ricorda Ibn al Atir, aveva assediato Demenna già l'anno prima, utilizzando, particolare interessante, dei mangani, cioè macchine d'assedio, testimoniando la tenacia delle fortificazioni del kastron bizantino.

Ma la storia di Demenna pare non finisca qui. Tra il 910 e il 911, la fortezza ebbe a patire un nuovo assalto per mano di un altro condottiero musulmano, Ibn 'abi Hinzir. Costui arse il territorio circostante e mosse nuovamente verso Palermo. L'episodio è interessante, perché dimostra la sopravvivenza del sito successivamente alla conquista di Ibrahim. Una sopravvivenza in piena efficienza difensiva, sia che fosse occupato da musulmani, sia che venisse reinsediato dai bizantini dopo l'abbandono. Demenna fu spettatrice più o meno diretta anche della caduta di Rometta, nel 963/4 d.C.. Al fine di difendere l'ultimo baluardo bizantino di Sicilia, l'imperatore inviò sull'isola un numeroso esercito composto in buona parte di mercenari normanni. I musulmani, al comando di ibn Ammar, si prepararono a fronteggiare il nemico, celando la resistenza tra due gole, una presso Miqus, l'altra presso Dimnas, nome restituito dall'Amari in Demenna. Questa menzione potrebbe testimoniare la relativa vicinanza tra le due antiche fortezze bizantine, prossimità che si poteva già dedurre dalla velocità con la quale vennero i due siti raggiunti dai soldati di Ibrahim nel 902 d.C. Inoltre, il fatto che si ricordi una gola dal toponimo "Demenna" e non più un abitato forte, farebbe propendere per l'ipotesi del definitivo abbandono dell'abitato di Demona già prima della caduta di Rometta del 964 d.C. e certamente dopo il 910/911 d.C.”

(ESTRATTO DA UN SAGGIO SU DEMENNA di Giuseppe Tropea)



Nella cartina topografica, i luoghi del probabile massacro.  A destra del “Passo Zita”, la “Stretta di Longi”, a sinistra, il “Passo d’Armi” nel territorio denominato Fragalà o “vittoria di Allàh”.


Resti del muro della fortezza sul Pizzo di San Nicola

 Le fonti di riferimento da me consultate per la stesura della suddetta ricerca documentale, pubblicata alcuni anni addietro , con il titolo “Tra Krastos e Demenna”:

 Bella Ugo Antonio – Per una Cronistoria di Campobello di Licata- (Istituto Comprensivo “Giuseppe Mazzini” Campobello di Licata – AG) -  Serio Salvatore – Ipotesi sul territorio di Demenna ed origini del castello di Longi - De Maria Gaetano – Un santo basiliano sconosciuto: S. Luca abate di Demena – Archivio Storico per la Sicilia Orientale (estratto) anno XCII – 1996 – Di Matteo Salvo - Iconografia storica della provincia di Palermo (sito: infosicilia.net)  -   Dujcev I. – Cronaca di Monemvasia - Kislinger Ewald - Monumenti e testimonianze greco-bizantine di San Marco d’Alunzio -  ingrillì Franco– Paesi e Paesaggi dei Nebrodi -  Morelli Gaetano- Alcara li Fusi - Stazzone Giuseppe - Terra Antica di Alcara  -           Valenti, Campisi Carcione, Lazzara  - LONGI - Progetto Socrates-Comenius 2003-04 del Liceo “Lucio Piccolo” di Capo d’Orlando (ME): “Bisanzio, la luce di un mondo scomparso” –Biblioteca di S. Marco d’Alunzio- Documenti vari - Comune di San Marco d’Alunzio – CD-ROM ” Interactive network of Byzantine art” INBA/RAF- Introduzione storica di Ewald Kislinger- Università di Vienna -  Ryolo Domenico– San Marco d’Alunzio -  Franchina Sebastiano – Tortorici – Appunti per una storia critica (Cap. III Attacchi contro Demona e la valle del Fitalia) - La Sicilia –Ravanusa – Sopralluogo nell’antica Crastos/ Una città dalle donne bellissime: articoli del 30 settembre e del 4 agosto 2000 -  Gazzetta del Sud – articolo del 30 gennaio 1999 di M. Mento “Viaggio nelle città siculo-greche tra realtà e leggenda  -   Comune di Armento (PZ), Profili di Santi nella Calabria bizantina- Cenni sulla vita di San Luca Curia vescovile di Tricarico (Matera) – La diocesi di Tricarico nel primo millennio della Fondazione: I monaci Basiliani -  Diocesi di Tricarico -  Monaci Basiliani -  Archivio parrocchiale di Armento- L’Ufficio di San Luca di Demenna -       Rizzo Francesco– Monografia sulla Valle dei Nebrodi formata da torrente Fitalia – Ed. 1969- Filangeri Camillo – I ruderi di un paleocastro sui Nebrodi – Sicilia Archeologica n. 51 del 1983 Filangeri Camillo-  Ipotesi sul sito e sul territorio di Demenna –Archivio storico siciliano serie IV vol. IV - De Maria Gaetano – Le origini del Valdemone nella Sicilia bizantina – Edizioni ZC – 2006      Sillitto -Paolo S. (Architetto coordinatore del progetto di scavi archeologici presso il Comune di Pietraperzia.) - Nota- Stazzone Giuseppe– “Muzzuni” tra mito e storia Conte Attilio – Notizie storiche sulla città di Krasto. - Arcifa Lucia -Viabilità e insediamenti nel ValDemone. Da età bizantina a età normanna.

Siti internet visitati: ”Cronologia” - La Sicilia (brani di storia) -    Comune di Monreale - Storia vini DOC Monreale-  Armento: i Santi- Cenni sulla vita di San Luca, “da cenni storici e artistici del patrimonio culturale di Armento” - Santi e Beati, San Luca di Demenna o d’Armento e San Fantino il Giovane -   Novella Lillo, Naro,origini leggendarie,  sito del Comune di  Naro -  Museo di Gela.- Principali avvenimenti storici -   Tucidide- La guerra del Peloponneso ( da Mitologia)  Erodoto- 5,45 -    Bocciero Luisa- Rito, Mito e Progetto nella Megale Hellas -  Partinico – Storia di Partinico - sito del Comune

 Fonti orali: i defunti Francesco Pidalà e Beniamino Lazzara.


Il Trofeo donato al Popolo Longese, ricorrendo il suo Primo Millennio di esistenza,  da parte del Gruppo di Ricerca facente parte del Centro Studi “Castrum Longum”. 

UN ANTICO BORGO 

ED UN CASTELLO ALLE PENDICI DELLE ROCCHE DEL CRASTO


Al centro dei Nebrodi scende un fiume imponente, denominato Mylè, le cui acque scorrono da millenni. Piccole cascatelle hanno dato vita a limpidi laghetti, in cui i giovani del circondario solevano rinfrescare il loro corpo durante la calura estiva. Boschetti di latifoglie fanno da cornice al di sopra della roccia che emerge dal corso d’acqua. Nelle “piscine”, nuotano  trote, granchi d’acqua dolce ed anche anguille. Un’antica trazzera, che collegava il centro urbano, sovrastante il fiume, alla marina, è il segno di un lontano intervento dell’uomo. Un tempo esistevano, in prossimità del corso fluviale, mulini per la macina del grano ed un’antica conceria ad acqua, ove venivano prodotti drappi impermeabili.

Avanzando nel suo cammino, il fiume si incunea in una stretta gola delimitata da due alte e levigate contrafforti, dove va a “costruire” un profondo laghetto precipitando da una cascata.

Secondo voci incontrollate, provenienti da antichi racconti, alcuni millenni addietro, il corso del Fitalia era navigabile dal suo estuario sino alla gola.

Sul pianoro di una solida roccia, ai piedi di un alto monte, che s’innalza dalle acque del fiume Mylè, venne fondato, dagli esuli di Demenna fuggiti alla strage dei saraceni, un nucleo abitativo che, nel tempo, assunse, tra l’altro, il nome di Longi.


Torniamo indietro, nei lontani secoli delle origini della “gens” longese, da dove inizia la storia di Longi, cercando di ricostruirla leggendo i pochi documenti esistenti, sparsi qua e là, memorie tramandate attraverso i racconti del popolo e ricordi personali. Ed altro.

I primi feudatari, dopo il dominio dei Normanno-Svevi, appartennero al CASATO DEI LANCIA (o Lanza)


 I Lanza di Longi, lungo i tre secoli di loro dominio, trasformarono il casale in castello feudale. Era, quindi, una fortezza (“oppidum”), costruita per la difesa e l’avvistamento, tant’è che le sue mura, nella parte più antica, superano i due metri e mezzo di spessore. Allora, era isolata, libera da case attorno, essendo appunto un fortilizio. Era attrezzata con locali sotterranei, destinati alle carceri baronali. Solo nel ‘600 divenne casa nobiliare: vennero costruiti saloni affrescati, si acquistarono arredi sontuosi, divenne un centro di documentazione storica: di tutto ciò non esiste più niente. “Ignoti ladri, sul finire del secolo scorso, asportarono nottetempo tutto ciò che di valore esisteva in quella dimora gentilizia”, ebbe a dichiararmi l’ultimo proprietario, il Marchese di Cassibile. Tra l’altro, si trattava di oggetti di antiquariato di notevole valore. Anche se in piena notte, possibile che neanche una persona sia stata svegliata dal tramestio derivante dal caricare il/i mezzo/i di trasporto? Misteri! O no? In tutti i casi, andarono perduti documenti e pezzi di storia longesi che, nei secoli, avevano arricchito la dimora dei Signori e l’archivio storico del paese.


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Stemma della famiglia Lanza

Blasonatura: d'oro, con un leone coronato di nero, armato e lampassato di rosso e bordura composta d'argento e di rosso. Corona di principe e mantello di velluto scarlatto foderato d'ermellino.

Lanza (in alcuni documenti Lancia), nobile e antica famiglia siciliana di lontana origine bavarese. Stirpe imparentata con la Casa reale di Svevia, in quanto Bianca Lanza (o Lancia) andò in sposa all'imperatore Federico II del Sacro Romano Impero. Nei secoli la famiglia ha accumulato in Sicilia le signorie di sette principati, di due ducati, di due marchesati e di una trentina di baronie, solo per citare le principali.

LEGGENDE

La più suggestiva leggenda parla di un Corrado, nipote di Ernesto di Wittelsbach, Duca di Baviera e di Pomerania, che va in Terra Santa e lì, con l’aiuto del prete Orione, ritrova la punta della Lancia con cui Longino colpì il costato di nostro Signore Gesù Cristo.

La più verosimile, tratta “da gravi Autori Germani”, parla di un Ernesto fratello minore del Duca di Baviera che risolve un conflitto, nato tra suo fratello e il Duca di Sassonia, vincendo in un torneo con la Lancia;

La più affascinante, rifacendosi a Flaminio Rossi, a Guglielmo Paradino e a Filippo Cirni, racconta che un Ernesto dei Duchi di Baviera e Duca di Pomerania, in un torneo vince cento cavalieri germani battendoli tutti con la Lancia.

Il ramo longese         

Galvano Lanza, possedette sotto gli Svevi la Terra di Longi(1200), fu Conte del Principato e di Fondi, Principe di Taranto e di Salerno;                   Galeotto Lanza fu il Primo Barone di Longi ( nel 1255), sposò Cubitosa d’Aquino; figlio di Galvano, fratello di Bonifacio e padre di Bianca, moglie di Federico II;                Blasco Lancia, II Barone di Longi; Corrado Lanza, III Barone di Longi e II Barone di Ficarra, Gran Cancelliere e Maestro Giustiziere del Regno di Sicilia;      Ugone Lanza, IV Barone di Longi e Strategota di Messina  nel 1340;          Corrado Lanza, V Barone di Longi e IV di Ficarra, Primo Signore di Brolo;          Valore Lancia, VI Barone di Longi, che ebbe confiscati i beni da Re Martino essendosi ad egli ribellato. La baronia viene concessa a Federico d’Aragona, conte di Cammarata, ma viene restituita a Valore dopo 12 anni dopo avere ottenuto il perdono del Re;               Blasco Lanza, figlio di Valore, VII Barone di Longi (1408?); da suo figlio secondogenito Manfredi e poi da suo nipote Blasco parte il ramo dei Baroni poi Principi di Trabia;             Corrado Lancia, VIII Barone di Longi, nel 1451 succede al padre Blasco;                            Pietro Lanza, IX Barone di Longi, 1472, fu il primo Barone di Verbumcaudo;             Antonio Lanza, X Barone di Longi (1508); Baldassarre I Lanza, XI Barone di Longi , nel 1622-36 occupò l’ottavo seggio del Parlamento Siciliano;                               Fabrizio Lanza, XII Barone di Longi;                          Francesco Lanza, XIII Barone di Longi;                    Baldassarre II, XIV Barone di Longi; Pietro Maria Lanza, XV Barone di Longi  (1642 -1658) sposa Donna Maria Cybo;  Flavia Lanza, XVI Baronessa di Longi, essendosi estinto il ramo maschile con il padre Pietro Maria, passa il titolo a Don Gaspare Di Napoli, suo marito, e successivamente al figlio  Silvestro.

.             Il ramo de' baroni di Longi venne a suddividersi nelle seguenti branche: nei baroni di Longi, estinti in Flavia Lancia; nei baroni delli Supplementi, di cui un rampollo trovasi a Capizzi;  nei baroni di Mojo, titolo proveniente da Rosa Tortoreto, moglie di Manfredi Lanza;  nei principi di Trabia.

Dai testi consultati viene fuori un groviglio di notizie, alcune delle quali differiscono sul piano cronologico. Naturalmente, non è possibile individuare l’esattezza dell’informazione in quanto differenti genealogisti, nonché storici, hanno attinto a fonti sparse in diversi tomi.


 Dopo la morte, senza eredi maschi, dell’ultimo Lancia, Pietro Maria, il possedimento passò a Silvestro Napoli Lanza ed, indi, ai successori di questi. Ciò avveniva con Flavia Lanza, figlia di Pietro, che ricevette la investitura il 21.1.1659 e sposa Gaspare Napoli Romano Colonna di Troina nel 1654. Il figlio Silvestro Napoli riceve donazione del feudo di Longi dalla madre in data 8 marzo 1691 attraverso l‘atto del notaio Pregada di Longi.



NOTIZIE SPARSE E FATTI RELATIVI AL CASATO LANZA DI LONGI

             Ai Lancia, per ben quattro volte furono strappati i beni, per cause politiche di ribellione al potere del Monarca dominante in Sicilia, nei vari periodi. La prima, dall’Imperatore Corrado nel 1254; la seconda, da Carlo d’Angiò nel 1268; la terza, dagli Aragonesi (1302-1410) e la quarta (1392) da Re Martino. Ma vi rientrarono sempre.

            Nell’ ”interregno” dei Lanza, cacciati dall’autorità regia per essersi rivoltati contro, lo scanno di Longi con il castello, nel 1291, dal Re Federico d’Aragona viene concesso a Riccardo Loria, figlio di Ruggero, grande ammiraglio del regno di Aragona e di Sicilia, che precedentemente aveva combattuto in aiuto di Carlo d’Angiò. Tale concessione viene anche confermata da Giacomo Il di Aragona da Saragozza (Spagna) il giorno 8 settembre 1293. Riccardo di Lauria (o Loria)  dalla sua seconda moglie, Bella Amico, baronessa di Ficarra,  ebbe una figlia che sposò Corrado Lancia.


           I Lancia, Baroni di Longi, erano tra le più potenti e ricche famiglie della Sicilia godendo del prestigio di essere discendenti da Bianca Lancia, ultima moglie dell’Imperatore Federico II di Svevia, Re di Sicilia e di Gerusalemme, Re dei Romani, detto “Stupor Mundi”.


Durante la lunga dominazione spagnola, vi furono rivolte, carestie e venne istituito il tribunale dell’Inquisizione, ma, a Longi, grazie alla munificenza ed alla magnificenza dei Baroni Lancia si ebbe un fiorire nelle arti, nella pittura e nell’architettura: le chiese, le statue ed i dipinti sacri vennero realizzati da quei Signori; la costruzione della chiesa Madre viene fatta risalire alla fine del 1300. La “intronizzazione” di San Leone Vescovo di Catania quale Patrono di Longi, in sostituzione dell’originario San Michele Arcangelo, avvenne probabilmente in occasione del viaggio a Catania di Valore Lancia per un incontro con il Re, per trattare “alcuni affari delicati…nonostante qualunque delitto avesse perpetrato”.

               I LANZA IN SICILIA

Il ramo originario è quello dei Baroni di Longi di Galvano Lanza, Signore di Longi (1200). In Sicilia tutto inizia con Bonifacio conte d'Agliano, figlio di Corrado I (dei Duchi di Baviera) d'Agliano e fratello di Manfredi. Il nobiluomo ebbe quattro figli da Costanza Maletta: Bianca che andò in moglie all'imperatore Federico II; Galvano che fu giustiziato con Corradino di Svevia nel 1268; Galeotto.

Da Galeotto (fratello di Bianca), I Barone di Longi, nacquero: Blasco, II Barone di Longi e I Barone di Ficarra e Corrado, III Barone di Longi e II Barone di Ficarra, che fu Gran Cancelliere del Regno di Sicilia nel 1297, Signore di Castemainardo e capostipite dei baroni di Ficarra e Brolo e dei baroni di Trabia, e Federico, figlio di Bianca Lancia, Viceré del Regno di Sicilia nel 1258, durante il Regno di Manfredi di Sicilia,.

Il primo a possedere il feudo di Trabia è Blasco (Catania 1466 - Palermo 1535), dei Baroni di Longi (suo nonno Blasco fu il VII Barone di Longi).

Nel 1658, Pietro Maria Lanza, XV Barone di Longi (figlio di Baldassarre II Lanza, XIV Barone di Longi), fu l'ultimo maschio dei Lanza a possedere la Baronia di Longi, infatti non volle rispettare la cosiddetta "Successione Agnatizia" a favore del ramo secondogenito di suo fratello Giuseppe Lanza, Barone di Malaspina, per favorire la sua unica figlia, Flavia Lanza, che sposando Gaspare Napoli, portò di fatto la prima e storica baronia dei Lanza di Sicilia nella famiglia Napoli. Ci furono aspre lotte in famiglia (dopo la morte dei fratelli Pietro Maria e Giuseppe), tra i cugini Flavia e Filippo Lanza, tra il 1658 e il 1665.

Blasonatura:

Di nero al leone coronato d’oro e linguato di rosso, stemma originario dei Lanza di Sicilia, Baroni di Longi, poi inquartato con le armi dei Duchi di Baviera. Il motto era: "Principalior Omnium".


 Stemma dei Lanza presso il castello ducale di Longi



Nota. L’albero genealogico, di cui alle pagine precedenti, mi è stato inviato dal napoletano Francesco Lanza, dei Baroni di Longi ed eminente rappresentante del Movimento del Principe Carlo di Borbone. Tra le fonti che egli ha consultato, ne cito alcune di rilievo: La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia dalla loro origine ai nostri giorni di Francesco de Spuches San Martino, Ed. Boccone del Povero, 1941 e i Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX. Gli Atti ufficiali dell’Illustrissimo Senato di Palermo. Biblioteca storica e letteraria di Sicilia a cura Gioacchino Di Marzo, Ed. Arnaldo Forni, 1974). 

1. ^ LANCIA (Lanza), Manfredi (Manfredo) (I), Dizionario Biografico degli Italiani, Vol LXIII, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani

2. ^ (Agliano è un castello nei pressi di Loreto)

3. ^ Straticoto, stratigoto o straticò, carica che sotto i bizantini era l'equivalente di capo militare e che con i normanni rappresentò anche l'esecutore e il garante dell'applicazione delle leggi

4. Antonino Mango di Casalgerardo, Nobiliario di Sicilia, A. Reber, Palermo 1912..

           Per la successione cronologica dei baroni di Longi, vedi anche: Salvatore Serio - Ipotesi sul territorio di Demenna ed origini del Castello di Longi- e la pubblicazione del 1990, edita dalla Cassa Rurale ed Artigiana della Valle del Fitalia, con il titolo “LONGI”, Storia, Arte e Folklore ,i cui testi sono stati curati da Vincenzo Valenti, Eloisa Campisi Carcione, Francesco Lazzara.



Dopo i Lancia, sedettero sul trono baronale di Longi i Napoli ed i Loffredo- D’Ossada- Cassibile.

La Casata dei Napoli

  

Arma: d'azzurro, con un giglio accompagnato nel capo da due stelle, ed in punta da un leone il tutto d'oro. Motto: viro costanti dentro lo scudo. Mantello e corona di principe.

Secondo l'erudito Villabianca, fu portata in Sicilia da un Nicolò Caracciolo detto volgarmente di Napoli d'onde il nome, seguendo il partito di Federico II di Aragona dal quale per suoi segnalati servizi si ebbe il governo perpetuo della città di Troina.

Possedette i principati di Bellacera, Bonfornello, Condrò, Monteleone, Resuttano, Santo Stefano di Mistretta; le Ducee di Bissana, Campobello, Cumia, Vatticani; i marchesati di S. Calogero, Leonvago, Melia, Napoli; le baronie di Alessandria, Baccarati, Fargione, Ficarra, Francavilla Oliveto, Longi, Santa Ninfa, Perrana, ecc. ecc. e passò molte volte all’ordine di Malta.

Gaspare Di Napoli e Colonna Romano fu proconservatore in Troina nel 1658 e, per la moglie Flavia Lanza, primo barone di Longi in sua famiglia.

Silvestre Napoli e Lanza, barone di Longi, fu senatore di Palermo nel 1696;

Vanta illustri personaggi; come, tra gli altri, un Federico, consigliere di Carlo VI imperatore, da cui ottenne il privilegio di aggiungere alla sua arma gentilizia un leone d'oro ed il motto” viro costanti” (1728).


I Napoli ed i Loffredo -Cassibile, Baroni di Longi

Gaspare Napoli, avendo sposato Flavia Lanza, fu investito del titolo. Gli successe Silvestro Napoli Lanza, al quale seguì Gaspare Napoli investito della baronia Terra e Castello di Longi; erede universale di Gaspare fu il primogenito Giuseppe, deceduto e sepolto a Longi, nella chiesa Madre, addì 22 novembre 1787. A seguire, Bernardo Napoli Papardo investito del titolo il 18 /6/1788 nella qualità di erede universale di Giuseppe. Maria Napoli Stazzone, figlia di primo letto di Bernardo avendo sposato, a Troina, Rosa Stazzone, successe quale baronessa di Longi; alla sua morte, il titolo passò nelle mani della figlia Rosa D’Amico Napoli in quanto la madre aveva sposato il conte Francesco D’Amico Stagno. Da Rosa D’Amico, sposatasi con Vincenzo Calcagno, nacque Maria Calcagno D’Amico, la quale va in sposa a Nicolò Loffredo, Marchese di Cassibile; dopo la morte di Nicolò Loffredo, la Marchesa Maria Calcagno D’Amico ebbe a maritarsi col generale Antonio Moriondo. A Rosa D’Amico subentra, nel 1920, Vincenzo Loffredo Calcagno col titolo di Barone e Duca di Longi. Questi sposa, prima, la Marchesa napoletana Elena Aventi (morta a Longi nel 1921) ed, in seconde nozze, la messinese Domenica Zumbo (1883 – 1965); non avendo egli avuto figli da entrambi i matrimoni, il patrimonio, dopo un lungo contenzioso, viene assegnato, con sentenze del Tribunale, a Silvestro Gutkowski Loffredo, Marchese di Cassibile.

Per la storia, la baronia di Longi, come già scritto, dopo essersi estinta con i Lanza continuò con i Napoli. Dei quali fu ultimo barone di Longi il detto Duca D’Ossada, Vincenzo Loffredo, morto senza eredi. A determinare l’estinzione della successione fu un grave evento di cui rimase vittima il Duca. Egli, infatti, col grado di capitano partecipò, nel 1896, alla guerra di Libia e, durante la disfatta italiana nella battaglia di Adua, fu fatto prigioniero dagli abissini, che lo sottoposero ad enormi torture conclusesi con l’evirazione del prigioniero. Per gli atti di valore in battaglia e per il suo fermo ed eroico comportamento durante le sevizie da parte del nemico, all’ufficiale “longese” di artiglieria venne conferita dal comando italiano la medaglia di argento. Questo episodio mi venne riferito dall’avv. Emanuele Caramazza, ultimo Barone di Butti e Mangalavite, che lo apprese dal longese Turi Vieni, detto “gennaria”, il quale, durante la suddetta guerra libica, era l’attendente del Duca. “Gennaria” fu campiere dei Caramazza presso l’ex feudo di Mangalavite.

Per la cronaca recente, l’ingente patrimonio, attraverso complicati passaggi giudiziari, passò nelle mani del Marchese di Cassibile, Silvestro Gutkowski Loffredo, il quale, successivamente, se ne disfece vendendolo a privati longesi.

il suo comportamento non ha dimostrato di poterlo considerare l'ultimo "Signore" delle terre longesi: da Longi ha preso un'enorme ricchezza senza nulla dare. 

Il patrimonio del Duca Vincenzo Loffredo Duca D’Ossada, (9/11/1860 – 14/7/1944), era formato dal feudo di 1200 ettari di Barrilà, da 200 ettari della baronia di Cinca (Longi), da15 ettari di Liazzo, da 6 ettari di Bonaiunta, dal Castello in Longi nonché da parte della Palizzata sul porto di Messina e da altri possedimenti sparsi.

   Dal sito internet

Forum Italiano della Commissione Internazionale permanente per lo Studio degli Ordini Cavallereschi, dell’Istituto Araldico Genealogico Italiano e di Famiglie Storiche d'Italia - Sito ufficiale: www.iagi.info


Nel IX Libro d'0ro della Nobiltà è citata la nobile famiglia Loffredo, stabilitasi in Messina nel secolo XVIII, ma che si estinse in casa Trotta, che ne assunse il cognome: quest'ultima si estinse nel secolo XIX in casa Anria (Doria) di origine genovese, che assunse a sua volta il cognome Loffredo.

Silvestro d'Auria assunse il cognome Loffreda nonché il titolo di Marchese di Cassibile, per successione dello zio Marchese Silvestro Loffreda (alias Trotta). Fu gentiluomo della Regia Camera e Sindaco di Messina. Sposò la nobildonna Giovanna Rao-Corvja, da cui nacquero:- Giuseppe, primogenito, che però si fece sacerdote e divenne Canonico della Cattedrale di Messina;- Gaetano (cerimoniere onorario di Corte, gentiluomo di Camera, deputato al parlamento nazionale) sposato con Maria Caterina Scoppa, da cui non ebbe figli;- Nicolò, marito di Maria Calcagno e d'Amico, ereditiera dei titoli di duca di S. Giorgio Ossada, conte di Guido, barone di Longi, ecc., da cui ebbe discendenza Vincenzo, (senza eredi NdA).


Alcuni post sul Marchese Silvestro Gutkowski di Cassibile.


Il marchese Gutkowski Pulejo Loffredo, che incamerò l’ingente patrimonio dell’ultimo duca d’Ossada, non compare però nemmeno nella lista di coloro che beneficiarono dei provvedimenti nobiliari, da Cascais, di Re Umberto II. ( Ritengo che ciò sia avvenuto perché il “nostro” si dichiarava fedele alla Casa Reale dei Borbone. Non va dimenticato che l’ultima regina del Regno delle due Sicilia fu Maria Sofia, che era austriaca di nascita; e gli antenati Gutkowski erano anch’essi austriaci. NdA)  


Su una rivista che trattava delle condizioni di lavoro dei braccianti immigrati proprio a Cassibile, è scritto che, in assenza di un sindaco che rappresenti le autorità locali (Cassibile è una frazione distante di Siracusa NdA), il marchese sembra che abbia accentrato la funzione civica nelle sue mani: riceve in udienza, presso la sua magione, il giovedì dalle 15 alle 17, per aiuti e consigli ai suoi concittadini...

Aver conservato grandi patrimoni evidentemente aiuta a conservare anche il potere che i titoli non danno più.





Nota personale.


Conobbi il Marchese Silvestro Gutkowski Pulejo Loffredo quando venne a trovarmi al Municipio di Longi, mentre ero Sindaco, per parlare del contenzioso in corso che vedeva il Comune debitore dello stesso per un miliardo e ottocento milioni di lire. Mi vidi piombato indietro in un’immagine dell’800: vestiva in nero, con un mantello nero ed un cappello a larghe falde anch’esso nero. Alto, longilineo, sui 70 anni. Modi da gentleman e forbito linguaggio, soprattutto giuridico. Si dichiarò “imprenditore agricolo”. Un signore dei tempi andati, ma moderno nel trattare i suoi affari. Si dimostrò disponibile a raggiungere un accordo e, in pochi anni, chiudemmo il lungo contenzioso con una transazione legale, il cui onere venne onorato attraverso un mutuo acceso dal Comune con la Cassa DD.PP.

In un incontro successivo, ebbi a chiedere al Marchese di vendere alla comunità longese il Castello per farne la sede municipale e, nel contempo, un centro d’arte e di cultura. Mi rispose che non ne aveva alcuna intenzione perché avrebbe voluto restaurare qualche ala per i suoi rari soggiorni a Longi. Ma da lì a qualche anno, dopo che ebbe ad intascare “il dovuto”, venni a sapere che lo vendette alla B.C.C.  E fu un bene. Il Comune non avrebbe avuto la disponibilità economica del restauro e della manutenzione. Oggi, il Castello feudale di Longi è la sede di un istituto di credito che ha esteso la sua presenza nel territorio del Fitalia e di alcuni paesi viciniori. 



Loffreda o Loffredo già Auria



Originaria di Cava, portata in Messina nel principio del secolo XVIII. Estintasi in casa Trotta, questa assunse il cognome Loffreda e Silvestro Loffredo (Trotta), di Aniello, acquistò la baronia di Cassibile, sulla quale, con privilegio dato a 4 dicembre 1797 esecutoriato a 20 gennaio 1798, ottenne il titolo di marchese, fu ascritto alla mastra nobile di Messina del 1798-1807, a 24 febbraio 1812 fu nominato Sindaco di detta città e lasciò erede il suo nipote Silvestre d’Auria, che assunse il cognome Loffreda e il titolo di marchese di Cassibile.

Vincenzo Loffredo, (di Nicolò, di Silvestre predetto) nato in Messina a 9 novembre 1860 ottenne, con decreto ministeriale del 26 agosto 1898, riconoscimento del titolo di marchese di Cassibile; con decreto ministeriale del 20 luglio 1899 dei titoli di barone di Cassibile, marchese di Mongiuffi e Kaggi, barone di Melia e con Regie Lettere Patenti del 5 aprile 1903 dei titoli di duca di Ossada, marchese di Melia, conte di Guido, barone delle Tonnare di S. Giorgio e di Patti, barone di Longi e signore delle Saline di Platanella, Cianciana e Cantarella.


 Arma: d’azzurro, troncato da un filetto d’oro; il 1° al leone d’oro illeopardito tenente un ramoscello di verde; il 2° a tre monti verdeggianti al naturale, ciascuno sormontato da una stella di sei raggi d’argento.

(da:Dott. Antonino Mango di Casalgerardo - NOBILIARIO DI SICILIA)


IL CASTELLO

Il Casale di Longi, nei secoli, subì diverse trasformazioni, sino a divenire un “palazzone” residenziale per i baroni di Longi. 

Oggi, la figura di cui sopra è il logo della B.C.C “valle del Fitalia”.

(la stilizzazione del Castello Ducale è di Franco Brancatelli) 



Vecchia foto dell'ingresso


  

La corte in una foto antica

   

 La cisterna ed il cortile del castello, oggi.        (Foto di Salvatore Migliore)

                        

 

Longi nel medioevo e nei successivi secoli


Il regime feudale fu instaurato dai Normanni. Il Barone di Longi, in tempo di guerra, forniva al Re il “frodo” – frumento, orzo, montoni, porci, vacche e vino - per vettovagliare l’esercito. Ma, attraverso l’”adoa”, il servizio militare poteva essere convertito in denaro. Si faceva altresì l’obbligo – angariae - agli abitanti di prestare la loro opera per costruire e riparare le fortezze e le muraglie. I militi in servizio per la Guardia Nazionale erano sette, mentre, per la mobilitazione, Longi doveva essere presente con sessanta soldati più sessanta di riserva: in pratica, una mini-compagnia militare formata da tutti gli uomini abili, considerata la presenza, all’anagrafe dell’epoca, di circa cento famiglie.


Presso l’ospizio basiliano, i monaci offrivano ospitalità e praticavano l’assistenza agli infermi. Altra bellissima usanza era quella di coprire gli sposi, sui gradini dell’altare, per sottrarli allo sguardo della folla, con un velo di seta bianca, detto “pallium”, quale segno di castità. Questo, allora! Se poi gli sposi volevano avere benedetto l’anello nunziale, dal Vescovo, dovevano pagare un tarì.


Il Consiglio comunale era formato da cinque persone ed era presieduto dal parroco, che lo convocava presso la Chiesa Madre. L’Universitas – l’antico Comune – era affidata per la sua gestione ad un baiulo nominato dal barone; i suoi compiti erano quelli dell’esercizio dei poteri di giustizia e di amministrazione ed era coadiuvato da un giudice e da un maestro notaro. “Homines jurati” era il loro appellativo ed insieme formavano la corte baiulare . Dal Re Federico III, nel 1324, vennero sanciti i loro compiti: “spendere per comune utilità gli introiti, mettere le mete alle cose venali, sorvegliare i pesi e le misure dei venditori, impedire che si fabbricasse in luogo comunale, riunirsi ogni venerdì per esaminare e decidere sugli affari dell’Universitas……, far nettare la città, provvedere agli edifici che minacciavano rovina, conoscere e decidere controversie sulle gabelle comunali, sulle siepi, confini e divisioni delle vigne, delle case e di altri possessioni”. Allora, come oggi? La “domus iuratorum”, realizzata molto tardi, custodiva le scritture; prima, venivano depositate nell’archivio della Matrice; in entrambi i casi, si perse tutto: per incuria, per strafottenza e per ignoranza delle “necessità storiche e culturali”.


Per le cause civili e per i crimini il potere era in mano ai baroni, i quali esercitavano anche la “gladii potestas”, che consentiva loro di elevare “furcas et perticas”; ancor oggi, il relativo sito longese viene rammentato come Piano della Forca, nei pressi di Bonaiunta.


La giornata era segnata da diversi suoni di campana: alle ore 6.00, un'ora prima dell'alba, suonava la campana del castello alla quale, all'alba, seguiva quella della chiesa Madre per il Pater Noster e la Salve Regina; ed ancora, la nona a mezzogiorno, il vespero alle ore 19, il Credo alle ore 21, la compiuta alle ore 23 e l'Ave Maria alle ore 24. Una disposizione regolava l’uscita di notte (xiurta)


Esistevano tre Monti frumentari, la cui funzione era quella di limitare i disagi dei consumatori nell’acquisto del grano. Questo cereale veniva comprato quando il prezzo era meno caro, indi immagazzinato e distribuito ai contadini per la semina. Costoro lo restituivano al Monte con un modico interesse – misura colma anziché rasa – per sopperire alle spese dello stabilimento. Nel 1781, il Re Borbone Ferdinando II dispose di assegnare a questi enti gli spogli dei vescovi e le rendite dei beni vacanti.

Leggo anche, da documenti vari, che erano stati fondati due istituti: l’uno per la distribuzione del pane ai poveri e l’altro per la istruzione degli uomini (sic!): probabilmente, la cultura somministrata si fermava nel sapere leggere e scrivere. Infatti, sino a qualche secolo addietro, molti non conoscevano i rudimenti di una istruzione scolastica. Le donne del XVII secolo e di quelli precedenti dovevano rimanere ”ignoranti”! Benvenuta civiltà!


Quando il barone passava “a miglior vita”, si formava un corteo che dal Castello si recava, per nove giorni consecutivi, in chiesa per partecipare alla messa in suffragio del defunto. Per siffatta cerimonia, i cittadini che partecipavano al corteo ricevevano le vesti da lutto dalla cassa del Comune o da quella del barone.


Tutti gli uomini, ad eccezione dei pubblici ufficiali e degli ecclesiastici, traevano la loro qualifica dal terreno posseduto o coltivato: “burgenses” – abitanti dei borghi – erano i proprietari di terreni, mentre i villani che coltivano la terra ed i servi facevano parte di un elenco denominato “platiatavole”.


L’industria, rappresentata dalla lavorazione della canapa e del lino tramite appositi telai, era concentrata nella corte feudale, nelle abbazie, nelle masserie e nelle case dei borghesi e vi lavoravano i servi per conto del domino. Il villano che lavorava a giornata era indicato col termine “affannaturi”. Non occorrono spiegazioni!


I forni per la vendita del pane al pubblico erano di proprietà baronale così come i mulini e le neviere; questi ultimi “opifici” venivano dati anche in affitto.


Nell’agricoltura era fiorente la coltivazione dei cereali, la raccolta delle castagne e dei gelsi (le cui foglie servivano per l’allevamento del baco da sete), la cura delle viti. Questi prodotti, soddisfatte le esigenze familiari, venivano anche esportati.


I prodotti delle terre di Longi 

Il maggior prodotto più frequentemente coltivato era il grano; in tutti i feudi la metà di ogni quota era coltivata a grano, poi venivano gli altri tipi di cereali (granoturco ad es.), i legumi come la cicerchia (“chiecchera”, che è una pianta molto coltivata in questa parte dei Nebrodi e in particolare nella zona di Longi, è una leguminosa, simile ai ceci, che però contiene un principio venefico per l’uomo e gli animali, la latirina. ) e gli ortaggi nei piccoli orti familiari. Il miglior terreno era quello della località di Barillà, di conseguenza anche il più ambito dai contadini. 

La parte di grano di spettanza del Duca era conservata nei magazzini di Barillà e di Mangalavite. Il grano del Duca durante l’inverno veniva trasportato e tenuto in deposito presso il magazzino di S. Antonio, dietro la Chiesa SS. Annunziata, e venduto nel Castello di Longi. 

Le terre che circondavano il paese (da passo Zita fino al Belvedere Serro e la zona Vendipiano) non si prestavano alla coltivazione di grano ed erano quindi per lo più dedicate alla coltivazione di mensalora, cioè, come già detto, piccole olive di qualità pregiata con poca polpa. 

Per dare lavoro alla gente, il Duca impiantò un grande vigneto nelle sue terre nei pressi del Passo Zita. In contrada Pado si coltivavano ortaggi negli appezzamenti di proprietà dei contadini, mentre, nella parte restante, crescevano noccioli e castagni , ancora oggi esistenti. 

Il Duca, che faceva raccogliere le nocciole ai contadini, aveva un metodo originale per capire se qualcuno a fine lavoro si stava portando via, a sua insaputa, delle nocciole. Li faceva passare sopra un solco scavato nella terra; per oltrepassarlo, le persone erano costrette a sollevare, una alla volta, le gambe e se in tasca avevano delle nocciole queste avrebbero fatto rumore. Gli agrumi, pochi alberi, erano coltivati solamente vicino al fiume Mylè (al confine con il Comune di Galati Mamertino) sotto al Serro, perché bisognosi di molta acqua. Il Duca si faceva pagare anche le ghiande che i contadini raccoglievano sui suoi terreni per nutrire e ingrassare i maiali.


La produzione della seta e il consumo di grano

La seta, come si è già detto, ha caratterizzato un’intera area della Sicilia, costituendone per circa tre secoli la ricchezza principale. Questa attività è entrata nella vita quotidiana delle famiglie divenendo la base di equilibri politico-sociali e al tempo stesso è stata una coltura trainante, merce di scambio sul mercato sia locale sia internazionale. Ma la coltura dei gelsi rappresentava una risorsa ancor più importante con la quale far fronte all’ «endemica penuria di grano di terreni troppo scoscesi e irregolari per produrlo». Longi si inserisce perfettamente in questo quadro. Un confronto tra le diverse produzioni presenti nel territorio longese dimostra quanto importante sia la sericoltura rispetto alle altre e quanto quasi nulla la coltivazione cerealicola.

 Annotazioni relative al periodo del regno delle Due Sicilie.

Nel 1724, Carlo di Borbone, Infante di Spagna, conquista la Sicilia, cacciando gli Asburgo, e ne diviene sovrano. I Borbone, con il Regno delle Due Sicilie, regnano sino al 1860 tra moti rivoluzionari, proteste ed avversioni da parte dei Baroni siciliani. Non vi è notizia che i Signori di Longi abbiano partecipato alle lotte politiche attuate dai notabili siciliani contro i sovrani Borbone. Ai quali, peraltro, rimasero fedeli, come ebbe a dichiararmi, in una delle conversazioni avute, il Marchese di Cassibile, Silvestro Loffredo  Gutkowski.

Durante il regno borbonico, la Sicilia continua a vivere di agricoltura e di commercio marittimo a fronte della florida economia del napoletano, dove si dà impulso all’industria ed alla rete ferroviaria. In quel periodo, il fenomeno dell’emigrazione è assente ed a Longi si vive con l’agricoltura, il lavoro artigianale, l’allevamento di bestiame, il commercio dei prodotti locali: noci, castagne, nocciole, seta, frumento, ecc.

Nel 1812, i Borbone, con la Costituzione, pongono fine all’istituto giuridico feudale, ma la baronia continua ad esserci anche dopo l’unità d’Italia attraverso i latifondi. Quest’ultimi cessano di esistere, nel 1950, quando viene approvata la riforma agraria. In quel frangente, il Duca D’Ossada aliena, ad un prezzo politico, i suoi terreni in contrada Gazzana.

I Borbone sono costretti all’esilio quando il Piemonte invade il regno delle Due Sicilie. “Le riserve auree del Regno delle Due Sicilie servirono a risollevare l’economia del Nord del Paese. Il Sud fu definitivamente messo in ginocchio: terreni espropriati, tasse che in 3 anni dall’unità raddoppiarono. Cause e concause che spinsero migliaia di meridionali ad emigrare al Nord” (Giuseppe Ressa, Il Sud e l’unità d’Italia, Napoli 2003). I motivi che spinsero i Siciliani ad emigrare, e quindi molti degli abitanti di Longi, furono le condizioni fiscali, la crisi agricola e la mancanza di lavoro.

I longesi incominciano, quindi, a subire le traversie del regno d’Italia: ha inizio l’emigrazione, in molti cadono durante la I e la II guerra mondiale, il fascismo impone le sue leggi sino a quando la Resistenza e gli Alleati cacciano i nazi-fascisti dal Paese. Durante lo sbarco delle truppe americane e la contemporanea ritirata di quelle tedesche, parecchie famiglie si rifugiano nelle contrade. Arrivano anche longesi sfollati da altri centri.

Ancora oggi i longesi sono costretti ad abbandonare il paese natio in cerca di lavoro: in Italia ed all’estero! A causa anche della pesante crisi economica. Ed il paese, anagraficamente ma non solo, viene annualmente depauperato di braccia-lavoro e di giovani intelligenze.



Due monete durante il regno delle Due Sicilie  (Ph da internet)



Eventi calamitosi e disagi

Tra il 1491 ed 1519 si ripeterono siccità d’acqua e gelate che distrussero i raccolti e provocarono stragi di bestiame. Non mancarono le alluvioni. Questi eventi calamitosi colpirono i ricchi proprietari ma soprattutto i poveri, i contadini e gli artigiani ed a cagione del malessere economico diffusosi, nel 1516, la popolazione si rivoltò.

Nonostante tutto, nacquero tre mulini ad acqua ed un drappificio (o gualchiera per la battitura della lana), sorto nei pressi del fiume Milè . - Vedi foto sotto-

L’opificio era “costituito da un follone ( macchina per la follatura di tessuti e feltri) dava luogo all'azione di follatura, che è un'operazione del processo di finissaggio dei tessuti di lana, che consiste nel compattare il tessuto attraverso l'infeltrimento, per renderlo compatto e in alcuni casi impermeabile.

Il panno è un tessuto pesante, resistente all'usura, impermeabile grazie alla follatura che chiude gli interstizi tra i fili di trama e di ordito, la parte pelosa costituisce un funzionale doppio strato, antifreddo e antipioggia, e veniva inizialmente ottenuta spazzolando superficie della pezza di lana con cardi (garzatura). Le proprietà del tessuto garantiscono anche l'isolamento termico, oltre alla traspirazione dei vapori propri del corpo umano.

 L'uso di follare la lana era attestato già in epoca romana, in appositi laboratori chiamati fullonicae dove oltre ad infeltrire e rifinire il tessuto si lavavano anche i panni, che si possono vedere negli scavi archeologici di Pompei.

Il processo prevede che i tessuti siano messi in una tramoggia con la terra da follone (argilla smectica a elevata plasticità, capace di assorbire grandi quantità d'acqua), abbondantemente spruzzati d'acqua calda e battuti, sfregati e torti, sia manualmente con un pestello a mano, sia meccanicamente con magli azionati dalla forza dell'acqua in gualchiere”. (da internet).

Nel drappificio di Longi, presso la contrada Paratore, nel Bosco Sottano, venivano realizzati mantelli impermeabili col cappuccio, indossati, soprattutto, dai contadini quando andavano nei campi.  Al “paraturi”, una rudimentale fabbrica di panni, di proprietà del barone di Longi,  si manifatturavano a cottimo due tipi di tessuto: l’abracio per l’abito contadino, e lo stamigno che serviva per gli stacci.

L'usura era una pratica diffusa ed i debiti investirono parecchia gente: molti avevano soltanto “pedas et dentes”. Il malcostume politico si allargava a macchia d’olio: misteriosa è la donazione fatta, dal Barone di Longi e di Cianciana, Antonio Lanza, di circa 190 ettari, in Cianciana, al Notaro P.P. Mignia del regio tribunale per le cause delegate.

In quegli anni, quattro Sindaci dell’Università, in lite con il Signore del luogo, chiesero e ottennero le salvaguardie ed il diritto di farsi accompagnare da uomini armati (l’odierna scorta). Il provvedimento venne invocato contro il barone Antonino Lanza ed il figlio Pietro.

A causa del propagarsi del brigantaggio, -come prima detto -, nel 1516, il Vicerè spagnolo fu costretto ad usare la maniera forte e conferì l’incarico di Capitano d’armi a Francesco Ventimiglia, membro della potente famiglia siciliana di nobile retaggio. L’ordine era di reprimere banditi, facinorosi, omicidi e ladri in metà provincia di Messina, tra cui Longi, e mezza provincia di Catania. Le pene inflitte consistevano nella decapitazione o in battute di corde.

La peste

Nel 1918, la pestilenziale “spagnola”, nell’arco di tre anni, depauperò la popolazione longese mietendo parecchie vittime e non distinguendo tra ricchi e poveri. Il medico condotto che dovette affrontare il morbo, a Longi, fu il dott. Giuseppe Sirna, mio prozio acquisito.

“Novanta anni orsono, mentre si consumavano gli ultimi fuochi della prima guerra mondiale, milioni di uomini e donne furono vittime della cosiddetta “spagnola”, che cominciava con i sintomi di una normale influenza. Il morbo divenne virulento, in Sicilia, tra l’agosto 1918 e il marzo 1919. Fu un’ecatombe di giovani, tra cui molte donne; alcune di queste – si racconta – riuscirono a salvarsi, mentre erano a letto ammalate, col sopravvenire del flusso mestruale.  La malattia stroncò la vita nel mondo a ben 100 milioni di persone. La Spagnola- viene affermato da Barry in una sua ricerca – uccise in un anno più persone che la Peste Nera del Medioevo in un secolo e, in 24 settimane, quanto l’AIDS ne ha ucciso in ventiquattro anni” (estratto da La Repubblica del 30-7-2008).

Sono ricorrenti nella storia i periodi pestilenziali o di colera. Nell’ottobre del 1347, i tartari, che assediavano Caffa, in Crimea, misero in atto deliberatamente una forma di bioterrorismo. Infatti, per espugnare la città, catapultarono oltre le mura i cadaveri di soldati morti di peste. I mercanti ed i soldati genovesi, per non essere contagiati dal morbo, fuggirono dalla città ed approdarono al porto di Messina. Ma il virus era già penetrato nel loro corpo ed il contagio bubbonico si diffuse in Sicilia e nel resto d’Europa: l’acme della pestilenza si ebbe nel 1348. Ad intervalli decennali, l’epidemia tornava a farsi viva colpendo ora l’una ora altra regione o città. E ciò si ripeté per i successivi tre secoli. Il depauperamento della popolazione europea viene stimato intorno al trenta per cento.

Non si hanno notizie di ciò che accadde in quegli anni tra la popolazione del nascente borgo longese. Ma c’è una presenza significativa verosimilmente apparsa in quei ciclici ritorni del terribile morbo.  Durante le frequenti epidemie successive al 1348, si diffuse anche il culto di San Rocco. Egli, mentre si recava in pellegrinaggio da Montpellier a Gerusalemme, facendo sosta a Roma, s’imbatté nella Peste Nera. Per alcuni anni assistette i malati della città facendo guarigioni miracolose che diffusero la sua fama. Rientrando a Montpellier, nei pressi di Piacenza, fu colpito dalla nera malattia: con l’aiuto di un cane e di un angelo vi sopravvisse. Invocato nelle campagne contro le malattie del bestiame e le catastrofi naturali, il suo culto si diffuse straordinariamente nell'Italia, legato in particolare al suo ruolo di protettore contro la peste.

Quando ebbe inizio, a Longi, il culto di questo santo, la cui statua col cane è presente nella chiesa madre? In quegli anni pestilenziali? Purtroppo, non esistono documenti al riguardo ma possiamo ipotizzare che anche a Longi l’epidemia mortale fece la sua ciclica comparsa nel corso dei secoli.

La storiografia ci riporta indietro negli anni citando alcuni eventi luttuosi dovuti a “pestilenze” endemiche ma anche pandemiche. Nel 2000-1500 a.C., in Egitto, nel 431-430 a.C. ad Atene, nel 165 d.C. l’esercito romano, nei suoi spostamenti, la diffuse in gran parte dell’Impero, nel 541 si abbatté sui territori dell’Impero Bizantino e venne definita “peste giustinianea”. E così via di seguito sino ad arrivare ai secoli XIX e XX.

Queste calamità erano causate da movimenti di eserciti in guerra, da carestie a seguito soprattutto di difficoltà di approvvigionamento alimentare, da parassiti trasmessi dai ratti che popolavano le stive delle navi onerarie. (Fonti di ricerca. “Cronologia”, sito web – “Badwila”, sito web – “Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute”)

La frana                                            Il 15 marzo 1851, una grossa frana di terra e grandi massi s’abbatté sulla parte alta di Longi travolgendo tutto ciò che incontrava sul suo cammino: un centinaio di case, stalle ed animali. Dalle rovine, il paese venne privato: a S. Maria, del convento “grancia” basiliano e della chiesa ove si venerava l’effige della Madonna di Montserrat; della chiesa del San Salvatore e, nel rione Borgo, di quella della S.S Annunziata, peraltro già lesionata dai passati terremoti. Quest’ultima venne “trasferita” in contrada “Jardinu”, su un terreno donato dalla Baronessa Rosa Calcagno D’Amico. 


   S. Leone di fronte alla frana del 1831 in un dipinto di Franco Brancatelli presso la Chiesa Madre

Nota. Si legge nei documenti a riguardo che la chiesa della Annunziata, in contrada Borgo (sotto” i due canali”), fu distrutta da un  terremoto nel 1823. Si legge anche che la frana a S.Maria avvenne, come detto, il 15 marzo 1851, mentre la chiesa del San Salvatore era in costruzione e per i danni ricevuti non venne completata. Ne consegue l’ovvia deduzione che nessuna statua o il prezioso organo della chiesa Madre erano già allocati nel cantiere aperto del Salvatore e, pertanto, trasferiti, come qualcuno sostiene.

A seguito della frana, in parecchi dovettero sfollare nei paesi vicini, laddove il loro cognome, tipico di Longi, ne indica il paese di provenienza.

 

Viene riportato anche  che la nuova chiesa dell’Annunziata venne costruita nel 1857 mentre era baronessa di Longi Rosa D’Amico Di Napoli , moglie di Vincenzo Calcagno, morta a Messina il 13 agosto 1898; la figlia di quest’ultima, Maria Calcagno D’Amico, succede alla madre nel titolo nell’anno 1901 con Decreto Ministeriale e sposa il generale Moriondo solo in seconde nozze. Si deduce che il terreno per la costruzione della chiesa fu concesso dalla baronessa Rosa e non dalla moglie di Moriondo, Maria. Ci si chiede:”perché la piazza antistante venne intitolata al Moriondo?” , che  nulla ha a che fare con il paese di Longi non essendone stato Signore delle terre longesi. Il  tenente generale Antonio Moriondo (classe 1842) era il comandante generale della divisione delle Fiamme Gialle di Messina. Mi sia consentito chiosare che la suindicata piazza  avrebbe dovuto portare il cognome della Baronessa Rosa D’Amico Di Napoli in Calcagno, proprietaria e donatrice del terreno. Ma, allora, in casa i pantaloni li portavano gli uomini…Moriondo, venuto dal Piemonte alla conquista della Sicilia, venne “onorato” in un paese a lui straniero. Sarebbe il momento di dare questa dignità a colei che è stata, allora, la Baronessa di Longi. Si dimenticano, invece, coloro che, a Longi ed in Italia, onorarono, con il loro cognome, la patria natia.



Per la cronaca, il costone a monte della Contrada S. Maria, nei secoli passati, è stato oggetto di smottamenti. Infatti, la comunità, fuggitiva da Demenna, diede vita al primo insediamento umano in contrada “Santu Petru” ma, probabilmente intorno al XII-XIII secolo, dovette fuggire in quanto venne investita da massi staccatisi dalla montagna sovrastante e si rifugiò, più a valle, per fondare, nel tempo, la Longi attuale. Ancor oggi, la zona colpita dalla frana, denominata “angara (ammasso di pietre) di Santu Petru”, presenta, visibile a occhio nudo, la sua vasta ferita. Nei decenni recenti, l’espansione urbanistica del paese si estese, in gran parte, sulla sedimentazione di quel terreno, oggetto della frana sopra descritta. L’agglomerato antico, invece, era stato costruito su una robusta roccia, che s’affaccia sul fiume Milè (o Fitalia).

Negli anni novanta del secolo scorso, a seguito delle segnalazioni da parte di alcuni cittadini per lesioni nei muri del paese, nella qualità di Sindaco del paese, chiesi un sopralluogo geologico alla Provincia regionale di Messina. Il geologo dell’ente pubblico stese una relazione attraverso la quale mise in evidenza il sovraccarico che si è venuto a determinare sulla roccia fluviale sul cui pianoro giacciono le antiche case. La relazione si trova agli atti del Comune.

Un progetto per opere a difesa del paese, durante la mia gestione amministrativa, proposto dalla Giunta in carica all’approvazione del Consiglio Comunale, non ebbe fortuna per la condizione politica oggettiva in cui venne a trovarsi quella Amministrazione. L’area di S. Maria è definita tecnicamente come zona soggetta a rischio di dissesto idro-geologico.

Nel novembre del 2009, scrissi il seguente articolo, pubblicandolo su “Longiblog”, che riprendo in quanto ritengo sia sempre attuale:


<< Per la difesa di Longi contro il rischio di dissesto idro-geologico

Ci fu tanta paura quel giorno dell’alluvione sul finire dell’ottobre scorso. Furono venti minuti in cui si aprirono le cateratte del cielo ed inondarono la Sicilia settentrionale.

Ci fu gente, a Longi, che fu costretta a tornare indietro da un viaggio appena iniziato perché era impossibile guidare a causa della inesistente visibilità stradale e delle pietre che cadevano dalla montagna.

Il torrente S. Basilio, al Forte, esondò scavalcando il ponte che lo attraversa; nei pressi del torrente S.Maria, l’acqua ed il fango risalirono, attraverso lo scarico delle acque nere, sino al secondo piano delle case, mentre il costone, franando, andò ad ostruire lo stradale. Negli anni ’60, quando l’alveo non era stato ancora coperto per realizzare la villa comunale, questo torrente vomitò tanta di quell’acqua piovana da invadere il piano stradale sino ad arrivare alla piazza generale Moriondo.

Il ristorante di Sardini fu allagato in quanto l’acqua filtrò dalla parte posteriore, a ridosso del costone in terra; microfrane invasero la S.P 157 tant’è che il paese rimase isolato, da entrambi i lati, per cui eventuali emergenze, in uscita, risultavano bloccate. Frane e fenditure sono comparse nei pressi del “vallone Ammeddu”, del campo sportivo, della casella dell’acqua potabile, sotto Filipelli, nei pressi del mulino Russo, nonché nelle località Canalace (la parte alta del torrente S. Croce) e Castagnà, a monte della strada per il cimitero. Un grosso masso, che per fortuna si è fermato senza piombare sulle case, è stato messo in sicurezza. In contrada Scinà, infine, sono stati divelti alcuni pali della linea telefonica.

Danni consistenti, quindi, inferti dalla enorme precipitazione di acqua piovana. Tutto sommato, “è andata bene”! Ma…, c’è qualche “ma”. Sembra, infatti, che il canalone per lo sgrondo delle acque che filtrano dalla montagna, in contrada Filipelli/ S.Pietro, fosse intasato da detriti ed altro materiale terroso per cui l’acqua, anziché essere convogliata verso i torrenti adiacenti, ha dilavato verso valle.

Il paese, quindi, è privo, a monte, di idonea protezione dal rischio del dissesto idro-geologico, protezione che principalmente dovrebbe derivare dalla costruzione di un grosso canale di gronda che convogli le acque nei due torrenti ai lati del paese, S. Croce e S. Maria, nonché dalla piantumazione di alberi sulla costa a ridosso dell’abitato. Ne abbiamo parlato, con un altro articolo, su questo blog quando “la Repubblica” ha pubblicato i dodici paesi siciliani, tra i quali c’è Longi, col maggiore rischio franoso.

Apprendiamo che è stato chiesto lo stato di calamità naturale, per cui Longi dovrebbe rientrare nei provvedimenti prioritari che verranno individuati e stabiliti dal tavolo provinciale di lavoro per la redazione della mappa del rischio idro-geologico dei paesi del messinese. Nel contempo, il comune si dovrebbe dotare di un “piano per la relativa emergenza.”

Ci auguriamo, pertanto, che non si perda l’opportunità di un risolutivo intervento a monte del paese, per la sua protezione da frane, caduta massi e smottamenti.

Se può essere utile, rammentiamo che esiste agli atti del Comune un progetto prioritario di “consolidamento”, che il Consiglio Comunale del 1993/97, in maniera improvvida e per fini ostruzionistici, declassò dalla priorità assoluta all’interno del Piano Triennale delle Opere Pubbliche. Questa proposta progettuale potrebbe essere riesumata e riadattata alla situazione oggi esistente per mettere in sicurezza il paese di Longi, nonché la zona di Castagnà, anch’essa pericolosa per la caduta di massi e per una fenditura esistente nel terreno. Non dimentichiamo che, inopportunamente, la parte alta del paese è costruita su una paleofrana, consolidata si, ma sempre nota come “valanga”.

Non sono per niente utili interventi tampone, nelle varie zone oggetto di eventi franosi contingenti, ma occorre un completo e razionale progetto per una definitiva azione che eviti che accada l’irreparabile con conseguenti dolorosi soccorsi o emergenze abitative.

Da notizie apprese dalla stampa nazionale, nelle prossime settimane si darà il via, in Sicilia, alla costruzione della mappa del rischio idro-geologico, attraverso la tecnica del laser scanning. E’, questo, un progetto frutto della collaborazione della Unione Europea con i Ministri Prestigiacomo e Marone ed il cui appalto è stato vinto dalla Vitrociset. Ci auguriamo che anche Longi venga monitorato rientrando appunto tra i paesi della Sicilia che corrono rischi di eventi franosi. Conviene, comunque, vigilare.

Il Presidente della Legambiente sostiene che “bisogna creare un sistema di controllo e di allerta per capire, durante gli episodi meteo estremi, qual è il livello reale di rischio momento per momento”. 

Ci sia consentito, però, concludere questa nostra nota con l’asserire che “prevenire è meglio che curare” perché, di fronte ad un evento doloroso ed estremo, non c’è più niente da “controllare” >>.



In appendice è pubblicato il “Piano Stralcio di Bacino per l’Assetto Idrogeologico (P.A.I.) RELATIVO AL COMUNE DI LONGI , redatto dalla Regione Siciliana.




PROTESTE DEI CONTADINI

Ai primi del ‘900, il livello di vita degli operai italiani era molto scadente; la giornata lavorativa era in media di 12-13 ore. Anche la condizione dei contadini era sempre dura. Nei latifondi dell'Italia meridionale gli affittuari dovevano consegnare al proprietario fino a 3/4 del raccolto

Nelle piccole città, dove i contadini senza terra si stipavano in misere casupole assieme al loro bestiame, regnavano la miseria, l'ignoranza, le malattie. 

In quel primo decennio del 1900, dopo che s'era diffusa la notizia di uccisioni di operai in Sicilia e in Sardegna ad opera della polizia, fu indetto lo sciopero generale.

Anche a Longi, dove c’era una forte presenza di socialisti, probabilmente con  lo sciopero generale sopra richiamato, si fece sentire la protesta dei contadini, i quali reclamavano la terra richiamandosi agli “usi civici”, ma protestando anche per le condizioni disumane di vita e di sfruttamento lavorativo cui erano costretti a vivere. Gli “usi civici” furono oggetto di una lunga “querelle” tra i Baroni ed i contadini, rappresentati – non sempre- dall’Amministrazione in carica. La fine dello sciopero vide migliorare le condizioni lavorative dei contadini, ma non ottenne i risultati sperati. Altri scioperi, negli anni a seguire, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, caratterizzarono la vita del movimento operaio longese.

In occasione del primo sciopero longese del 1908 (vedi foto sotto), da parte dei contadini, per giustificare l’azione di protesta, circolava il detto rivolto ai giovani: “ Vidi, figghiuzzu miu, chista è a terra di to nunnavi”. Si racconta che una donna, Maria Protopapa (nel riquadro sopra), guidò la protesta.

I contadini longesi, nel 1908 quindi, scesero dalle contrade per unirsi al concentramento dei lavoratori in sciopero nella piazza del paese. Lo sciopero era indetto a livello nazionale per cui è legittimo chiedersi in che modo i lavoratori longesi abbiano ricevuto la notizia della giornata di lotta, considerato che, allora, le comunicazioni via terra erano precarie, mentre non esistevano quelle telegrafiche. L’unica risposta è quella che probabilmente ciò fu possibile attraverso qualcuno dei primi apparecchi radio galena. Anche a Longi, quindi, era viva la fede socialista, la quale, in verità, fu presente anche negli anni futuri. Partigiani, dirigenti sindacali, sindaci, di fede socialista, sono stati protagonisti della storia recente e del passato prossimo di questa terra ai piedi delle Rocche del Crasto.



LA BARONIA DI BUTTI E MANGALAVITE



           La Signora Graziella Pidalà, che risiede a Roma, mi ha riferito una vicenda riguardante le terre di Mangalavite.  Il barone Caramazza si mise in causa con il comune di Alcara, a cagione di un terreno confinante, ma perse la lite. Per sostenere le spese, chiese un prestito, del quale non riuscì a restituire la somma. Il creditore, che era un contadino, aiutato da un prete, lo portò in tribunale e il barone perse una seconda causa. Per pagare questi debiti accumulati, lo stato gli confiscò i beni e gli tolse le terre di Mangalavite. Graziella ha aggiunto che quanto sopra le è stato raccontato dal padre, il quale all’epoca dei fatti aveva appena 6 anni. Era la famiglia di Turi Natale (vero cognome Pidalà) con la moglie Nunziata Lazzara: hanno avuto nove figli. Tutti quanti lavoravano la terra e pascolavano le bestie per il barone Caramazza: vissero lì per diversi anni. Prima di essi vi lavoravano i nonni di Graziella.

 

           Personalmente ritengo che, per la predetta situazione debitoria, fu confiscata una porzione delle terre, il cui valore doveva coprire il dovuto al creditore. Per la restante quota, reputo veritiera la versione del barone Caramazza; il feudo, cioè, venne espropriato dal regime fascista , da parte dell'ente di colonizzazione, 1' E.R.A.S , così come più avanti viene affermato attraverso gli Atti Parlamentari. (Il barone  mi ha concesso di intervistarlo, negli anni ’90, il cui testo è pubblicato nella precedente edizione de “Alle pendici delle Rocche”)



  


Le case di Mangalavite negli anni ’70 del secolo scorso



Le case di Mangalavite nel 1800 e (sotto) nel 2000

Il Casamento di Mangalavite, costruito dal Barone Bernardo Caramazza Verde, ma oggi distrutto. Nella foto, sulla sinistra si vede la chiesetta. Gli impiegati stavano con la giacca, mentre gli operai ed i contadini in maniche di camicia e gilè .


Nota. Attraverso un progetto redatto negli anni ’90, le Case di Mangalavite furono successivamente ricostruite, come si può vedere nella foto sotto:




Il cognome Manglaviti

L’etimologia del cognome Manglaviti risale al sec. XI e trae origine dal termine Manglabites, titolo di Ufficiale bizantino riferito alla guardia scelta dell’Imperatore. Notizie del nobile rango si trovano riferite ad Harald, figlio del re dei “Varanghi” secondo in autorità rispetto al fratello Olaf, che non potendo vantare alcun diritto di successione al trono scandinavo, con una compagnia di cinquecento cavalieri, offri’ i propri servigi militari all’Imperatore Michele il “Paphlagone”. Al seguito di un esercito guidato dallo stratega Giorgio Maniàkes, Harald combatte’ valorosamente a Rometta e a Troina nel corso della campagna di Sicilia (1038 – 1041). In segno di riconoscenza l’Imperatore gli conferì il titolo di “Manglabites”, di cui rimangono ancora oggi tracce nei toponimi della Sicilia orientale (Monti Nebrodi: Pizzo Mangalavite, Bosco e Case di Mangalavite; cfr.  Cartografia IGM). L’ islandese “Laxdaela Saga” riporta che il titolo fu conferito, per i servigi resi a Bisanzio (1030-1040), all’eroe Bolli Bollanson che lo incise sull’elsa della spada. L’importanza del titolo e’ testimoniata da un antico sigillo medievale che lo attribuisce a S. Andrea della Chiesa Ortodossa, unitamente a quello di Spatharokandidatos, il testo dell’iscrizione recita: “Sant’Andrea: il Signore aiuti Andrea Spatharokandidatos e Manglabites”. (Dal “Nobiliario Siciliano - 1915 di Antonio Mango di Casalgerardo: Mangraviti nobile famiglia di Messina, nella mastra nobile del Mollica, lista I, anno 1587, e’ notato un messer Giovanni; Un Nicolo’ il 3 novembre 1494 ottenne conferma e nuova investitura del feudo Vanella; un Francesco fu senatore in Palermo negli anni 1526-27, 1550-51. Nel Syllabus graecarum, raccolta di antiche pergamene del membranarum, un diploma riferito a Isca del 1141 cita tale Nikolas Manglabitis. Tale Anca, Baron de Mangalavite e’ riportato in “Quaterly Journal of the Geological Society of London – vol. XVI – 1860” autore di un saggio su “Notice of the Discovery of Two Bone-Caves in the Northern Sicily”). 

 Baroni di Butti e Mangalavite

Francesco Sant’Angelo fu investito, in data 12 dicembre 1555 dei feudi di Butti e Mangalavite, che facevano parte di quelli della Foresta della Porta di Randazzo, nonché di quelli di Guttaino e Triari.

Francesco vendette i feudi Butti, Mangaliviti e Triari a Mariano Averna in data 27 Gennaio 1558; morto Mariano Averna, il 25 gennaio 1573, i feudi passarono al figlio Francesco Averna

D. Lorenzo Gioéni, s’investì dei feudi di Butti, Mangaliviti  e Triarei a 20 Ottobre 1600 per per la morte di Francesco d’Averna suo suocero

Don Alvaro Romeo e Gioeni investito di 3 feudi a 6 Luglio 16335 per la morte  di Consalvo Romeo e Gioeni, suo padre; al  quale Consalvo  furono venduti da  Don  Lorenzo De Joenio e Cardona , Principe di Castiglione

 Il feudo passo a Matteo Romeo Gioeni, suo fratello, che non prese investitura.

D. Pietro Paternò Castello s’investì dei feudi di Butti e Mangalavite a 19 aprile 1644

D. Carlo Paternò Castello s’investì a 25 gennaio 1659 del feudo di Butti e  Mangaliviti  come donatario a causa di nozze  di D. Pietro Paternò Castello, suo padre

 Donna Sigismonda de Alessandro, vedova del fu Francesco, investita a ‘29 Marzo 1670 per vendita fatta di detti due feudi da D. Carlo Paternò.

Filippo de Alessandro investito dei feudi suddetti a 10 Aprile 1690, come figlio, della suddetta Donna Sigismonda

Antonino De Alessandro investito a 2 Aprile 1692 per la morte di Filippo de Alessandro, suo padre

D. Mariano Emanuele investito del feudo di Butti a 20 Febbraio 1716 per la morte di D. Antonio, suo padre

Santo Berrittella, come fratello e successore del fu Antonino de Alessandro, s’investi del titolo di B.ne di Mangaliviti e Butti addi ‘29 Febbraro 1716

D. Tommaso Mangalavite investito del feudo di Butti a 20 giugno 1725 e del feudo di Mangalavite addì 16 Dicembre 1726

D. Simone Anzaldi Berrittella fu investito del titolo di Barone di Mangalavite e Buutti, a 16 Agosto 1730 Antonino Rodorico Anzaldi, s’investi del titolo onorifico di B.ne di Butti e Mangalavite il 5 Settembre 1735

D. Rosaria Mangaliviti e Saitta s’invésti dei feudi Butti e Mangalavite a 23 Dicembre 1737

Antonino Maria Spinotto investito dei feudi Butti e Mangalavite e Triari a 6 ottobre 1747 per concessione enfiteutica fattagli da Rosaria Mangalavite e Saitta per il canone annuale di onze 39

Giovanni Maria Spinotto, Barone di Marcantonio e B.ne di Butti e Mangaliviti, s’investì a 25 Gennaio 1766, come erede universale. Non ebbe figli.

Successe nei titoli di Barone di Marcatobianco e B.ne di Butti e Mangalavite Michele Lanza e Morello, figlio primogenito di Corrado Lanza e Spinotto, il quale fu  figlio primogenito di Michele Lanza e di Maria Spinotto e Sartorio, figlia, a sua volta, di Giovanni Maria Spinotto. Fu investito nelle baronie il 29 aprile 1798.

Corrado Lanza da Palermo fu figlio di Michele, al quale successe de jure..

Michele Lanza, come figlio primogenito, successe al padre Corrado. Non ha curato farsi riconoscere e così pure i suoi discendenti.


 (Da documenti inviatimi dal dr. Salvatore Lanza di Napoli, dei baroni di Longi)

Documento del 1848 relativo alla semina nelle terre  di Mangalavite




Nel dopoguerra, l’ombra della mafia su Mangalavite e Botti


Il Barone Emanuele Caramazza mi raccontò  anche che, dopo l’esproprio del feudo, avvenuto nel periodo fascista, le terre vennero affittate ad un gabellotto di S. Agata di Militello, un ricco allevatore in odore di mafia, il quale teneva per il pascolo delle sue mandrie la metà dei terreni – quelli migliori – e subaffittava l’altra metà ai mandriani longesi dando incarico, per tale lucrosa gestione, ad un possidente, ovviamente fascista, del Comune di Longi, che faceva pagare ai singoli allevatori locali un prezzo annuale troppo esoso, presumibilmente guadagnandoci sopra. Nella successiva epoca repubblicana, gli allevatori, a seguito di una dura protesta, ottennero il giusto prezzo per l’affitto delle terre.

Ai tempi della chiacchierata col barone non ero in condizione di potere avere riscontro su quanto confidatomi dallo stesso, per cui mi astenni dal farne cenno nell’intervista.

Ricordandomi di questo fatto, feci alcune ricerche su internet, che – com'è noto - è molto ricco di informazioni. Venni in possesso di quanto appresso si potrà leggere.  


Atti Parlamentari — 21666 — Camera dei Deputati

IV LEGISLATURA - DISCUSSIONI - SEDUTA DEL 28 MARZO 1966.

………………..

<<Noi socialisti abbiamo avuto una vittima in questi giorni, un sindacalista socialista ucciso in

Sicilia, ….

PRESIDENTE. E’ iscritto a parlare l'onorevole De Pasquale. Ne ha facoltà.

DE PASQUALE. Signor Presidente, onorevoli colleghi, onorevole Ministro, prendo la parola - brevemente - per chiedere spiegazioni e notizie al ministro dell'interno sul barbaro delitto consumato dalla mafia siciliana a Tusa il 25 marzo (1966) e per chiedere un giudizio del Governo sullo stato dell'ordine e della sicurezza pubblica in Sicilia e sui risultati della lotta contro la compenetrazione tra la delinquenza e i gruppi politici locali governativi. L'intera nazione - l'abbiamo visto - e in particolare la Sicilia ha immediatamente avvertito il significato sociale e politico del delitto di Tusa. Anche chi non conosce luoghi e fatti ha capito subito che Carmelo Battaglia è un nuovo martire del sanguinoso e luminoso cammino del popolo lavoratore siciliano verso la sua emancipazione sociale e civile, e che il delitto, vile, oscuro, è ancora – come prima - l'arma preferita delle classi reazionarie siciliane. La lotta per la terra sui monti Nebrodi e sulle Caronie dura senza soste dal 1945 e ha avuto sempre un avversario diretto ed implacabile: la mafia dei pascoli, raccolta in quella zona quasi tutta nel partito della Democrazia Cristiana.

(Proteste del Relatore Fabbri Francesco — Commenti all'estrema sinistra).

A questo gruppo risale la responsabilità diretta dell'assassinio. Non vi è possibilità di dubbio. Costoro hanno trucidato il compagno socialista Carmelo Battaglia, uno degli artefici, uno dei rappresentanti più fermi e convinti dell'unità dei lavoratori comunisti, socialisti e cattolici, raggiunta e consolidata nel comune e nella cooperativa di Tusa; di quella unità che si è forgiata nella lotta ormai ventennale e che ha resistito quindi e resiste a tutte le pressioni, a tutti i raggiri, a tutte le intimidazioni messe in atto per spezzarla.

Il marchio della mafia è così evidente , onorevole ministro, che le indagini del procuratore della Repubblica e dei carabinieri si sono subito rivolte nella direzione giusta, cioè verso il gruppo capeggiato dal commendatore Giuseppe Russo, « gabellotto » del feudo Foieri, ex vicesindaco democristiano di Sant'Agata di Militello, capo-elettore del partito di maggioranza, imparentato strettissimamente con l'onorevole Natale Di Napoli, attualmente presidente dell'Ente zolfi italiano, più volte deputato ed assessore regionale.

Le due cooperative di Tusa e di Caste Di Lucio avevano osato acquistare Foieri, un feudo di 270 ettari, per trasformarlo, come stanno facendo in modo esemplare con le altre terre in loro possesso. Ma a Foieri vi erano le mandrie del commendator Russo, del suo braccio destro Amata (oggi fermato e già implicato nel tentato omicidio di Carmelo Scialabba, da Pettineo, nel 1963) e di altri suoi accoliti.

Da Foieri ve ne dovete andare», dissero i «gabellotti» di Russo ai contadini in tutte le lingue. Lo dissero dapprima offrendo somme di denaro al vicesindaco comunista Giovanni Drago, poi intimorendo apertamente alcuni soci delle cooperative e infine consumando un grave atto di violenza a scopo intimidatorio.  Il 7 gennaio scorso, infatti, falliti tutti i tentativi, le mandrie di Russo invasero le terre delle cooperative. Accorsi subito sul posto, i dirigenti trovarono sulle terre solo i trecento bovini e nessun uomo. L'indomani, mentre una parte dei dirigenti delle cooperative si trovavano dai carabinieri per la denunzia, gli altri, rimasti nel feudo, venivano fatti segno a ripetuti colpi di arma da fuoco esplosi, a scopo intimidatorio, da direzioni diverse .……………………………

Questo delitto non può e non deve rimanere impunito, come sono rimasti impuniti ben tredici omicidi consumati fra il 1953 e il 1963 nelle campagne tra Tusa, Pettineo e Caste di Lucio. Desidero qui fare un richiamo specifico anche alle responsabilità di governo del partito socialista italiano. Molti dei martiri della lotta dei contadini siciliani, infatti, sono socialisti, come Rizzotto, Li Puma, Cangelosi. I martiri di Petralia, di Corleone, di Camporeale erano socialisti, come lo era Carmelo Battaglia. ………..

Il delitto di Tusa è antico nel costume, si, ma nelle nuove condizioni della lotta contadina in Sicilia esprime il drammatico contrasto tra le vecchie forze sociali che difendono l'arretratezza dell'agricoltura, le vecchie strutture feudali e il movimento contadino organizzato nelle cooperative, che avanza un programma di trasformazioni agrarie.

«Foieri è nostro e lo vogliamo coltivare» risposero ai Russo e agli Amata i contadini di Tusa, fino a ieri con Battaglia alla testa e oggi nel nome di Battaglia. Il delitto certamente non li ferma, e non li fermerà. Ma il Governo che cosa fa? Come appoggia il movimento contadino, che è la molla dell'avanzata democratica?

Le fornisco tre notizie, onorevole ministro dell'interno, che illustrano il clima di ostilità con cui i pubblici poteri circondano la lotta contadina.

Prima notizia. Negli stessi giorni in cui la mafia abbatteva Battaglia, l'ispettorato per l'agricoltura di Messina bocciava il piano di trasformazione presentato dalla cooperativa di Pettineo per il feudo Megaito, attiguo a Foieri, ottenuto a suo tempo in concessione come terra incolta. E sa qual’è la motivazione ufficiale? Questa: l'ispettorato pretendeva, per approvare il piano, il nulla osta da parte del proprietario assenteista espropriato!

Seconda notizia. I Russo vennero in provincia di Messina sotto il regime fascista, come campieri di un altro feudo famoso, Mangalavite e Botti di 1.700 ettari. L'ente di colonizzazione, a suo tempo, sempre in regime fascista, espropriato il feudo, nominò il fratello di Russo, suocero dell'onorevole Di Napoli, direttore del feudo, consentendo quindi ai vecchi campieri di continuarne lo sfruttamento. Dopo, 1' E.R.A.S. riconfermò il Russo direttore del feudo. La cooperativa di Longi ha già ottenuto, in quel feudo, 865 ettari in affitto. Ma Russo rimane ancora il direttore del feudo Mangalavite e Botti; egli rappresenta davanti ai contadini lo Stato, la regione, l'ente di riforma, i pubblici poteri.

Sant'Agata di Militello (non so se ella lo conosca, signor ministro) è un grosso paese di mare della provincia di Messina, al centro di tutta questa zona arretrata, di questa zona di mafia. Sant'Agata di Militello è la sede del commendatore Russo. Sa, onorevole ministro, chi è stato mandato al confino a Sant'Agata di Militello? Il famoso «gobbo di Godrano », il capomafia Lorello Salvatore , che figura nel rapporto dei 54. Costui è stato confinato in questi ultimi anni a Sant'Agata di Militello, e, unito come era naturalmente al Russo da vincoli di amicizia, ha mangiato, bevuto, passeggiato con il Russo, senza pudori. I contadini cosa devono pensare dello Stato, del Governo, della lotta alla mafia, davanti a spettacoli come questo? >>     

Fonte: Centro siciliano di documentazione "Giuseppe Impastato"

"Storia del movimento antimafia siciliano - dai Fasci siciliani all'omicidio di Carmelo Battaglia" di Gabriella Scolaro …… "Carmelo Battaglia era stato uno dei soci fondatori della cooperativa di Tusa, nata nel 1945 per la concessione delle terre incolte. Nel 1965, i contadini e coltivatori soci di questa cooperativa, insieme a quelli soci della cooperativa di Castel di Lucio, erano riusciti ad acquistare, dalla baronessa Lipari, il feudo Foieri, di 270 ettari. Subito dopo l'immissione nel possesso del fondo, sorsero forti contrasti con il gabellotto comm. Giuseppe Russo - ex vice-sindaco DC di Sant'Agata di Militello - e con il sovrastante Biagio Amata, che avevano avuto in gestione il feudo fino ad allora. Costoro pretesero dai nuovi proprietari la cessione di una parte dell'ex-feudo, per farvi svernare i propri armenti. Fu proprio nei forti contrasti che sorsero tra la cooperativa e questi due personaggi che maturò, quasi sicuramente, il delitto Battaglia.

 BIOGRAFIE‎: Battaglia Carmelo   (Tratto da La Sicilia  del 20 luglio 2008) di DINO PATERNOSTRO - omissis…” In effetti, in Sicilia, il delitto Battaglia fu l’ultimo capitolo di quella «lunga strage» dei dirigenti e dei militanti contadini, che era durata per oltre un ventennio (1944-1965). Carmelo Battaglia, dirigente sindacale e assessore al patrimonio della giunta di sinistra che amministrava il comune, venne assassinato all’alba del 24 marzo 1966, mentre si recava a dosso di mulo verso l’ex feudo «Foieri». Il delitto svelò l’esistenza di organizzazioni mafiose anche in una zona ritenuta, fino ad allora, immune da questa forma di criminalità organizzata: la provincia «babba» di Messina. Ma, se si tiene conto che proprio lì, già da tempo, si erano verificati gravi fenomeni delittuosi tipici delle zone di mafia (estorsioni, abigeati, danneggiamenti ed attentati) bisognerebbe dire che proprio «babba» quel lembo di Sicilia non era. Dietro i delitti vi era la «mafia dei pascoli» e le lotte scatenate al suo interno per il controllo dell’economia allevatoria dei Nebrodi. E l’assassinio di Carmelo Battaglia, rappresentò, quindi, il 13° anello di una lunga catena di sangue. Nel 1965, i soci di questa cooperativa e quelli della cooperativa «S. Placido» di Castel di Lucio acquistarono il feudo «Foieri» della baronessa Lipari, esteso 270 ettari. Si dovettero scontrare, però, con il gabellotto Giuseppe Russo, ex vice sindaco Dc di Sant’Agata di Militello, e col suo sovrastante Biagio Amata, che da tempo gestivano quel feudo e non volevano rassegnarsi all’idea di doverlo lasciare. Pretesero, quindi, che ne fosse ceduta a loro almeno una parte per farvi pascolare i propri animali. «Fu proprio nei forti contrasti che sorsero tra la cooperativa «Risveglio Alesino» e questi due personaggi che maturò, quasi sicuramente, il delitto Battaglia», spiega Scolaro. «Gli assassini – racconta ancora Scolaro - non si limitarono a sparargli addosso. Vollero che il messaggio mafioso di quella esecuzione fosse chiaro a tutti. Così, sistemarono il cadavere in posizione accovacciata, con le mani dietro la schiena e la faccia appoggiata su di una grossa pietra». «Uno ha sparato, altri hanno compiuto la bieca operazione mafiosa di far chinare, in atto di sottomissione, un uomo che in vita non si era arreso», scrisse il giornalista Felice Chilanti sul giornale «L’Ora» di Palermo del 25 marzo 1965. “

Integrazione attraverso un aggiornamento di notizie

Rosario Priolisi, Sindaco di Longi dal 1960 al 1968, così mi ha raccontato:

“Pascolo Mangalavite- Botti

Nel tempo, gli ex-feudi di Mangalavite e Botti erano amministrati dall’Assessorato Regionale dell’Agricoltura, dopo che furono confiscati all’ultimo proprietario, il barone Caramazza (i motivi sono delineati, in questo testo, nel capitolo dedicato alle Case di Mangalavite. N.d.r.). Ogni anno, lo stesso Assessorato con pubblica gara assegnava il pascolo. Gli allevatori, comunemente intesi  “armentisti”,  di Longi ed anche dei paesi vicini, per l’erba erano tenuti a pagare una “fida” (termine del gergo locale. N.d.r.) per ogni animale che intendevano immettere nel terreno da pascere. Il prezzo dall’assegnatario era ritenuto tanto speculativo quanto salato. La singolarità o la stranezza consisteva che da più anni veniva aggiudicata la gara sempre alla stessa persona, un armentista, notabile terriero del nostro comprensorio. Il quale, concedeva in una forma di sub-affitto la metà del territorio assegnatogli attraverso la gara di appalto regionale. L’oggetto del pascolo Mangalavite-Botti è stato anche un tema elettorale nelle elezioni amministrative di Longi del 1960. Il malcontento, o meglio la rassegnata rabbia degli “armentisti”, venne recepito dai componenti la lista S. Leone, risultata poi vincente. Subito dopo l’insediamento della nuova Amministrazione, un comitato di allevatori, stretto alla corde, proclamò lo stato di agitazione della categoria indicendo manifestazioni di protesta le cui conseguenze potevano essere imprevedibili. L’Amministrazione comunale ricevette i componenti il comitato, informando il prefetto, sia sotto il profilo dell’ordine pubblico, sia sulle motivazioni della protesta ritenute più che valide. Per scongiurare potenziali atti di violenza, intervenne a sedare gli animi e garantire sicurezza un distaccamento dei Carabinieri. Frattanto, l’Assessorato aveva indetta la gara per l’affidamento del pascolo per l’anno 1961, ma non ancora aggiudicata. Su espressa sollecitazione del Prefetto, l’Assessorato annullò la gara ed il sindaco venne convocato a Palermo, e, previo contratto stipulato e sottoscritto, gli fu assegnato il compito di gestire la concessione del pascolo a prezzo base d’asta e senza scopo di lucro, al solo beneficio degli “armentisti”. A Longi, si fece grande festa. Un addetto comunale ebbe il compito di ricevere le richieste di “fida”, stabilendo, per ciascun allevatore, il prezzo da pagare risultante dal numero degli animali immessi sul terreno del pascolo e dal prezzo base. Ne conseguì che gli animali in “fida” poterono pascolare sulle intere superfici dei due ex-feudi mentre prima essi potevano pascolare solamente nella zona alta, perché quella bassa, ove germogliava il migliore pascolo, era riservata agli armenti del notabile armentista. Ne venne fuori che, pascolando in tutto il territorio, la “fida” costava metà di quella precedente. Una vittoria conseguita su due fronti. Per gli anni successivi, il pascolo è stato gestito dalla cooperativa locale a tal fine costituita.”


All’epoca dei fatti era Sindaco di Longi Giuseppe Mollica, ex fascista, riciclatosi, dopo la II guerra mondiale che sconfisse il Fascismo, nella Democrazia Cristiana. Suo avversario nelle elezioni amministrative su menzionate era Rosario Priolisi, che vinse la competizione elettorale. Il Mollica sarebbe stato il collettore (cassiere) del sub-affitto, corrisposto dagli allevatori longesi, per il pascolo nel feudo; il quale con continuità veniva assegnato, da parte dell’ERAS, per lo sfruttamento dell’intero erbaggio al commendatore Giuseppe Russo, suocero del deputato democristiano On. Di Napoli. Nei documenti della VII legislatura parlamentare, al f. 639 “Rapporto giudiziario a carico di Russo Giuseppe del Nucleo di Polizia Regionale Criminale di Palermo del 13 luglio 1966, prot. n. 9685”, tra l’altro, in riferimento al Russo, è stato scritto che aveva <… vasti interessi nella zona di Mangalavite e Botti, ove godeva di largo ascendente … che veniva considerato “persona di rispetto”>. 


* * *

Occupazione delle terre, nel 1962, di Mangalavite e Butti

Il concentramento dei contadini era stato fissato nella contrada Crocetta per stabilire le azioni di lotta per la occupazione delle terre di Mangalavite. 

Nella foto  di Nino Russo: dirigenti sindacali della CGIL e del PCI arrivano al punto d’incontro per l’assemblea popolare, che versosimilmente si è svolta nella vecchia chiesa in quanto l’ambiente esterno era circondato dalla neve.

Nota personale: Giuseppe Prestipino fu mio professore di filosofia e storia al Liceo Classico di Patti e successivamente venne eletto Deputato nazionale del Partito Comunista Italiano




Il castello di Mylè, a Liazzo.


I ruderi

       Vista dall’esterno

 


 


All'interno : in fondo, c’era una finestra, le cui pietre angolari sono state asportate nel periodo del degrado

Le foto recenti sono di Salvatore Migliore

Oggi, il Casale, con le annesse terre, venduto dal Marchese Gutkowski ad una cooperativa è stato recuperato e ristrutturato ed ha di nuovo l’agibilità abitativa; la cooperativa ne ha fatto un Bed and Breakfast.

 

Il cortile del casale, prima del recupero della struttura



                  Il portale di un edificio con iscrizione

Nelle foto successive, aspetti di vita ambientale che insistevano attorno alle terre asservite al proprietario del Castello di Mylè.

       

Ph sx: il borgo di Mylè, dove abitavano i contadini della zona, oggi abbandonato.

     Ph dx: le macina del mulino, anch’esso abbandonato

Il Castello di Mylè era dotato di una torre di avvistamento come lo era il Castello di Muely sul Pizzo omonimo, in territorio di Longi, dove peraltro il feudatario Malabret aveva dotato la chiesa di S.Pietro.


 Castello di Muely




Pizzo Muely (Ph di Ivana Zingales)


Dario Sirna ha inserito, sul suo blog “cammino.in”, un reportage di una escursione da lui fatta a Muely. Poiché ha pubblicato, tra le altre, la fotografia, di cui sotto, che sembrerebbe la pavimentazione di un cortile, di una abitazione o di una strada, ho inviato a Dario il seguente messaggio: “Ho letto il testo dell'escursione a Pizzo Muely e visto le fotografie, tra cui una (foto sotto), che sembrerebbe la pavimentazione di una strada o di una struttura. Poichè viene riportato in testi antichi che sul pizzo esisteva un cenobio di monaci basiliani, San Pietro di Muely, e che esisteva anche una torre di avvistamento bizantina (?) non ha incontrato reperti di mura o qualcosa che potesse indicare che c'era stato un insediamento umano?

Sirna ha così risposto: “grazie per la sua cortese attenzione e per il suo interesse agli argomenti del sito. Relativamente al Pizzo Mueli le notizie di cui parla Lei ricordo di averle sentite da qualcuno tanti anni fa, ma non saprei ricostruire l'episodio. Durante l'escursione non mi sono reso conto dell'esistenza di antichi insediamenti, muri o altro, ma non ho posto attenzione a questo argomento perchè lo scenario paesaggistico è talmente coinvolgente e vasto da accentrare tutto l'interesse su se stesso. Inoltre l'assetto del pizzo è estremamente precario, vulnerabile e quindi mutevole. Le rocce sono in perenne movimento franoso e stravolgono notevolmente i luoghi. Sono sicuro di non essere stato colpito da nessuno dei segni da lei cercati, altrimenti ne avrei dato notizia nel racconto dell'escursione. Cordiali saluti.   Dario Contact fromCammino in.




. Ph di Dario Sirna.  Cos’è?



I fortilizi della Valle del Fitalia erano tra loro collegati per allertare le truppe contro il nemico 

Il Paleokastro sul Pizzo di S.Nicola era in collegamento visivo ed acustico anche con i fortilizi di Mylè, di Mueli e del Castello di Galati Mamertino. Questo sistema di difesa passiva consentiva il controllo del territorio dell’Alta Vallata del Fitalia, meglio definita del fiume Mylè. Allorchè una sentinella su una delle torri di avvistamento individuava movimenti di truppe nemiche, dava l’allarme con il potente gong, il cui suono era rilanciato dalle altre sentinelle dei fortilizi della vallata. Ci si predisponeva, indi, alla difesa della popolazione e del territorio in vista dell’imminente attacco nemico. 

Il territorio dei Nebrodi era organizzato militarmente per allertare le difese da parte delle truppe dislocate nel territorio o acquartierate presso il Quartiere generale. Il gong ritrovato e perduto sul Paleokastro di San Nicola, di cui ho narrato precedentemente, è una testimonianza che le fortezze ed i castelli della vallata del Mylè comunicavano tra loro. Ma non solo. L’insediamento umano è ivi datato da alcuni millenni e le sue tracce sono sotterrate nel suolo che lo ha accolto. Longi, nelle due fasi della sua nascita, risale ad un millennio addietro. Il suo vasto territorio nasconde, però, reperti che varrebbe la pena cercare ed offrirli alla cultura ed al turista.

  

                                                                    

ALCUNI STRALCI DALLA RACCOLTA SULLE ORDINANZE DI PROMISCUITÀ  RESE DALL’ INTENDENTE DI MESSINA


vol. I

Nella causa tra il comune di Longi, la marchesa Melia, ed altri possessori. - 25 luglio del 1842.

Veduti gli atti e le domande Ascoltato il rapporto orale del funzionario aggiunto Intese le parti in pubblica

(OMISSIS)

Considerando che i diritti competenti al comune pei due boschi soprano e sottano sono:

1. di far pascere gli animali dei singoli senz’alcun pagamento e per tutto il corso dell’ anno, quando le ghiande che vi si producono non bastano ad alimentare quindici neri nel primo, nove nel secondo, potendo in caso diverso i proprietarî chiudere i boschi dal 4 ottobre al 24 dicembre, dopo il qual termine rimangono aperti al pascolo dei comunisti; con che però anche in caso di chiusura debba lasciarsi per costoro tanta estensione di terre , quanta basti al ricovero de’ loro animali in caso di neve;

 2. di far uso di legno secco nonchè del verde, meno gli alberi di cerro e di rovere; i quali, se sono abbattuti dalla forza dei venti, possono essere appropriati dai comunisti, qualora non li abbiano raccolti i proprietari nel termine di tre giorni.

(omissis)

poiché niun documento essendosi prodotto da alcuna delle parti, è indispensabile assodare col mezzo della prova testimoniale il possesso degli usi civici del comune stesso dedotti:  laonde è mestieri  procedere a tale istruzione.

(omissis)

PER TALI MOTIVI

Noi Commendatore D. Giuseppe De Liguoro Intendente della Provincia di Messina , preso presenzialmente l’ avviso del consiglio d’ intendenza , e conformemente al progetto del funzionario aggiunto; ritenuti gli usi civici dichiarati con sentenza dell’ abolita commissione dei 26 agosto 4828, e dei 26 novembre 4830 in beneficio del comune di Longi contro gli eredi del marchese Mella ed altri possessori, ordiniamo si attribuisca ad esso comune la terza parte dei due  boschi soprano e sottano, e la quarta delle altre terre enunciate nella detta sentenza, da prendersi l’una e l’ altra porzione ne’ siti più prossimi all’ abitato;

 Per l’effetto nominiamo tre periti da destinarsi dal sottintendente del distretto di Patti, affinché dopo aver prestato giuramento nelle mani di costui, apprezzino le terre in parola e ne assegnino al comune una porzione, la quale corrisponda in valore alle quote come sopra assegnategli, apponendo con precisione i limiti tra le porzioni che rispettivamente toccheranno alle parti, e riferiscano se la divisione venga a privare alcuna di esse dal più facile accesso ad un fiume o ad un fonte , ovvero lo lasci troppo segregato dal legname necessario agli usi della vita e simile, indicando nell’ affermativa i mezzi per riparare a siffatti inconvenienti ed il valore delle servitù che debbonsi per avventura costituire nelle terre di una parte in beneficio di quella dell’ altra. Del tutto sarà formato apposito e dettagliato verbale, che verrà depositato in questa Intendenza.


DAL VOL . II

Nella causa tra il Comune di Longi e vari possessori -Il dì 30 marzo 1843

Quali sono gli usi civici competenti al comune sulle terre di che trattasi e come devono essere compensati

(omissis)

PER TALl MOTIVI

Noi Commendatore D. Giuseppe De Liguoro lntendente della Provincia di Messina uniformemente al progetto del funzionario aggiunto, ed all’avviso del consiglio d’Intendenza preso presenzialmente, dichiariamo il comune di Longi in possesso del diritto di pascere nelle terre denominate di Filippelli, Vina, Carrubbello, Gurna , Valancbe rosse, Japicbello , Castiglione, e Castaneto possedute nel suo tenimento dai convenuti. Ed in compenso ordiniamo gli si attribuisce il quarto del valore delle terre medesime, da prendersi nei siti più prossimi all’ abitato. Tale quota sarà soddisfatta in terre quanto alle tenute della         estensione di tre salme o più, in un canone enfiteutico quanto alle tenute più picciole. Per l’effetto ordiniamo che tre periti da destinarsi dal signor Sottintendente di Patti, dopo aver prestato giuramento nelle di lui mani, procedano allo apprezzamento e divisione delle terre anzi dette sieno di tre salme o più , sieno di estensione minore, fissando su queste ultime l’ annuo canone corrispondente al valore del quarto assegnato al comune , con la indicazione precisa della rata di ciascuna tenuta. Apporranno essi i limiti tra le proprietà che rispettivamente toccheranno alle parti, indicheranno se la divisione venga ad arrecare qualche pregiudizio ad alcuno degli interessati, indicando i mezzi onde ripararlo, e il valore delle servitù che debbonsi forse costituire sulla proprietà di una parte in beneficio di quella dell’altra, e faranno di tutte le loro operazioni apposito, e dettagliato verbale che verrà trasmesso in questa Intendenza.

 Le porzioni che spetteranno al comune sulle tenute di tre salme o più resteranno nel suo pieno dominio e possesso: quelle che gli spetteranno sulle tenute più picciole rimarranno a titolo di enfiteusi presso i possessori attuali, i quali per conseguente stipuleranno in beneficio del comune atto di obbligo di possederle ciascuno per la rata rispettiva di canone e con tutti gli altri obblighi che a tenore del titolo nono del libro terzo delle leggi civili incombono agli enfiteuti; e ciò nel termine di un mese dal giorno in cui l’ accantonamento delle terre , e lo stabilimento dell' annuo canone da farsi dai periti saranno compiuti. L’ atto di obbligo sarà stipulato davanti notajo in unico istrumento. Ordiniamo che le spese del giudizio, e della divisione cedono per una quarta parte a carico del comune, e per tre quarti a peso de' possessori, tra’ quali saranno suddivisi i tre quarti in propor zione del rispettivo interesse.

 Fatto e pubblicato il giorno mese ed anno come sopra.

L' Intendente COMMENDATORE DE LIGUORO.


* * *


Nella causa fra i comuni di Longi e di Galati, il Barone D. Francesco Anca ed il Principe di Galati.- Il di 13 febbraro 1843.

Veduti gli atti e le domande

(omissis)

Considerando che

1) tutti i testimoni della pruova e della ripruova assicurano concordemente aver veduto i comunisti di Longi a legnare al secco per uso del fuoco negli ex-feudi Botti e Mangalavite; che sebbene i testimoni forastieri aggiungano ignorare la causa dell‘esercizio, la causa però la spiegano i testimoni del comune , riferendola al diritto civico posseduto da tempo immemorabile dal comune continuamente e pacificamente. La causa dell’ esercizio sta nella legge che presume gli usi civici, massime  essenziali, nei  demani feudali , affinchè i cittadini non traggono inerte la vita giusta l' unanime insegnamento dei  feudistî ; che pochi de’ testimoni di ripruova hanno limitato, è vero, l‘ esercizio dell‘ uso ai coltivatori delle terre: ma tutti gli altri testimoni della stessa ripruova, in numero più assai considerabile, ed i 29 testimoni prodotti dal comune non fanno la medesima distinzione, epperò non vi ha ragione di ritenerla;  che l' esercizio della generalità de’ comunisti e altronde più probabile e verosimile , per la cennata regola di dritto , che gli usi civici si presumono nei feudi aperti; presunzione la quale prende nella specie una forza e consistenza tanto maggiore, in quanto che trattasi di una popolazione poverissima , vivente sotto rigido clima , con ristretto territorio; per forma che la privazione dell‘ uso del legno per le prime sue necessità si traduce in privazione dell’elemento il più indispensabile di sua sussistenza; che le vendite di legno fatte dal proprietario non conchiudono alla sua possessione esclusiva: esse possono ben coesistere con un godimento promiscuo , qual'è quello appunto che serve di base all’azione del comune. Considerando che lo esame testimoniale non ha ugualmente giustificato il possesso degli altri usi, anzi lo ha smentito. Che in effetti risulta non solo dalla riprova del sig. Anca, ma dalla prova stessa del comune , che la coltivazione delle terre si è fatta per concessione del proprietario dai cittadini tanto di Longi quanto di Tortorici e del Ss. Salvatore mediante la corrisposta di un terratico convenuto, ch’era moltissimi anni addietro di 12 tomoli e una salma , e poscia è stato elevato alla ragione di 18 tomoli per un ex-feudo , di 20 per l' altro, oltre ad una prestazione in denaro per la guardia e per la messa. E questi fatti venivano confessati dal sindaco stesso del comune, allorché ripulsando egli i testimoni di Tortorici e del Ss. Salvatore chiamati da Anca, ne allegava per ragione l'essere dessi coloni del sig. Anca ed interessati nella causa nel senso di ricevere da esso sig. Anca a colonia le terre in parola a preferenza de’ naturali di Longi

2. Che queste circostanze, cioè permesso dal proprietario per coltivare le terre, pagamento di un terratico convenuto, e quantità di esso corrispondente alla pensione ordinaria, risvegliano apertissima la idea di un contratto di locazione il quale costa appunto di questi elementi, obbligo di una parte di far godere all’altra una con per un determinato tempo e mediante un determinato prezzo, obbligo dell'altra di pagar questo prezzo (art. 1555 delle Il. civ.) La idea della locazione ripugna a quella del diritto civico di semina, il quale suppone un diritto proprio de’ comunisti, procedente da condominio o da servitù, ad occupare le terre per coltivarle e mantenersene in possesso finché loro piace mediante la corrisposta di un terratico fisso (art. 4. 11. e 12 delle istruzioni Ed a questa distinzione accennava l’ art. 10 del decreto degli 8 giugno 1808 emanato per Napoli , il quale volendo conservare a ciascun possessore quel diritto che legittimamente gli appartiene dichiara inamovibili i coloni perpetui, ed in pari tempo prescrive che gli affitti o colonie temporanee non debbano intendersi comprese nella legge, se non per lo tempo e durata convenuta nel contratto , o secondo la consuetudine locale, restando dopo ciò il proprietario o padrone diretto libero dispositore della sua proprietà. Che i risultamenti della pruova testimoniale in ordine all’uso di coltivare sono avvalorati dai contratti di locazione esibiti dal sig. Anca, i quali attestano che egli dal principio del suo possesso, cioé dal 1818, e prima di lui il precedente possessore marchese Melia, ha conceduto le terre in parola per uso di semina ai cittadini di Longi di Tortorìci e del Ss. Salvatore. Che invano si oppongono alle discorse prove i contratti matrimoniali dei maggio 1803 tra Gaetano Mobilia e Silvestre Miceli, degli 8 maggio 1808 tra Giuseppe Galati e Maria Vicario, del 1 settembre 1813 tra Giuseppe Miceli e Lucia Bentivegna, de’ 18 marzo 1817 tra Nunzio Brancatelli e Rosa Fabio , portanti dotazioni di picciolissime tenute nei feudi di Botti e Mangalavite, si perché da questi atti che interessano pochi individui particolari non sarebbe né logico né civile indurre un diritto di tutta la università; ma tutto al più ne potrebbe derivare il diritto in essi individui o loro aventi causa d’ invocare il beneficio dell’art. 18 delle istruzioni di dicembre 1841 , se avessero continuato a possedere; si perché non costa che le tenute cui gli anzidetti atti accennano facciano parte degli ex-feudi in parola, e mal s’invocherebbe la vieta regola: quid est infra fine pheudi pheudale  essendo essa prescritta dalla più cordata giurisprudenza feudale; si perché infine rimontando i divisati contratti ad epoche rimote non possono spiegare veruna influenza sul giudizio presente, in cui non debbesi aver riguardo se non all’attuale possesso (art. 16 delle istruzioni ).

Considerando che dalla stessa pruova è risultato senza equivoco che gli usi di legnare per gli istrumenti agrari e di mieter erba per fieno sono si esercitati da’ soli coloni nelle rispettive tenute: laonde l’esercizio di essi usi deriva dai contratti di locazione, co me quella della semina cui sono necessariamente annessi, piuttosto che da diritto civico. Considerando che non solo i 56 testimoni prodotti da Anca ma i testimoni stessi del comune, non esclusi i comunisti, han dichiarato che l’uso di carbonizzare per mercimonio non si è esercitato durante il possesso del sig. Anca, ossia dal 1818 a questa parte. E di ciò fan fede anche i contratti esibiti da esso Anca, e che comprendono un periodo di tempo ben lungo, cioè dal 1815 al 1839, coi quali ha egli venduto il legno degli ex-feudi ad uso di carbone. Adunque anche per questo uso manca al comune quel possesso attuale che solo può apprestar diritto a compensamento in questa sede di giudizio (cit. art. 16 delle istruzioni). Considerando che niuna prova si è apprestata quanto al diritto di pescare. I testimoni han riferito soltanto che i coloni possono tenere 5 animali a salma per le necessarie coltivazioni: ma questo non è già un diritto civico, é bensì un diritto burgensatico annesso necessariamente al contratto di locazione, come mezzo indispensabile per la coltura delle terre affittate.

(omissis)

Che consultati i titoli concernenti ai successivi passaggi ed investitura degli ex-feudi Botti e Mangalavite, si scorgerà apertamente concorrere in proposito de’ medesimi tutte le condizioni richieste per riguardarsi come feudi separati. Ed in vero l’atto di vendita che a’ 25 maggio 1557 ne fece Francesco Santangelo a Mariano Averna , l’atto di possesso che Francesco Avarna successore di Mariano ne prese a’ novembre 1571, la enfiteutica concessione fattane da Rosario Magliarditi in favore di Antonino Maria Spinotto ai 9 aprile 1747, e l’ investitura che ne fu data a costui a 6 ottobre di quel medesimo anno, l’ altra investitura de' 25 gennajo 1766 in persona di Giovanni Maria Spinotto, la concessione di questi feudi fatta a Michele Lanza con privilegio de’ 29 aprile 1798 di re Ferdinando I cui eransi devoluti per la morte senza figli di Giovanni Maria Spinotto, e da ultimo la enfiteusi fatta dal barone Lanza al marchese Melia a’ 22 luglio 1808, indicano questi due ex-l'eudi come separati tenimenti posti in valle nemorum confinanti , l’uno col territorio di Calati , l’altro con quello di Alcara , senza accennare e per nulla al territorio di Longi: anzi nella enfiteusi del 1801 si dice insito il feudo di Botti nel territorio di Bronte; che dagli atti medesimi e precisamente dal privilegio di concessione di re Ferdinando del 1798 si raccoglie che ai feudi medesimi era annessa una giurisdizione all'atto distinta ed indipendente da quella della baronia di Longi; giurisdizione la quale è altronde inerente al territorio e la giurisdizione si presume appartenere ai magistrati del territorio purché non si provi il contrario;  che della pertinenza della giurisdizione separata fan pruove, irrecusabile i dispacci patrimoniali de’ 1 gennajo 1748 e de’ 20 settembre 1171 profferiti sulle istanze del barone de' feudi Botti e Mangalavite, non che l’altro de’30 giugno 1749 emesso a richiesta del Marchese Melia barone di Longi. Ambedue quei baroni vennero autorizzati mercè tali dispacci a procedere l'uno nel territorio del 1’ altro contro coloro che dopo aver danneggiato le proprietà rispettive si rifuggiavano ne’ territori di aliena giurisdizione, e, ciò a tenore della prammatica del Duca di Alcalzi de’ 15 gennajo 1635. Or negli enenunciati dispacci si riconosce nel barone di Botti e Mangalavite una giurisdizione indipendente da quella di Longi , e quel che più rileva la riconobbe nella istanza che precede il dispaccio del 1749 il barone stesso di Longi, il quale in caso diverso era interessato a sostenere e vindicare la propria giurisdizione in essi feudi di Botti e Mangalavite; che è pure marcabìle, essersi il dispaccio del 1771 diretto per l’ esecuzione al giudice di que’ feudi; il che attesta l’esercizio di fatto della giurisdizione nei feudi medesimi; che oltre a ciò essi feudi soggiacquero nell’antico sistema della divisione delle imposte ad una tassa separata della soppressa deputazione del regno. In fatti gli analoghi certificati dell'archivio generale addimostrano che Giovanni Maria Spinotto pagò per questi feudi la rata dei donativi stanziati dal parlamento generale di Sicilia nelle sue tornate de’ 7 maggio 1782 e 17 settembre 1790, e poscia il novello feudatario Michele Lanza pagò anch’ egli la corrispondente rata del donativo di scudi 150000 offerto a S. M. dal parlamento generale de’ 10 luglio 1801;

…………………..

Che per quanto concerne alle pretenzioni del comune di Longi sul territorio di Galati, bisogna distinguere in due classi i testimoni prodotti a prova dal comune; cioè 1. i testimoni forastieri che sono nel numero di 78; 2. i testimoni comunisti, che sono 10; che i primi han deposto nulla sapere intorno ai fatti in controversia , per aver poca o niuna pratica nel territorio di Galati; che i 10 comunisti poi han deposto l’esercizio degli usi di raccogliere legno secco e disa in quel territorio; ma da Giuseppe Pidalà  infuora, il quale dichiarò aver inteso dire che tali cose si praticavano per diritto civico , tutti gli altri o depongono ignorare se le cose stesse facevansi per diritto, ovvero per tolleranza o furtivamente , come sono Paolo e Leone Zingales, Francesco Lazzara, ed Antonino Pidalà, ovvero depongono in termini precisi un possesso di mera tolleranza per essere stato sempre una certa fraternità tra i comunisti di Longi e quei di Galati , come sono Francesco Calafiore e Bartolo Pisciotta. E tutti poi affermano che i comunisti di Galati hanno dalla loro banda esercitato anch’ essi  l'uso di far disa nel territorio di Longi, e qualche testimone come Giuseppe Pidalà accenna anche all’ uso di pascere; che di un possesso di mera tolleranza, per reciprocanza di diritti tra i due comuni, discorre altresi il dispaccio del tribunale del  real patrimonio de’28 giugno 1782 esibito per parte del comune di Longi; che se si consultano poi le testimonianze offerte dal comune e dal principe di Galati , le medesime smentiscono dall’ intatto le intenzioni dei comunisti di Longi; che da ciò è manifestato che ove anche si ritenga la posizione più favorevole per l‘ attore, qual è quella posata da’ suoi stessi testimoni anch’ essi comunisti, il suo possesso sarebbe di mera tolleranza, e perciò insuscettivo di manutenzione e di compensamento .

(omissis)

PER TALI MOTIVI

Noi Commendatore D. Giuseppe De Liguoro lntendente della provincia di Messina, uniformemente al progetto del funzionario aggiunto, ed all’avviso del consiglio d‘Intendenza preso presenzialmente, dichiariamo il comune di Longi in possesso del dritto di legnare per uso del fuoco negli ex-feudi Botti e Mangalavite di pertinenza di D. Francesco Anca, rigettiamo relativamente a tutti gli altri usi la domanda del comune. Dichiariamo compensabile il diritto medesimo per via di estimazione , e per 1’ effetto ordiniamo che il perito agrimensore Ciro Cannata nominato nella deliberazione del decurionato di Longi de‘ 13 febbrajo 1842, D. Francesco Cucè, ed un altro da scegliersi dal sig. Anca, dopo aver prestato giuramento nelle mani del sottintendente del distretto di Patti, valutino gli ex feudi anzidetti come se fossero liberi dal dichiarato diritto di legnare, e quindi come a questo soggetti , fissando con esattezza la differenza delle due valutazioni. Ternino essi presente la popolazione del comune e tutti i rilievi delle parti. Delle loro operazioni stenderanno apposito, e dettagliato verbale, che trasmetteranno in questa lntendenza. Le spese riserbate. Rigettiamo poi le domande del comune di Longi contro il comune e principe di Galati, e compensiamo nel loro interesse le spese.

 Fatto e pubblicato il giorno mese ed anno come sopra.

 L’ Intendente  COMMENDATORE DE LIGUORO.


I Sindaci che si sono alternati al “Palazzo municipale”


Miano Gaetano (1821-1927)  

Zingales Antonino (1828-1830)

Zingales Franco (1831-1836)

Brancatelli Giuseppe (1837-1839)

Brancatelli Francesco (1840 -1843)

Lazzara Francesco (1843 – 1846)

Corrao Salvatore (1846 -1849)

Brancatelli Bernardo (1849 – 1853)

Iannì Salvatore (1853-1855)

Lazzara Francesco (1855-1857)

Pidalà Antonino (1857 -1859)

Zingales Giuseppe (1859 -1860)

Brancatelli Bernardo (1861-1864)

Romeo Francesco (1864-1869)

Lazzara Francesco (1870 -1873)

Zingales Antonino Schifani, possidente, (1874-1875)

Zingales Pidalà Francesco (1876-1877)

Bellissimo Francesco (1878)

Zingales Schifani Antonino, proprietario (1879-1880)

Ciminata Antonino, medico, (1881- 1882)

Zingales Vincenzo (1883)

Guarnera Giuseppe (1884 -1885)

Zingales Antonino, proprietario (1886)

Guarnera Basilio (1887 – 1889)

Anzalone Leone (1890 -1892)

Bellissimo Francesco (1893 -1896)

Fabio Giuseppe (1897 -1899)

Sirna Leonardo, proprietario (1900-1902)

Zingales Angelo, farmacista agronomo (1903-1908)

Famiani Celestino, proprietario (1909)

Zingales Angelo, agronomo, farmacista (1910-1916)

Zingales Angelo (Commissario Prefettizio 1917)

Mollica Gaetano, (Regio Commissario 1918-1920)

Miceli Giuseppe (Regio Commissario 1921)

Guarnera Antonino, ufficiale dell’esercito (1922-1923)

Ragusa Tito (Regio Commissario 1924)

ZingalesAngelo, farmacista, (Commissario Prefettizio 1925-1926)

Zingales Rosario, commerciante (Podestà 1927-1930)

Giallanza Salvatore (Podestà 1931-1934)

Carcione Leone, insegnate elementare (Podestà 1934-1944)  

Fabio Giuseppe (Commissario Prefettizio 1945)

Zingales Antonino, funzionario statale, geometra (1946-1952)

Mollica Giuseppe, insegnante elementare (1952-1960)

Priolisi Rosario, insegnante elementare (1960-1967)

Imbrigiotta Antonino, insegnante elementare (1967-1970)

Zingales Giuseppe, medico (1970-1975)

Imbrigiotta Antonino, insegnante elementare (1975-1983)

Lazzara Ottavio, insegnante elementare (1983-1985)

Zingales Giuseppe, medico (1985- 1987)

Di Cara Giovanni (Commissario Straordinario 1987- 1988)  

Fabio Francesco, impiegato comunale (1988- 1993)

Caiola Antonino (Commissario straordinario 1993)

Zingales Gaetano, dirigente sindacale, (1993 -1997)

Fabio Antonino, geometra, libero professionista (1997- 2002; 2002-2007)

Lazzara Alessandro, funzionario regionale (2007 -2012; 2012-2017)

Fabio Antonino, geometra (2017- in carica.


Il Gonfalone 

SIMBOLI DELLE LISTE PRESENTI

NELLE TORNATE ELETTORALI DEGLI ULTIMI DECENNI :1993 – 2017


     

Rispettivamente, da sinistra, simboli delle liste dei candidati a Sindaco,  Gaetano Zingales, Antonino Fabio, Alessandro Lazzara. 

Nel 2017, si sono confrontati la Lista “Vivere Longi”- Nino Fabio Sindaco, che si è ripresentato, e la seguente lista, che ha riportato 511 voti contro i 572 del rieletto Sindaco Nino Fabio.    I votanti sono stati 1091 su 1456 elettori aventi diritto.

  


   


Santa Maria di Monserrato

Estratto dal libro “alle pendici delle Rocche” della precedente edizione

S. Maria di Monserrato è il nome di una chiesa longese che oggi non esiste più. La sua     amministrazione era gestita in epoca relativamente recente, cioè nei secoli XVII-XIX, dai            monaci di San Filippo di Fragalà, il monastero normanno di Frazzanò la cui storia è      ricostruibile dalla fondazione (XI secolo) all’esproprio (seguito alle leggi eversive postunitarie) grazie a un ricco corredo documentario oggi conservato presso gli Archivi di Stato di Palermo e Messina.)

In particolare, nel Corpus Scripturarum del monastero di Fragalà custodito presso l’Archivio di Stato di Messina sono inserite numerose menzioni della chiesa di S. Maria di Monserrato che, per quanto ci consta, rappresentano anche le uniche notizie giunte fino ad oggi del sacro edificio.



Madonna di Montserrat della cattedrale di Barcellona (Spagna)

I beni della chiesa di S. Maria sono ricordati in un inventario del 1639 disposto dall’arcivescovo di Messina e compilato dall’arciprete di Frazzanò don Pietro Cassata, (f. 37 del vol. 675): vi sono elencati, tra l’altro, i tesori della chiesa, cioè: una pisside d’argento con corporale chiusa in una custodia di legno dorato, un piccolo altare di pietra con tre tovaglie, sei candelieri, due reliquiari posti ai due lati dell’altare maggiore «con 19 lochi di reliquii con sancti reliquie coperti di vitro», ed inoltre 4 campane (due del «campanaro» e due del coro), un crocifisso ligneo a grandezza naturale e alcuni grandi quadri che rappresentavano, rispettivamente, la Madonna di Monserrato, l’Assunta, la Madonna del Carmine, S. Giovanni evangelista. La chiesa di Longi, inoltre, aveva un suo autonomo allevamento di bachi da seta, poiché dalle carte di Messina risulta proprietaria di «case di nutricato» con «canizze numero quarantotto comitati con suoi telata», «cannizzelli numero dudeci» e «scali di pascire numero quattro».

In un inventario redatto nel 1854 la chiesa di S. Maria risultava già diruta a causa di una rovinosa frana che travolse tra l'altro «quanto era rimasto dell'antico convento basiliano in contrada S. Maria». Il nome della contrada corrisponderebbe dunque, come spesso accade, al toponimo per indicare la posizione della chiesa di S. Maria di Monserrato all’interno del territorio longese. Importante quesito: che ci faceva una chiesa della Madonna di Monserrato tra i Nebrodi? Come è possibile cioè spiegare a Longi la presenza di un culto spagnolo?

Il culto alla Vergine di Monserrato deve infatti ricondursi alla miracolosa statua ritrovata in Catalogna nel I secolo d. C. a 725 m d’altezza nella grotta del monte Montserrat, dalle caratteristiche cime arrotondate, dove fu in seguito eretto il monastero benedettino intitolato alla Madonna.

Il monastero di Montserrat


La statua in legno dorato della Madonna di Montserrat conservata nel monastero catalano odierno è una statua di epoca romanica (XII secolo) caratterizzata dalla frontalità compositiva, per la quale la Madre di Dio, assisa su un trono alla maniera bizantina, appare come Sedes Sapientiae, cioè come trono di salvezza per l’umanità, e il Bambino, di colorito scuro come la Madonna, siede sulle sue ginocchia. Il capo incoronato di Maria è avvolto da un manto policromo che scende sulle spalle e sembra una casula sacerdotale, per accentuare il suo valore simbolico di metafora della Chiesa. La Madonna regge nella mano destra una sfera che simboleggia l'universo, mentre Gesù benedice con la destra e nella sinistra regge una pigna.

Nel 1881, in occasione della Festa nazionale della Catalogna, il papa Leone XIII dichiarò ufficialmente la Madonna di Montserrat patrona della Catalogna, e ne fissò la festa il 27 aprile.

 Le copie diffuse nelle diverse chiese attestano la particolare devozione dei catalani per questa statua, ma non ne uguagliano la bellezza. La squisita fattura rende infatti la Madonna di Montserrat originale un capolavoro scultoreo ineguagliabile.

Il culto della Madonna di Montserrat è venerato in Italia in pochissimi altri luoghi: nell’isola d’Elba, dove c’è un santuario omonimo, e in Sardegna, dove esistono appunto comunità catalane a Sassari, ad Alghero e a Genuri, comune in provincia di Cagliari, la cui chiesa parrocchiale, edificata nel XVI secolo, è dedicata alla Beata Vergine Maria di Montserrat.

Anche la chiesa nazionale spagnola con sede a Roma è dedicata a «Santa Maria in Monserrato degli Spagnoli». Come sia arrivato questo culto dalla Catalogna a Longi, unico centro in Sicilia ad averlo documentato, è spiegabile solo per l’influenza di un gruppo più o meno numeroso di immigrati spagnoli, che trasferirono e affermarono nell’area dei Nebrodi la devozione verso il più importante emblema della loro fede e cultura verosimilmente dopo il 1282, quando i Vespri posero fine alla dominazione angioina e aprirono la lunga epoca della dominazione spagnola in Sicilia.

 Shara Pirrotti


N.d.A “Ma che ci faceva una chiesa della Madonna di Monserrato tra i Nebrodi?”, si chiede la dott.ssa Shara Pirrotti.

Ebbene, facendo una carrellata dei Signori e dei Feudatari di Longi, leggiamo che Riccardo di Lauria o de Loria era il padre di Ruggero, il Grande Ammiraglio siciliano al servizio dei sovrani aragonesi, fra i più celebri del suo tempo. Nel 1291, il re Federico d’Aragona concede a Riccardo, per i servigi militari resigli, tra gli altri beni, il castello di Galati ed il casale di Longi. Ai suoi titoli nobiliari, Riccardo aggiunge quindi anche quello di barone di Ficarra divenendo, pertanto, Signore delle terre di Longi, che facevano parte della baronia ficarrese.  Riccardo di Lauria sposò, in seconde nozze, Bella Amico, dalla quale ebbe una figlia, che sposò Corrado Lancia, divenendo, tra l'altro, anche barone di Ficarra. 



Il Lauria fu senza dubbio un genio militare. Le sue quattro vittorie tra il 1283 e il 1287 influenzarono in modo decisivo il corso della guerra dei Vespri siciliani e i rapporti di forza nel Mediterraneo occidentale, perché la flotta siculo-catalana poté ottenere la sovranità illimitata sul mare e quindi fare della Sicilia una inespugnabile fortezza marina. 

Pur tuttavia, le personali qualità del Lauria contrastano con le sue capacità militari e con i suoi successi. Di temperamento irascibile, come attestano le sue ripetute sfide a duello, non indietreggiò davanti a una condotta di guerra - insolitamente brutale anche per quei tempi - che comportò anche massacri di donne e bambini. Oltre che dalla sua crudeltà la sua gloria è oscurata anche dalla sua avidità, che aveva già colpito negativamente i suoi contemporanei” (da internet). 


Ritengo, pertanto, che la presenza della Madonna di Monserrat, a Longi, sia da "imputare" al ceppo della famiglia di Riccardo di Lauria-Bella Amico e della figlia che sposa Corrado Lancia, capostipite dei baroni di Ficarra e che fu feudatario di Longi. Con questa dinamica di successioni si potrebbe giustificare la presenza della Madonna di Monserrat a Longi.

Aggiungo che, durante la presenza degli aragonesi in Sicilia, molti spagnoli sbarcarono sulle coste sicule al seguito dei conquistatori; è molto probabile, quindi, che qualche notabile spagnolo, facente parte della piccola corte dei baroni (il Lauria appunto) di nomina aragonese, si sia installato a Longi.  Certo, supposizioni. Ma tuttora, a Longi, esiste un cognome dall’accento spagnoleggiante! In cima al portale dell’antica casa Zingales – cognome di origine spagnola - è incastonato questo stemma:


.

E’ verosimile che sia appartenuto al nobile dello stesso cognome, trasferitosi a Longi al seguito del feudatario De Lauria quale facente parte della sua corte. Potrebbe essere una prova testimoniale del culto alla catalana Madonna di Montserrat voluto dagli spagnoli aragonesi stabilitisi a Longi. 

Aggiungo. Alcuni anni addietro, a Palermo, ebbi l’opportunità di conoscere una signora, che mi disse di chiamarsi Zingales e che era figlia di un barone; ed aggiunse:” che il capostipite siciliano di questa casata era approdato a Palermo al seguito di Martino I, primogenito del re di Aragona, divenuto re di Sicilia. Ed era un barone spagnolo”.


La Moreneta

Secondo la leggenda, la prima immagine della Vergine (in catalano La Mare de Déu de Montserrat) fu ritrovata da alcuni bambini che accudivano un gregge dentro una grotta nell'880, dopo aver visto una luce sulla montagna. Quando il vescovo seppe del ritrovamento cercò di far trasportare la piccola statua a Manresa, ma non gli fu possibile perché la statua divenne troppo pesante. Perciò il vescovo interpretò questo segnale come il desiderio della Vergine di rimanere nei pressi del luogo del ritrovamento e perciò ordinò la costruzione del santuario. (da internet)

Mi dice la D.ssa Pirrotti:

“sono sicura che il culto della madonna di Montserrat sia dovuto all'influenza dei catalani radunati intorno alla famiglia dei Lauria, non specificamente a Riccardo, che è già morto nel 1266, bensì ai suoi successori, da Ruggero in poi, che era figlio di Bella Amico, come la sorella, che sposa il discendente dei Lancia. Lo stretto legame tra i Lauria e la terra di origine spiega la voglia di tramandare anche in Sicilia il culto più importante della Catalogna, appunto per la Madonna di Montserrat”.


Rosario Priolisi, nella sua pubblicazione del luglio 2005, scrive che, in una preghiera del 1700 rinvenuta in una casa privata di Longi, < i nostri antenati così pregavano la Madonna>:

“O bedda  matri du munti sirratu

tuttu lu munnu l’aviti furriatu

‘nta ma casa non ciatu vinutu

viniti ora pi darmi aiutu”

Ave Maria


Pubblico una nota riguardante due battaglie navali, in cui il Lauria ne era l'Ammiraglio della flotta, prima di quella siculo-aragonese e poi di quella angioina. In esse furono coinvolti gli uomini in armi dei territori di Longi e Galati, essendone il Lauria il feudatario dell’epoca. Senza se e senza ma, è stato il più importante Signore dello scanno feudale di Longi, anche se quest’ultimo fu visitato soltanto qualche volta considerati i suoi numerosi feudi sparsi in Sicilia, in Italia, in Spagna ed il altre terre straniere. Ma anche da queste nostre terre trasse gli strumenti - in uomini, derrate alimentari e legname dai boschi per la costruzione del naviglio al suo comando- per le sue battaglie navali nelle acque del Tirreno. Longi, pertanto, tramite il suo barone di quell’epoca, - il Lauria – diede il suo contributo alla storia dei Vespri siciliani e del regno aragonese in Sicilia. La “battaglia di Capo d’Orlando”,citata nella biografia del Lauria,  deve intendersi di ”Zappulla”, così come qui viene affermato dallo scomparso scrittore Giuseppe Li Voti di Caprileone.

 “Le storiche  battaglie dell'anno 1299, che vide i due fratelli Aragonesi Federico III e Giacomo II l’un contro l’altro armato, per volere dell’allora papa Bonifacio VIII , vanno inquadrate nel contesto del periodo dei Vespri Siciliani. I due fratelli Aragona si scontrarono in due battaglie navali, la prima delle quali ebbe luogo, verso la fine dell’inverno 1299, nel tratto di mare antistante Patti, dove una flottiglia catalana del Lauria, mentre ritornava dopo aver portato vettovaglie a quel presidio militare, fu sorpresa e vinta da Federico III. Le galee furono catturate e lo stesso suo nipote Giovanni Lauria fu preso prigioniero. …..

Dopo poco tempo, il 24 giugno 1299  Giacomo d’Aragona  prepara un’altra spedizione e parte per Napoli con Roberto d’Angiò, l’ammiraglio Ruggero di Lauria e il feudatario angioino di Tortorici Bertrando de Artus. ……

In questa occasione la squadra angioino-catalana punta decisa alla foce dello Zappulla sulla cui spiaggia conta di sbarcare uomini e cavalli, oltre a vettovaglie ed armi per rifornire i castelli della valle del Fitalia di proprio dominio. All’epoca il fiume Zappulla era navigabile perchè aveva la foce ad estuario, dovuta agli effetti erosivi dell’onda di marea e dell’onda di riflusso, ragion per cui il mare si inoltrava spesso per miglia all’interno. “Quivi (sulle rive del fiume Zappulla) si costruicono delle navi, col legname che si taglia nelle montagne vicine” (Edrisi, in Amari, B: a:s:, II, 66). Gli estuari nel medioevo costituivano porti naturali preziosi che venivano sfruttati perchè rendevano utile la risalita della navi il più lontano possibile verso l’interno.                     Nel pomeriggio del 3 luglio del 1299, le 56 galee sono già ormeggiate alla foce dello Zappulla, quando appare al largo di Capo d’Orlando la flotta siciliana accorsa con ritardo per poter impedire lo sbarco. Così re Giacomo durante la notte si prepara alla battaglia e fa salire sulle galee gli uomini dei castelli precedentemente occupati, quali: Fitalia, Naso, Capo d’Orlando, Tortorici, Ficarra, S. Piero Patti e Novara di Sicilia. Sulla spiaggia all’imbocco dello Zappulla si potevano schierare comodamente oltre 100 galee, e l’ampiezza della spiaggia favorì anche  di sostenere l'attacco, all’inizio la battaglia, da terra con  arcieri e frombolieri chiamati dai castelli vicini del Fitalia…..

La battaglia inizia all’alba del giorno seguente, sabato 4 luglio 1299, tra mare e battigia alla foce dello Zappulla. La squadra angioino- catalana comandata da Ruggero di Lauria, che in passato ,invece, si era battuto per le sorti della Sicilia, forte di 56 galee contro la 40 di quella siciliana, infligge gravi perdite alla flotta guidata da Federico III. 

In questi scontri navali, considerato che il  Lauria era feudatario delle terre di Longi, Galati e Ficarra, vennero arruolati soldati di quelle terre e chissà quanti longesi ci lasciarono le penne.

Dopo una incerta fase di combattimento, ventuno galee siciliane vennero catturate e ne seguì una sanguinosa sconfitta. Lo stesso re dopo essersi battuto valorosamente cadde ferito e fu portato in salvo dalla sua nave che frettolosamente lasciò le acque dove era avvenuto lo scontro. 

(da  uno scritto di Giuseppe Li Voti )


L’indizione (decreto reale) con cui il Lauria venne investito della proprietà delle terre  e del Castello di Longi. Già un anno prima, nel 1291, l’Infante Federico, da Catania aveva emanato analogo documento.

 



L’Unità d’Italia ha depredato il Sud. Eravamo ricchi e i Savoia ci derubaronoI Nuovi Vespri



Ignazio Coppola ricostruisce per noi un’amara verità descritta da pensatori, economisti, politici italiani e anche inglesi. Erano in tanti a sapere che i piemontesi che ‘conquistarono’ il Sud erano criminali e ladri. Che i contadini del Mezzogiorno non erano “briganti”, ma uomini e donne che difendevano la propria cultura e la propria storia. La cosa incredibile è che ancora oggi nelle scuole e nelle università d’Italia non sono state eliminate le tesi di quelli che Gramsci definiva gli “scrittori salariati”


di Ignazio Coppola

Per non perdere la memoria di quella che rappresentò per il Sud la mala-unità d’Italia con la nascita della questione meridionale e siciliana e l’impoverimento del Mezzogiorno, vi propongo le testimonianze e quello che ne pensavano illustri economisti, uomini politici e storici del passato, che certo non possono definirsi filo-borbonici, come Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini, Giuseppe Ferrara, Beniamino Disraeli, Milan Kundera, Franco Proto Carafa,lo stesso Giuseppe Garibaldi, Antonio Gramsci, Carlo Levi, Carlo Giulio Altan e Luigi Einaudi.

Giustino Fortunato (1848-1932), economista uno dei più accreditati storici italiani, senatore del Regno d’Italia per numerose legislature ed uno dei più importanti rappresentanti del meridionalismo, in una lettera inviata il 2 settembre del 1899 a Pasquale Villari così tra l’altro testualmente ebbe scrivere:

“L’Unità d’Italia è stata purtroppo la nostra rovina economica. Noi eravamo, nel 1860, in floridissime condizioni per un risveglio economico, sano e profittevole. L’Unità ci ha perduti. E come se non bastasse, è provato, contrariamente all’opinione di tutti, lo Stato italiano profonde i suoi benefici finanziari nelle province settentrionali in misura ben maggiore che in quelle meridionali”.

Gaetano Salvemini (1873-1957), politico antifascista, socialista federalista, meridionalista e deputato del Regno così si esprimeva a proposito dei benefici che l’Unità ebbe a dare al Sud:

“Se dall’Unità d’Italia il Mezzogiorno è stato rovinato, Napoli è stata addirittura assassinata. E’ caduta in una crisi che ha tolto il pane a migliaia e migliaia di persone”.

Giuseppe Garibaldi (1807-1882) l’invasore spacciatosi per liberatore della Sicilia che molto tempo dopo l’occupazione del Sud per conto dei Savoia, in un rigurgito di verità e di tardivo pentimento, così ebbe a scrivere in una lettera inviata ad Adelaide Cairoli:

“Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, avendo colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio”. E se lo diceva lui ci possiamo credere.

Francesco Proto Carafa Pallavicino, duca di Maddaloni (1815-1892), politico e deputato del Regno d’Italia, a proposito delle condizioni in cui era ridotto il Meridione con l’Unità e delle cui condizioni fece oggetto di vibrate protesta in Parlamento così scriveva:

“Intere famiglie veggonsi accettare l’elemosina, diminuito anzi annullato il commercio, serrati i privati opifici. E frattanto tutto si fa venire dal Piemonte, persino le cassette della posta, la carta per gli uffici e le pubbliche manifestazioni. Non vi è alcuna faccenda nella quale un onest’uomo possa buscarsi alcun ducato che non si chiami un piemontese a sbrigarla. Ai mercanti del Piemonte si danno le forniture più lucrose, burocrati del Piemonte occupano tutti i pubblici uffici. Gente spesso più corrotta degli antichi burocrati napoletani. Ai facchini della dogana a camerieri, a birri vengono uomini del Piemonte: questa è invasione, non unione non annessione. Questo è volere sfruttare la nostra terra di conquista. Il governo del Piemonte vuole trattare le province meridionali come il Cortez e il Pizzarro fecero nel Perù e gli inglesi nel regno del Bengala”.

Luigi Einaudi (1874-1961 ), politico, economista, uno dei padri della Repubblica e secondo presidente della Repubblica italiana. Anche lui sui guasti prodotti al Mezzogiorno dall’Unità così ebbe a dire:

“Sì, è vero, noi settentrionali abbiamo contribuito qualcosa di meno ed abbiamo profittato qualcosa di più delle spese fatte dallo Stato italiano. Peccammo di egoismo quando il Settentrione riuscì a cingere di una forte barriera doganale il territorio ed ad assicurare così alle proprie industrie il monopolio del mercato meridionale”.

E sul così detto brigantaggio, che fu una vera e propria guerra partigiana combattuta dalle popolazioni meridionali contro l’invasore piemontese, e sulle bugie e sulle denigrazioni fatte al riguardo dalla storiografia ufficiale è interessante, a questo punto, sapere per non dimenticare quello che ne pensavano e scrivevano politici e storici non asserviti al regime di casa Savoia.

Antonio Gramsci (1891-1937 ), politico, antifascista e uno dei fondatori del Partito comunista italiano, pensatore, filosofo e fondatore di Ordine Nuovo, sul quale giornale, a proposito del brigantaggio post-unitario, così scrisse:

“Lo Stato italiano è stata una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando e seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare con il marchio di briganti”.

Giuseppe Ferrari (1811-1876 ), filosofo, storico, politico, deputato della sinistra al Parlamento italiano e federalista, a proposito del brigantaggio ebbe a dire:

“Potete chiamarli briganti, ma combatterono sotto la loro bandiera nazionale. Potete chiamarli briganti, ma i padri di quei briganti hanno riportato due volte i Borbone sul trono di Napoli. E’ possibile, come il malgoverno vuole fare credere, che 1500 uomini comandati da due o tre vagabondi tengano testa ad un esercito regolare di 120 mila uomini? Ho visto una città di 5000 abitanti completamente rasa al suolo dai piemontesi e non dai briganti”.

Benjamin Disraeli (1804-1881 ), già primo ministro del Regno Unito, in un dibattito in pieno Parlamento inglese, rivolto ai deputati così si esprimeva a proposito del brigantaggio in Italia e in Polonia:

“Desidero sapere in base a quale principio discutiamo sulla condizioni della Polonia e non ci è permesso su quelle del Meridione italiano. E’ vero che in un Paese (Sud Italia) gli insorti sono chiamati briganti e nell’altro (Polonia) patrioti, ma non ho appreso in questo dibattito alcuna differenza”.

Carlo Levi (1902-1976 ), scrittore, pittore e politico autore di Cristo si e fermato ad Eboli, a dimostrazione che il brigantaggio non fu assolutamente un fenomeno criminale, come lo si voleva far intendere e come lo si descrissero dagli scrittori salariati così bene definiti da Gramsci, ma bensì una rivolta di gente umile e diseredata che si battè per il riscatto e la libertà della propria terra e per il proprio elementare diritto all’esistenza, a proposito del brigantaggio meridionale così scriveva:

“Il brigantaggio non fu altro che un acceso di eroica follia, un desiderio di morte e distruzione senza speranza di vittoria, in cui la civiltà contadina meridionale difese la propria natura e la propria identità contro quell’altra civiltà che le stava contro e che senza comprenderla eternamente l’assoggettava”.

Carlo Tullio Altan (1916-2015 ), antropologo, sociologo e filosofo così, a sua volta, definì il brigantaggio degli anni successivi alla ‘presunta’ unità d’Italia:

“Il brigantaggio post-unitario non fu altro che una reazione di rigetto della società meridionale nei confronti di una realtà storica diversa. In buona sostanza, un fenomeno composito di lotta di classe e conflitto di civiltà diverse”.

Abbiamo voluto ricordare e citare i pensieri di tanti illustri personaggi a proposito della mala unità d’Italia e della lotta al brigantaggio meridionale che fece e continua a far pagare al Mezzogiorno ed alla Sicilia un prezzo altissimo trattandole da sempre come colonie. E per non perdere questo diritto alla memoria val bene ricordare quanto, a proposito della memoria dei popoli, scrive il poeta, saggista e drammaturgo ceco, Milan Kundera:

“Per liquidare i popoli si comincia con il privarli della memoria, si distruggono i loro libri, le loro culture, la loro storia, e qualcun altro scrive loro altri libri, li fornisce di un’altra cultura e inventa per loro un’altra storia”.

Ed è un lavaggio del cervello che in questi lunghi 156 anni della storia della nostra mala-unità d’Italia hanno cercato di fare la storiografia di regime scolastica e gli scrittori salariati così puntualmente ben definiti da Antonio Gramsci. Ma per loro sfortuna da un po’ di tempo a questa parte il revisionismo storico sta avendo il sopravvento inchiodandoli alle loro bugie.



Le due guerre mondiali


Il 5 agosto 1914 ebbe inizio la prima guerra mondiale. L’Italia decise di entrare in belligeranza contro l’impero austro-ungarico il 24 maggio 1915, malgrado contraria la volontà popolare, per decisione del governo in carica, a cui il Re conferì pieni poteri. Il generale Cadorna ebbe l’incarico di guidare l’esercito. 

Ma le cose si misero male sin dal’inizio; si cercò di ricorrere ai ripari.

Una  innovazione tattica fu la costituzione, dei primi "Reparti d'assalto", una specialità dell’arma di fanteria del Regio Esercito, i cui membri furono  noti come "Arditi": 

 Il loro compito  era quello di aprire la strada alla fanteria verso le linee nemiche con  la totale conquista di queste ultime. Per fare ciò, venivano scelti i soldati più temerari, che ricevevano un addestramento molto duro, con l'uso del lancio di bombe a mano e con l’addestramento al combattimento corpo a corpo. Gli Arditi agivano in piccole unità assalendo le trincee nemiche con  granate e pugnali, Il tasso di perdite era molto elevato in quanto avanzavano sfidando le mitragliatrici nemiche ed il lancio di bombe a mano.

Dopo la cruenta disfatta di Caporetto. Cadorna venne sostituito con il generale Armando Diaz, il quale riorganizzò le armate attestandole, tra l’altro, lungo la sponda del fiume Piave. Furono chiamati alle armi “i ragazzi del ‘99”, quindi appena diciottenni, per rimpinguare i ranghi. E fu  vittoria! 


“BOLLETTINO DELLA VITTORIA

 Comando Supremo, 4 Novembre 1918, ore 12

 La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto l’alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l'Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 Maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi è vinta. La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso Ottobre ed alla quale prendevano parte cinquantuna divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una cecoslovacca ed un reggimento americano, contro settantatre divisioni austroungariche, è finita…….

……..L'Esercito Austro-Ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell'accanita resistenza dei primi giorni e nell'inseguimento ha perdute quantità ingentissime di materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi. Ha lasciato finora nelle nostre mani circa trecento mila prigionieri con interi stati maggiori e non meno di cinque mila cannoni. I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli, che avevano disceso con orgogliosa sicurezza. 

Armando Diaz”.


Dopo l’Armistizio, molti furono i soldati longesi che non tornarono più a casa. I reduci raccontarono episodi di violenza, di dolore, di paura, di stenti.


Uno di questi, Antonino Corrao, tornato al proprio paese natio, dopo parecchi anni per le vicende che lo interessarono, appena mise piede nella piazza scendendo dall’autocorriera, gridava “mamma, mammuzza “ e piangendo le correva incontro. Lungo fu il loro abbraccio tra le lacrime di gioia. Della mamma, vedova,  e di quel “ragazzo del 99”. Appena diciottenne, venne arruolato nel Regio Esercito laddove chiese di far parte degli “Arditi”. Mostrando il pugnale con il quale andava all’assalto delle trincee nemiche, raccontò che si  lanciavano dalle loro trincee in 150 uomini e tornavano in 50. Fu costretto ad uccidere quei nemici che ingaggiavano con lui il corpo a corpo ed a fare prigionieri coloro che si arrendevano. Dopo Caporetto, il suo reparto fece da retroguardia alle truppe che ripiegarono verso il Piave. Appena finita la guerra, poiché era un Ufficiale del Regio Esercito chiese di far parte dei Corazzieri del Re. Essendosi distinto in guerra e il per il suo valore, venne accettato. Finito il periodo della “ferma”, venne congedato e solo allora “si ricordò” di avere una famiglia. Il padre, che era stato anch’egli al fronte, alla fine del conflitto raggiunse la famiglia, ma, per poterla mantenere, non avendo un lavoro al paese, fu costretto ad emigrare negli Stati Uniti d’America: pertanto, non poté abbracciarlo assieme agli altri suoi congiunti. 

In parecchi, a causa dell’immane disoccupazione post-bellica e della miseria in cui la popolazione era indotta a vivere, intrapresero la strada dell’emigrazione nelle Americhe per potere sostenere i propri cari, lasciando moglie e figli a casa. Alcuni tornarono, altri invitarono la propria consorte a raggiungerli avendo trovato un lavoro.


Le promesse, non mantenute, per arginare la diserzione durante la Prima guerra mondiale.

Con l’entrata dell’Italia nella I° guerra mondiale, ai contadini meridionali che partivano per la guerra fu promesso di tutto, dallo smembramento dei latifondi in favore dei piccoli contadini, alla promessa di una terra e di una casa, all’assunzione nella pubblica amministrazione: la solita strategia, che in questo caso serviva ad arginare il fenomeno della diserzione e quindi ad avere molta più carne da macello per i fronti. Le contraddizioni, ovviamente, scoppiarono all’indomani della fine della guerra, quando tutte le promesse furono sistematicamente disattese e i contadini abbandonati a se stessi, spesso spogliati dei propri averi durante la guerra da parte dei latifondisti con la scusa di pagamenti arretrati o di alimenti dati alla famiglia in sua assenza: in questa situazione disperata, ripresero le agitazioni, ma questa volta la direzione da parte del Partito Socialista si rivelò di straordinaria efficacia. Il merito che ebbe il Partito Socialista, e più in avanti quello comunista, fu quello di coordinare ed organizzare le agitazioni locali in un quadro di lotta nazionale, che vedeva quindi gli operai al nord e i contadini al sud lottare insieme, anche se a distanza di centinaia di chilometri, sotto una stessa bandiera: una situazione pre-rivoluzionaria, che non a caso fu chiamata “il biennio rosso”, cui gli stessi dirigenti, però, non seppero guidare verso la giusta e naturale direzione, cercando di indirizzare la lotta in un quadro riformista più che rivoluzionario. 

La nascita del fascismo

Approfittando di questa situazione di “stallo pre-rivoluzionario”, le forze conservatrici e reazionarie si organizzarono, anche con l’aiuto dello stato, dando forti aiuti economici a Mussolini e le sue squadracce per contenere prima, e distruggere in seguito, il movimento che si era creato: le sanguinarie violenze delle camicie nere, il tacito consenso della polizia di stato e dei carabinieri nei loro riguardi, l’appoggio (soprattutto economico) dei poteri forti, furono determinanti per la sconfitta di quel movimento, che si spostò da una posizione pre-rivoluzionaria alla difesa ad oltranza.

I fascisti ottennero il potere dal re, ampliando la sanguinaria repressione precedentemente avviata, che culminò con l’uccisione di Matteotti, la proclamazione della dittatura fascista, i processi del tribunale speciale nei confronti di dirigenti comunisti e socialisti, la persecuzione nei confronti di tutti i dissidenti del regime e, soprattutto, lo scioglimento dei sindacati e delle associazioni dei lavoratori. Sotto la dittatura fascista, e quindi in un quadro di feroce dittatura dei poteri economici, le condizioni dei contadini e dei lavoratori meridionali peggiorarono, anche se il governo fascista cercò con la propaganda e un bieco populismo di mascherare le reali condizioni: ovviamente ogni pretesto era buono, come la costruzione di case o bonifiche di terreni, la distruzione delle coscienze era calcolata scientificamente, in special modo quella dei lavoratori e dei contadini. 


Nel frattempo, nel 1922, con la Marcia su Roma, si afferma, come Organo di Governo autoritario, il regime fascista. Inizia la dittatura di Mussolini, che parecchi dolori e lutti procurò al Paese.



Anni’20-’30- Si costruisce la S.P.157. Nella foto “u Ponti”; nell’arcata il simbolo del fascio littorio.


Estate 1941. 

Come tutti i regimi dittatoriali, la mania di grandezza e di potenza di Mussolini lo indusse alla belligeranza. L’Italia, per la seconda volta, è in guerra, quella guerra che distrusse la speranza e la gioia di milioni di spose, di madri e di figli.

Nel piccolo paese montano di Longi, nell’entroterra della Sicilia, molte famiglie hanno i loro uomini lontani, arruolati dal fascismo. Sono rimasti soltanto i vecchi, le donne ed i bambini. Le campagne, arse dal sole di luglio, offrono soltanto quei frutti che non hanno bisogno di coltivazione; sono pochi quegli anziani, ancora in discrete forze, che hanno sostituito i loro figli nei campi.

Le strade, con rari passanti, offrono la visione di un borgo quasi abbandonato: qualche donna dinanzi all’uscio di casa intenta a rammendare, qualche anziano di ritorno dalla campagna seguito dalla capra, che dovrà dare il desinare ai suoi cari, alcuni bimbi che, nella loro innocente spensieratezza, giocano a rimpiattino. 

E’ già l’imbrunire di uno dei tanti giorni di quell’estate di guerra. Lassù, sui monti, non sono ancora arrivati gli echi sordi dei cannoni e dei mitragliatori. Si sentiranno in lontananza, in seguito, quando gli alleati occuperanno la Sicilia.

La madre, giovanissima, che prega col proprio figlioletto affinché il marito ritorni dalla guerra, è una delle tanti giovani spose d’Italia che si sono viste strappare crudelmente il proprio uomo per una causa assurda ed ingiustificata: una guerra senza alcun motivo se non quello partorito da una mente malata di grandezza, di gloria e di avido potere. Lei sa che le guerre portano solo odio, calamità, disgrazie e, sentendosi impotente di fronte a tutto ciò, conosce soltanto la speranza della preghiera. Lei, che ama moltissimo il suo uomo, crede che la voce di un innocente, del suo bimbo, possa essere ascoltata da Chi sta in Alto: “Gesù, fai tornare papà dalla guerra; Madonnina, fà che egli sia ancora tra noi per darci gioia e felicità…e per portarmi a passeggio”, aggiunge il bambino nella sua ingenuità. 

E’ in quella stanza al primo piano adibita a soggiorno, che le due creature si soffermano in preghiera prima di accendere il lume a petrolio per andare, subito dopo, a letto, mentre la vetta del monte, che sovrasta il paese, sta per affondare nel buio della notte e il fiume insonne spinge le sue acque limpide verso il mare lontano. E’ un rituale di ogni sera chiedere alla Madonna, assieme al frutto del suo amore, il ritorno del capo della casa. Un rituale, non di abitudine ma di amore.

Quella pace apparente che si spande nelle strade selciate del quieto borgo è uno stridente contrasto con quanto pesantemente aleggia nel chiuso delle case: tristezza, solitudine, apprensione per i propri cari alle armi. Un silenzio che talvolta è rotto da un urlo: è stata consegnata ad una donna la protocollare missiva, spedita dal comando dell’esercito, che il suo “soldato” è morto. 

“Un soldato”, come tantissimi altri che non volevano essere soldati, divelti dalla propria terra lasciando ai suoi cari nessun sostentamento se non quello proveniente da un pezzo di “roba”, ereditato dal padre. Il cui reddito era insufficiente a coprire i necessari bisogni della famiglia. 

Al dolore si aggiungeva la rabbia di non essere in grado di mettere in tavola giornalmente l’indispensabile per vivere. E allora, si andava in campagna a strappare alla terra le verdure ritenute commestibili, si coltivava personalmente l’orticello, si conservavano e si risparmiavano i frutti raccolti in quel pezzo di “roba”, le galline servivano alla cova dei pulcini, i quali, divenuti adulti, davano qualche uovo e quando le chiocce diventavano improduttive finivano nella pentola; messe in tavola, la loro carne era stopposa e grassa. Altro che polli teneri di oggidì! La carne di animali di allevamento – mucche, pecore, maiali - era un miraggio. Si sopravviveva con la tessera annonaria del Fascismo attraverso i generi di  prima necessità distribuiti attraverso il magazzino dell'Ammasso. I quali, pur tuttavia, erano razionati e insufficienti a sfamare una famiglia.


Non diversa, però, era la situazione in tutti i paesi siciliani: stesso dolore, medesima miseria.


Quando gli Alleati invasero la Sicilia per liberare l’Italia dal nazi-fascismo, la gente cominciò a sperare che le cose cambiassero. Essi, però, si sostituirono agli eccidi dei fascisti e della Gestapo con altri atti di inaudita violenza. Furono conquistatori e non liberatori. 

Furono passati per le armi soldati italiani nemici, che alzavano le mani per arrendersi, obbedendo all’ordine impartito dal Generale americano Patton: “Niente prigionieri”; ma vennero trucidati anche centinaia di civili, sospettati di connivenza col nemico, sparando ad altezza d’uomo. E non solo. 

Soldati marocchini delle truppe alleate, ma anche bianchi, aggredirono e stuprarono parecchie donne, senza distinzione di età. Se qualcuno degli uomini presenti – in genere anziani perché i meno anziani erano alle armi – cercava di difenderle, veniva malmenato o addirittura “impalato”. I soldati americani, assieme ad altri militari delle truppe alleate, entravano nelle grazie delle donne regalando loro scatolette di carne, cioccolato o caramelle per poi violentarle. Molti furono i figli di “N N”,  cui seguirono, a guerra conclusa, le domande al governo italiano, da parte delle donne, di indennizzo come vittime civili di guerra. C’è anche da dire, tuttavia, che alcune vendettero ai militari-“liberatori” il loro corpo per sopravvivere alla fame più nera ma che venivano “ricompensate” con le AM-lire, la moneta stampata dagli americani. Con essa era pagata la truppa di occupazione per i consumi “extra” e per pagare le derrate acquistate in regime di libero scambio.   La lira italiana continuava ad avere corso legale pur essendo inflazionata; infatti, per ottenere 1000 AM-lire occorrevano due mesi di paga in lire italiane, ammesso che sarebbe stato possibile avere un lavoro continuato.   

Ed allora, si vendeva qualche gioiello di famiglia, qualche coperta del corredo, un paio di lenzuola, un pezzo di terra per comprare, al mercato nero, gestito dalla mafia, il frumento che doveva servire per il pane e la pasta, fatti in casa. E se era  impossibile avere farina di grano, si macinavano nocciole, castagne e mandorle per fare il pane. La poca spesa che doveva essere fatta in bottega, si faceva a credito scrivendo le lire dovute al bottegaio in una “libretta” e si pagava quando si aveva qualche soldo, con un interesse occulto, cioè con una maggiorazione del giusto prezzo. E c’era freddo d’inverno, tanto freddo: un po’ di carbone nel braciere non era sufficiente a riscaldare  le case dei meno abbienti.

       A proposito di gioielli, c’è da rammentare che Mussolini, per la campagna etiope, aveva invitato gli italiani a donare “oro per la Patria”. Le donne si spogliarono della loro fede nuziale, ma anche coloro che si consideravano ferventi fascisti donarono oro ed argento. Furono raccolte tonnellate e tonnellate di preziosi, che trasformati in lingotti furono rinchiusi nei forzieri della Zecca di Stato. Ben poco, quindi, era rimasto nelle case del ceto medio - basso. Non si è mai saputo che fine abbia fatto tutto quell’immenso tesoro…!

Durante l’invasione della Sicilia, le case di campagne, ivi comprese quelle di Longi, si resero vissute dai cittadini che, per paura, lasciavano i loro centri abitati; vi furono anche abitanti che sfollarono dalle città bombardate per rifugiarsi nei paesi di origine.


Dopo l’Armistizio dell’8 settembre ‘43, l’esercito italiano andò incontro allo sbandamento: alcuni soldati siciliani in forze ai reparti del fronte settentrionale disertarono. Certuni si unirono ai partigiani, altri, invece, nascondendosi dai nazi-fascisti, intrapresero a piedi, tra enormi stenti e  paura, il cammino per raggiungere il paese natio impiegandovi parecchi e parecchi giorni per attraversare tutto lo Stivale.

Rientrarono anche i reduci, prigionieri dei russi, sopravvissuti alle violenze dei soldati bolscevichi, al ghiaccio, alla fame, ai campi di concentramento, prostrati nei corpi e nell’animo. In molti furono dichiarati dispersi tra i ghiacci, altri ancora, scampati alla tragica conclusione della battaglia sul Don, riuscirono a trovare rifugio in qualche casolare russo per poi lasciarlo, ringraziando per l’ospitalità, quando il rigido inverno pose fine alle sue giornate. Talvolta, il soggiorno fu reso piacevole da qualche rapporto intimo con donne sole o ragazze libere facenti parte del nucleo familiare; storia, però, che non andò a buon fine giacché nell’uomo era sempre presente il desiderio di raggiungere la sua Sicilia. La disponibilità delle donne sovietiche era stimolata dalla fama che l’uomo italiano gode, soprattutto quello siciliano, quale prestante amante latino.

La tragedia della guerra presentava sul suo palcoscenico innumerevoli vittime, affrante dal dolore per avere perduto i loro cari, assalite dalla miseria e dai lancinanti dolori addominali per non potere assolvere il minimo indispensabile affinché il corpo non s’indebolisse.

Dopo la pace mondiale, a cagione delle notevoli ristrettezze economiche, numerose famiglie dovettero vendere i loro beni per sopravvivere oppure emigrare in  cerca di un lavoro con cui andare avanti. Altre, che rimasero e che avevano parenti emigrati negli Stati Uniti dopo la prima guerra mondiale, ricevevano da essi pacchi di vestiario, scatolette, dolciumi non deperibili ed altro, nonché alcuni dollari .

Questa è stata la guerra di Mussolini!  Ma anche dei “liberatori-conquistatori”! I cui effetti devastanti vennero conosciuti anche dai longesi. Ed ebbe inizio la seconda ondata di emigrazione verso i paesi esteri, che si erano ripresi dopo la fine del secondo conflitto mondiale. L’esodo produsse l’impoverimento di braccia- lavoro e di menti, che vennero tolti al paese. 

Infatti, oltre cinquant’anni addietro, Longi contava 2500 anime; oggi, anno 2016, gli abitanti sono scesi a 1600 circa e la tendenza annuale – poiché peraltro le "entrate demografiche" sono inferiori alle "uscite" – è quella di un lento ma progressivo ulteriore calo. Se non si ferma questo depauperamento abitativo, fra meno di cinquant’anni, il paese avrà una popolazione di sei-settecento anime. Le contrade diverranno abitazioni per "fantasmi", come Milè, mentre il centro abitato sarà poco più di un villaggio, pieno di case disabitate, senza Caserma dei Carabinieri, senza Ufficio Postale, forse senza Municipio.


Il contributo di sangue longese alle due guerre mondiali fu di 29 vittime, nella prima (1915/18), e di 16 caduti nella seconda (1941/43), mentre 5 furono i dispersi nella seconda guerra. I cognomi di costoro sono riportati nelle lapidi ai lati del Monumento ai Caduti.

Durante l’Armistizio, tra l’Italia ed i paesi alleati, dell’8 settembre 1943, gran parte della popolazione longese, temendo la reazione tedesca le cui truppe erano ancora presenti in Sicilia, si rifugiò nelle campagne. Attraverso racconti di alcuni ottuagenari, i quali avevano appreso la notizia dalle rispettive famiglie dopo il loro rientro dai campi di battaglia, sono venuto a conoscenza che, durante la ritirata tedesca, il Generale Francesco Zingales, comandante in capo dell’Armata italiana di stanza in Sicilia, avendo egli stabilito a Mirto la sede del suo Stato Maggiore, invitò il comandante tedesco alleato di risparmiare il suo paese natio, Longi, da eventuali rappresaglie; viene riferito, infatti, che i pezzi  germanici da artiglieria erano puntati sul paese. Ed infatti, il tuono delle cannonate, proveniente da centri vicini, fu solo sentito a Longi. Il Generale Zingales salvò il suo paese ma gli abitanti di Mirto non poterono perdonargli l’insediamento del suo Quartiere generale nel centro abitato, che fu bombardato dalle truppe alleate in avanzata procurando rovine e qualche morto.

Longi, durante il regime, non fu esente da angherie e da soprusi posti in essere dal dittatorello locale; su cui, per amor di patria verso la mia terra natia, voglio stendere un velo pietoso, per dimenticare ma non per perdonare. Infatti, non si può perdonare colui che (relata refero):

- ha fatto ingurgitare bottiglie di olio di ricino a coloro che dissentivano dai suoi “ordini”;

- ha ritirato la tessera del PNF ed il distintivo a coloro che, uscendo, sul bavero della giacca, non attaccavano quest’ultimo ( questo provvedimento significava che i poveretti non potevano lavorare nel settore pubblico);

- ha fatto chiudere esercizi commerciali , gestiti da poveri cristi, a lui invisi;

- ha fatto carpire agli eredi legittimi del titolare deceduto prematuramente la farmacia locale, attraverso minacce e pressioni  provenienti dall’alto ai fratelli che svolgevano un ruolo pubblico.

Finita la guerra, subentrata la democrazia, colui che aveva “interpretato”  la dittatura fascista in loco, venne epurato assieme alla moglie, ma in appresso fu restituito ai pubblici uffici grazie alle dichiarazioni dei comunisti e socialisti locali che si sono sottratti a raccontare il suo comportamento durante la “prestigiosa” carica pubblica fascista dallo stesso rivestita. Altruismo o omertà?

Nell’Italia repubblicana, sembra che quell’uomo sia stato il collettore locale delle somme di sub-affitto che gli allevatori dovevano corrispondere all’affittuario, in odore di mafia, del bosco di Mangalavite, il quale, peraltro, era un congiunto di un Deputato. Come amministratore pubblico del paese, istituì la “tessera per i poveri”, i quali usufruivano della fornitura gratuita di farmaci, le cui somme però venivano pagate dall’ente locale. La farmacia era divenuta proprietà della moglie. Nel lungo elenco erano compresi “poveri” che poveri non lo erano ma erano amici dell’amico.  L’amministrazione subentrata cancellò questa sorta di interesse in atti di ufficio attraverso l’abolizione della predetta tessera. 

Nell’Italia democratica, ha continuato a fare del male procurando anche dolori e notevoli disagi a cittadini inermi. Per non tradire la sua indole autoritaria e malvagia!

Da forestiero ed inizialmente maestro “precario”, durante il regime,  quel dittatorello era divenuto uno dei più ricchi proprietari del paese.





 PH: Nella piazza Umberto I, la popolazione ascolta la radio galena, che trasmette le notizie relative all’ultima guerra mondiale


Anche Longi ha avuto i suoi 

partigiani

A cavallo degli anni venti-trenta, malgrado la forte presenza di fascisti, a Longi c’era (c’è sempre stato) un folto gruppo di socialisti. In occasione delle ultime libere elezioni di allora, si paventava una vittoria dei democratici. Venne chiamata una squadra di fascisti galatesi per intimorire gli avversari ed in piazza avvenne un duro scontro con feriti da ambo i lati. Vinsero i fascisti.

Un longese, che aderì alla lotta partigiana, fu il sottotenente ins. Leone Gemma, che, rientrato dalla Francia dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943, consegnò le armi, sue e quelle dei soldati della sua compagnia, al Comitato Civico di Boves (Cuneo) schierandosi dalla parte della Resistenza.

Lo zio di chi scrive, l’avvocato Antonino Zingales, durante l’ultima guerra, era Ufficiale dell’Esercito Italiano, di stanza nel Veneto. Riporto sinteticamente un suo racconto riferito alle vicende vissute come antifascista. A Belluno conobbe una ragazza, che faceva parte di un reparto di partigiani di estrazione comunista: il comandante di quel reparto era il fratello della donna. Malgrado si dessero appuntamenti in luoghi segreti, i fascisti scoprirono il loro rapporto ed, in occasione di un loro incontro, li arrestarono: volevano arrivare al nascondiglio in montagna del fratello della donna e dei suoi partigiani. Furono torturati, ma non parlarono; però, alla fidanzata di mio zio (divenuta poi sua moglie) uccisero un altro fratello, malgrado non militasse tra i partigiani, ma tale lo considerarono i fascisti. Mio zio fu consegnato ai tedeschi, che lo fecero loro prigioniero come fiancheggiatore dei partigiani. Internato in un campo, riuscì a sopravvivere mangiando, assieme alla brodaglia che gli passavano, bucce bollite di patate ed erba (non verdura) raccolta ai margini del campo. Si salvò perchè la guerra ebbe fine. Ma era già in lista per essere tradotto in un campo di concentramento nazista.

Il Partigiano socialista e Patriota, Leone Gemma


L’ins. Leone Gemma, nato a Longi nel 1915, durante la II guerra mondiale venne arruolato come ufficiale di fanteria dell’Esercito Italiano e destinato alle operazioni militari in Francia. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, portò in salvo il suo battaglione rientrando in Italia. Ma, da fervente socialista, depose la divisa per darsi alla macchia unendosi alla Resistenza. Come  partigiano, combattè in  Piemonte e in Lombardia al comando di un plotone della sesta brigata “Giustizia e Libertà”. Tra le numerose azioni in combattimento, cui prese parte, gli venne assegnata, come comandante, la difesa del presidio, in posizione avanzata, di Montecalvo Vessiggia, che tenne sino al grande rastrellamento invernale, da parte dei tedeschi, iniziato il 22 novembre 1944. Prese parte anche ad una spedizione contro elementi della Zicherait repubblicana  e ad altri numerosi combattimenti contro i nazi-fascisti. 

Il 27 aprile del 1945, con la sua famosa brigata, Leone partecipò e fu protagonista dell’arresto di Benito Mussolini, camuffato da caporale della Wehrmacht, in fuga verso la Svizzera, assieme ad altri gerarchi fascisti. Il Duce fu scoperto ed il partigiano “Bill” lo dichiarò in arresto in nome del popolo italiano.

 Il Comandante delle forze alleate in Italia, Generale Alexander, firmò un attestato, a nome del Governo e dei popoli delle Nazioni Unite,  dove acclamava il  Partigiano longese , Leone Gemma, “come Patriota che ha combattuto per l’onore e la libertà”.



Fonti: “Longi, nel 900 e…oltre” di Francesco Lazzara


Dismesse le vesti del combattente, Leone rientrò al paese natio e, nel 1947, venne nominato insegnate di ruolo nelle scuole elementari di Caronia.

A S.Agata di Militello, il 19 marzo si festeggiava San Giuseppe. Con un suo amico volle assistere ai solenni festeggiamenti per riprendere, nella stessa nottata, la strada per ritornare a Caronia. Prima di arrivarvi, nel tragitto lungo la trazzera che dalla marina portava alla montagna, una lupara chiuse la spensierata giornata facendo stramazzare a terra, senza vita, l’invitto partigiano Leone Gemma. Venne esclusa la strada di un delitto per vicende amorose in quanto probabilmente inesistenti.

L’unico indagato fu un vigile urbano,  peraltro grande amico di Leone, per cui non si comprende l’imputazione quale presunto colpevole dell’efferato omicidio. Tant’è che dopo cinque anni di vicende giudiziarie, la Corte d’Appello di Messina, nel 1952, assolse con formula piena l’imputato, che precedentemente era stato condannato nel primo grado di giudizio. 

Ci  si chiede il perché venne scartata l’ipotesi di una vendetta da parte di elementi fascisti che vollero, in tal modo, vendicarsi uccidendo il partigiano che prese parte attiva all’arresto di Mussolini. Probabilmente, se fosse stata appellata la sentenza della Corte d’Appello, fatti nuovi sarebbero potuti  emergere nel corso del giudizio da parte della Corte di Cassazione. Ma, a quei tempi, considerato lo scacchiere politico esistente in Parlamento, per non fare venire a galla un ipotetico scandalo, si decise di interrompere la ricerca della verità. 

Manon Roland, nel 1793, prima di essere ghigliottinata, passando dinnanzi alla statua della Libertà, disse: « O Libertà, quanti delitti si commettono in tuo nome! ».

Il paese natio non può non rendere gli onori postumi al valoroso Patriota ed invitto Partigiano, illustre figlio di questa  nostra terra, additandolo alle giovani generazioni quale “Eroe”.



Gazzetta del Sud del 25 aprile 2016,con un articolo a firma di Salvatore Mangione

Caronia, torna d’attualità tra gli storici un omicidio avvenuto negli anni Quaranta

Delitto di Leone Gemma, il patriota che arrestò Mussolini

Salvatore Mangione

CARONIA

Con il passare degli anni torna d’attualità la storia del patriota Leone Gemma, originario di Longi, assassinato lungo la razzera che da Caronia Marina conduce a Caronia montagna.

Rimasto avvolto nel mistero l’efferato omicidio, specialmente dopo il proscioglimento dell’unico indagato, un vigile urbano, già guardia forestale del luogo, molto legato da amicizia con la vittima e ritenuto in un primo momento il presunto autore. Il proscioglimento con formula piena venne sancito dalla Corte d’Appello di Messina nel 1952, dopo alcuni anni del misfatto.

Si pensò ad un delitto legato a vicende forse amorose, ma molti dubitarono, invece, per una vicenda storico-politica legata al personaggio.

Infatti Leone Gemma, insegnante elementare a Caronia, durante la Seconda guerra mondiale era stato ufficiale dell’Esercito Italiano, operante in Francia dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Rientrato in Italia con il suo intero Battaglione, portato in salvo. Dopo alcune consultazioni con i superiori decise di allearsi con i Partigiani, unendosi alla resistenza. Prese parte ai combattimenti che si svolsero in Piemonte ed in Lombardia, al comando di un plotone della 6.a Brigata della 2.a Divisione “Giustizia e Libertà”. Nell’aprile del 1945, con la sua Brigata partecipò e fu protagonista dell’arresto di Benito Mussolini e dei gerarchi fascisti, in fuga verso la Svizzera.

Nelle prime ore del 27 aprile una colonna di passaggio da Menaggio, scortava il dittatore per allinearsi con altri trenta camion tedeschi, più un’autoblindo italiana, con Pavolini, Barracu e Bombacci, sulla quale salì anche l’ex duce. Erano le 8 quando a Musso la strada è sbarrata da un albero. Si sparano alcuni colpi di fucile, poi comparvero dei partigiani con bandiera bianca, comandati da Pier Luigi Bellini delle Stelle (Pedro): questi disse che il passaggio della colonna si poteva trattare con il comando di Domaso, sei chilometri oltre Dongo. Il tenente Fallmeyer tornò dopo sei ore con la notizia che i tedeschi, ma non gli italiani, venivano lasciati liberi di portarsi in Germania, attraversando la Svizzera. Birzer camuffò allora Mussolini da caporale della Wehrmacht, poi lo fece salire su un autocarro che, con gli altri, puntò su Dongo. Qui i Partigiani di Urbano Lazzaro (Bill), iniziarono una sospettosa perquisizione. Pare che il primo a riconoscere Mussolini fu un certo Beppe Negri, zoccolaio, che subito informò Bill. E questi tolse all’uomo il camuffamento e lo dichiarò in arresto, in nome del popolo italiano.

All’azione partecipò anche la famosa 6.a Brigata con l’ufficiale di Longi, tanto che il generale Alexander, comandante in capo delle forze alleate in Italia, nel 1945, rilasciò a Gemma Leone un attestato dove si leggeva che “nel nome del Governo e dei popoli delle Nazioni Unite è acclamato come patriota che ha combattuto per l’onore e la libertà”.



Finita la guerra.

Quando arrivarono gli americani, le donne si rintanarono in casa perché si era sparsa la voce che i soldati neri praticavano lo stupro. Ricordo, invece, che quei soldati, in transito, furono gentili con tutti, soprattutto con noi ragazzini riempiendoci di gallette e tavolette di cioccolata.  


Ahimè, però, era aperta la ferita di un Paese uscito in ginocchio dalla guerra e la povertà stava di casa anche presso parecchie famiglie di Longi.

Per sopravvivere - così come durante la guerra- si mangiavano, per lo più, i prodotti stagionali dell’orto ed i frutti delle campagne; poche uova, di tanto in tanto qualche gallina in brodo non più ovaiola, raramente visitava la mensa, e con molta parsimonia, la carne di capra o di agnello o di qualche vacca che venivano abbattuti a seguito di lesioni riportate. Il pane veniva ricavato anche da legumi macinati al mulino in quanto le terre coltivate a grano erano state abbandonate dagli uomini sotto le armi o prigionieri o morti.


Mi è stato raccontato che alcune persone erano riuscite a sapere che in una campagna del termitano si vendeva frumento al mercato nero. In quegli anni si era sotto il razionamento stretto di alcuni viveri, che venivano distribuiti con razioni ridotte, attraverso una tessera da esibire all’ ”ammasso”. In pratica, ci si nutriva poco ed i morsi della fame erano il pane quotidiano. All’epoca, c’era una vecchia autocorriera, con una tromba esterna come clacson, che spesso i passeggeri erano costretti a scendere per spingerla.  Con l’autobus sgangherato, quindi, della ditta D’Urso, alcune donne – anche se con pochi quattrini – pur di sfamare i propri figli, affrontavano il tragitto verso Termini Imerese, da dove ritornavano con qualche valigia piena di frumento. In uno di questi viaggi, un controllo dei Carabinieri sul tetto dell’autocorriera, dove si conferivano i colli per legarli all’automezzo, avrebbe procurato ulteriori dolori – sequestro del grano e denuncia-  a quelle poverette se non fosse intervenuto un Sindaco di un paese vicino, passeggero assieme a loro, che dichiarò ai militi che quelle valigie erano sue. Le quali conobbero, quindi, un trattamento privilegiato e non vennero controllate: il frumento arrivò salvo a Longi. Il potere di un Ufficiale di Governo!

Ma il pane regalato da quel chicco d’oro macinato era nero. C’era festa, perciò, quando qualcuno che aveva qualche liretta, rientrando dalla città, si era premurato di comprare mortadella e pane bianco. Oggi, però, il pane integrale è molto ricercato per le sue proprietà salutari.



L’autobus della ditta D’Urso era simile a questo. 

UNA FAMIGLIA DI MILITARI


Da Giuseppe Zingales, notaio e Sindaco di Longi, ed Angela Pidalà nacque  Francesco Zingales Pidalà (1848- 1907), notaio e Sindaco di Longi  (1876-77),  che sposò   Angela Sirna (1853 -1903); da questi ultimi nacquero:

Leone ,  Generale, Magistrato militare

Francesco  Generale di Corpo d’Armata . 

Giuseppe, Colonnello Medico.

Da Leone nacquero: 

Aldo (1915 – 1980) – Colonnello dell’Esercito    Colonnello Avv.to Franz Zingales (1915- 1980)               

Vice Comandante della Divisione Folgore, ad El Alamein gli venne conferita la Medaglia d’Argento al Valore Militare, per il suo comportamento eroico durante la battaglia, riconosciutogli anche dal nemico. Nella pergamena che accompagna la medaglia, si legge: “assumeva il comando del battaglione e lo teneva per qualche giorno in situazione delicata, pur essendo debilitato fisicamente dalle ferite riportate e dalla febbre che lo consumava. Esempio di fermezza, di attaccamento al dovere e di valore “           

Altra medaglia d’argento al V.M gli venne conferita nella guerra di Spagna.


«I resti della divisione Folgore hanno resistito oltre ogni limite delle possibilità umane.» - (Radio Londra 11 novembre 1942)«Gli ultimi superstiti della Folgore sono stati raccolti esanimi nel deserto. La Folgore è caduta con le armi in pugno. Nessuno si è arreso. Nessuno si è fatto disarmare.» - (BBC 3 dicembre 1942)«Dobbiamo davvero inchinarci davanti ai resti di quelli che furono i leoni della Folgore.» - (discorso alla Camera dei Comuni del Primo Ministro Churchil)


ALCUNE OPERE PUBBLICHE REALIZZATE NEL DOPOGUERRA  

Arriva la luce elettrica nelle case  e si illuminano le strade

Viene allargato il Corso Umberto I nel tratto più stretto e pavimentata l’intera strada

Rete idrica e fognante               

Lo stato della rete idrica esterna ed interna e della rete fognaria presentava uno stato fatiscente, quello fognario, in particolare, inquinante e con latente pericolo alla salute pubblica. La rete idrica che dalla sorgente Filipelli alimentava il paese era un colabrodo ed il serbatoio sovrastante il centro abitato era non solo insufficiente, ma in stato tanto precario, quanto vecchio ed eroso.         

Strada per il cimitero

Strada rotabile per la frazione Crocetta- borgata Pado

Ampliamento scuola elementare.

Costruzione sede scuola media

Scuola materna

Costruzione campo sportivo;

Costruzione villetta comunale a seguito copertura torrente Santa Maria;

Costruzione asilo nido (oggi sede Parco dei Nebrodi);

Riammodernamento impianto pubblica illuminazione del centro e delle frazioni;

Apertura pista carrabile Longi –Frazione Filipelli;

Realizzazione strada in terra battuta “Botti- Barillà”, concretizzando un sogno decennale dei lavoratori impegnati nei cantieri della forestazione.

Opera per la captazione di acqua potabile presso le sorgenti della contrada “Tre Schicci”,

Costruzione rete idrica nelle contrade;

Realizzazione della discarica per i rifiuti solidi urbani in contrada “Petrusa”

Nuovo impianto elettrico al cimitero e revisione di quello civico.

Consolidamento delle zone adiacenti al torrente Santa Maria  

Borgo Crocetta: lavori di recupero e riqualificazione del borgo Crocetta, della ristrutturazione della chiesa di Bonaiunta, di tutte le fontane della frazione, della vecchia scuola elementare, del Centro servizi e la pavimentazione della zona che va dalla fontana pubblica alla Chiesa.

Case di Mangalavite

Parco Avventura



I TEMPI CAMBIANO


Dagli scontri violenti del passato, man mano si è passati ad un confronto meno personalizzato. Per capire da dove si proveniva voglio rammentare gli inizi longesi del post-fascismo, in regime repubblicano. Subito dopo la II guerra mondiale si tennero le prime elezioni democratiche. I  contendenti alla carica di Sindaco furono il geom. Nino Zingales, monarchico, ed il maestro  Mollica, gerarca fascista saltato sul carro del vincitore: la Democrazia Cristiana. I comizi avvenivano in piazza, di giorno perché ancora senza luce elettrica, da due opposti balconi che si fronteggiavano. Dopo aver parlato uno dei due candidati, subito dopo, in diretta, rispondeva l’altro e se le davano verbalmente  di santa ragione, sino a sfiorare le offese sul piano personale. Non erano semplicemente avversari politici ma divenivano nemici perché i toni erano sempre alti. Il geom Zingales, già funzionario in pensione, data la sua anzianità veniva supportato da un giovane nipote dal facile ed irruento eloquio che riusciva a fronteggiare la retorica fascista dell’altro candidato. Le famiglie, che si schieravano apertamente, venivano coinvolte con la ingiustificata conseguenza della rottura dei rapporti di parentado, ove presente. 

Per fortuna, il senso della convivenza civile ha preso, nel tempo, il sopravvento: non più nemici ma avversari politici, che finiti i bollori della campagna elettorale arrivano a stringersi la mano. Forse, non tutti e non sempre….



Ph da internet: tre ex Sindaci di diversa estrazione politica,, Nino Imbrigiotta, Nino Fabio, Rosario Priolisi e l’ex Vicesindaco, Nino Carcione, insieme con altri amici. Prima della mia gestione amministrativa, ciò non era immaginabile. Se fossi stato presente, anch’io ben volentieri avrei partecipato alla foto di gruppo in cui c’è un mio ex avversario politico. E’ servito a qualcosa il mio messaggio di scindere il rapporto politico da quello umano? Forse. Anche questo è progresso civile.  



Il primo Sindaco con l’avvento della Repubblica: il monarchico Nino Zingales


Da ragazzo, ho assistito, sotto quella pergola, a battagliere partite a briscola, dove di solito il Sindaco Zingales aveva, come compagno, Padre don Lio, il vice Parroco che trascorreva l’estate nella sua casa in contrada S. Francesco. Ebbene, se i nostri perdevano la partita, alla fine il Sindaco inveiva contro il prete: “santu diavuluni, vi fici signali di iucari un caricu pirchì iò aiu tre brisculi, ma vui non capiti nenti”. Nell’era fascista era d’obbligo il “voi”; pertanto gli anziani, vissuti in quel periodo, anche se non esisteva più l’oppressione fascista, non si erano abituati al lei. Padre don Lio, che era balbuziente, quando si agitava non riusciva a spiccicare una parola, però tentò di rispondere: “ma ma ma ma……iò si si si si…. ca ca ca ca….caricu …..”  voleva dire di non averne, ma il suo compagno lo interrompeva: “ firmativi, annunca arrivamu sin’a stasiri, ma ‘nsignativi a iucari, santu diavuluni”. Nelle due imprecazioni dell’anziano Sindaco, il pio uomo si segnava con il segno di croce ed invocava Dio. Ma, poi, alla fine del gioco a carte  un buon bicchiere di vino montagnolo, mescolato con una gazzosa contenuta in una bottiglia di vetro chiusa con una pallina colorata ed un tappo ermetico, metteva fine alla discordia. Ma l’indomani la storia si  ripeteva. Che tempi!


   


Ph. Padre  don Lio Lazzara


 Padre don Lio Lazzara è stato un personaggio dell’epoca. Oltre a dire messa in latino, di cui non si capiva una sola parola, aveva la passione della caccia. Durante le battute di caccia, si spogliava dell’abito talare – a quei tempi proibito dalla Chiesa cattolica – indossava pantaloni di velluto, scarponi, cartucciera,  zaino e fucile per cartucce calibro 12, che egli stesso caricava con la sua bilancina. Aveva  perso un occhio sparando sulla neve ad una lepre in quanto il fucile gli scoppiò per una cartuccia difettosa, ma continuò ad andare a caccia e non aveva bisogno di chiudere un occhio per prendere la mira per colpire la preda. Era molto ricercato come compagno nelle battute di caccia. Ricordo che un mio parente, il Giudice Cammà di Caprileone, grande cacciatore, veniva a Longi ospite della mia famiglia dopo aver concordato con Padre don Lio il giorno per recarsi sul terreno di caccia. Partivano, loro due soli, quando era ancora buio, a piedi (allora ancora non c’era la strada carrozzabile) e si ritiravano di sera con il carnaio pieno di cacciagione.



Nella foto: il Geometra Nino Zingales, nella sua casa di Crocetta, s’intrattiene con la famiglia di Nino Lazzara.


Il profilo dell’ing. Antonino Zingales (1878- 1965) Sindaco di Longi

Quale funzionario dell’Ufficio Tecnico-erariale di Messina per 40 anni, per capacità professionale, competenza e dirittura morale, fu chiamato a ricopre la prestigiosa e responsabile carica funzionale di geometra capo. Collocato in pensione per raggiunti limiti di età, si ritirò a Longi, dedicandosi a migliorare la coltura dei suoi poderi e soprattutto attivò la sua vocazione alla politica. 

 Ing. Antonino Zingales

Ricoprì la carica di sindaco dal 1946 al 1952. Trasfuse nella gestione della cosa pubblica quella rettitudine e quella dirittura morale che lo avevano contraddistinto nel servizio prestato allo Stato. Il senso dello Stato costituiva la base formativa ed operativa della sua cultura politico-amministrativa, che traeva la sua fonte dal liberalismo cattolico: oculatezza, economia nell'amministrare il denaro pubblico, salvaguardia dell'interesse pubblico su quelle privato o consortile. Non scese mai a compromessi, talvolta taciturno e brusco nelle  sue ferree determinazioni.

Probabilmente non ebbe "la fantasia” necessaria per superare la totale avversione a contrarre mutui per la realizzazione di opere pubbliche: non è che non volesse il benessere per tutti, solo voleva che il Comune facesse i passi a misura delle sue gambe, imponendo la sua linea sulla più stretta economia e sul pareggio del bilancio. Pur nelle enormi difficoltà del momento storico (l'Italia usciva da una guerra distrutta economicamente e moralmente), contrassegnato da mancanza di lavoro e dal bisogno di gran parte della popolazione, si è impegnato con dedizione e competenza a migliorare il volto del paese, ad alleviare disagi e bisogni della comunità.

Mise a disposizione della comunità le sue competenze professionali. Queste le principali opere pubbliche realizzate:

- allargamento di tratti della via Umberto 1° con abbattimento di case di civile abitazione: problema molto complesso, dato che numerose famiglie hanno dovuto lasciare per più mesi la loro casa e traslocare altrove, fino all'ultimazione dei lavori;

- demolizione del fabbricato comunale nella piazza Umberto I per consentire la costruzione della scalinata di accesso alla chiesa Madre (lato Nord);

- costruzione del plesso della scuola elementare del centro urbano;

- costruzione di un ponte-passerella sul torrente Ceramo, la cui mancanza nei giorni di piena non permetteva l'accesso alle frazioni ed alle campagne del retroterra;

- inaugurazione nel 1951 dell'impianto elettrico d’illuminazione del centro urbano, infrastruttura di progresso civile ed economico.                 Pur non ricoprendo la carica di sindaco, ha collaborato con l'amministrazione comunale pro-tempore perchè la strada di collegamento con le frazioni di Stazzone, Crocetta, Pado e Portella Gazzana venisse tracciata e realizzata sull'attuale percorso, anziché snodarsi dall'abitato di Galati Mamertino, via C.da S. Basilio.        Per la sua fattiva e disinteressata operosità di pubblico amministratore, l'attaccamento nutrito verso il paese, per la disponibilità donata ad amici e cittadini, ha tutti i titoli per essere annoverato e ricordato fra i personaggi più significativi del nostro paese.

 (da Per Ricordare di Rosario Priolisi)



Vent’anni dopo la mia gestione del Comune.


Devo ricredermi per quanto, qualche tempo addietro (l'elaborazione di questo testo mi ha occupato per diversi anni), avevo scritto nel capitolo precedente dal titolo : I tempi cambiano


Dopo aver fatto fuori lo scrivente, nel 1997, dalla gestione amministrativa del paese, rimasero in campo gli  autori principali della mia defenestrazione, che per le legislature a seguire incrociarono le armi del voto, alternandosi nella gestione del paese. Il quale, dopo vent’anni, aveva voglia di nuovo. 

In occasione delle elezioni amministrative del 2017, nel gruppo del Sindaco uscente, Sandro Lazzara, subentrava il dr. Nino Miceli, funzionario in pensione del Parco dei Nebrodi, quale candidato a Sindaco, per sfidare l’ex  Sindaco, Nino Fabio, che si ripresentava per l’ennesima volta. I toni furono accesi durante lo scontro comiziale, nella piazza del paese, ma le previsioni davano come favorito il Miceli, le cui capacità, soprattutto dialettiche ed oratorie, apparvero nella loro evidenza . 

Grande ed inaspettata fu la sorpresa quando dalle urne, per pochi voti, le schede elettorali videro emergere la vittoria del veterano Fabio. 


Nino Miceli ed i suoi supporter, non rassegnandosi al responso finale, proposero ricorso, presso il Tribunale, avverso  la elezione del Fabio per incompatibilità. Riporto quanto scrive,  a tal proposito, l’agenzia on-line “AM.notizie.it” , con un articolo dal titolo : 

“Longi, ricorso al Tribunale per la decadenza del sindaco Fabio

Di  Giuseppe Romeo

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9 settembre 2017


Il sindaco di Longi Antonino Fabio, eletto lo scorso Giugno, deve essere dichiarato decaduto a causa della sua incompatibilità, non rimossa entro la data prevista per la presentazione della candidatura. E’ quanto sostenuto in un proprio ricorso al Tribunale di Patti, dal candidato sindaco sconfitto, Antonino Miceli che perse la competizione elettorale di appena 61 voti, 511 contro i 572 del sindaco eletto. Nel proprio ricorso Miceli, rappresentato dall’avvocato Ciro Gallo, contesta l’incompatibilità di Fabio poiché il fratello, Luigi Fabio, risulta essere presidente del consiglio di amministrazione della Banca di Credito Cooperativo Valle del Fitalia di Longi, istituto di credito che gestisce il servizio di tesoreria comunale. La contestazione del candidato sconfitto poggia quindi le proprie basi su quanto disciplinato dall’ordinamento degli enti locali siciliani riguardo le cause di ineleggibilità alla carica di sindaco e consigliere comunale, definite, a seguito di una sentenza della corte costituzionale, come cause di incompatibilità. Tra queste, per l’appunto, l’impossibilità di candidarsi alla carica di sindaco per chiunque abbia ascendenti o discendenti, parenti ed affini sino al secondo grado che già ricoprano posti di segretario comunale, appaltatore di lavori o servizi, esattore, collettore o tesoriere dello stesso comune. Una contestazione che allo stesso sindaco Fabio fu già mossa all’epoca della sua prima elezione, nel Maggio del 2002. Al tempo, però, il Tribunale di Patti si pronunciò per il rigetto del ricorso evidenziando che la causa di incompatibilità non potesse essere applicata ai soci della cooperativa, come era allora lo stesso sindaco, né ai parenti che non hanno potestà amministrativa o poteri di rappresentanza, come il fratello che all’epoca era vice presidente. Eccezione che oggi Miceli respinge evidenziando come la nuova legislazione in materia bancaria abbia uniformato il regime, equiparando le banche cooperative come istituti di credito caratterizzati dalla solo finalità di lucro, e rendendo dunque inapplicabile la deroga al regime d’incompatibilità prevalsa nel 2002. In ultima analisi nel ricorso viene sollevata anche l’ipotesi di condizionamento della libertà dell’esercizio di voto dettata dal rapporto parentale tra il sindaco eletto ed il presidente del Cda della Banca, in ragione del contesto sociale nel quale l’istituto di credito opera e dell’influenza, sostiene il ricorrente, che alcuni soggetti possono esercitare nello stesso territorio proprio in virtù del ruolo ricoperto. La prima udienza di fronte al collegio del tribunale di Patti sul ricorso di Antonio Miceli è stata fissata per il prossimo 16 Ottobre.”




Alcuni mesi dopo, il Sindaco in carica, Fabio, presentava la sua relazione ed, a seguire, il Consiglio Comunale dichiarava decaduto dalla carica il Consigliere di minoranza, Nino Miceli. Qui di seguito alcuni documenti,  ripresi da internet.


Pubblico in parte, riprendendola dal sito internet del Comune di Longi e senza apportare alcuna modifica o correzione, la relazione del Sindaco  Antonino Fabio, presentata  nel C.C nel FEBBRAIO 2018 


“” COMUNICAZIONI DEL SINDACO E DELLA GIUNTA SULLA GESTIONE AMMINISTRATIVA DEL COMUNE DI LONGI ALLA DATA DELL'INIZIO DEL MANDATO DELL'AMMINISTRAZIONE

"VIVERE LONGI"

Cari consiglieri e cittadini, quanto segue ha lo scopo di mettervi a conoscenza della situazione economico-amministrativa del nostro paese ereditata dalla nostra Amministrazione in carica dal 14.06.2017.

Nel precisare che non è stato possibile relazionare subito dopo il nostro insediamento, in quanto ci siamo resi conto rapidamente degli immensi problemi da affrontare oltre a quelli non riportati nel verbale di consegna del 24.06.2017. compilato dall'ex Sindaco Lazzara. Adesso tutti debbono essere informati.

In questi sei mesi ci siamo più volte interfacciati con i responsabili delle aree. che di certo più di noi, nuovi amministratori subentrati alla passata Amministrazione, hanno il polso delle casse comunali e dei problemi misteriosi. Abbiamo con senso di responsabilità sollecitato relazioni e sopralluoghi da parte di ogni singolo responsabile d'area ed in particolare dai vigili urbani, al fine di documentare la realtà di quanto in seguito andiamo ad esporre.

Il nostro obbiettivo è quello di dare una giusta informazione al nuovo consiglio comunale e ai cittadini di Longi, di smentire con apposita documentazione allegata le falsità, raccontate dalla passata Amministrazione guidata da Lazzara Alessandro. A chi ha scelto di fare comizi. nascondendosi dietro un ringraziamento ai suoi elettori, sicuramente non permettiamo di offendere i nostri elettori ed il nostro paese che sempre si è distinto per l'onestà e la correttezza politica. Quelle affermazioni di isterismo politico per occultare le proprie inefficienze non le accettiamo e le spediamo al mittente affinché se ne faccia una ragione. Noi vogliamo la verità ed il confronto pubblico, non in piazza ma nelle sedi opportune come il consiglio comunale.

La situazione che abbiamo trovato è a dir poco disastrosa non solo dal punto di vista finanziario come si poteva immaginare, ma soprattutto anche lo stato di trascuratezza delle pubbliche strutture (Serbatoi idrici Comunali, Biblioteca Comunale. Cimitero Comunale. Casa Comunale Via Roma, Strada Comunale Longi Cimitero chiusa da sei anni, Palestra Comunale, impianto di illuminazione pubblica, Campo di Calcio e relativi spogliatoi, Scuola Elementare, Case di Mangalaviti, depuratore C/da Scinà, Caseificio C/da Crocetta, Lavori Borgo Stazzone. Lavori Portella Gazzana – Margio Lovà ) tutte strutture tralasciate e abbandonate, e quindi, ci sono voluti sei mesi prima che ne venissimo a capo per relazionare in merito.

Sullo stato delle strutture pubbliche, per una maggiore conoscenza di quanto riscontrato e documentato si rimanda alla visione dei verbali redatti dai vigili urbani e alla documentazione fotografica, allegati alla presente.

Longi in passato ha sempre avuto un comune efficiente con personale qualificato, invece ci siamo ritrovati in un garage dove la privacy tra impiegati e cittadini non esiste. La struttura organizzativa non è stata supportata dal necessario ricambio generazionale e le conseguenze sono evidenti e drammatiche. La precedente Amministrazione non è stata in grado in sei anni di garantire un minimo di dignità rappresentativa ed organizzativa della casa comunale. Non è stata in grado né di sistemare l'edificio comunale danneggiato dallo sciame sismico né di assumere qualsivoglia iniziativa. Oggi ci troviamo in locali non idonei per lavorare. 

SITUAZIONE ECONOMICA FINANZIARIA TROVATA:

LA VERITA'

Teniamo a puntualizzare le infondatezze e le bugie messe in campo dalla passata Amministrazione nel corso degli anni 2007-2017. In merito vogliamo preliminarmente precisare per conoscenza dei cittadini, che nel verbale di consegna ufficiale con data del 24.05.2007 (fine del mandato del Sindaco Fabio ) la situazione contabile del comune di Longi era la seguente: + €. 310.276,37.

Oggi nel verbale di consegna del 24.06.2017 (fine del mandato del ex Sindaco Lazzara ) la verifica di cassa effettuata il 09.06.2017 è di €. - (217.773,06 + 57.759,14)= sommano meno -275.532,20 alla quale si fa fronte con un'anticipazione di cassa da parte della tesoreria del comune con aggravio di interessi.

Nel verbale di consegna fatto dall'Amministrazione Fabio del 24.05.2007 venivano anche evidenziati i lavori finanziati, i cui decreti erano già stati emessi per un importo di €.7.574.448,91 (euro Settemilionicinquecentosettantaquattro) già disponibili per le gare d'appalto. (facilmente consultabile sul sito internet del Comune) 

Nel verbale di consegna fatto dall'ex Sindaco Lazzara il 24.06.2017 di decreti di finanziamenti non se ne parla. Si parla di opere inserite nei programmi di finanziamento senza che alla data corrente vi è alcun decreto, cioè i soldi pronti per fare la gara, solo patti di inserimento nei programmi di finanziamento. 

Nel verbale di consegna non si trova traccia di nessun progetto che riguarda il palazzo Municipale di Via Roma, opera di grande importanza per il nostro comune (noi l'abbiamo fatto redigere e finanziare nel giro di pochi mesi) e fra poco inizieranno i lavori. Non si trova traccia per quanto riguarda il progetto per l'ampliamento del cimitero comunale, del progetto di acquisto e restauro della casa di Mollica, agli atti non risulta nulla, nè progetto nè la richiesta di finanziamento. Il progetto per la realizzazione del depuratore agli atti non esiste, vi è solo l'incarico per la progettazione e intanto le nostre vasche Imof sono state abbandonate con gravi conseguenze ambientali.

Via di Fuga: l'Amministrazione passata ha preferito sollecitare il finanziamento, senza ottenerlo, della via di Fuga che dal casello autostradale, collega in modo più veloce Mirto, ma nello stesso tempo poteva dar corso ad un progetto già finanziato dall’ESA per i Lavori di completamento della strada di penetrazione agricola "Castaneto-S. Lorenzo-Rinauda-Passo della stretta", ereditato dall'Amministrazione Fabio nel 2007 e oggi revocato. Longi grazie all'Amministrazione guidata da Lazzara ha perso la somma di €. 1.549.000,00 (euro unmilionccinquecentoquantanovemila) e la possibilità di realizzare un'opera importante per i cittadini di Longi.

Caseificio in C/da Crocetta abbandonato a se stesso. Non si trovano fatture, libretti d'istruzione e di manutenzione dei macchinari presenti nella struttura, neanche risultano inventariati nel nostro patrimonio dei beni mobili. I vecchi uffici Comunali di Via Roma ed in particolare l'ufficio tecnico sono stati abbandonati con tutti i fascicoli dispersi, fondamentali per eventuali controlli amministrativi. Basta guardare le fote allegate.

Case di Mangalaviti: nonostante gli ulteriori finanziamenti e i lavori effettuati per la loro sistemazione, sono stati affidati dietro gara d'appalto ad una costituenda società di servizi e nonostante la regolare concessione, ad oggi non è stata avviata nessuna attività prevista. La struttura è in stato di abbandono. Abbiamo assunto a riguardo provvedimenti di diffida per l'osservanza degli impegni di cui alla convenzione.

Lavori Borgo Stazzone: lavori completati da circa un anno, rilevano già problemi di esecuzione. La strada evidenzia già la pavimentazione divelta con diverse buche. L'impianto d'illuminazione è già mal funzionante.

Piano regolatore scaduto. Non è stata intrapresa nessuna iniziativa peraltro dovuta per legge. Nonostante sia stato nominato un commissario da parte della Regione il 12.01.2015, anche dopo una serie di incontri e delibere consiliari, non è stato dato corso alle stesse direttive del Commissario. Tutto fermo.

La passata Amministrazione a guida Lazzara, cerca di rappresentare all'esterno una visione distorta e del tutto personale della realtà, mistificando incredibilmente i fatti, nel vano tentativo di distogliere l'attenzione dal vero e proprio problema: Le somme arretrate da pagare. Esse sono state causate da una “mala gestio” della cosa pubblica che ricorda il modus operandi di un'epoca che pensavamo fosse stata per sempre consegnata alla storia. Oltre l'esposizione debitoria che di seguito rappresentiamo, per l'anno 2017 le casse comunali dovranno pagare circa 20.000,00 euro di interessi per anticipazione di cassa. 

Cittadini, una buona Amministrazione deve approvare il conto consuntivo entro il 30 Aprile dell'anno successivo. L'amministrazione Lazzara non ha adempiuto a questo onere per cui al nostro insediamento ci siamo trovati senza il consuntivo 2016 approvato, senza il bilancio di previsione 2017 e senza soldi in cassa. 

La responsabile dell'ufficio economico-finanziario nella relazione richiesta dal Sindaco Antonino Fabio e trasmessa il 21.06.2017 prot. 3509 afferma che “il 31 dicembre 2016 la cassa è stata chiusa per la prima volta, con un saldo negativo di euro - 138.867,87,” 

Dai residui attivi accertati anno 2016 (somme da incassare) risulta un residuo attivo pari a €.1.530.610,66 di cui circa €. 350.000,00 per Tasi, Imu e servizio idrico per gli anni precedenti (2012, 2013, 2014, 2015, 2016).

Residui passivi: somme che il comune deve pagare euro 702.565,18 a fornitori e ditte per spese effettuate in data anteriore al nostro insediamento avvenuto il 14.06.2017.

Signori consiglieri e cittadini di Longi, la situazione che ci siamo trovati dinanzi è grave !

 Riportiamo sinteticamente alcune cifre che testimoniano la situazione lasciata in eredità dall'esecutivo a guida Lazzara :

- Bollette Enel non pagate 2016, fino ad aprile del 2017, per un totale di € 23.508,74 

- Bollette Gas Natural non pagate per gli edifici comunali periodo 2016 importo €.845,36; - Bollette Gas Natural per gli edifici comunali periodo 2016-2017 importo € 3.402,46; 

- - Somme richieste a restituzione in data 14.09.2017 dall'Assessorato Regionale Territorio ed Ambiente pari a €. 192.088,82 (criticità nell'assegnazione degli incarichi professionali, lavori di consolidamento del Torrente S. Maria, anno 2015). 

- Somme pari a €. 12.777,58 non accreditate da parte dell'Assessorato dell'Energia di cui una parte già sono state deliberate (G.M. del 9.06.2017 N° 74 - lavori messa in sicurezza discarica località Tre Aree) dalla passata Amministrazione, al professionista incaricato. 

- Atto ingiuntivo: richiesta pagamento somme competenze professionali e indagini geotecniche di € 69.821,08 + €.44.988,03=€. 114.809,11 (Lavori di completamento della strada di penetrazione agricola Castaneto S. LorenzoRinauda -Passo della stretta). Il progetto in questione era stato finanziato dall’Esa delibera N° 686/C.S. 2005. L'ESA in data 25.06.2010 nota 5049/230 sollecitava il Comune di Longi alla trasmissione del progetto esecutivo, la nota non ha avuto nessun riscontro da parte della passata Amministrazione e l'opera finanziata è andata persa. Oggi ci troviamo un atto ingiuntivo e l'opera non realizzata. Per i cittadini oltre il danno anche la beffa. 

- Ato Me 1 in liquidazione - nota del 19.09.2017 quantificazione costi previsti nel bilancio ATOmel 2016. Debito pari a €. 175.729,27. 

- A.T.O. N°3 servizio idrico - Debito pari a €.14.361,13 oltre gli interessi.

Contenzioso

Con nota del 12.10.2017 N° 6099, su nostra richiesta, l'ufficio contenzioso ha rappresentato l'elenco delle spese legali da corrispondere con gli estremi delle delibere che possono essere facilmente consultabili sul sito del Comune.

Spese legali da pagare:

1. Delibera. G.C. n.193 del 17.10.2007= €. 2.093,98 

2. Delibera. G.C. n.36 Del 23.04.2009 € 1.250,00 

3. Delibera. G.C. n.16 dell'8.02.2010 € 2.060,00 

4. Delibera. G.C. n.57del 29.04.2010 € 4.000,00 

5. Delibera. G.C. n.33 Del 24.02.2011 € 1.000,00 

6. Delibera. G.C. n. 174 del 18.10.201 € 2.677,49 

7. Delibera. G.C. n.113 Del 07.09.2012 € 700,00 

8. Delibera. G.C. n.156 Del 24.10.2012 € 319,36 

9. Delibera. G.C. n. 89 del 30.07.2013 € 1.300,00 

10. Delibera. G.C. n. 11 del 03.02.2014 € 500,00 

11. Delibera. G.C. n. 12 Del 03.02.2014 € 4.712,76+€ 499,99= €.5.212,75 

12. Delibera. G.C. n. 101 del 19.09.2014 € 3.210.06 

13. Delibera. G.C113 del 24.10.2014 €1.418,244€ 2.146,80= €.3.565,04 

14. Delibera. G.C. n.122 24.11.2014 € 2.474,16 

15. Delibera. G.C. n.21 Del 09.03.2015 € 5.393,35 

16. Delibera. G.C. n.116 Del 30.09.2015 € 2.500,00 

17. Delibera. G.C. n. 140 del 02.11.2016 € 2.000,00 

18. Delibera. G.C. n.66 del 24.05.2017 € 4.500,00.

Il totale delle spese legali da pagare ai professionisti incaricati ammonta ad euro 44.756,19. Inoltre, altri 13 procedimenti sono in corso e non sono stati decritti i relativi compensi da corrispondere.

L'ammontare del contenzioso in corso e delle somme da pagare lasciate dalla passata Amministrazione Lazzara ammonta a circa €. 582.278,66, di cui una parte sono accantonate.

Nei primi giorni dal nostro insediamento e precisamente i primi di luglio, da parte dell'ufficio tributi sono stati notificati circa 542 di avvisi di pagamenti riferiti alla TARI anni 2014, 2015, 2016. Altri 333 di avvisi per l'anno 2012 riferiti all'IMU sono stati notificati ai diretti interessati, mancano ancora 2013. 2014, 2015 e 2016. Questa vicenda non tocca un ristretto numero di contribuenti, per i quali si potrebbe ipotizzare un probabile fenomeno di evasione. Essa tocca una platea così vasta di contribuenti, per cui appare allo stato poco credibile un'evasione di massa ed impone di capire meglio che cosa sia accaduto nella passata Amministrazione. Dopo l'accertamento risulta che “forse” neanche i parenti di primo grado degli amministratori passati ottemperavano al pagamento di quanto dovuto. 

Ma davvero vogliamo credere che 875 contribuenti abbiano simultaneamente evaso un tributo? 

Perché l'Amministrazione passata alla guida di Lazzara non ha sollecitato l'invio degli avvisi di accertamento per il pagamento TARI, IMU e Servizio idrico facendo così accumulare più annualità nel tempo? Prima di entrare nel merito dei fatti specifici è importante sottolineare che un'Amministrazione “seria e responsabile" come quella guidata da Lazzara, verifica gli adempimenti che deve attuare un responsabile del servizio. Evitare di spedire gli accertamenti e gli avvisi di pagamento a casa dei contribuenti soltanto perché si è in prossimità delle elezioni amministrative e un fatto grave. 

Questo è inaccettabile perché va a danneggiare tutte le persone oneste e corrette che pagano il dovuto, e che in questo modo rischiano di vedersi ulteriormente aggravati gli oneri a causa di chi pensa di poter bypassare le leggi. 

“Pagare tutti per pagare meno” saranno gli indirizzi dell'attuale Amministrazione.


Noi come nuovi amministratori non vogliamo entrare nel merito, sono avvisi di pagamento degli anni passati (2012- 2013-2014-2015-2016). Non abbiamo nessuna responsabilità amministrativa nè politica nei confronti dei cittadini. 

Abbiamo l'obbligo di informare la procura della corte dei Conti e lo faremo per accertare i responsabili. 

Questi soldi che i cittadini oggi pagano riferiti agli anni passati (2012- 2013-20142015-2016), andranno a coprire l'anticipazione di cassa lasciata dalla vecchia Amministrazione e il pagamento dei residui passivi già impegnati e spesi. 

I mandati di pagamento che questa Amministrazione ha pagato in questi sei mesi dal 14.06.2017 al 31.12.2017 (su impegni giustamente assunti dalla passata Amministrazione, compresi gli stipendi circa 400.000,00) ammontano a €. 2.529.748,68 come risulta dalla carte contabili forniti dall'ufficio economico-finanziario.

Beni mobili:

Da una prima ricognizione fatta con l'ufficio del patrimonio, si rileva che in questi dieci anni di Amministrazione passata a guida Lazzara, non è stato fatto un accertamento sul patrimonio dei beni mobili acquistati e/o in possesso del Comune. Il responsabile dell'ufficio economato in data 27.11.2017 con nota prot. 7180, dando riscontro alla nostra del 01.09.2017, nella quale si chiedevano notizie: della cucina, frigorifero, tavolo professionale e delle relative attrezzature poste nei locali della scuola materna per la mensa scolastica, così risponde: “invitato dall'Assessore Fiorella Cirrincione ad effettuare un sopralluogo ai locali cucina scuola materna, dove si evidenzia la mancanza della Cucina.........e di non essere a conoscenza di eventuali spostamenti effettuati da operai del comune o Amministratori della passata legislatura”. Sta di fatto che la cucina con le relative attrezzature che servivano per la mensa scolastica dei nostri ragazzi non si trovano. 

Come non si trovano circa 50 sedie in plastica con struttura in metallo di colore blu come riportate nel registro dell'inventario al N° 635 nel 2011. Anche le transenne per la chiusura al traffico non risultano nei locali di deposito comunale, tranne una decina rispetto alle 120 inventariate. Addirittura nei locali del comune in Via Roma mancano alcuni condizionatori. Su segnalazione degli addetti ai lavori a deposito manca perfino la motosega. 

Di tutto questo a giorni sarà fatta regolare denuncia. 

L'Amministrazione passata, per niente attenta, ha regalato al nostro paese una situazione economica drammatica e si è resa unica responsabile del profondo logoramento della macchina amministrativa comunale; ha privato così Longi di ogni qualsivoglia possibilità di programmazione che la proiettasse nel futuro, accontentandosi di gestire, e male, l'ordinaria amministrazione. Purtroppo assenza di lungimiranza amministrativa, pressapochismo, inesperienza e inadeguatezza, sono stati i veri protagonisti della triste era Lazzara. 

Sono adesso del tutto evidenti le numerose e difficilissime problematiche che affliggono la nostra comunità e che l'attuale Amministrazione sta affrontando con fermezza e serietà.

Conclusioni

Abbiamo ritenuto doveroso portare a conoscenza i consiglieri e della cittadinanza dello stato generale dei fatti. Le copie dei verbali di accertamento esposti sopra sono a disposizione della cittadinanza presso gli uffici degli assessori e sul sito del Comune. Sono infine in corso le dovute valutazioni circa il danno patrimoniale arrecato all'ente per il quale l'amministrazione si riserva di adire nelle sedi competenti. 

Il Sindaco e la Giunta su quanto affermato sopra, si impegnano, per quanto possibile a risolvere le problematiche ereditate dalla passata amministrazione nel rispetto delle norme e della continuità amministrativa. Siamo convinti che l'obbiettivo e di ogni amministrazione deve essere quello di aumentare il benessere dei propri cittadini.””

……omissis.

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Dall’Agenzia on-line “98zero” un articolo di di Gabriele Onofaro - 5 marzo 2018

Votata la decadenza del Consigliere Comunale Antonino Miceli

Longi – Il Consigliere Comunale di minoranza Antonino Miceli è decaduto dalla sua carica, nel corso di un’Adunanza Consiliare svoltasi Mercoledì 28 Febbraio nella località “Campetto Plurimo”.

La proposta di decadenza del Consigliere Miceli è stata esposta dal Presidente del Consiglio Gaetano Aldo Russo e ha ricevuto, mediante voto segreto, 6 voti favorevoli, 1 scheda bianca, e 2 voti contrari. 

Il Consigliere Miceli è intervenuto, durante la trattazione dell’argomento, evidenziando che mai avrebbe potuto immaginare un simile epilogo della sua avventura politica, e spiegando che la decadenza dalla carica di Consigliere Comunale possa essere imputabile non alle assenze ingiustificate, ma soltanto a un manifesto disinteresse nell’adempiere il proprio mandato (secondo il suo parere invece la mancata partecipazione alle sedute consiliari è legittima). Miceli ha poi proseguito, affermando che l’astensionismo è un’arma politica, per opporsi alle prevaricazioni della maggioranza, e ha lamentato un’aggressione morale nei suoi confronti. Il Consigliere Miceli ha anticipato che, in caso di decadenza, presenterà ricorso al TAR di Catania e che, a tal proposito, si potrà andare incontro a responsabilità penale da parte di ciascun membro del Consiglio e la responsabilità, oltre che penale, è anche personale con conseguenze di natura risarcitoria. Dopo questo intervento il Consigliere Miceli ha abbandonato l’Aula Consiliare e ha preso la parola il Vice-Sindaco di Longi Davide Calcò. Il Vice-Sindaco ha affermato: “Mi dispiace che il Consigliere Miceli abbia abbandonato l’aula perché, visto che il punto all’ordine del giorno riguarda la valutazione della sua possibile decadenza, la sua presenza fino alla conclusione della seduta avrebbe dato l’impressione favorevole del suo attaccamento alla carica di Consigliere Comunale. Se si abbandona l’aula in un Consiglio, in cui è messa in discussione la propria decadenza, si dimostra disinteresse”.

Hanno espresso il proprio parere, sulla questione della decadenza del Consigliere Miceli, anche il Consigliere di minoranza Cinzia Smiriglia, e il membro del gruppo di maggioranza Anna Maria Rita Lo Sardo.

Il Consigliere Cinzia Smiriglia ha ribadito che l’assenza della minoranza ad alcune sedute consiliari è dovuta alla protesta politica, dichiarata nella riunione del 3 Ottobre 2017, e ha poi aggiunto che l’assenza del Consigliere Miceli, all’Adunanza del 2 Febbraio 2018, sia dovuta a motivi familiari.

Il Consigliere Anna Maria Rita Lo Sardo ha invece dato lettura di una nota: “Prendo atto della nota che il Consigliere Miceli ha trasmesso al Presidente del Consiglio, dove le giustificazioni sono generiche, non circostanziate e non è stato aggiunto elemento probatorio ed in ogni caso presentate in ritardo. L’astensionismo ingiustificato di un Consigliere Comunale dalle sedute consiliari è una legittima causa di decadenza. Poiché il consigliere Antonino Miceli ha mostrato negligenza e disinteresse nell’adempiere il suo mandato, generando non solo difficoltà di funzionamento dell’organo collegiale cui appartiene, ma violando l’impegno assunto con il corpo elettorale che lo ha eletto e quindi tradendo la fiducia dello stesso. Sarebbe bastato un minimo di rispetto e interesse per l’organo, nel comunicare direttamente o indirettamente la sua eventuale assenza o impedimento. Avrebbe potuto utilizzare i mezzi e gli strumenti a sua disposizione, compresa la posta elettronica certificata. Comunque mi preme puntualizzare una cosa: nel nostro paese i bar distano all’incirca cento metri dalla sala consiliare, e il Consigliere Miceli non ha ritenuto opportuno uscire ed avvicinare al Consiglio, ma ha preferito continuare a passeggiare in piazza. Io stessa, all’uscita della riunione di giorno 2 Febbraio, ma anche di quelle precedenti, ho avuto  modo di incontrarlo”.


In una intervista a Nebrodi news, nell'articolo :

“Fatto fuori perché scomodo”

Nino Miceli ha dichiarato:


…....

“Sono considerato un consigliere scomodo – attacca Miceli a Nebrodi News -. Ricorrerò al Tar di Catania perché questo atto è illegittimo e immotivato. Peraltro la delibera di decadenza è immediatamente applicabile. Hanno calpestato ogni norma di buona amministrazione”.

 

Perché considera questa decadenza illegittima?

“Tutto nasce dalla seduta del 3 ottobre scorso quando ho chiesto che venisse fatta una integrazione ad una delibera. Per tutta risposta il presidente Russo mi ha tolto la parola e ha detto alla segreteria di non riportare sul verbale le mie dichiarazioni. Per questo io e gli altri due consiglieri di minoranza abbiamo deciso di abbandonare l’Aula per protesta fino a quando il presidente del consiglio non si fosse impegnato a rispettare i diritti della minoranza. Una protesta la nostra politica. Abbiamo detto chiaramente che non saremmo andati più in Aula”.

Cos’è successo dopo?

“Dopo quella seduta ci sono state altre due convocazioni a cui non abbiamo partecipato sempre per protesta. La terza convocazione, quella del 2 febbraio, è stata convocata come seduta straordinaria con all’ordine del giorno: “Comunicazioni del sindaco”. Io purtroppo per motivi familiari non sono andato mentre gli altri due consiglieri hanno partecipato. Da lì è scattata la decadenza per non avere partecipato a tre sedute consecutive. In pochissimi giorni hanno attivato la procedura”.


Perché si è arrivati a questo?

“Il motivo è semplice. Ho sempre denunciato, sin dal mio insediamento, l’occupazione del Comune da parte della Banca Credito Cooperativo che gestisce la tesoreria comunale. Proprio la delibera discussa il 3 ottobre trattava l’alto interesse, il 9,50%, che il Comune paga sulle anticipazioni di cassa. Un tasso d’interesse enorme, quasi usuraio. Questa sorta di occupazione di un Ente pubblico da parte di un soggetto privato è evidente dall’incompatibilità che esiste attualmente nel Comune di Longi. Infatti il sindaco Fabio è il fratello del Presidente del Consiglio di amministrazione della Banca, il vicesindaco è nipote di un componente del Cda della Banca, un assessore è coniuge di un funzionario della Banca, lo stesso presidente del Consiglio Comunale è dipendente della Banca. Questo sono cose che ho sempre denunciato, che ho sempre contestato e per questo hanno deciso di farmi fuori”.


Sembra un conflitto d’interesse…

“Esattamente. Infatti in una seduta il presidente ha prima sostenuto che paghiamo interessi esorbitanti e che “noi” mettiamo l’interesse alto. Ma di chi parla? Del Comune o della Banca?”.

Adesso cosa farà?

“Non mi fermerò certo qui. Intanto aspettiamo la sentenza del Tribunale di Patti a seguito di un ricorso fatto per per chiedere se il sindaco Fabio debba decadere dalla sua carica per incompatibilità, in quanto il fratello è il Presidente del Consiglio di amministrazione della Banca e ricorrerò al Tar di Catania contra la decadenza”.


MICELI HA FATTO RICORSO AL T.A.R.


Nella pagina seguente riporto l'articolo che annuncia la decadenza di Fabio da Sindaco pubblicato dal network AM NOTIZIE


Longi, il sindaco Fabio decade dalla carica per incompatibilità

Di  Sergio Granata -

21 marzo 201

Doccia fredda sull’amministrazione comunale di Longi. Il collegio giudicante del Tribunale di Patti presieduto da Concetta Alacqua (a latere Maria Letizia Calì e Maria Luisa Gullino) ha dichiarato decaduto dall’incarico di sindaco Antonino Fabio, eletto lo scorso Giugno. Secondo il Tribunale Fabio non poteva essere eletto poiché il fratello luigi, già al momento dell’elezione, ricopriva la carica di presidente del consiglio di amministrazione della Banca di Credito Cooperativo Valle del Fitalia di Longi, istituto di credito che gestisce il servizio di tesoreria comunale.La decisione è arrivata dopo il procedimento scattato a seguito di un ricorso presentato dal candidato sindaco sconfitto, Antonino Miceli che perse la competizione elettorale di appena 61 voti, 511 contro i 572 del sindaco eletto. Nel proprio ricorso Miceli, rappresentato dall’avvocato Ciro Gallo, contestava l’incompatibilità che poggiava le proprie basi su quanto disciplinato dall’ordinamento degli enti locali siciliani riguardo le cause di ineleggibilità alla carica di sindaco e consigliere comunale. Tra queste, per l’appunto, l’impossibilità di candidarsi alla carica di sindaco per chiunque abbia ascendenti o discendenti, parenti ed affini sino al secondo grado che già ricoprano posti di segretario comunale, appaltatore di lavori o servizi, esattore, collettore o tesoriere dello stesso comune. Una contestazione che allo stesso sindaco Fabio fu già mossa all’epoca della sua prima elezione, nel Maggio del 2002. Al tempo, però, il Tribunale di Patti si pronunciò per il rigetto del ricorso evidenziando che la causa di incompatibilità non potesse essere applicata ai soci della cooperativa. Eccezione che invece questa volta è stata accolta in quanto la nuova legislazione in materia bancaria ha uniformato il regime, equiparando le banche cooperative come istituti di credito caratterizzati dalla solo finalità di lucro. Ovviamente Fabio, assistito dagli avvocati Andò e Silipigni, potrà presentare appello alla sentenza che però, per il momento, azzera l’esecutivo.


Ognuno commenti da sé le vicende legate alle elezioni amministrative del 2017 . 

Da parte mia, faccio notare che il paese è nuovamente in crisi, economica e politica, come quella del 1993. Sarebbe salutare una passata di scopa su tutto ciò che si richiama al “vecchio”, prima che sia troppo tardi per risanare il sanabile, ed andare alla ricerca di uomini e donne che rappresentano le nuove risorse del paese, capaci e dimentichi delle incrostazioni del passato.



 

RIFLESSIONE SU ALCUNE REALTA’ CITTADINE

Sfortunato è quel paese dove la libertà decisionale dei suoi abitanti è condizionata da un intreccio di poteri esistenti, che vanno da quello economico a quello politico e religioso, che si ritrovano insieme per coartare la volontà degli stessi. In queste realtà territoriali viene falsata la decisione popolare quando si è costretti a dare il proprio consenso elettorale non al migliore candidato sul piano intellettuale e culturale, non alla capacità individuale, non ai migliori programmi  enunciati. In simili eventi nefasti viene arrecato un grave danno al futuro del paese ed alla collettività tutta.

Riporto quanto scrive una agenzia on-line a tal proposito: 

vverso  la elezione del Fabio per incompatibilità. elettorali videro


IL SEGUITO DELLE VICENDE:

Antonino Miceli è stato reintegrato come consigliere comunale di Longi. 

Lo ha stabilito una sentenza del Tar di Catania che ha accolto l’istanza cautelare avanzata dal consigliere comunale 


Antonino Fabio ha fatto appello alla sentenza del tribunale di Patti rimanendo in carica.




Alcune foto  che ci riportano al passato

(dall’archivio di Leone Brancatelli- da internet)

Rosario Priolisi vince le elezioni amministrative contro Giuseppe Mollica e ringrazia i cittadini.

Ph. da internet. Anno 1975. La “classica sfilata” della vittoria per le vie del paese da parte degli elettori di Antonino Imbriotta, che ha vinto le elezioni amministrative contro l’uscente Giuseppe Zingales.


Ph. da internet di Leone Brancatelli


Nelle case si teneva “u sonu” e vi si poteva entrare 

in maschera per ballare purchè la comitiva fosse 

accompagnata da una persona a volto scoperto, “u bastuneru”, 

che garantiva per tutti. (foto da internet)


Ph. Da internet


Altre foto del paese (da internet)



Antichissime foto dei secoli trascorsi



Il Castello domina le poche case del paese.




Anni ’50. Lavori in corso nel rione “Vignalazzo”, oggi Piazza degli Eroi. (ph da internet)

    

Ph da internet. Anni ’30: il paese ripreso da sud, 

all’uscita verso Galati M.                                                Anno 1951. Allora, in o le statue che facevano il giro del paese erano   la   Madonna Immacolata,     S. Leone, il Crocifisso. (Ph da internet)


                                                                                                                    “Sutta u pignu” 

Il vicolo attorno al castello                                 Quando nei quartieri c’erano le fontanelle di acqua potabile! 


Le case Ferrante nella omonima contrada, agli inizi del secolo XX. (Ph. da internet)


Le case Ferrante


A Longi un complessino musicale d’epoca



Le orchestrine di Longi per le serenate, rispettivamente negli anni 1920 e 1948.  Nella foto di destra: da sinistra , Angelo Valenti con la fisarmonica, centro Ciccio Miceli,  Calogero Bartolo; chinati, Ciccio Frusteri, Nino Lazzara e Peppino Aquino. Entrambe le foto sono di Nino Lazzara, inviate  dagli USA


C’era una volta in un paesino dei Nebrodi, dove il freddo d’inverno e le strade buie nella notte vedevano riunirsi un gruppo di giovani per divertirsi “con niente” – come dice Tony Lazzara- e divertire. Suonavano strumenti alcuni dei quali, oggi, in quel luogo, nessuno più suona. Ed erano autodidatti. Allora, non c’era banda musicale nè maestri di musica. Facevano serenate accompagnando il giovane innamorato sotto il balcone della donna desiderata. Tra canti (c’era sempre chi aveva una bella voce solista: mio zio Nino cantava in piazza “partirono le rondini” e lo sentivano in tutto il paese), e suoni di mandolino, di violino, di chitarre e di fisarmonica il tempo trascorreva “con niente”, per l’appunto, e la serata aveva tre possibili conclusioni:

- si apriva l’uscio di casa per libare a Bacco ed a Venere affinchè benedicesse, quest’ultima, l’amore tra i due giovani;

- veniva lanciato da qualche finestra un secchio d’acqua (una volta fu lanciato addirittura un vaso di basilico che, per fortuna, mancò la testa dello spasimante; il quale, però, riuscì ugualmente ad impalmare la focosa donna << i figli sono tuttora viventi>>);

-l’uscio chiuso era e chiuso rimaneva. Senza alcuna buona notte.

Tutto ciò accadeva  a Longi 50 e passa anni addietro.

Ne furono, tra l’altro, testimoni, ma anche protagonisti delle notti longesi, i nostri concittadini ripresi nella foto che il longese Nino Lazzara, emigrato negli USA, mi ha inviato. Il quale è l’unico vivente tra quei “sunaturi  luncitani” dei tempi andati. Eccoli:

Con la fisarmonica Angelo Valenti, marito di Rusina, detta a Vardia, scomparsa di recente; con il violino Ciccio Miceli, morto in Argentina; con il mandolino Calogero Bartolo, anch’egli scomparso qualche anno addietro; accovacciati, con la chitarra, Ciccio Frusteri, fratello di Lio, Nino Lazzara, fratello del Maestro Ciccino , Peppino Aquino , fratello di Sarina. Li ho trascritti così come me li ha inviati Nino Lazzara. Ai nostri concittadini scomparsi, in terra straniera ma anche al loro paese natio, auspichiamo una “pace eterna”. 

La pubblicazione della fotografia di cui sopra è una testimonianza  del nostro affetto, di longesi, che vogliamo rendere a costoro, che hanno segnato e, senza tema di smentita, tipizzato un momento, anzi un’era del passato del nostro borgo, e che, pur nella povertà di quegli anni (eravamo nell’immediato dopoguerra ed alcuni di loro hanno dovuto emigrare), affrontavano la vita “cantando e suonando”. Inoltre, è un omaggio che vogliamo fare innanzitutto ai nostri emigranti, che ricordano, come me, quegli anni giovanili trascorsi a Longi;  ma è anche un messaggio per i nostri giovani affinché apprezzino qualche quadretto di vita perduta, che fa parte della storia longese dei loro padri.  

Mi sia consentito chiudere questa nota con l’affermare che era bella l’orchestrina luncitana di quei  tempi, quella orchestrina che io, ragazzo, ebbi il piacere  di ascoltare, in occasione di qualche serenata notturna e nell’accompagnare qualche “chianota”, quando a Longi ancora non c’era la luce elettrica. “Passi  musicali perduti” dei quali auspicherei un revival.


…e trascorrevano le giornate, nell’ultimo dopoguerra, i giovani…disoccupati longesi . Le partite a carte non finivano mai e la coppia che perdeva pagava da bere ai vincitori ed … agli spettatori.  (la foto è di Nino Lazzara)


Suggestiva immagine del rione “Dirupo”, ai tempi in cui ancora esisteva la civiltà contadina, soppiantata, nel secondo dopoguerra, da quella industriale. Puntuale commento di Leone Brancatelli.


Un’altra rara immagine pubblicata su internet dal nostro Leone Brancatelli. 

Si noti il raggruppamento degli uomini attorno al Santo, mentre le donne, con lo scialle, fanno  gruppo a parte.

La pavimentazione della piazza era con le pietre disposte a “ciacata”.

L’Arciprete era don Ignazio Zingales; alla sua destra, con la barba, il mio bisnonno, Cav. Uff. Don Antonino Zingales.


Nelle pagine precedenti un articolo del compianto prof. Arturo Militi, riguardante tra l’altro la comunità longese. Dal periodico “Il Serro”, edito nel dicembre del 1992

 Ph da internet.

“U braceri, a conca e u circu”. Prima che arrivasse la stufa, ci si riscaldava così dai rigori invernali.

“Così rivive il castello di Longi”

Ha due corpi ed un’anima sola il castello-palazzo di Longi. Poco distante dalla piazza principale del paese, è risorto agli antichi splendori nella parte restaurata, oggi sede della Cassa rurale ed artigiana della valle del Fitalia, che ha provveduto a riportare alla luce, sotto i moderni intonaci, le originarie strutture di pietra. Un’altra ala, invece, dove la fantasia popolare per bocca dei vecchi di Longi ha collocato, come nella migliore tradizione dei castelli, un fantasma vagabondo che nottetempo provoca i più strani rumori, è abbandonata a se stessa, in seguito a controversie sorte al momento di rivendicare la proprietà dell’immobile: resta un affresco magniloquente con smanie di grandeur sul soffitto di un saloncino; qualche porta decorata, ma scrostata, con una «passeggiata» di nobili sotto un vezzoso ombrellino, di gusto-settecentesco, qualche mattonella di maiolica colorata nella pavimentazione. Tutto è oggi del marchese di Cassibile. «Gli ultimi proprietari del castello furono i duchi d’Ossada, presso i quali mio padre fu accolto affettuosamente fin dall’età di otto anni, diventando una persona di famiglia – racconta Mimmo Lazzara -. Nel 1965, alla morte della duchessa Domenica Zumbo, ultimo rappresentante della famiglia d’Ossada, il castello fu lasciato al Comune e ai longesi». Poi il ricorso giudiziario del Marchese di Cassibile riuscì a dimostrare che la proprietà del castello spettava al nobile siracusano.  - 9 gennaio 1991 – Francesco Venuto  Nota dell’autore F. Venuto: Il servizio pubblicato (sopra) è già stato oggetto di un procedimento penale nei miei confronti presso il Tribunale di Palermo. Procedimento intentato dal Marchese di Cassibile. Pertanto la stesura pubblicata oggi è stata “depurata” delle parti che lo stesso nobile riteneva offensive per la sua persona. Ovviamente non era mia intenzione offendere il nobile siracusano, tanto meno gli altri personaggi raccontati nel lungo servizio. Fare il giornalista è raccontare. E questo è il lungo racconto di una giornata su di una piccola porzione di territorio nebroideo. Preciso che il procedimento giudiziario (ero difeso da una giovanissima avvocatessa di Palermo: Giulia Bongiorno – oggi Ministro della Repubblica), andato avanti per diversi anni, con le diverse richieste di archiviazione da parte del PM e le resistenze degli avvocati della parte offesa, si è concluso con una remissione di querela, con spese a carico del querelante.  (L’articolo è stato ripreso da internet, “fuoricronaca.it”)

La Storia, quando attiene alla collettività, non può essere sottaciuta                                                       Ricollegandomi a quanto è stato scritto nell'articolo precedente, ritengo doveroso, per un contributo alla verità storica di una vicenda che ha riguardato tutta la comunità, pubblicare quanto è stato portato a mia conoscenza attraverso la forma “de relata refero”.

Il tutto ha inizio in data 2 ottobre 1965, quando muore la Duchessa d’Ossada lasciando, per testamento, gran parte dei suoi beni all’Ente Colonia montana Duca d’Ossada ed all’Ente Asilo nido Duchessa d’Ossada, enti, che formalmente non esistevano, ma di cui doveva essere richiesto il riconoscimento giuridico al Prefetto entro un anno dalla morte della Duchessa, in altre parole entro il 2 ottobre 1966.    Risulta, attraverso sentenze dei Tribunali, inviatemi dal Marchese di Cassibile, quando fui Sindaco di Longi, che il Comune avrebbe dovuto dichiarare di accettare l’eredità col beneficio dell’inventario, inventario da compiersi nel termine di tre mesi. Il Consiglio Comunale, con delibera del 22 luglio ’66, a meno di pochi mesi dallo scadere del 2 ottobre 1966, dichiarò di accettare il lascito, ma mai fu redatto il prescritto inventario. A sua volta, l’ECA, statutariamente abilitata ad agire nella vicenda, per il tramite del Comune forse, inoltrò domanda al Prefetto per il riconoscimento dei due predetti Enti (Colonia montana ed Asilo infantile) in data 16 novembre 1966 e non entro il 2 ottobre 1966.             Il Comune di Longi, quindi, perse, di fatto, l’intero asse ereditario ed invano, circa dieci anni dopo, si oppose all’entrata in possesso dei beni testamentari da parte dell’avv. Procopio e del Marchese di Cassibile, eredi della Duchessa venuti fuori a distanza di tempo. Il Comune perse tutte le cause: in Tribunale, in Corte d’Assise ed in Cassazione e, con esse, l’eredità disposta in suo favore nel momento in cui lasciò scadere i termini perentori, che avrebbe dovuto osservare per perfezionare l’acquisizione dell’eredità.          Per completezza di informazione, la Giunta Municipale di Longi, negli anni 1965-66, era formata da: ins. Rosario Priolisi, Sindaco, e dagli Assessori, Ins. Attilio Iannì, ins. Antonino Imbrigiotta, geom. Francesco Lazzara, ins. Nicolò Bringheli. 

Nelle pagine seguenti, inserisco un articolo riguardante l’eredità della Duchessa Zumbo D’Ossada , pubblicato sul quotidiano “Giornale di Sicilia” dell’11 giugno del 1993, ed, a seguire, una lettera, inviatami dal Marchese di  Cassibile, in riferimento allo stato di fatto della controversia sul “tesoro” degli ultimi Baroni di Longi, nonché ad altri argomenti che riguardavano il Comune ed il nobile siracusano, peraltro con me discussi durante l’incontro con il medesimo, avvenuto presso la sede municipale longese.


La curva demografica del paese 

durante i secoli



Mappe, analisi e statistiche sulla popolazione residente

Bilancio demografico, trend della popolazione e delle famiglie, classi di età ed età media, stato civile e stranieri


Comune di LONGI

Il territorio, per la sua estensione di ettari 4672,25 è al 7° posto dei comuni siciliani.


Come mai gli abitanti diminuiscono ogni anno? Ho consultato alcune fonti, relative al numero degli abitanti longesi nel corso dei secoli, ed ho potuto ricostruirne l’andamento (gli esterofili lo chiamano trend). Tra il 1270 ed il 1500, Longi contava intorno a 600 anime; nel 1600: 1054; nel 1798: 1211; nel 1831: 1365; nel 1852: 1821; nel 1865, nei feudi di Botti e Mangalavite, vivevano 218 abitanti; agli inizi del Regno d’Italia (1861/1870), gli abitanti erano 1600 circa e, nel 1910, toccarono la punta di 2415. Dai miei nonni, inoltre, seppi che Longi, prima della II guerra mondiale, contava 2500 abitanti (questo dato però non corrisponde alla parabola del superiore grafico). Scesero a 2050 a cavallo della guerra (anni ’40) e conobbero un forte decremento tra il 1950/1960 a causa di una massiccia emigrazione: la “fame” decimò il paese. Si ebbe una ripresa nei due decenni successivi e nel 1991 si contavano 1852 residenti. Dopo di che, la curva del diagramma riprese a scendere: 1717 abitanti nel 1997, 1663 nel 2001 e 1432 alla data dell’agosto 2017. 

La perdita degli abitanti è dovuta anche, ma soprattutto, al ciclico esodo annuale di quelli che emigrano in cerca di lavoro in quanto le entrate e le uscite locali (morti/nascite) si bilanciano. Da precisare che l’emigrazione degli anni ‘50/’60 era circoscritta solo ai capi famiglia: le mogli ed i figli restavano a casa. Si spiega così l’incremento abitativo successivo, negli anni ‘80/’90. I mariti tornavano al paese e… nascevano altri figli. Ma anche tante case, alcune delle quali rimaste tuttora incompiute                 Attenzione: tra qualche decennio potrebbe accadere che i figli di coloro che attualmente lavorano alla “forestale” o nel settore artigianale, avendo conseguito un diploma o una laurea, non vogliano giustamente continuare l’attività dei genitori. Allora, saranno dolori per il paese, per intanto, ma anche per essi stessi perché la nazione, in generale, non ce la farà ad assorbire la manodopera di concetto e professionale, che in massa sta abbandonando i piccoli centri. Auguriamoci che gli extracomunitari – divenendo cittadini italiani - possano prendere il posto di coloro che attualmente svolgono un lavoro manuale. Solo che anche costoro si stanno ammassando nelle città.


Analisi di un depauperamento anagrafico ed economico

Longi, al di là di un primo momento di espansione edilizia negli anni ’70-’80, non ha consentito, né consente alle giovani coppie di costruirsi una casa perché mancano le aree edificabili; inoltre, e questo  è il fattore più importante - la tortuosità e la lunghezza della strada provinciale 157 scoraggiano il lavoratore, che trova occupazione lungo la fascia costiera, di viaggiare giornalmente. Quanti longesi risiedono, oggi, a Capri Leone, a Capo d’Orlando, a S.Agata di Militello? Tanti quanti, all’incirca, ne mancano per arrivare nuovamente ai lontani 2500 abitanti. Ma sarebbe riduttivo se mi fermassi a questi soli fattori, che hanno concorso al depauperamento abitativo, senza analizzare le altre cause che dovrebbero concorrere alla ricchezza ed all’economia del paese.

 Longi è sempre stato un paese di emigranti, ma mentre il fenomeno prima era contenuto entro limiti accettabili, oggi quest’ultimi non possono essere più tali. Continuando, pertanto, nella mia analisi, emerge che l’alternanza delle Amministrazioni comunali, diverse l’una dall’altra, e ciascuna portatrice di interessi non certamente oggettivi, unitamente ad una loro gestione di natura meramente burocratica e del quotidiano, alla litigiosità, spesso in esse presente, che le ha immobilizzate, non hanno favorito il decollo di iniziative che sfruttassero le opportunità del momento inserite in leggi e decreti, nonché nei programmi europei. Accanto a ciò, l’abbandono dell’agricoltura e della pastorizia, la fuga dall’artigianato e dal commercio, sono state concause, derivanti l’una dall’altra, che hanno indotto l’esodo di lavoratori dal nostro paese.

Oggi, la massa di giovani, la maggior parte dei quali acculturata, che dovrebbe rappresentare il futuro del paese, o fugge da Longi in cerca di lavoro andando ad ingrossare sempre più la schiera degli emigranti o rimane nel paese nell’attesa che la Forestale avvii le assunzioni; pochi lavorano nell’edilizia, nell’artigianato e nei servizi, pochissimi nel commercio. A quarant’anni, a Longi, si è ancora giovani perché disoccupati! Infatti, altrove, disoccupato è sinonimo di giovane.

Recriminare sulle cause dei mali, piangere su essi aspettando che "altri facciano" significa votarsi alla "morte civile", che arriva per inedia. Bisogna, invece, reagire, far lavorare il cervello predisponendosi a prendere iniziative laddove si presentano delle opportunità. Le quali, in gran parte, “interrogando” il mostro di informazioni presenti in un computer collegato ad internet, aprono la strada a nuove occasioni di lavoro.

Occorre partire da un’analisi delle potenzialità emergenti dal territorio, rapportate alla richiesta di mercato, per configurare, per il paese, un nuovo tipo di economia, coniugando anche, ove opportuno, il tradizionale col moderno. 

Ebbene, osservando il nostro territorio, risalta agli occhi che esso è vocato a sviluppare una forma di turismo verde, che non si limiti al passaggio rapido dei visitatori, ma li induca a sostare quel tanto che basti a generare economia riflessa. Non solo, però, turismo verde, ma anche della terza età e scolastico purché si creino le infrastrutture ricreative e di ristorazione. E’ stato affermato che "il turismo non è altro che vendere qualità ambientale di qualsiasi tipo (prodottasi, cioè, per via naturale o per sedimentazione storica) a chi ne fa domanda perché non ne dispone nella sua quotidianità". Longi, "qualità ambientale" naturale ne ha da vendere. Perché non sfruttarla, quindi? Assieme all'indotto ed alle iniziative avremo una ricaduta in termini economici e di opportunità di lavoro per parecchi. 

Si può produrre economia e, di conseguenza, ricchezza se si riuscirà a trasformare il fattore di povertà di un’area interna in elemento di benessere: è quello che occorre tentare per quest’area della Sicilia, la nostra Longi. Lo strumento, oltre che dalle bellezze naturali, ci viene offerto dal Parco dei Nebrodi, facendo in modo che esso possa essere modulato da organismo penalizzante e limitativo in strumento idoneo a favorire il decollo economico del territorio.

I paesi montani dell’Abruzzo erano divenuti, molto tempo addietro, centri abitati da vecchi in quanto i giovani emigravano altrove alla ricerca di lavoro; da quando è stato istituito il Parco Nazionale la gente è rientrata nelle proprie case, i giovani vi rimangono ed investono nella nuova, per loro, fonte di benessere, costituita dal turismo, un turismo intelligente che va dal restauro dei vecchi centri alla riscoperta di valori e sapori dimenticati, all’ospitalità in piccoli rifugi estivi restaurati, alla costituzione di cooperative per realtà imprenditoriali, le più varie, che si coniughino con la politica di tutela ambientale, che vede presenti laboratori artigianali di ceramica, di serigrafia, di falegnameria, del ferro battuto, nonché centri di apprendimento delle tecniche agricole alternative.

Copiare, quindi? Certamente, quando l’esperienza altrui può essere di aiuto per risolvere i problemi. Di supporto a questa deve trovare spazio l’inventiva, il coraggio, la tenacia, il credere nel progetto. Diceva Ezra Pound: " quello che conta non è tanto l’idea, ma la capacità di crederci, fino in fondo".

Certo, non pretendo di avere il dono dell’infallibilità né di essere il depositario della verità in assoluto. La mia è semplicemente una proposta, che scaturisce da conoscenze individuali, acquisite nel tempo, e da aggiornamenti socio-culturali; proposta, la quale può essere arricchita e  mirata ancor meglio. 

La legge impietosa della globalizzazione non consente di continuare a restare nel chiuso delle nostre mura cittadine, con il pericolo di essere travolti e annullati. Oggi, o ci si apre al mondo per sopravvivere o si soccombe lentamente. Ed il mondo è fuori! E’ parte di questo mondo, quello buono, quello che ci può servire e che ci possa aiutare, che dobbiamo importare in questo nostro paese. E per fare ciò, occorre pensare alla grande, è necessario volare alto!

In un’altra mia pubblicazione, ho avanzato alcune proposte.

Luoghi di culto esistenti, tra aperti e quelli scomparsi

Aperte al culto: Chiesa Madre, della SS.Annunziata, di S. Caterina al Castello, della Madonna del Carmelo in c. Stazzone, della Madonna Assunta in c. Crocetta, della Madonna delle Grazie in c. Bonaiunta, della Madonna Addolorata, una  in c. Filipelli e l’altra accanto alla chiesa Madre;

Non più esistenti o chiuse al culto; al centro: SS. Salvatore, S. Antonio Abate; nella contrada Zimmi, San Filippo; nella c. Liazzo, quella di Sant’Ignazio; nella omonima contrada quella di S. Lorenzo; nell’ex feudo di Butti, quella dell’Addolorata; a Barrillà, quella di S. Fara; quella di S. Nicola Politi (contrada ignota); in c. S. Maria, facente parte del plesso del Monastero Basiliano di santa Maria del Monte Cervaro, la Madonna di Monserrat.

L’artistico organo a canne e l’altare maggiore nella Chiesa Madre

 

Una suggestiva immagine della Chiesa della SS. Annunziata (Ph. da internet)


San Leone, Vescovo di Catania, è il protettore di Longi


Prima di S. Leone, era Protettore del paese S.Michele Arcangelo. Ma, nel 1404, Valore Lancia, su invito del Re, si recò a Catania per “alcuni affari delicati”. E’ possibile intuire, con consistente probabilità del vero, che “Qualcuno” abbia suggerito al Barone di sostituire l’allora Protettore con S. Leone. Il Quale, a Catania, era considerato un grande Taumaturgo. I baroni ed i Signori, allora, erano munifici con i luoghi di culto ed ogni loro desiderio “doveva” essere recepito. Altrimenti, ne andavano di mezzo le opere e le entrate parrocchiali! Ma, conosciuti ovviamente ne sono i veri motivi.

Che siano stati i Lanza a portare la venerazione del Santo a Longi è indubbio in quanto la Casata era “titolare” anche della baronia di Sinagra, ove parimenti era ed è Protettore S. Leone.

Brevi note agiografiche

Dalle poche notizie certe sulla vita di S. Leone ne estrapolo quelle più significative.  Nacque a Ravenna nel 709 e morì a Catania, mentre era vescovo di quella città, nell’anno 785, il giorno 20 del mese di febbraio. 

In quegli anni, con alterne vicende, gran parte dell’Italia era sotto la dominazione dell’impero bizantino.

Leone, monaco benedettino, fu eletto Vescovo di Catania nel 765. 

Precedentemente, l’imperatore bizantino, Leone III, aveva proibito il culto delle icone elevando l’iconoclastia a dottrina religiosa dell’impero ed ordinando la persecuzione e l’arresto degli adoratori delle immagini sacre. Il Vescovo di Catania, anch’egli col nome di Leone, si oppose alle leggi imperiali. Il governatore bizantino della Sicilia, di conseguenza, ne ordinò l’arresto; Leone, fuggendo da Catania, si rifugiò sulle montagne dove visse da eremita in una grotta scavata da lui stesso. Rientrò alla sede vescovile catanese quanto si ebbero a mitigare le persecuzioni iconoclaste.

Durante la sua gestione della diocesi, Leone entrò in lotta con l’apostata e stregone Eliodoro, la cui magia e la cui turbolenza furono causa di innumerevoli problemi in città. I soldati di Costantinopoli lo imprigionarono ma egli riuscì a fuggire “magicamente” dal carcere. Tuttora il suo ricordo vive attraverso il simbolo della città, “u liotru”, che deriverebbe dal nome del famoso mago.

Si narra che il Vescovo Leone catturò lo stregone e lo gettò in una fornace tenendovelo col braccio coperto dal suo orarium (la stola) finchè quel corpo diabolico non venne ridotto in cenere; Egli, però, ne uscì indenne.

Leone Vescovo, detto anche il Taumaturgo, è un santo della chiesa cattolica, ma il suo culto è anche diffuso nella chiesa orientale.

Fonti. 

Cathopedia – Giuseppe Tropea ed altre da internet


L’icona bizantina di San Leone, Vescovo di Catania, è conservata nel monastero di rito ortodosso sul Monte Athos, in Grecia. La relativa copia, sopra riprodotta, è stata donata dal Centro Studi “Castrum Longum”, con il contributo di alcuni cittadini, all’ex castello di Mylè , in contrada Liazzo, con l’intento che venisse collocata nella annessa chiesetta, allora in via di ristrutturazione.

“A CHIANNATA”, UN MIRACOLO CHE SI RIPETE ANNUALMENTE


Le immagini sono di S.Migliore

C’è un avvenimento, che si ripete ogni anno ed ogni qualvolta il Patrono S.Leone viene portato in processione sulla pesantissima "Vara": è il Suo rientro, in Chiesa, attraverso la suggestiva scalinata, ascesa quasi di corsa e con una sincronia incredibile, da parte dei "portatori", che fa accapponare la pelle. Infatti, se qualcuno dei "portatori" la "Vara" del Santo inciampasse in uno dei gradini della scalinata, potrebbe succedere una carneficina perché coinvolgerebbe tutti nella caduta schiacciandoli con il suo peso. Ma, simile, deprecabile evento non è mai successo nei secoli: e questo – dicono i longesi - è un miracolo che annualmente S. Leone compie. E’ indubbiamente uno spettacolo di grande impatto emotivo, la salita rapida della scalinata, che, nella luce notturna, coinvolge, affascina e fa trepidare anche colui il quale vi assiste, con distacco, da semplice spettatore. Pur di essere presenti in quella particolare giornata di agosto, parecchi oriundi tornano a Longi per ripartire magari in nottata, dopo il rientro del S.S. Crocifisso e di S. Leone nella loro Chiesa. 

Si legge, in alcuni scritti, che la bellissima “Vara” è stata donata alla comunità dal Barone di Longi, della Casata dei Napoli, nell’anno 1700. Ed ancora, si tramanda che, quando, il 15 marzo 1851, una grossa ed inarrestabile frana si abbattè nella contrada S. Maria, i longesi, in processione, condussero il Santo Protettore a cospetto della valanga che stava invadendo il paese e che, dopo avere appoggiato il bastone pastorale innanzi al movimento franoso, esso si arrestò. L’evento è stato raffigurato in un murale nella cappella del Santo presso la Chiesa Madre. L’affresco è stato realizzato da Franco Brancatelli ed è stato pubblicato nella pagina relativa alla frana.


     

             IL CROCIFISSO E LA SUA CROCE

                                                                                                          (Ph. da internet.) Anno 1902. La Croce è senza le “ali”, ed è quella originale che è stata bruciata; venne sostituita con l’attuale (foto appresso) ad opera dell’ebanista  Francesco Di Nardo di Longi che vi ha aggiunto le ali che si aprono e chiudono per attraversare il portone della chiesa Madre. Il Crocefisso, invece, è quello originale, ascrivibile, secondo alcuni studiosi, allo scultore palermitano del XIX secolo Vincenzo Genovese, secondo altri invece a Fra Umile da Petralia, ed è stato donato dalla Baronessa di Longi Rosa D’Amico Di Napoli , nata  nel 1813 e deceduta  nel 1898.

La cappella , nella quale è collocata la statua, è stata donata, nel 1858, dalla N.D. Mariannina Marchiolo in Ciminata, moglie  del medico Antonino, madre del noto docente universitario-chirurgo , e del giudice.

La “vara” di Gesù Crocifisso esce dalla Chiesa Madre per essere portata in processione. Una preziosa foto ( da internet) del settembre 1959, mese in cui si festeggiava il Crocifisso a Longi. La festività venne spostata ad agosto per evitare la pioggia settembrina, che spesso era una costante.


LA CONFRATERNITA DEL SS. SACRAMENTO

Le Confraternite religiose nacquero nel Medioevo , ma la Confraternita del SS.  Sacramento, in Longi, nata il 20  maggio 1820, vide l’approvazione dei suoi capitoli, dal Consiglio generale degli Ospizi della valle di Messina, in data 18 agosto 1828; però venne ufficialmente sancita, in data 2 maggio 1830, attraverso il Decreto reale a firma del Re delle Due Sicilie, Francesco I. Il Decreto è introvabile nella stesura originale, il cui testo , però, è stato copiato su pagine con i caratteri della macchina da scrivere, che, ovviamente, nel 1830, ancora non era stata inventata. Olivetti, in Italia, incominciò a costruirla nel 1911. 

 Che fine ha fatto il manoscritto originale? Sulla copia dattilografata viene riportata  la firma dal Sindaco Francesco Zingales, in carica nel 1876, il quale rese verosimilmente la  conformità al manoscritto originale su un documento copiato a mano.  

Tra le prerogative della Confraternita, rammentiamo quella della distribuzione delle “lunedde” , “sorta di panini avvolti a spirale con al centro l’impronta di una mano: è la mano dell’Addolorata che, protettrice e benedicente, entra in ogni casa”. 


Il Giovedì Santo, dopo il rito liturgico della lavanda dei piedi, i confrati rappresentano, nella cappella dell’Addolorata, l’ultima cena e l’istituzione dell’Eucarestia, spezzando e mangiando dei pani dalle forme particolari (lunedde) e bevendo del vino. 



 

“a lunedda”



Ph da internet. Anni 1950. La “Cerca”, processione del Giovedì santo nella stazione  presso il Belvedere Serro. I Fratelli, colpendosi il petto e le spalle con un flagello, pregano dicendo: “Oggi ‘n fivura, domani  ‘n sepultura, biatu cu pi l’anima si procura”. Il “Cristo” della foto è Antonino Galati, nonno dell'avv. Franca Galati.


Dalla interessantissima tesi di Laurea in Scienze della Comunicazione di

Carmen Castano, che ha trattato l'argomento

Il MISERERE E LA STORIA DELLA PASSIONE

“La Settimana Santa a Longi: paese dei Nebrodi”

ho estrapolato alcuni passaggi , che rivestono un interesse sul piano storico, relativamente alle Confraternite ed alle tradizioni del periodo pasquale.


“ Napoli 2 Maggio 1830

FRANCESCO I

Per la grazia di Dio Re del Regno delle Due Sicilie di Gerusalemme

etc.

Il Duca di Parma, Piacenza, Castro etc. etc.

Il Gran Principe ereditario di Toscana etc. etc.

Visto il rapporto del nostro Luogotenente Generale dei Reali Domini

oltre il Faro.

Sulla proposizione del nostro Ministro Segretario di Stato degli Affari

Interni.

Abbiamo risolto di decretare e decretiamo quanto segue[…]

Si apre cosi datato Maggio 1830 e firmato dal Re Francesco I, lo

storico statuto che decreta la nascita della confraternita del SS Sacramento di Longi.

Lo statuto presenta 24 articoli suddivisi in 6 capitoli. Secondo il primo capitolo la” confratria”deve essere governata da:

-Un superiore rettore (presidente)

-Due congiunti assistenti

-Due consultori (figure ormai in disuso)

-Un segretario contabile. Vi saranno inoltre un cappellano, un sacrestano, un nunzio, ed altri impiegati subalterni a seconda dei bisogni.

….......

Simboli e strumenti.

Il tamburo, non è ormai più attivo da tempo. Fatto di pelle di pecora, una pelle oggi introvabile, esso veniva suonato da un banditore per150 lire a notte, in tutta la settimana che precedeva la Settimana Santa,per segnalare l’approssimarsi del ciclo festivo della passione.

A ruvetta,  fatta di rovi intrecciati, è la corona che i confrati usano nei funerali, ma soprattutto nelle funzioni della Settimana Santa, a partire dall’adorazione eucaristica la notte del Giovedì Santo, continuando con il cerimoniale de a cerca, all’alba del Venerdì e per finire nell’azione liturgica della passione del Signore, il pomeriggio del Venerdì’ Santo.

La croce datata 1887 è la croce che il confrate Cristo porterà sulle spalle nel rituale del Giovedì Santo. Questa croce ha un notevole valore storico: la data  ci conferma l’antichissima origine di questi riti e della confraternita stessa.

Le catene (discipline) dette giuseppina, (anelli metallici agganciati ad un anello principale), vengono usate nella funzione de a cerca all’alba del Venerdì Santo dai confrati che si percuoteranno il corpo in modo evidentemente non cruento, producendo solo un innocuo clamore di ferri.

La Settimana Santa comprende un rituale che da tempoimmemorabile, continua a ripetersi ogni anno, con le stesse pratiche, gli stessi gesti e gli stessi intenti. …...

L’intero ciclo festivo, che a Longi, si apre, il venerdì antecedente la Domenica delle Palme, con la festa di Maria SS. Addolorata, vienecurato dalla confraternita del SS. Sacramento, che, porta avanti un cerimoniale, le cui origini si perdono nella notte dei tempi, e che spesso entra in contrasto con le celebrazioni previste dalla liturgia ufficiale.

Questi uomini, attori inconsapevoli sul palcoscenico della storia, rendono testimonianza di un patrimonio culturale dal valore inestimabile, protagonisti assoluti di un tempo solenne, che rimarrà

scandito per sempre nella memoria dei posteri. Un tesoro che questi  confrati custodiscono gelosamente dentro di loro, un sapere che mantiene ancora viva la memoria degli antichi padri. La confraternita conserva ancora intatti i legami con una devozione popolare e antica, che esprime, nel rivivere la drammatica esperienza del Cristo una serie di temi mitico - rituali, che rimandano alla quotidiana vicenda del vivere umano.

L’attività dei confrati inizia il mercoledì della settimana che precede la Domenica delle Palme (o di Passione), con la preparazione delle lunedde, panini votivi, preparati in onore della Madonna, che saranno benedetti nell’abitazione del priore e successivamente distribuiti in tutte le case il giorno precedente la ricorrenza dell’Addolorata.

La processione della Domenica delle Palme, che rievoca l’ingresso di Cristo a Gerusalemme, vede oggi protagonisti, a differenza di ieri, giovanissimi apostoli, tra cui Giuda, riconoscibile dalla sua cappa color giallo oro, in passato recava anche una barba posticcia realizzata con pelle di capra, e una borsa a tracolla detta bugiacca. ….......Giuda il traditore, che la tradizione vuole di carattere aggressivo e rissoso, un tempo, non stava in fila con gli altri apostoli e, lungo tutto il cammino processionale, veniva inseguito e schernito da gruppi di ragazzi che lo colpivano con rami d’ulivo gridandogli: «Giuda pentiti che Dio ti perdona»!

Al termine della processione sul sagrato della chiesa madre ha luogo un rituale simbolico: Giuda precedendo tutti gli altri apostoli e lo stesso Cristo, pone sul pavimento un largo fazzoletto e invita gli apostoli a chinarsi e a baciarlo. Quando giunge Cristo e sta per chinarsi, Giuda tira via il fazzoletto, prende sottobraccio Cristo e lo accompagna fino all’altare. «Secondo uno dei confrati più anziani il fazzoletto tirato via, simboleggia la caduta del Cristo nel fosso, cioè il tradimento di Giuda».


A PASQUA

I cosiddetti altarini , semplici tavoli, sgabelli, sedie ricoperti da un lenzuolo o tovaglia, con sopra appoggiati i simboli della passione o una stazione della via crucis, addobbati con i lavureddi, chiamati cosi nel gergo locale, piantine di cereali fatte germogliare al buio, che vengono fatti risalire ai mitici giardini di Adone (il dio greco morto e poi risorto).

All’approssimarsi della Pasqua, le donne siciliane seminano frumento, lenticchie e miglio dentro vassoi che conservano al buio annaffiandoli ogni due giorni. Ben presto spuntano le piantine, che vengono legate con nastri rossi. I vassoi sono poi collocati sui sepolcri, allestiti nelle chiese greche e cattoliche il Venerdì Santo; proprio come i giardini di Adone erano collocati sulla tomba del dio defunto Adone, non a caso è il mitico dio bello e possente che feconda con il suo seme la dea Terra».

Vale la pena a proposito dei sepolcri ricordare che questa abitudine di ornare gli altari con piatti fioriti, si riallaccia proprio alle antiche feste Adonìe dell’antica Roma pagana, durante le quali questi orticelli simbolici, venivano portati in processione: con essi si voleva rappresentare la tristezza di Venere per la morte di Adone e quindi la successiva contentezza ed allegrezza per il ritorno di Adone, uscito dalle mani di Proserpina e ritornato a Venere.

La Pasqua risente della profonda crisi in cui versano in genere i riti e le manifestazioni tradizionali del sacro. Un tempo, «Nelle case vigeva una forma di sacerdozio familiare, dove i figli salutavano i genitori con tanto di Vossia benedica, i genitori rispondevano santu e riccu (che tu sia santo e ricco).


U scontru

A Longi dominano la scena solo le figure di Maria e del Cristo Risorto, che per tre volte  si incontreranno nel punto più centrale della piazza, e, dopo i tentativi andati a vuoto le prime due volte, la terza volta la Madre riconosce il figlio e la tensione, che era arrivata a culmine in quel momento, sfocia in un applauso liberatorio. 

Il privilegio di far cadere il manto nero è sempre toccato a Longi, a memoria d’ uomo, alla famiglia Ciminata. L’operatore, situato a destra della statua, è esecutore di una sequenza cerimoniale importante ai fini della festa: deve tirare via il manto al momento giusto e con celerità, ma nè un minuto prima nè uno dopo: sulla corretta riuscita del cerimoniale della caduta del manto si parlerà infatti per molti dei giorni seguenti.


Era un tempo pratica molto diffusa, nei giorni precedenti quelli della Settimana Santa, preparare in casa dei dolci tipici del periodo pasquale le cosiddette cuddure, biscotti fatti con acqua, lievito, farina e grasso animale, aventi la forma di ciambella, con sopra delle uova sode, da uno a salire, a seconda delle dimensioni della cuddura.



Una consorella: la pia associazione del Sacro Cuore di Gesù

La pia associazione del Sacro Cuore di Gesù, si è costituita in Longi nel 1906.I soci fondatori ai tempi erano 38 tra cui il sign. Erba Antonino, che nel 1937 fece edificare in via Roma  un’edicola votiva dedicata al Sacratissimo Cuore di Gesù. Il 3 Aprile 1910, il culto al Sacro Cuore si concretizza in una statua in gesso, ordinata allo scultore Larizza di Palermo al costo di lire 180, dei quali 50 dati in acconto. Nello stesso anno nella chiesa di Maria SS. Annunziata, sede della pia associazione, viene realizzato anche un altare sul quale veniva collocato il tanto atteso simulacro. Per il trasporto dalla Stazione ferroviaria di Zappulla, situata nel Comune di Rocca di Caprileone (a

18 km da Longi), la statua viene trasportata a piedi (non esisteva ancora la strada carrabile) da sei uomini. 

Nel 1912 viene celebrata la prima festa in onore del Sacratissimo Cuore di Gesù, Il primo presidente dell’associazione fu l’insegnante Leone Carcione ed il primo cassiere il sign. Lombardo Antonino, l’Arciprete della parrocchia di Longi era in quell’anno il sac. Zingales Ignazio. 

Anche questa associazione di antica fondazione, nel tempo, come la confraternita del SS. Sacramento, ha perso molte delle sue peculiarità e delle sue origini. 














La storia dell’ufficio postale 

 

Le poste, a Longi, sono sorte intorno agli anni ’20 grazie all’interessamento del Sindaco, il farmacista Angelo Zingales. Allora, il servizio veniva dato in appalto. Ne fu primo concessionario il Cav.Uff. Antonino Zingales, che installò l’ufficio presso un locale del Comune, accanto al “chianetto”. Quando il servizio venne trasferito in via Messina, l’edificio fu destinato a scuola elementare. Ma, in seguito, venne abbattuto per fare posto all’odierna scalinata di destra guardando la chiesa madre.  

In via Messina, le poste rimasero per parecchi decenni, finché, intorno all’anno 1953, venne abolita la concessione ai privati ed il servizio passò alla gestione diretta da parte dello Stato. Il quale spostò l’ufficio in un appartamento a metà strada del Corso Umberto I. 

           Quando i servizi erano quelli indispensabili – anni ’30-‘50 – le persone che vi lavoravano erano tre impiegati ed un portalettere; dopo, malgrado l’incremento di altri servizi, lo Stato ridusse il personale a due soli impiegati.

          Se il telegrafo non funzionava partiva, a piedi da Capo d’Orlando, un “guardafili” che, attraverso le montagne, ispezionava la linea ed, individuato il guasto, si arrampicava sul palo per ripristinare il collegamento. Era un lavoro molto duro e faticoso. Il telegrafo Morse venne sostituito, nel tempo, dalla telescrivente e, successivamente, dal telefono. Alcuni impiegati dell’epoca ricevevano i telegrammi “ad orecchio” ascoltando attentamente il picchiettio dei punti e linee dell’alfabeto Morse. Durante il referendum istituzionale del 1946 e le prime elezioni politiche, il telegrafo rimaneva aperto notte e giorno perché, dicevano, si temeva… un colpo di stato.

            Prima  dell’arrivo - dopo gli anni ’30-  della corriera di proprietà della ditta D’Urso, la posta arrivava al paese tramite un procaccia, che si recava, a dorso di asino, presso la stazione ferroviaria di Zappulla, per prelevare il sacco della corrispondenza e consegnarlo all’Ufficiale Postale di Longi affinchè provvedesse, tramite il portalettere, alla distribuzione nel paese e nelle contrade, allora molto abitate sia in estate che in inverno. 

 

 

 Il Monumento agli Emigranti Longesi realizzato dal 

“Centro Studi Castrum Longum”

                                                   Con il contributo del Comune di Longi e dei seguenti concittadini:

Dagli USA (1996): Caterina Di Nardo - Rosario Restivo – Francesco  Calafiura; da Cleveland Ohio (USA):Bringheli Giuseppe- Cipriano Katherina Randazzo – Castellano Paul – Fazio Antonino e Concettina –Fazio Salvatore –Dinardo Antony – Lazara Giuseppina –Larosa Maria Carcione –Licht Edward –Licht Kety –Sirna Lioe Beverlly – Sapone Pina – Menta Carolina Rosalia Lopresti – Roger Maria Priolisi – Russo Carlo – Zingales Leo – Zingales Nenzy e Gisena – Zingales Maria; dall’Italia: Leone Dino Zingales (Roma) – Graziella e Mario Panebianco (Palermo) – Sebastiano Panebianco (Roma) – Graziella Pidalà (Roma) – Lina Maria Calafiura a nome del padre Leone (Roma) - Antonino Brancatelli (Longi)- ed i componenti il C.d.A del Centro Studi: Gaetano Zingales (Presidente), Lina Pavone, Salvatore Migliore, Basilio Frusteri, Leone e Francesco Pidalà, Mariateresa Brancatelli, Angelo Pidalà (Membri).

La posa in opera è stata eseguita dall’impresa Leone Pidalà.

TRADIZIONI E CANTI POPOLARI


I canti popolari, le festività locali, le tradizioni di una comunità, gli usi, i costumi, le abitudini nell’agire collettivo, che si tramandano di generazione in generazione, fanno parte della cultura di una popolazione, 

I canti in vernacolo, tipici ma originali, che fanno il genere prettamente popolare, provengono da stati d’animo diversi, che vanno dalla solitudine alla fatica, dal lavoro alla sofferenza, ai sentimenti di religiosità. Non mi soffermo, qui, a richiamare la derivazione del canto popolare siciliano dalla presenza nell’isola di etnie greche o arabe, ma mi preme sottolineare che esso nasce da una sofferenza o condizione individuale che si trasformano in un comune sentire. La mente che partorisce le frasi è una sola, che vengono però recepite dalla comunità per farne un’espressione culturale di quel popolo quando esso vive particolari momenti di varia natura. 

Non è dato conoscere il periodo in cui nel nostro paese  questi canti ebbero inizio. Ho cercato di ricostruire qualche evento che ha dato origine ad alcune manifestazioni popolari maggiormente cercando, come un Diogene con il lanternino, l’”uomo” adatto. Cioè concittadini che hanno vissuto in prima persona la passione per il canto polare longese. Ne sono venute fuori delle conoscenze che suddividerò in due argomenti: la chianota e la ”nuvena”.

Marco Bartolo, in una sua nota, ha ben descritto la scaturigine della “chianota luncitana”, che si diversifica da quella sarda, monocorde, in quanto il controcanto longese ha una scala di toni diversificati e gradevoli; la voce solista canta una strofa o un mottetto, da cui il coro riprende l’ultima vocale per ampliarla in una sorta di nenia corale prolungata che si sottopone al canto melodico principale.

Dal dr. Guido Lazzara apprendo che, a Longi, durante la seconda guerra mondiale ( non so se anche durante la prima), le classi dei giovani chiamati alle armi salutavano il paese in piazza cantando una chianota dopo avere assistito alla Messa ed avere ricevuto la benedizione sacerdotale. Partivano con il magone in gola sperando di tornare a cantare ancora il loro canto polare. 

Rammento le chianote del dopoguerra, cantate innanzi alle botteghe di vino o al Serro e quelle notturne lungo le strade del paese: era bello sentire, nel silenzio della notte, il coro provenire da lontano per poi ascoltarlo da vicino, quando passava sotto casa.

Nino Lazzara (u sartu), di anni 87, dagli Stati Uniti d’America mi racconta che alcuni canti venivano da fuori paese ma altri furono scritti da longesi e cita Peppino Calafiura e Lio Frusteri. Nino mi rammenta anche le serenate, alcune delle quali così recitavano: “quannu nascisti tu nasciu na rosa, l’oduri si sintia di la me casa”; oppure, per dispetto: “quannu nascisti tu facci di ‘npigna, nta la to casa si pigghiaru a pugna”. 

Altro mottetto. Solista: “su suli si nni va dumani torna, si mi nni vaiu jò non tornu cchiù” coro: “uuuuu…”.

 “A Nuvena”

Riporto  quanto mi dice Nino Lazzara: “ Nell’anno che finì  la 2° guerra mondiale i cuori della gente cominciarono a sorridere; quei pochi giovani che eravamo rimasti in paese, abbiamo cominciato a strimpellare chitarre e mandolini girando il paese per svegliare la gente affinchè andasse alla novena di Natale. Cantavamo versi arrivati da non so da dove e da non so da quale tradizione provenivano; poi incominciammo a scriverne anche noi ed ancora oggi sono cantati.

Qualche anno dopo, sono rientrati i primi prigionieri di guerra, fra i quali don Cicciu u Natali, padre del defunto preside Nino Pidalà. Don Cicciu conosceva la musica e ci aiutò a formare un gruppo canoro che cantava accompagnandosi con le note dell’organo, collocato in alto sul muro sopra il portone d’ingresso presso la chiesa dell’Annunziata, durante la messa celebrata dal parroco, padre Don Lio Lazzara. Negli ’49-’50,  realizzammo un Angelo, alto qualche metro e mezzo, che aveva tra le mani il “velo omerale” e, tra i canti, scendeva dall’organo, manovrato con alcune funi, sino a posarsi innanzi all’altare maggiore; laddove il sacrestano Calogero Bartolo prendeva il “velo” e lo deponeva  sulle spalle del parroco. Padre Don Lio, indi, impartiva la benedizione eucaristica con l’Ostensorio tra le note dell’organo suonato da Don Cicciu e la commozione dei fedeli. Questa coreografica funzione veniva ripetuta ogni  mattina, durante la novena di Natale. 

Si vociferava in paese – continua Nino Lazzara -  che sarebbe arrivata la corrente elettrica – sin’allora lumi a petrolio e candele di cera – per cui pensavamo di raccogliere i soldi occorrenti per realizzare un impianto elettrico nella chiesa. Inventammo, quindi, una canzonetta : “Vulemu li dinari ca i spisi su troppu amari; allura ni cunfunnemu e l’anciuleddu no scinnemu”. 

Questi ed altri versi scrissero allora quei giovanotti della “Nuvena”. 

In una sua memoria, Antonio Lazzara, Presidente dell’Associazione “A Chianota”, mi comunica, tra l’altro: “La Novena incomincia  la notte del 15 dicembre e termina la notte del 23; il giro ha inizio a mezzanotte e termina alle ore 07,00. I cantori, inoltre, allietano, con i canti tipici, le messe del mattino e del pomeriggio. Il 24 dicembre, inoltre, si fa il giro dei “fuochi” accesi nei vari rioni del paese assaporando i prodotti tipici disposti dai compaesani su un banchetto imbandito e bevendo vino”. 

Antonio prosegue dicendo di avere arrangiato, in questi anni, alcune canzoni che prima non venivano suonate e che i testi cantati sono sia in italiano che in siciliano.  Dei quali cita “Diu Ranni”, scritta negli anni ‘90 ed arrangiata dal Dr. Pippo Zingales,  nonché la suggestiva canzuna da Nuvena “U vinticincu” . I Cantori, in numero considerevole, vanno dai ragazzi di 14 anni ai giovani di 28 anni. Pur rispettando la tradizione, quest’anno, - Natale 2015, ( N.d.A) -  Antonio Lazzara ha organizzato il primo raduno di Novene dei Nebrodi, a cui hanno partecipato: i cantori della Nuvena di Lonci degli anni ’80-’90, quelli degli anni 2000 e del 2015, nonché gli juniores luncitani. Hanno arricchito il meeting i componenti della Novena frazzanese e della Novena galatese.

CANZUNI DA NUVENA


E di l’Urienti spunta ‘na stidda stralucenti,

signali pi la genti chi nasciu lu ‘nniputenti;


E Natali s’annunziò e Natali s’annunziò


lu ventu chi sciusciava la nivi chi cadeva,

‘na rutta si truvava lu Bamminu chi chianceva.


E Natali s’annunziò e Natali s’annunziò


Narraunu palazzi lu Re di la natura,

nasciu stranurtatu ‘ntra na nica manciatura:


E Natali s’annunziò e Natali s’annunziò


parenti i donna Rosa circavanu riposu,

S’affaccia donna Pia nun c’è postu pi Maria.


E Natali s’annunziò e Natali s’annunziò


La genti ci jttava lu bannu furiusu

‘Na chiazza si truvava San Giuseppi gluriusu;


E Natali s’annunziò e Natali s’annunziò


Lu vinticincu sona la mezzanotte santa

Cantamu senza scantu chi nasciu lu megghiu Santu.


E Natali s’annunziò e Natali s’annunziò

Finiu la novena finiu lu gran duluri,

Cantamuci signuri ca ci resiru grandi onuri.


E Natali s’annunziò e Natali s’annunziò.



I corali canti di Natale sono nati da profondi sentimenti personali e di socievolezza e rinforzano i valori religiosi e popolari. Colori e sapori del Natale e una tradizione unica e particolare risvegliano antiche memorie da rivivere e scoprire! Come in un tempo ormai passato, ogni notte e per nove notti, i ragazzi della “Nuvena” animano le vie del piccolo borgo con suoni e canti natalizi.


 “Pi Natali i picciotti da Nuvena nescunu tutti i notti, pi novi notti, a cantari i ninna nanni pu Bambineddu: ricivennu spitalità 'nte casi di paisani chi restunu vigghianti pi priparari li tavulati cu li rametti (durci tipicu luncitanu), vinu, cumpanaticu, sasizza sicca di purceddu niuru e tanti autri prilibbatizzi tipici di tutta a zona carunisi (talianu: nebroidea). “ (Anonimo)



All'uscita della messa di mezzanotte il prete porta in processione il Bambino Gesù nel grande presepe posto ai piedi della scalinata della Chiesa Matrice, laddove è atteso dal Sindaco del paese, mentre i giovani del gruppo della novena intonano i canti tradizionali del Natale. 

Accanto al presepe, come da antica tradizione, grossi ceppi di legna (zucchi) ardono e rimangono accesi sino a Capo d’Anno.

h: da internet . Momenti della “Nuvena notturna”  in giro per il paese

2015: Il presepe natalizio in Piazza Umberto I



Spigolando tra... la gente... e tra le carte.

“ u Sdirupu” , “u Buriu”,  “a Funtana”

In un antico atto di compravendita, stilato nel 1822 con una scrittura di difficile interpretazione, durante il Regno di Ferdinando I delle due Sicilie, i nomi ed i cognomi dei comparenti sono preceduti dal “Don" e seguiti da un appellativo: aromatario, guastievo della Piazza, della Torre, della Costagrande, del Salvatore, della Fontana. E’ evidente che costoro, essendo tra i pochi che allora sapevano leggere e scrivere, rappresentavano i vari rioni, in cui era suddivisa Longi. Ma, guastievo cosa vorrà mai significare?

A proposito di rioni, mi vengono alla mente quelli di: “u sdirupu” e "u buriu” o “vignalazzu”. Mentre il primo, dal punto di vista urbanistico, si può dire che sia rimasto immodificato avendo solo ristrutturato o rifatte le vecchie casette, il secondo è assolutamente cambiato.Infatti, laddove oggi sorge il Monumento ai Caduti, sotto di esso, c’era la “Fontana”, caratteristico lavatoio pubblico, a forma ottagonale, diviso in settori e con delle vasche tra loro indipendenti, di modo che le donne, che andavano a lavare i panni di casa, potessero utilizzare l'acqua pulita, che si immetteva nella loro vasca. II posto, adesso chiuso esternamente, è utilizzato come magazzino da parte del Comune. E‘ un vero peccato che il lavatoio sia stato demolito perchè, oggi, avrebbe potuto far parte di quei reperti antichi, testimoni di un passato, da mostrare ai turisti ed ai visitatori del paese. Prospiciente la Fontana e la piazza degli Eroi, il lato valle, scosceso, era ricoperto di alberi di profumata acacia e, verso il torrente, anche di fitti “ficarazzi", delizia dei ragazzini per i loro giochi a rimpiattino 


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Anni ’60. Sotto il Monumento, il Lavatoio comunale; Scagliò era libero da costruzioni.





“Passu ‘a Zita”

La zona del “Passu 'a Zita" è conosciuta sia per la bellezza del panorama, sia per il “casino del Duca”, che, nelle intenzioni del nobile d'Ossada, doveva essere adibito ad ospedale per la popolazione di Longi e Frazzanò, sia ancora per il passo omonimo, orrido e selvaggio nellostesso tempo, ma di una bellezza unica. Forse non tutti sanno, ma in particolar modo i giovani, che quella denominazione deriva da un fatto tragico, accaduto nei tempi lontani. Ci sono un paio di versioni: quale sia quella vera, non so. 

Desidero rappresentare anch’io una mia ipotesi sulla tragedia in argomento. 

Ai tempi degli dei e delle loro corti, nel laghetto, sotto la rupe della gola profonda del fiume Fitalia, una ninfa, molto bella, venne a bagnarsi dopo che ebbe a fuggire dalla concupiscenza di un Satiro, brutto e cattivo, il quale, dopo averla vista nuda mentre faceva il bagno in uno specchio d'acqua,  se ne invaghì e la voleva possedere a tutti i costi. Essa, che aveva nome Fitalia, presa da forte paura, fuggì. Con tutti i suoi gioielli ed il seguito approdò alle acque del fiume, che da lei prese poi il suo nome, e sotto la grande roccia innalzò la sua reggia, nascondendo il suo tesoro. A custodia del quale mise un moro gigantesco, con gli occhi bianchi e le labbra rosse  nel nero del volto. 

     La leggenda dice di un incanto fatto in quel luogo, di un miagolio  o di un ruggito – a secondo la prossimità dei visitatori – quando questi sostano in quel sito: sarebbe il moro, messo a sentinella dei preziosi e del tesoro aureo. I  quali, ovviamente, non sono stati mai trovati.

Alcuni millenni dopo, un tragico evento diede il toponimo a quel sito: “Passo Zita.”

Come prima descritto, all’immaginario popolare è stato tramandato che una giovane donna, in procinto di sposarsi, precipitò in quel burrone profondo dall’alto del promontorio roccioso, orrido e selvaggio ma ad un tempo di una unica bellezza paesaggistica. 

Questo il mio immaginario racconto. Il figlio del feudatario locale conduceva la sua fidanzata (zita in siciliano) – il matrimonio ancora non era stato consumato – presso il castello paterno per farla conoscere ai suoi genitori. Il patrizio cavalcava dietro la carrozza su cui viaggiava la donna. La strada era molto stretta ed impraticabile. Quando il corteo apparve dal promontorio, in vista del paese, su ordine del barone padre, vennero sparati, in segno di saluto, alcuni colpi di obice. Il fragore prodotto dal cannone fece spaventare ed imbizzarrire i cavalli; il fidanzato, che era un abile cavallerizzo, riuscì a domare il proprio destriero, mentre il cavallo della carrozza, preso dal panico, non obbedì ai comandi ed al controllo del cocchiere e precipitò, assieme alla carrozza ed alla nobildonna, nel profondo burrone del Fitalia. Il corpo della poveretta fu raccolto a pezzi mentre inspiegabilmente intatto era il suo bel volto.

Tenterò, alla luce delle notizie storiche relative alla presenza dei feudatari alla falde delle Rocche del Crasto, di immaginare una certa dinamica. 

Collocando ipoteticamente l’evento nel XVI secolo, vediamo presenti nel suindicato territorio le famiglie nobili dei Lanza, dei Filangeri e dei Branciforte, feudatari rispettivamente di Longi, San Marco d’Alunzio e Mirto. I Signori di Longi e S. Marco erano già imparentati attraverso il matrimonio tra un Lanza ed una Filangeri, dai quali, peraltro, nacque  Fra Girolamo Lanza, fondatore del Romitorio di Monte Pellegrino, la cui salma è sepolta nella Chiesa Madre di S. Marco. Sembra che anche i Branciforte fossero legati con i Lanza attraverso il matrimonio tra loro congiunti. Le frequentazioni, quindi, tra queste famiglie nobili erano frequenti; così come i matrimoni avvenivano tra gente di “sangue blù”. Impossibile un’unione tra un nobile ed una popolana, e viceversa. Ed i matrimoni, per lo più, erano portati o imposti. Ci fu una storia d’amore tra i protagonisti di cui stiamo narrando? Non lo sappiamo. Sappiamo, però, che a determinare la tragedia furono i colpi di cannone sparati dal maniero dei Lanza, in Longi.

I promessi sposi– una Filangeri o una Branciforte ed un Lanza- s’incamminarono verso Longi attraverso una stretta trazzera che da Mirto, proveniente da Contrada Cupani (l’odierna Rocca di Caprileone), perveniva al paese dello sposo. Giunti al promontorio, sopra richiamato, avvenne il tragico infortunio. La donna era ancora una “zita”, presumibilmente dall’arabo “vergine”, in quanto il matrimonio ancora non era stato consumato – si presume, per i tempi di cui stiamo narrando – per cui il popolo ritenne giusto dare al quel dirupo il toponimo di Passo Zita”. Ho indicato un probabile cognome per quei due tragici attori; purtroppo non possiamo descriverne il volto, ma diamo loro anche un nome per rendere più accurato lo scenario della funesta rappresentazione: Isabella e Manfredi.

Questa potrebbe essere una tra le tante versioni descritte da altri scrittori e cantori del luogo. Un tassello in più su cui  dissertare. “ Così è se vi pare” (Pirandello). 

Al di là di una non chiara verità, o almeno non certa, la vicenda fa parte della cultura popolare, spesso ingigantita, indorata, romanticizzata; pur tuttavia, rientra in uno di quegli atti del destino che incombe su ciascuno di noi mortali.

I miti, le leggende, le belle storie d’amore arricchiscono l’immaginario collettivo soprattutto quando essi si riferiscono al proprio paese natio o al suo territorio.


Ma la fantasia popolare, genuina interprete dei desideri più intimi e solidale con gli umili e con coloro che soffrono per causa altrui, ha sempre fatto giustizia nelle situazioni dolorose ed ingiuste. Se sono veritiere, quindi, tutte le ipotesi, altrettanto bene ha fatto il popolo a chiamare “Passu ‘a Zita" quel luogo di tragedia, che si è consumata nello spazio di un orrido salto della nuda roccia nelle placide acque del Fitalia. Suggestivo intreccio di bellezze naturali, che fanno da selvaggio scenario e contrastante coreografia ad un evento doloroso, che vede come protagonista la donna, colta in un passaggio della sua vita, forse quello più bello perchè pieno di sogni e di intense emozioni.

Chi muove le cose del mondo ha individuato nel dramma a tinte forti la scaturigine del nome da dare a quel maestoso e sublime terrazzo, apice di una bizzarra conchiglia dischiusa, che mostra i suoi tesori scolpiti dalla natura; il sostantivo prescelto è una tra le più belle e significative parole siciliane: “Zita", che si sposa con il paesaggio. Paesaggio, che suscita una mescolanza di sensazioni e di visioni, che vanno dal solenne all'ascetico, dal dolce al selvaggio, dalla quiete all’azione, dal reale ai voli pindarici.


Un particolare della “Stretta”



La diruta chiesa di S. Salvatore

 Mi giungono voci che si avrebbe intenzione di coprire i ruderi della vecchia ex chiesa dandole un tetto. Un obbrobrio ed un danno al patrimonio “archeologico” del paese. L’ex chiesa di S. Salvatore deve rimanere un luogo per spettacoli estivi, per intrattenimenti culturali. Anzi, sarebbe bene che l’attuale proprietaria (la Curia) donasse l’immobile al Comune per un idoneo restauro ed una maggiore agibilità, prima che lo Stato faccia pagare l’ICI anche alla Chiesa!


 Interno della ex chiesa                         L’artistica facciata del S. Salvatore 


Su questo problema ebbi ad interessare gli enti pubblici preposti alla tutela del patrimonio dei beni culturali, ed altri, con questa missiva: 


“Gaetano Zingales

Cavaliere O.M.R.I._____________________________________________________


AL Prof. Dott. SEBASTIANO TUSA

ASSESSORE REGIONALE DEI BENI CULTURALI E DELL’IDENTITA’ SICILIANA


AL SOPRINTENDENTE DEI BB.CC.AA.

DI MESSINA


A S.E. MONS. GUGLIELMO GIOMBANCO

Vescovo della Diocesi di Patti


AL PARROCO DI LONGI





Oggetto: Lavori presso ex chiesa di S.Salvatore in Longi


Mi giunge notizia che esisterebbe un progetto esecutivo, già finanziato, che dovrebbe consentire lavori di ristrutturazione e di copertura del tetto presso l’ex chiesa di S.Salvatore, in Longi. E' vera la voce che corre oppure è una bufala dei soliti buontemponi?

Per coloro che non fossero a conoscenza degli eventi abbattutisi su questa struttura, faccio quì una breve descrizione. Essa fu investita dalla frana , il 15 marzo 1851, nella navata di destra mentre l’abside e la navata di sinistra non furono travolte. La chiesa era in costruzione e, per motivi che non si sanno, venne abbandonata anche se si sarebbe potuto liberare dal fango la parte invasa in quanto la gran parte della superficie era rimasta integra. Se i lavori fossero stati in uno stadio avanzato ( con la copertura, il catino e l’intonaco ai muri) e la chiesa fosse stata investita totalmente non avremmo visto i muri allo stato grezzo. Invece, il tutto è rimasto come si presenta ai nostri occhi.

L’ex chiesa, sin dagli anni trenta venne utilizzata per rappresentazioni teatrali e, dai ragazzi, sino alla realizzazione del campo sportivo, come campetto di calcio.

Io rammento, da ragazzo, che, dopo avere giocato al pallone, attraverso un’apertura sul retro dell’abside ci portavamo dietro il muro della chiesa perché, staccato da questo, nella parete di fronte, c’era una piccola sorgiva d’acqua, dove noi andavamo a dissetarci. Quindi, su quel muro non si era abbattuta la frana, al contrario della navata di destra che era rimasta sommersa dal fango. Quell’apertura sul retro – a mò di porticina – successivamente venne murata.

Rammento anche che al muro esterno di destra si erano appoggiate abitazioni, in seguito costruite da privati, e che, al piano terra, si accedeva ad un locale ( forse la futura sagrestia) accanto alla torre campanaria.

In conclusione, la frana ci fu ma non si abbatté su tutto l’edificio, che venne abbandonato divenendo una “incompiuta”, la quale , oggi, ha bisogno solo di essere restaurata e conservata, così com’è, per spettacoli e manifestazioni culturali.

La struttura viene da tutti ammirata per la sua bellezza, che trasmette l'emozione di un'antica civiltà del paese e di valori religiosi e culturali esistenti presso quei nostri antenati. Trasformare l’estasi della visione oggi esistente, durante gli spettacoli estivi, è un delitto contro la natura e la bellezza architettonica.

E’ l’unica eredità di antiche strutture e di manufatti artistici, rimasta al godimento degli amanti dell’architettura del passato, in quanto tutte le altre, per mancanza di convincimenti culturali , sono andati distrutti. Come ad esempio. Il lavatoio pubblico alla Fontana, l’edicola di San Leone al Serro, le fontanelle di acqua potabile disseminate nel paese, il Monumento ai Caduti sotto i Due Canali con la vasca dei pesci. E presso la chiesa madre: il pulpito per le prediche, il grande lampadario centrale, l’artistico fonte battesimale, le lapidi di feudatari sepolti, il tetto a cassonetto.

Adesso, si vorrebbe distruggere l’ultimo bene artistico rimasto al paese di Longi. Vi invito a desistere in quanto ai longesi piace così com’è.

Se la meravigliosa e coinvolgente chiesa dello Spasimo, a Palermo. laddove si svolgono manifestazioni musicali ed artistiche a cielo aperto, fosse oggetto di intervento strutturale con copertura del tetto, oggi inesistente, non verrebbe commesso uno scempio culturale? L’ex chiesa di Longi non ha certamente la bellezza di quella dello Spasimo, ma ha egualmente una sua attrattiva come sito artistico per manifestazioni di vario genere. Se non fosse un’affermazione azzardata, direi che l’immobile, pur essendo della metà del 1800, ha un qualcosa di archeologico, che ci fa rammentare la millenaria esistenza del borgo montano, fondato dagli esuli della distrutta città di Demenna.

E' uno stato d'animo sublime quello in cui , durante l'ultra ventennale Concerto d'Estate, lo spettatore, sommerso dalle note musicali del complesso orchestrale, eleva il suo sguardo verso il cielo stellato, talvolta rischiarato dalla luna. E' un appuntamento, il Concerto, che coinvolge i longesi, soprattutto quelli che al paese tornano per trascorrere le ferie estive. Il sito di rustica e antica bellezza, guardando in alto, sopra la struttura, durante gli intervalli dello spettacolo, è impreziosito, dalle caratteristiche piante di opuntia (fico d'india). Qualcuno potrebbe obiettare che, sotto il tetto di copertura della struttura, lo spettacolo si potrebbe svolgere egualmente. Lo scenario cambierebbe, non essendo quello offerto dalla natura, ed il momento celebrativo perderebbe la bellezza e l'importanza del suo appuntamento annuale.

Leggo da un saggio su internet. 

“La tutela del patrimonio culturale e del paesaggio.

La conservazione del paesaggio, in pratica l’insieme delle bellezze naturali e del patrimonio artistico-storico-culturale, è un esigenza irrinunciabile nel nostro paese e va considerata come un aspetto specifico della più ampia tutela dell’ambiente.Già laintende la tutela del paesaggio come protezione del patrimonio naturale nella sua complessità; riconosce, inoltre, tra le finalità precipue dello Stato la conservazione del patrimonio storico e artistico al fine di salvaguardare la civiltà, i costumi e le tradizioni, in sostanza la memoria storica della nazione, e di proteggere l’ambiente costruito nel tempo dall’uomo. “

Chiaramente, l'immobile fa parte dei beni paesaggistici e, quindi, soggetto alle norme, nazionali e regionali, di salvaguardia e tutela dei beni culturali, archeologici ed architettonici.

A questo punto, mi chiedo: nel caso in cui esista il progetto in argomento, lo stesso ha avuto rilasciati tutti i necessari visti per l'inizio dei lavori.?

E' doverosa , pertanto, una risposta a quanto, con la presente, viene chiesto.


Pur tuttavia, ove sia percorribile sul piano tecnico e normativo, per non bloccare un progetto esecutivo propongo, come mediazione, di apportare una variante allo stesso. Anziché un tetto fisso per la copertura delle navate, centrale e laterali, si potrebbe ricorrere, nella navata centrale, ad un tetto mobile. E’ possibile? Se “no”, che si intervenga per la messa in sicurezza dello stabile ma, per favore, che non sia distrutta la visione di ammirare, durante gli spettacoli, la bellezza del cielo quando la luna e le stelle offrono lo scenario del loro incanto notturno.

I longesi rimangono in attesa di una buona novella affinchè il loro “piccolo Spasimo” non venga distrutto.


Li, 14 aprile 2018

Gaetano Zingales

già Sindaco di Longi

gaetano.zingales@gmail.com”



Mentre vado in stampa, nessuna risposta mi è pervenuta



Longesi decorati con medaglia al Valore Militare


Francesco Zingales, Generale 

1912, guerra italo- turca: medaglia d’argento

1916, presa di Gorizia: medaglia d’argento

Ed altre medaglie di bronzo, nastrini ed onorificenze varie.


Leone Zingales, Generale . Magistrato militare

Fronte della guerra 1915- 1918 : medaglia d’argento per fatti di guerra


Franz Zingales – Colonnello

1942 , Battaglia di El Alamein: medaglia d’argento

Guerra di Spagna, medaglia d’argento e Medaglia di Bronzo


Antonino Ciminata – Medico

Prima guerra mondiale: medaglia d’argento


Vincenzo Loffredo - Duca d’Ossada

1935, Battaglia di Adua : medaglia d’argento


Francesco Pidalà - Carabiniere

Guerra 1015- 18: medaglia di bronzo


Calogero Brancatelli .- Arciprete

Cappellano Militare durante la I guerra mondiale, venne decorato sul campo di battaglia


Salvatore Carcione – 

Medaglia di bronzo


Salvatore Lazzara – Maresciallo Esercito

Medaglia di bronzo


Francesco Paolo Zingales

Medaglia d’argento


Francesco Pidalà

Medaglia di bronzo


Nota. Chiedo scusa per involontarie omissioni.

Proposta di modifica di alcune strade o piazze intestandole a:

I Duchi D’ Ossada, dott. Ing. Vincenzo Loffredo (1860 – 1944) e N.D. Domenica Zumbo (1883 – 1965), furino munifici Signori ed espressero la volontà testamentaria di lasciare i loro beni al Comune di Longi-        Il Duca Vincenzo  lottizzò le sue terre in contrada Gazzana, creando oltre 300 aziende agricole, che, a prezzo modico, furono acquistate dai coltivatori diretti di Longi. Donò il fabbricato delle Case Ferrante, in località Carbonello, affinchè fosse destinato a colonia estiva. Ed ancora, su  un fondo  donato in contrada Giardinello venne costruito l’edificio della scuola materna. Con testamento pubblico, la duchessa decise di donare al Comune parte dei suoi immobili per  finalità di interesse sociale. La volontà della nobildonna non si realizzò perché il Comune perse l’eredità non avendo dichiarato, entro l’anno dalla pubblicazione del testamento, di accettare il contenuto del testamento.

Dedicare a loro, pertanto, la piazza generale Moriondo, il cui personaggio non era longese.

Dott. Prof. Angelo Zingales (1876–1930) -            Sindaco di Longi – Farmacista, Agronomo -  Grazie alla sua tenacia, il paese, dopo secoli di isolamento, poté congiungersi con una rotabile alla S.S.113. Numerose le opere pubbliche realizzate.

Prof. Dott. Antonino Ciminata (1891 1960)         Medico, Docente universitario, inventore di tecniche chirurgiche avanzate, scienziato, autore di centinaia di pubblicazioni su riviste specializzate, nonché di testi di “Patologia chirurgica “e “Patologia Clinica”.             Nota. Il prof. Ciminata è morto senza eredi diretti. Sarebbe doveroso che il Comune si facesse carico di traslare la sua salma, assieme a quella della moglie, dal cimitero della città dov’ è sepolto al suo paese natio, Longi, dove la sua casata possiede una tomba gentilizia. Sarebbe un ritorno alla sua Madre Terra, alla sua famiglia di origine. Il paese glielo deve per l’onore di avere dato i natali ad un eminente chirurgo e studioso di fama nazionale nonchè internazionale.

Dott. Francesco Zingales - (1884 -1950) Generale di Corpo d’Armata .   E’ un privilegio ed un onore per il nostro paese aver dato i natali ad un uomo insigne, co-protagonista della storia d’Italia della prima metà del secolo scorso. Fu un condottiero, un eroe longese, due volte decorato con la Medaglia d’Argento.

Venerabile Padre Tommaso Landi da Longi – (1569 – 1669) Domenicano dell’Ordine dei Predicatori, Baccelliere, Missionario, Priore, morto in odore di santità.

Generale  AVV. Leone Zingales   (1882-1962)  - Magistrato Militare -  Medaglia d'argento al V.M. 

Colonnello Avv.to Franz Zingales  (1915- 1980) - Vice Comandante della Divisione Folgore, ad El Alamein gli venne conferita la Medaglia d’Argento al Valore Militare, per il suo comportamento eroico durante la battaglia, riconosciutogli anche dal nemico. Nella pergamena che accompagna la medaglia, si legge: “assumeva il comando del battaglione e lo teneva per qualche giorno in situazione delicata, pur essendo debilitato fisicamente dalle ferite riportate e dalla febbre che lo consumava. Esempio di fermezza, di attaccamento al dovere e di valore “             Altra medaglia d’argento al V.M gli venne conferita nella guerra di Spagna.

 Leone Gemma, il patriota Partigiano che arrestò Mussolini 

La Petagna, mostra museale naturalistica


La Valle del Fitalia è un tappeto verde, che si affaccia sulle isole Eolie e si estende dal mare fino al bosco di Mangalaviti. In questo ambiente ricco di sorgenti e di corsi d'acqua, moltissime sono le specie vegetali che vi dimorano: agrumeti nel fondo valle; boschi di sughero, rovere, cerro, faggio, tasso, alle quote più alte. Si aggiungono le molteplici varietà di orchidee spontanee, gli insetti, gli uccelli migratori e stanziali ed i funghi, che, nel periodo autunnale, prosperano nel sottobosco. I pezzi della mostra museale provengono da questo ambiente. Essa si articola in diverse sezioni: la botanica, la entomologica, la mineralogica, la faunistica.

di Salvatore Migliore*

             L’elemento endemico esclusivo dei Nebrodi è rappresentato da poche entità e, tra queste vi è la petagna (Petagnaea gussonei). La sua denominazione discende da Giovanni Gussone, grande botanico, nato nel 1787, che diresse per circa dieci anni il giardino botanico di Boccadifalco. Durante le escursioni sui Nebrodi, lungo la strada che da Floresta porta all’abitato di Maniace, Gussone incontrò, come evidenzia nei suoi appunti di viaggio in data 14 giugno del 1817, una pianta mai vista prima e la annotò come Petagnia saniculifolia dedicandola al suo corregionale Vincenzo Petagna, medico, botanico ed entomologo napoletano.

La pianta è un genere monospecifico delle Apiacee; il suo endemismo  mostra affinità ridotte con il genere Lagoecia, a distribuzione mediterranea, e con quello Arctopus, cui appartengono solo tre specie tutte endemiche del sud Africa. E’ una pianta rizomatosa con le foglie basali picciolate, palmate 4/5 partite e con scapo alto fino a 50 cm. L’infiorescenza è una cima bipara, formata da fiori femminili, sul cui ovario sono attaccati i peduncoli di 2/4 fiori maschili. Fiorisce in aprile-maggio. Vive lungo le rive dei  ruscelli, specialmente quelli alimentati da sorgenti, o presso i canali di scolo di fontane sorgive, su suoli di flysch e su substrato limoso accumulato fra i massi.          La Petagna ha pochissime cellule legnose di sostegno, per cui, se raccolta, avvizzisce rapidamente. Tra le piante che vegetano assieme ad essa, possiamo citare il geranio striato (Geranium versicolor), la mazza d’oro boschiva (Lysimachia nemorum), l’anemone appenninico ed un’orchidea (Dactylorhiza saccifera). E’ originaria probabilmente del Terziario e si può paragonare, se fosse un animale, ad un dinosauro vivente.       Sono state effettuate indagini sul territorio e, fino ad oggi, sono state individuate circa trenta  stazioni, di cui quattro sono nel territorio di Longi: una delle quali è stata da me scoperta, in Contrada Crocetta. Quella più rigogliosa è, però, lungo le rive del torrente Calcagna di Tortorici. E’ da sottolineare che una parte delle stazioni di Petagna ricade al di fuori di zone protette. A tal proposito, l’Ente Parco dei Nebrodi ha stipulato un’apposita convenzione con il dipartimento di Scienze Botaniche dell’Università di Palermo, volta al monitoraggio ed allo studio delle stazioni residue per la tutela e la salvaguardia della stessa popolazione.                               Data l’esigua presenza, è stata finora poco studiata dal punto di vista farmacologico, ma si auspica un maggiore interesse da parte dei ricercatori poichè la specie è a forte rischio di estinzione, sia per l’imbrigliamento degli argini dei corsi d’acqua, sia per la captazione delle sorgenti, sia per la crescente antropizzazione del territorio.

 Le 21 stazioni di Petagnaea si trovano ad altitudini che variano da 250 m.s.l.m. a 1360 m.s.l.m.

Tra queste :

Galati Mamertino 6 Stazioni:Affluente del Vallone Linari , Affluente del   Vallone S.Pietro , Torrente Galati , Vallone Sura,  Torrente Fiumetto ,Vallone Arcangelo .

Longi 4 Stazioni :Vallone Mangalavite , Stagno Mangalavite , torrente di C.da Contrasto,Vallone di C.da   Crocetta.


La maggior parte delle Stazioni è a forte rischio di estinzione .

Questa specie rara, infatti, é inclusa in Allegato I della Convenzione di Berna (1979) nonché in Allegato II e IV della Direttiva Habitat (43/92 CEE) per la conservazione della natura . A causa della sua rarità, lo status di conservazione della specie è definito da vari autori come “criticamente minacciato”, per cui essa è inserita in “liste rosse” redatte a scala regionale e nazionale .


I principali elementi di criticità sono : -Frammentazione dell’habitat -Ridotta estensione delle stazioni -Captazione delle sorgenti -Canalizzazione di corsi d’acqua -Incendi e/o disboscamento della vegetazione -Calpestio e stazionamento di ungulati ( suini , bovini , capre ecc…) -Inquinamento delle falde e/o del suolo


Per quanto riguarda le ultime stazioni monitorate , esse non usufruiscono di alcuna tutela , ad eccezione del Vallone Arcangelo ( Galati Mamertino ), che ricade nel Parco dei Nebrodi , e quindi necessiterebbero di urgenti misure di conservazione in situ . 

Da quanto detto risulta evidente l’importanza di avere solamente nel nostro territorio una pianta tanto rara.E’ compito delle Istituzioni ,  ma anche nostro , di salvaguardare le integrità delle varie stazioni per evitare di perdere questo grande “patrimonio”.

 


Nelle varie stazioni di Petagna alle varie altitudini troviamo altre piante che convivono con essa e di alcune (nome in neretto) pubblichiamo, qui di seguito, le foto: Angelica sylvestris , Phillitis scolopendrium , Geranium versicolor , Heracleum spondylium , Juncus effusus , Menta acquatica , Lamium flexuosum , Carex remota ,Cinosurus cristatus , Spatium junceum , Calicotome infesta , Petasites hybridus , Ajuga reptans , Anemone apennina , Carex paniculata , Dactylorhiza saccifera , Polistichun setiferum , Rhynchocorys elephas , Lisimachia nemorum .




 

 La "Petagna" fa parte dei Musei del Parco dei Nebrodi ed è inserita anche negli itinerari naturalistici dei visitatori del Parco

              

 

                   

*Presidente del Museo


PER IL TEMPO LIBERO

La Galleria d’arte contemporanea raccoglie 80 dipinti donati dal Cav. Ugo Zingales, figlio del longese Cav. Leone Nicola IX

      

Inoltre, Ugo Zingales ha donato alla Fondazione Valle del Fitalia – Nino Russo – circa trecento libri, di sua proprietà.

IL Nebrodi Adventure Park, realizzato nel Bosco Soprano

… e ti sentirai Tarzan…

L’Associazione Naturalistica "La Stretta", che organizza escursioni ai suggestivi siti del territorio longese

  

 “Stretta di Longi”            Lago Biviere

AltreAssociazioni ricreative e culturali

 

Centro Informativo, rivolto all’accoglienza Turistica e alla Promozione dei servizi e prodotti locali

Sito in località Portella Gazzana (progetto attivato in data 18 agosto 2004 quale impegno nell’ambito di una politica di sviluppo sostenibile, atta a sviluppare strategie di promozione e di valorizzazione del patrimonio naturale e culturale del territorio, anche apprestando adeguati servizi informativi)


LA BANDA MUSICALE

La storia del complesso bandistico longese ha inizio nel 1957, anno del suo debutto, dopo che per due anni alcuni appassionati di musica bandistica frequentarono una scuola musicale, diretta da vari maestri. Sotto la direzione di Antonino Calderaro la banda raggiunse un organico di 50 elementi, arricchito da un gruppo di majorettes, che la vide partecipare ai raduni di Giarre, Caltagirone e Taormina. Quando il maestro Calderaro ebbe a lasciare, il corpo musicale andò incontro ad un periodo di travaglio che lo portò, nel 1980, allo scioglimento.        Nel 1989 nasce l’Associazione Musicale "V.Bellini". Da allora, la "Vincenzo Bellini" di Longi ha iniziato un cammino a tappe, che l’ha portata a conseguire traguardi sempre più ambiti. Nel 1992 la vediamo a Fiuggi, in un concerto presso le Terme di Bonifacio VIII; successivamente, a Capo d’Orlando, a Pettineo, a Tindari, a Centuripe; nel 1994, in simbiosi con l’Amministrazione Comunale di Longi, guidata dal Sindaco Gaetano Zingales, dà inizio alla serie degli appuntamenti annuali, definiti "Concerto d’estate" e "Concerto di Natale". Ed ancora, la vediamo ai raduni e/o concerti in parecchi centri. Nel maggio del 1999 partecipa, a Lamezia Terme, al Concorso Bandistico Nazionale organizzato dall’A.M.A. di Calabria e si colloca, premiata, al secondo posto.

 

La prima formazione

.

  Ex chiesa di San Salvatore: la banda musicale di Longi in occasione del suo primo “Concerto d’estate”, tenutosi nel 1994.


La passione dei longesi per il teatro

MICROSTORIA DELLA C.T.L. '' NEBROS''

La C.T.L. Nebros, ossia la compagnia teatrale longese con una lunga e sana vita di 24 anni, nasce nel lontano 1994 dal tentativo di un gruppo di adolescenti di scandire il loro tempo estivo all' insegna dello stare insieme divertendosi e dedicandosi al teatro, un'occupazione dilettevole che ben presto diventa un vero e proprio impegno socio-culturale espletato in tutto il comprensorio dei Nebrodi; parecchie le rappresentazioni teatrali tentute in piazza e acclamate da tutti, per citarne solo alcune: da ''Civitoti in pretura'' di Nino Martoglio a '' 'A luna nto puzzu''di G.Spampinato e ''Lu curtigghiu di li raunisi''di I.Buttitta attraverso ''Fiat voluntas dei''di Macrì, ''Lu scarfalettu'' di Scarpetta, '' 'U medicu di pazzi'' di Scarpetta fino a ''L'albergu du silenziu'' di Scarpetta e ''Camomilla a colazione'' di Castaldi.

Un altro aspetto da non trascurare è che la C.T.L Nebros non ha sperimentato solamente gli universi teatrali della comicità ma anche quelli dell’opera drammatica con cui ha affrontato capitoli importanti della storia e della tradizione longese mettendo in scena: .”Leone di Ravenna” di Umberto Russo, “La leggenda di testalonga” e “La leggenda di lu passu zita” di G.Zingales e altri ancora.

 Va anche ricordata la forte e costante collaborazione con il dott. Zingales che ha sempre assicurato la traduzione e trasposizione di opere napoletane e non, in siciliano adattandole alle esigenze di una compagnia sempre più eclettica e variegata nella struttura e nella diffusione di una cultura teatrale popolare e dialettale. 

Attualmente la C.T.L.''Nebros''conscia del proprio passato e sempre attivamente presente nel tessuto teatrale longese riesce a mantenere salde le proprie radici proiettandosi in un lontano futuro con l'intento di rinnovarsi continuamente e sperimentando nuove parabole teatrali. 


Ph. Longi,19/08/2017. La C.T.L. ‘Nebros’ rappresenta la commedia ‘Camomilla a colazione’ di Castaldi. In alto da sinistra a destra: Debora Pidalà, Silvana Carrabotta, Alessia Carrabotta, Immacolata Pidalà, Salvatore Fabio, Fabiana Brancatelli, Nunziatina Miceli, Leo Bartolo; in basso da sinistra a destra: Leo Lazzara, Learco Bartolo, Giuseppe Protopapa , Alessio Calcò. 

La compagnia teatrale ‘Tommaso Landi’

Andando indietro nel tempo si può sorprendentemente scoprire come nella piccola comunità longese il teatro abbia sempre avuto un terreno assai fertile e che molti componenti della C.T.L. ‘Nebros’ abbiano recepito il profondo fascino per l’arte della finzione da quella condizione vissuta durante l’infanzia in qualità di bambini-spettatori di opere teatrali inscenate dalla compagnia teatrale ‘Tommaso Landi’. Quest’ultima, nata nel lontano ’81, anno in cui vennero rappresentate rispettivamente la commedia ‘L’eredità dello zio canonico’ di Russo Giusti e il dramma ‘U scuru’ di Martoglio, finirà col costituirsi come società a tutti gli effetti nel marzo del 1986 con 17 soci fondatori come si evince dall’atto costitutivo della stessa, ma vantando al suo interno molte altre personalità di spicco che hanno collaborato in maniera determinante a darle fisionomia e seguitando con pezzi molto corposi e coinvolgenti tanto da essere spesso ripetuti a distanza di tempo come il famoso ‘U contra’ di Martoglio ( ’84- ’89). Successivamente furono interpretate: ‘Il berretto a sonagli’ di Pirandello (’86), ‘U Martorio’ (‘88) ove venne narrata  la passione e la morte di Cristo con una maestosa spettacolarità da rimanere nella memoria di molti longesi, ‘Lu curtigghiu di li Raunisi’ di Buttitta (’91), ‘La gallina ve la servo calda’ di Spataro (’92), ‘Fumo negli occhi’ Faele e Romano (’93), ‘L’arte di Giufà’ di Martoglio (’94) e per chiudere ‘Leone da Ravenna’ di U. Russo e adattamento e regia di G. Zingales che rappresenta un testo teatrale longese di grande portata sia per il tema trattato (la vita e i miracoli dal santo protettore di Longi, San Leone) ma anche per l’enorme mole di lavoro, attori e persone implicate nella sua realizzazione; si può affermare che essa stessa costituisca una perfetta simbiosi tra il vecchio (ovvero gli attori oramai maturi della compagnia ‘Tommaso Landi’ in grado di trasmettere le loro conoscenze e capacità teatrali) e il nuovo ( attori in erba della C.T.L ‘Nebros’ che col tempo avrebbero portato avanti quell’afflato teatrale respirato nell’intera comunità).

E come soventemente accade nel corso della storia anche in questo caso il vecchio ha ceduto il posto al nuovo che sta avanzando e ancora avanzerà.

I.P.

Archivio di famiglia. Foto degli anni trenta della filodrammatica longese: da sx Lio Gemma, Carlo Zingales  (mio padre), Peppino Carcione, Nino Zingales (mio zio),  Tano Carcione, Arturo Militi,  Ciccino Priolisi, Lio Sirna. Così si chiamavano allora. Oggi, si sarebbero chiamati, rispettivamente: Leone o Lillo, Giuseppe o Beppe, Gaetano, Francesco o Franco. 

SCRITTORI, POETI, ARTISTI CONTEMPORANEI

Francesco Lazzara    Scrittore, poeta, pittore


Rosario Priolisi    Scrittore


Pippo Zingales  Musicista, poeta, cantautore


Marco Brancatelli   pittore


Franco Brancatelli  pittore




Leone Marco Bartolo   Musicista, cantautore


Umberto Russo  Scrittore, artista


Donatella Russo   Novellista, scrittrice


Francesco Pidalà   Pittore


Gaetano Zingales Autore di romanzi, poesie, saggi e storia del territorio


Alcune foto degli artisti e scrittori sono riprese dal libro “Alle pendici delle Rocche”

Altri artisti longesi sono riportati nella pagina “Murales di Castiglione”, pubblicata nel precedente libro ALLE PENDICI DELLE ROCCHE




Cronologia longese in sintesi


VI secolo d.C. – Alcuni esuli lacedemoni, in fuga dal Peleponneso, approdano ai lidi del Tirreno, nei pressi dell’attuale Torrenova, e danno vita sulle Rocche del Crasto ad una nuova città, che chiamano Demenna;

X secolo – Demenna viene distrutta dai saraceni ed alcuni fuggitivi si stabiliscono in contrada S.Nicolò (oggi S.Pietro) e creano un nucleo abitativo alle falde del versante orientale delle Rocche del Crasto;

XI secolo – I normanni liberano la Sicilia dagli arabi;

XII secolo – Evacuata la contrada S. Nicolò, a seguito di una grossa frana, i demenniti scendono a valle e nel pianoro della “Craparia” pongono la prima pietra di Longi;

XII –XIII secolo – Con i normanni ha inizio il feudalesimo. Il primo feudatario, nel 1272, è il barone francese Bernardo Grancia. A seguire, nel novembre del 1291, vediamo sullo scanno feudale Riccardo de Loria, al quale subentra, nel 1296, don Blasco Lancia Miles; nel 1283, con gli Aragonesi, viene istituita l’Università (Comune) con i suoi rappresentanti;

XIV – XVII secolo – Dal 1302 al 1692 i feudatari appartengono alla casata dei Baroni Lancia (o Lanza) di Longi;

1570 – Al suono della campana, vengono convocati i “comunisti” (abitanti del comune) e, nella piazza del paese, viene redatto un atto pubblico ove sono sanciti diritti e doveri tra il barone ed i cittadini. Leggi, nelle pagine successive, in Appendice, il testo:” Capitoli di Concordia tra il Barone Francesco Lanza e l’Università”;

XVIII secolo – Vediamo, quali Signori del territorio, i baroni Napoli;

XIX- XX secolo – S’insediano nella baronia le Casate dei Loffredo, D’Ossada, Cassibile; nel 1965 si estingue la successione del Duca D’Ossada e, quindi, ha fine la presenza baronale.

Nel 1821, Longi ha il primo Sindaco eletto dal popolo, quello, però, che “sapeva leggere e scrivere”;

15 marzo 1831- Una grossa frana cancella le case, il convento e la chiesa in contrada S. Maria;

Dall’Amministrazione Comunale 1903-1916, Sindaco Angelo Zingales - sono state realizzate le seguenti opere: impianto dell’illuminazione pubblica con 50 lumi, acquisto  nuovo orologio da torre, installato alla Chiesa Madre, sistemazione delle acque potabili e della fognatura, costruzione edificio scolastico, riedificazione della Casa Comunale, dotazione di campanile ed arredi sacri della Chiesa del Cimitero, istituzione di una scuola mista di grado superiore ed una serale, riadattamento di alcune strade comunali, rimboschimento delle coste Lunari,  attivazione del servizio di portalettere e di quello telegrafico, consolidamento di pendii franosi, impegno fattivo per la costruzione della strada rotabile Rocca di Caprileone- Longi, costruzione del "lavatoio pubblico", estinzione dei debiti ereditati.

Nel 1918, la “spagnola” miete parecchie vittime depauperando la popolazione;

Negli anni trenta, il paese è collegato al litorale marittimo essendosi completati i lunghi lavori per la realizzazione della strada provinciale. Sino ad allora, l’arteria (si fa per dire) era utilizzabile a dorso di animale;

Nel 1934, nell’era fascista, il Sindaco viene sostituito dal Podestà nominato dal Prefetto, ma il potere è in mano al Segretario politico della locale sezione del P.N.F. ed ai militi fascisti.

Con l’avvento della Repubblica e l’abolizione dei titoli nobiliari, il Barone perde un potere nominale ma conserva il “rispetto” e le vaste estensioni di terreni;

Dopo il referendum costituzionale, vinto dalla Repubblica, nel 1947, viene eletto il primo cittadino, il quale –ironia della sorte – è un monarchico;

Negli anni ’50, inizia la realizzazione di opere pubbliche;

Nel 1960, l’amministrazione comunale in carica, di colore democristiano, viene sconfitta dalla lista civica “San Leone” il cui tema conduttore della campagna elettorale fu quello di far cessare la mafia dei pascoli nel bosco di Mangalavite;

Negli anni ’80, il Partito Socialista Italiano diviene il primo partito superando la D.C.;

Dopo un periodo di commissariamento del Comune, nel 1993, all’Amministrazione comunale insediatasi, vincitrice delle elezioni amministrative con la lista “Lavoro ed impegno sociale”, viene consegnata, dal Segretario Comunale e dal revisore dei Conti, la richiesta di dichiarazione di dissesto finanziario in miliardi di lire, la cui origine risaliva alla gestione delle Amministrazioni precedenti. La Giunta rigetta “l’invito” e riesce a sanare il bilancio comunale attraverso un mutuo erogato dalla Cassa Depositi e Prestiti, con il quale ha onorato i debiti ereditati;

Il 23 agosto 1994 un grosso incendio notturno, presumibilmente doloso, minaccia il paese dal lato nord, nord-est. E’ distrutta la vegetazione sino al letto del fiume Fitalia, muoiono animali, ma le case vengono salvate grazie all’opera infaticabile ed eroica di giovani volontari;

Negli anni 1995- 1996-1997, la comunità subisce un imbarbarimento dei rapporti tra Giunta Comunale ed avversari politici, soprattutto per la comparsa di volantini anonimi offensivi e diffamatori; il T.A.R. di Catania emette la sentenza con cui respinge la richiesta, da parte del Consiglio Comunale, di “referendum per la rimozione del Sindaco”;

Alla fine del 1997, la Giunta uscente della lista “Lavoro ed impegno sociale”, a causa della frantumazione del fronte della sinistra, viene sconfitta dalla concentrazione centrista “Vivere Longi”. Il Sindaco ancora in carica denuncia brogli durante le operazioni di voto, ma l’accertamento del reato viene insabbiato;

Nel 2007, dopo il monocolore di centro, la lista civica “Nuove Energie Longesi” vince le elezioni amministrative e bissa il successivo turno. Questa Amministrazione ha dovuto affrontare una sequela di avversità: dissesti idrogeologici, incendi in tutto il territorio comunale, susseguirsi di preoccupanti fenomeni sismici.

Nel 2017, “Vivere Longi,  vince nuovamente le elezioni.

Per le opere compiute dal dopoguerra ai nostri giorni, leggi il relativo testo nelle pagine precedenti, al titolo “ALCUNE OPERE PUBBLICHE REALIZZATE NEL DOPOGUERRA”

I BENI PERDUTI E…

L’antico Archivio storico comunale, trasferito presso la biblioteca comunale di Milazzo per metterlo al sicuro durante la II guerra mondiale, venne distrutto durante un bombardamento su quella città;

la biblioteca parrocchiale, ricca di volumi e di documenti riguardanti la vita ecclesiale ma anche civica, è andata distrutta attraverso la bruciatura del cartaceo per difendersi dai rigori invernali e per preparare le ostie o altro;

nel corso dei lavori eseguiti per ristrutturare la chiesa Madre vennero rimossi: il soffitto a cassettoni in  legno dorato, che venne adoperato come legna da ardere, il pulpito in  legno per i panegirici, il maestoso lampadario a mosaico, al centro della chiesa, eseguito dall’artista don Emilio Bellissimo, l’artistico fonte battesimale realizzato da valenti artigiani locali, la balaustra in ferro battuto lavorato ai piedi degli scalini che portavano al sommo dell’altare maggiore, le varie lapidi mortuarie di personaggi famosi e del baronato, che erano disseminate nel pavimento;

il ricco archivio documentale ed i pregevoli arredi e mobili del secolo XVII e seguenti presso il castello feudale, rubati nottetempo, secondo quanto asserito dall’ultimo proprietario del maniero;

di recente, i Murales presso la contrada Castiglione;

il lavatoio pubblico presso la contrada Fontana;

le fontanelle di fresca acqua potabile nei vari quartieri;

la vasca dei pesciolini dietro il Monumento ai Caduti presso il vecchio sito, sotto “i due canali”, che portava, alla sommità della statua sopra la fiamma, una croce e che è stata asportata (non se ne comprende il motivo).

…QUELLI POSSEDUTI

Il simulacro di San Leone;

il Crocifisso;

l’Ecce Homo, attribuito a Fra Umile da Petralia;

Madonna della Mazza e Madonna Annunziata, statue marmoree realizzate da Antonello Gagini;

organo barocco del 1631;

coro seicentesco intagliato di Cristoforo Vanadia del 1654;

soffitto a cassettoni in legno dorato sul Sancta Sanctorum;

la cantoria in legno stuccato del 1631;

alcuni dipinti presso la chiesa madre, recenti e del passato;

due dipinti presso il castello, l’uno raffigurante S. Caterina d’Alessandria  e l’altro la nascita della B. C.C. “Valle del Fitalia” del contemporaneo artista Franco Brancatelli.


Sono da valorizzare: la galleria d’arte moderna, realizzata con opere donate da Ugo Zingales, collocandola in un idoneo locale; l’incompiuta ex chiesa del S. Salvatore quale luogo di incontri culturali, eventi musicali ed artistici.





I “Murales”

di Castiglione


Concorso di Pittura

Patrocinato dall’Amministrazione Comunale di Longi, nell’anno 1995.

Tra gli esecutori delle opere, rammentiamo quelli longesi:

Tiziana Araca, Franco Brancatelli, Marco Brancatelli, Nicola Calderaro, Calogero Campisi, Francesco Ceraolo, Carlo Notaro, Franco Pidalà.


       Realizzati nel 1995 ma distrutti dai fenomeni atmosferici e dalla loro mancata manutenzione periodica.

      

Peccato!

Così è il muro dei murales, oggi, anno 2018:

Lo stemma del Comune di Longi

APPENDICE


Importanti documenti dei secoli passati riguardanti fatti relativi alla vita dell’Universitas (Comune) ed alla gestione amministrativa del Comune agli inizi de

Università di Longi dal 1183 al 1658

a cura di GIUSI L'ABBADESSA

Le universitates (dal latino universitas, -tis), definite "università", erano i comuni dell'Italia meridionale, sorti già sotto la dominazione longobarda e successivamente infeudati con le conquiste dei Normanni. 

NdA. Pubblico alcuni capitoli, riferiti alla terra di Longi, relativi agli anni che vanno dal 1183 al 1658, ripresi da un saggio edito dalla prof.ssa Giusi L’Abbadessa. Il testo è corredato di documenti antichi, in greco ed in latino, dai quali viene desunto quanto è scritto nel profilo storico del territorio di Longi di quel periodo.

Le fonti, purtroppo, per un approfondimento degli avvenimenti locali sono molto povere, sia in riferimento ai secoli più lontani, sia a quelli più recenti in quanto la documentazione d’epoca, esistente in loco, nel suo complesso, è andata perduta per eventi di varia natura. 

 LONGI DEMANIALE

Il documento piú antico trovo in Giuseppe Silvestri «Tabulario di Fragalà e Santa Maria Maniaci», una raccolta di pergamene latine appartenenti al convento di Fragalà. In esso (datato ottobre 1183), un Maestro Foresterio, in esecuzione di lettera regale di Guglielmo II, conferma Pancrazio, Abate di S. Filippo di Melitiro, nel possesso di alcune terre e di alcuni boschi. Del fatto, «ad maiorem cautelam», fu redatto atto pubblico per mano di notaro. Firmarono in qualità di testimoni: l'arcidiacono di Maniaci, un prete, altro Maestro Foresterio, e sette uomini delle terre di S. Lucia, di Troina e di Longi."يPer Longi è « Philippus de Papa Iohanne de Longi >>2

Il Secondo documento è del 1217 e ne riferiscono il Silvestri (op. cit.), e Salvatore Cusa in «I diplomi greci e arabi di Sicilia». Avendo l'Abate di S. Filippo di Demenna fatto ricorso contro i monaci di Maniaci per il possesso di un tenimento di terra e per l'uso contrastato di un corso d'acqua per un mulino, Eufemio, Camerario del re della Valle di Demenna e di Milazzo procede ad opportuna inquisizione, ricevendo le deposizioni dei vari «probi uomini»; i loro nomi sono descritti nell'atto notarile che all'ultimo si redasse e li ritroviamo tra i testimoni. Tra i probi uomini: geron Goullielmos o rakites, e geron maistor Joannes ton Loggon. Una pergamena del 1245, come si vedrà, connota come longitano anche il Guglielmo rakites di questo testo. Il terzo documento in ordine di tempo è appunto la pergamena del 1245 (agosto, IIIa indiz.), riportata solo dal Cusa. Filippo, Imperiale Maestro Forestaro, su ricorso dell'Abate del monastero di S. Filippo di Demenna, con parecchi probi uomini della terra di S. Marco, descrive i confini delle dipendenze del monastero, restituendogli terre che gli erano state usurpate. Sono citati nel testo e firmano l'atto: Goullielmos ton Loggon o rakites, o geron maistor Joannes ton Loggon, o geron Kostantinos o adelfos autou, e Teodoros uios tou Kostantinou Loggon.

L'esistenza di Longi è dunque testimoniata da fonti indubbie dal 1183, dal tempo dei Normanni, regnante Guglielmo II, e nel tempo degli Svevi.

Nel colossale apparato burocratico di entrambe le amministrazioni, la normanna e la sveva, entrambe estremamente accentratrici, anche la piú minuscola terra doveva collaborare col potere centrale nella gestione dello stato.

« Supradictum preceptum felicissimi Domini nostri Regis Guîllelmi in manibus nostris accipientes, collegimus nobiscum principes Maniachi et aliarum terrarum, et ivimus super ipsius divisas terrarrum et nemorum... et incepimus de prima divisa (per riconoscerne e riassegnarne i confini). 

2 Nota: a chiarimento delle righe già citate e delle seguenti, va notato che il convento di Fragalà fu detto anche di S. Filippo di Demenna e di Melitiro.

Qui gli uomini delle terre collaborano infatti all'esercizio della giustizia: 1) intervengono in casi di controversie civili o di cause contro lo Stato; 2) in esecuzione di sentenze; 3) sono protagonisti di una specialissima istruttoria che chiamavasi «Inquisizione», che per la sua necessità era detta «debita» e per la sua esattezza «minuta» (Cusa, anno 1154, 20 luglio, II indiz.), nel corso della quale si accertava la provenienza dei luoghi controversi, e se ne riconoscevano i confini, che si contrassegnavano; 4) determinano il perimetro di interi casali (Cusa, feb. 1133, indiz. XI); 5) assegnano terre (Cusa, giugno 1168, indiz. 1); 6) prestano testimonianze giurate (Cusa, 20 luglio 1154, indiz. 11); 7) controfirmano in qualità di testi gli atti pubblici che i notai redigevano a futura memoria dei fatti. Non erano mai chiamati gli uomini di una sola terra. Anche quando le pergamene parlano, ad es. di probi uomini solo di S. Lucia o di Naso, scorrendo piú attentamente i fogli, agevolmente si scopre (e quando i nomi sono elencati nel contesto e quando sono sottoscritti in fondo all'atto) che i probi uomini di una terra sono una consorteria di uomini di piú terre viciniori. Ciò probabilmente per piú ragioni: per evitare prese di posizione legate ad interessi di una sola terra o di un solo gruppo etnico; per una migliore informazione dei fatti; per una piú attenta conoscenza dei luoghi. Non ultima poté essere la considerazione di dare un criterio uniforme all'amministrazione di una piú vasta circoscrizione. 

Troviamo difatti gli uomini di Longi con altri di Casale Maniace, di Santa Lucia e di Traina nella pergamena del 1183. Sono chiamati «probi uomini del casale di S. Lucia» gli uomini di Longi, di Demina, di Ucria e di S. Lucia stessa nella pergamena del 1217. Nella pergamena del 1245 sono chiamati sotto la voce «probi uomini di S. Marco» uomini da Ucria, da Frazzanò e da Longi. Ma dei probi uomini non potevano far parte i servi della gleba o villani, e ciò per legge perché non potevano testimoniare contro i nobili né avevano uno status sociale. Pur potendo essi comprare e vendere anche allodi, erano a loro volta comprati e piú spesso ceduti con le loro terre, le case e le cose, con tutti i loro figli vivi e con quelli da venire e i nipoti futuri senza estinzione nel tempo del loro personale servaggio. Essi erano scritti nelle platee o giaride con l'indicazione di tutto ciò che possedevano e con la precisa descrizione delle loro famiglie e delle angherie a cui per sempre erano tenuti. Spesso si provvedeva ad aggiornare questi elenchi, e le cancellerie normanne e sveve rigurgitavano di atti intesi a recuperare questi servi che, disperati, erano fuggiti dai loro «incolatum», ma che, nella carenza della mano d'opera nelle campagne, imperatori, re, feudatari, laici ed ecclesiastici ferocemente rivendicavano e si disputavano. Piú tardi, quando, anche a causa della depressione demografica, la servitú dei villani andò dissolvendosi, avrebbero potuto, a stretto termine di legge, far parte dei boni homines, i rustici, anch'essi operai della terra, ma liberi, fittavoli o compensati con mercede, e che perciò erano considerati un primo livello della scala sociale. Ma è assai verosimile che i probi homines, in maggioranza, fossero liberi proprietari di allodi. E ciò per due ragioni:

1) perché essi potevano testimoniare contri i nobilio e ad essi talvolta toccava di prender posizione contro i feudatari. E tra le carte del convento di Fragalà trovasi una pergamena del 1182 ripotata dal Cusa col numero d'ordine 140, sett., Indiz. I, in cui, in esecuzione di un mandato del re, i Grandi Giudici, assistiti dagli ottimati e dai probi uomini delle terre di Naso, di Fitalia, di Mirto e S. Marco, dirimevano la questione (il possesso di un monte) avverso Beatrice, signora di Naso, vedova di Simone;

3 Costitutiones Regni Siciliae, edito in Napoli, 1786, lib. III, tit. 10,  pag.170

2) perché essi soli potevano offrire quelle garanzie di imparzialità che i loro compiti richiedevano. Un servo ascritto sarebbe stato alla mercé di un padrone; un rustico lo sarebbe stato del pari, dipendendo pur sempre da un padrone, che, solo, stabiliva il compenso al suo lavoro di operaio libero (vedasi in proposito il Lancao « Genesi della borghesia feudale», pag. 69 e ss.).

Accanto a questi, tra i boni homines, venivano inclusi i rappresentanti dell'altra piccola borghesia della terra, i maestri artigiani (il vecchio maestro di Longi, qualche prete o maestro forestiero, qualche ex-funzionario, un baglio ad es.).

Come si arrivasse alla scelta di questi piccoli operatori dello stato è oggetto di discussione ancora oggi. Per molti storici è dubbio cioè se essi venissero designati dai bagli o se fossero eletti dalle comunità a cui appartenevano. Ma è piú probabile – anche per la mobilità della loro funzione – che i boni homines non avessero carattere rappresentativo delle università di appartenenza e che non fossero incaricati di difenderne gli interessi, ma che, individuati tra i sudditi devoti, fedeli al re e non alle università a cui appartenevano fossero utilizzati come collaboratori locali della giustizia civile del regno.

Ma intanto ciò che fin qui si è esposto ci serve per poter ricostruire la struttura sociale della Longi normanna, e poi sveva.

Longi dunque, già nelXII secolo era un borgo ancora demaniale, con una popolazione, certo, di agricoltori e di pastori, inscritti nelle platee, e che costituivano la parte meno privilegiata del nucleo abitativo, ma, accanto a questi, già da allora, distinguiamo un nucleo borghese formato da liberi proprietari di allodi e da un gruppo di artigiani.

E quanto alla composizione etnica e religiosa della popolazione longitana, essa, come quella dei paesi limitrofi, dovette essere composita. Sui naturali e sui Greci, si erano infatti sovrapposti gli arabi «Al primo apparire dei Normanni - dice il Gregorio - essi, in grandissima copia passarono in Africa ma i vincitori, perché la Sicilia non restasse deserta, invitaronli in piú modi a rimanersene nell'antico loro domicilio e a possedervi e a godervi i propri averi». E della locale componente etnica mista, greco-arabo-latina, troviamo tracce nei tabulari del tempo citati, da cui trascrivo a mo' di esempio solo la pergamena n. 54 del Cusa, datata l 133/feb/indiz. XI: «Ruggero re accorda a Giovanni vescovo di Lipari che vengano meglio descritti in greco e saracenico i confini del casale di Mirto (assai prossimo a Longi) i quali furono determinati una volta con l'assistenza di probi uomini latini e saraceni, dall'Ammirato Giorgio, nel tempo in cui governava quella regione». 

" Costitutiones Regni Siciliae / lib. II, tit. 32 / pag. 144.

5 Rosario Gregorio «Considerazioni sopra la storia di Sicilia dai tempi normanni sino ai presenti», vol. I, pag. 55.

Tutti insieme, villani adscriptici, proprietari allodiali, artigiani, pastori, anche in Longi, formavano la comunità detta Universitas che collettivamente esercitava sulle terre indivise del demanio una quantità di diritti economici garantiti dalle leggi (gli usi civici). Tutti potevano seminare, tagliar legna, andar per caccia, raccogliere erbaggi, parare trappole, utilizzare le acque, servirsi dei mulini.6

 Tra i numerosi obblighi fiscali a cui, in contraccambio le Università erano tenute, c'era la partecipazione all'auditorium, altrimenti detto colletta o precatio, che consisteva in un contributo straordinario che i sudditi erano obbligati a pagare per ordine del re in caso di urgenti necessità di stato.

Nel 1403, essendo re Martino, col contributo delle piú grandi città siciliane, si era provveduto alla costruzione di 12 galee. Ma per dotarle di strumenti e di armi occorrevano ancora 200 once. Allora fu dato l'ordine ai funzionari e ai notari di dividere la cifra tra i due giustiziariati (cifra et ultra Salsum), in cui la Sicilia era allora divisa, e, dentro a questo ambito, tra le singole terre, a seconda delle loro risorse.7

L'Università di Longi fu segnata col minimo: un'oncia d'oro.

È possibile che Longi, quando i Normanni assegnarono i feudi, sia divenuta un dominio. Ma agli atti non risulta. Risulta per l'attigua Galati. Già dal 1101 Adelasia, contessa di Calabria e di Sicilia, concede terre dipendenti da Galati (Cusa, op.cit. pag. 698). Già nel 1116 Galati è in mano ad Eleazar, feudatario normanno. Ma Longi non è neppure inclusa nel dotario delle regine, in cui è pure Galati dal 1210. 8 

Né Longi viene assorbita nelle aree di attrazione ecclesiastica, qui in continua espansione. In tal caso i documenti ne parlerebbero, come ci parlano delle altre terre.

6 Il demanio infatti deteneva sempre i beni patrimoniali immobili (nemora, silvas, pascus, massarias, terras, vineas, domus, molendina, piscarias etc) e tali beni venivano direttamente amministrati dal re come «dominus», come «titolare di un diritto pubblico» (Besta, Il diritto pubblico nell'Italia meridionale dai Normanni agli Aragonesi, Padova 1929, pag. 40. «Anche quando le terre venivano concesse in feudo, non veniva trasferita la proprietà patrimoniale di tutto il territorio infeudato, ma solo la sua signoria; cosi da non intaccare i diritti che altri soggetti avessero rispetto alle terre stesse (gli usi civici, ad es.), che quindi venivano perpetuati (Besta, op.cit., pag. 33).


7 «Imperata etiam alia subventio pro constructione XII galearum » ex Regiae Cancell. Anno 1403/fol. 171, 180. Raccolta Gregorio, pag. 482.

8 Galati è compresa nel dotario di Costanza, prima moglie di Federico II di svevia (assieme a Filadello, S. Piero di Ficara, Ficara, Militello e Taormina). Ne dà conferma Innocenzo III con lettera datata 1210/17 giugno, riportata in «Historia diplomatica Friderici Secundi» del Breholles/I vol./pag. 169.

Nel silenzio delle carte, si può dunque ipotizzare che il tenimento di Longi sia rimasto per circa un secolo solo terra demaniale, non infeudato.  Anche se ciò può apparire strano perché Longi era, intanto, ben raccordata al resto delle terre. Il Pirri in Sicilia Sacra fa cenno ad una strada che proveniva da Alcara Li Fusi. Di altra strada dà testimonianza lo Spada (altro collettore e traduttore delle pergamene greche del citato convento di Fragalà):... «discende la via di Galati».

” Ed altra strada provenendo da Mirto si allacciava ad altra più grande che, ascendendo da Frazzanò e passando da Fragalà, risaliva a Longi.o Tre strade che mettevano capo da nord al mare, da ovest a Militello, da est a Tortorici.

 Sito ad oltre seicento metri di altezza, il casale era ricco di acque, di sorgenti, costeggiato dal Fitalia. L'Edrisio che, entro il 1150 visitò questi luoghi ci lascia della contigua Galati l'immagine di una «terra popolata e prosperosa; ha terra da seminagione e bestiame; vi si coltiva di molto lino in prati irrigui». Nei casali attigui l'Edrisi scorge «acque copiose, giardini e fiumi, su le cui rive sonvi piantati dei molini». Nei Capitoli di Concordia, di cui parlerò in appresso, e che rimontano al 1576, di continuo si fa riferimento in Longi a «voschi di querce e cerri, a prati a maggese, ad orti, a vigne». 

Anche il Fazello che nel '500 percorse (riferisce Santi Correnti) quattro volte a piedi la Sicilia, lascia di questi luoghi una testimonianza ammirata: «Questi monti (i Nebrodi, nei pressi di S. Marco d'Alunzio), dalla madre natura son fatti tutto il tempo dell'anno ameni e fecondi, come da una perpetua estate. In loro son le fontane ricoperte e circondate da spessissimi alberi. Sonvi anchora assaissime quercie, le quali fanno il frutto piú grosso che negli altri paesi. Sonvi inoltre molti alberi domestichi, molte vigne e vi nasce gran copia di pomi..."12. 

 Eppure ancora, e per tutto il tempo del dominio svevo, Longi non appare concessa in feudo.

9 Spata: pergamena del dic. 1804/indiz. II.

10 Spata: (...la via che viene da Mirto e che va fino alla via grande che ascende dal podere di Flaciano) Pergamena dell'agosto 1183 indiz. I.

11 Biblioteca Arabo-Sicula raccolta da Michele Amari/Loescher, Torino, 1880.

12 Fazello, Deca I-L. IX - pp. 286, 287 - trad. R. Fiorentino.



LONGI INFEUDATA

Dopo la disfatta degli Svevi, Carlo d'Angiò, subentrando, fece subito por mano al censimento delle terre demaniali e alla ricostruzione delle platee dei villani ad esse appartenenti e soggetti ad angarie. Anch'egli, come gli Svevi ripristinò la divisione dell'isola nelle due antiche provincie romane, la lilibetana e la siracusana, assumendo come limen il fiume Salso e scompartendo la Sicilia in due distretti, detti Giustiziariati: ultra e citra flumen Salsum. 

È del 1277, anno della V indizione, un documento tratto dai registri della Cancelleria angioina, che include Longi nel Giustiziariato citra Salsum. 

Il documento13 si rifà all'originario reg. 9-f. 172 e 272, ed è datato dal Filangeri in uno dei 46 giorni che corsero dal 13-12-1276 all 28-1-1277. 

Solo allora, compiuta la mappa dei domini, probabilmente qualche anno prima del 1277, Longi fu data in feudo. 

Ne fu investito, in uno con la vicina Galati, un milites e familiares, cioè un nobile di secondo piano, parente del re.14

Trovo infatti, sempre nei registri angioini (vol. XVI, p. 27, Reg. 25, f. 31, riferito nel Registro settantottesimo), una disposizione esecutiva reale, in obbedienza alle ordinanze di restituire gli uomini fuggiti su terra altrui, con cui si autorizzava Bernardo Grancio a recuperare i suoi vassalli di Galati e Longi, i quali, pur essendo «angari e perangari» avevano abbandonato quel feudo.15

La sudditanza di Longi dall'Angioino durò fino ai Vespri siciliani. Rovesciati gli Angioini nel 1282, segue il confuso periodo del dopovespro e, subito appresso, il regno degli Aragonesi. Pietro d'Aragona è appena sbarcato in Sicilia e subito in un febbrile incalzare di ordini riannoda le maglie burocratiche dello stato. Traggo dai «Documenti inediti estratti dall'Archivio della Corona d'Aragona e pubblicati dalla Sovrintendenza agli Archivi di Sicilia» una serie di atti significativi.

13 I Registri della Cancelleria Angioina «ricostruiti da Riccardo di Candida e dagli Archivisti napoletani», Napoli, vol. XIV, pag. 97, n. 178.

14 Il suo improvviso infeudamento trova motivazione storica nella politica di Carlo d'Angiò che introdusse infatti nel regno di Sicilia «un feudalesimo al modo di Francia e copri tutto il regno con una rete di feudi, tenuti da baroni francesi». (Eugenio Dupré). E il Grancio, appunto, è un parente del re.

15 Fonti di questo mandato: Chiarito «Diplom. Rep.». Il Filangeri data questi fogli (dal I al 17° del Reg. 25) dal 1-9-1276 al 31-8-1277.

In data 27 settembre 1282 re Pietro ingiunge alle Università che per non incorrere nella sua collera non ritardino la spedizione del fodro e subito appresso invia Marco Cachiolo, commissario per la sua esazione, anche a Galati e Longi. In data 19 novembre conferma l'elezione di G. Raticus e P. Galimeri a Giudici del Casal di Longi (Documento CCXV). In pari data in una lettera ripresa al documento CCCXLVII invita gli uomini del Casale di Longi affinché ricevano come Acatapano della terra Iohannes Calamarii. Altra lettera in data 26 gennaio 1283 è indirizzata al Baglio e ai giudici di Galati e Longi perché dispongano la mobilitazione di 25 arcieri. 

E pochi giorni dopo, calcolando con realismo politico il vantaggio che poteva trarre dalla collaborazione con la chiesa, ordinava ai bagli, ai maestri giurati e ai giudici di varie università di costringere i debitori dell'arcivescovado di Messina a pagare al suo nuncio la dovuta quantità di «vittuaglie e denari». Tra queste Università sono indicate «Galati e Longi in val Demona». 

La notizia successiva relativa a Longi trovo quindi nel Codice diplomatico dei Re Aragonesi di Sicilia di Giuseppe La Mantia, Palermo 1917. È il documento XLIV datato 1291, 10 nov. indizione V, Catania, ed è un beneficio con cui l'infante Federico, fratello e luogotenente del re, Giacomo, concede il castello di Galati e il casale di Longi in val Demona a Riccardo Loria, fratello di Ruggero Loria, già dal 1283 Ammiraglio del regno di Aragona e di Sicilia. 

Nel testo stesso del privilegio Federico rifà un breve excursus della storia di Longi nei brevi anni (1283-1291) del trascorso dominio aragonese. 

Dapprima di Galati e Longi (recita il testo), erano stati investiti i nobili Aidone da Parma con la moglie Contissa, che ne avevano fatto un bene dotale per la figlia andata sposa a tale Bernardo de Enrico. Costoro, quasi subito, erano passati dalla parte del nemico e non avevano piú fatto ritorno in Longi, che quindi era stato tenuto da Riccardo di S. Sofia. Divenuto anche questi traditore di Giacomo, Galati e Longi erano stati revocati alla Regia Curia che, con l'atto di cui sopra, ne dava nuova investitura. 

Si provvide intanto anche dagli Aragonesi a far redigere una mappa dei feudi di Sicilia, corredata con l'indicazione del reddito che potessero annualmente produrre. 

L'elenco che va sotto il nome di ruolo feudale è datato 1296, anno dell'incoronazione di Federico II. In tale ruolo Longi appare assegnata in feudo (in uno con Monjolino, Ficarra e Galati) a don Blasco Lancia Miles e globalmente il suo reddito è calcolato in 400 once d'oro.

Tale documento non appare tuttavia credibile né per il contenuto né per la data. Intanto nel 1296 Ruggero Lauria non aveva ancora tradito; egli fuggi verso Napoli negli ultimi giorni del febbraio 1297. (Del bando di fellonia – datato febbraio 1297 - fa citazione nel «De Lancia di Brolo», F. Lancia, Palermo, 1879. 

E in tutto il ruolo, invece, (del 1296) il Loria appare spogliato di tutti i suoi feudi. 

E inoltre, per es., il 27 agosto 1297 da Castiglione appare datato un inoppugnabile documento con cui Federico II concedeva a Blasco d’Alagona la baromia di Ficarra « quae fuit de Lauria rebellis et proditoris nostri (da Acta Siculo-Aragonensia a cura di F. Giunta e Giuffrida). Il Lancia qui non è citato. 

Federico II, dunque, a distanza di pochi mesi, avrebbe investito prima un Lancia e dopo Blasco Alagona dello stesso feudo. Senza alcuna ragione storica o contingente avrebbe spogliato di un feudo, già assegnato, un Lancia? 

Longi fu certamente concessa intorno a quegli anni ai Lancia, e rimase in loro possesso in linea diretta quasi ininterrottamente fino al 1658, ma il ruolo feudale del 1296 non sembra il testo piú attendibile per certificare la data di tale prima investitura. 

Mi pare invece piú interessante citare altro privilegio un po' piú tardo. 

Il Pirri, che per primo tracciò la serie dei baroni di Longi e il Mugnos che ne scrive intorno al 1647, e l'Inveges che la ripropone nel 1651, fanno risalire all'ottobre 1302 un privilegio con cui Federico assegnava a Corrado Lancia la terra di Longi. Per la prima volta Longi - con alcuni casali - viene concessa come unico feudo (non piú legata a Ficarra o a Galati).

LA FORTEZZA DI LONGI

L'interesse del documento non è tanto nel fatto che – presumibilmente – questa è la prima donazione di Longi ai Lancia. L'interesse sta piuttosto nel fatto che Longi «oppidum» (non piú casale), viene concesso con la sua fortezza («eius Castro»). Tale fortezza che ancor oggi, con molti rifacimenti e superfetazioni, si erge nel centro del paese, si ipotizzava che fosse stata costruita dai Lancia. 

Ma il documento che la concede, già costruita, ai Lancia, la retrodata e potrebbe porre un'ipotesi storicamente valida. 

Si può cioè presumere che la fortezza, nel suo nucleo originale sia stata costruita dai Loria. Dopo la pace di Caltabellotta, che interesse infatti o quali obiettivi militari avrebbero avuto i Lancia per costruire una fortezza a Longi? Mentre questo impianto meglio si ipotizza al tempo dei Loria che armarono tutto il Demone, creando una cintura di castelli fortificati che  correva dal Tirreno allo Jonio, congiungendo Naso a Tripi a Ficarra a Novara a Francavilla a Castiglione ad Aci. Non è probabile che abbiano rivendicato – come fecero – nel 1291, Galati e Longi in feudo, per chiudere e saldare ad ovest l'immenso bastione delle fortezze?

La successiva citazione della fortezza di Longi in atti di stato trovasi nel ruolo feudale di Martino del 1408, dove il «Nobilis Blascus Lancea» appare investito «pro castro et loco Longi». 14

Di questa fortezza, al di fuori dei ruoli feudali, riferiscono due testimoni oculari non sospetti: un geografo, Claudio Maria Arezzo in «De situ Siciliae» stampato in Palermo nel 1537, e uno storico, il Fazello in « De rebus Siculis, decades duae » (Deca I, Libro X, cap. I), pubblicato in Palermo nel 1558.

Erano passati due secoli e la fortezza non doveva essere troppo difforme dal suo impianto originario. L'uno e l'altro autore infatti sottolineano le dimensioni insolitamente esigue della costruzione. «Longi oppidolum» lo chiama l'Arezzo, e il Fazello: «E sopra Alcara, a quattro miglia, è il piccolo Castel Lungo, da cui è un miglio lontana Galati».

Oggi tale costruzione, assai ampliata, copre un'area di circa mille metri quadrati.

All'origine fu costruita con indubbi criteri difensivi. Ne fanno fede il notevole spessore delle muraglie che nelle parti piú antiche superano i due metri e mezzo, e la sua ubicazione stessa, accortamente scelta: invisibile persino dal convento di Fragalà che ne dista due chilometri appena, la si scorge solo alla curva detta «Passo della zita» che si inanella a poche centinaia di metri dal paese.

Oggi le case le si addensano attorno, ma libera, un tempo, e isolata, si affacciava quasi a strapiombo da un lato sulla vallata del Fitalia e dall'altro sporgeva su una valletta detta oggi di S. Croce. Non fu dunque, come nel '600 divenne, casa nobiliare; fu un fortilizio idoneo all'avvistamento e alla difesa.

14 Muscia «Sicilia nobilis » edita in Roma nel 1692.

Porte, murate nel 1920, conducevano nei sotterranei, destinati alle carceri baronali.

Nel '600 fu ingrandita, si costruirono saloni e salette affrescati alla moda nel Veronese, si aprirono sulle mura balconi, si acquistarono mobili sontuosi, portantine, quadri, di cui recenti imprese ladresche han fatto razzia.


LA BARONIA DEI LANCIA

Longi dunque dal 1302 al 1658 fu feudo dei Lancia, una famiglia potente e vastissima, divisa in molti rami. 

Scopo di questo capitolo è di individuare l'esatto filone che la collega a Longi. 

I Lancia emersero nella storia d'Europa a datare dalla vicenda d'amore che legò Bianca Lancia a Federico II di Svevia e si concluse circa dieci anni dopo, tra il 1242 e il 1243 nel matrimonio.17

Nel 1232 era intanto nato Manfredi che Federico nel testamento indica come figlio legittimo designato alla successione nel caso di morte senza eredi dei fratelli Corrado e Arrigo.18 

Possiamo con buona approssimazione indicare nel dicembre del 1232 il primo incontro di Bianca e Federico. In quel mese per la prima volta appare alla corte di Ravenna Manfredi Lancia. La notazione è del Breholles. E da allora ininterrottamente, come un'ombra, Manfredi è accanto all'imperatore: tutti gli atti della cancelleria federiciana (privilegi, concessioni, esenzioni) portano il suo nome. Il 1232 dalla corte di Ravenna, da Venezia, da Melfi, da Precina, il maggio del 1233 da Messina20 e cosi via fino alla morte di Federico. Egli vi appare già dal primo documento col titolo di marchese, ed è il fratello maggiore di Bianca.

17 «Eam in obitu desponsabit» dice Fra Saglimbene da Parma (Chronic ad ann. 1268/f/295. Furono nozze, in ogni caso, del tutto protocollari. Federico le fé dono di un dotario reginale, come d'uso (Iamsilla «De rebus gestis Frederici imperatoris eiusque filiorum Conradi et Manfredi» pag. 107.

18 Manfredi portò però sempre il nome del casato materno e si firmò sempre Manfredi Lancia. Invece di arrossire della sua nascita se ne vantava (Breholles op. cit. vol. II, pag. CCIX, il quale cita «et che tutti li figli che nascono per amore riescono huomini grandi»).

19 Breholles op. cit.: vol. II p. CLXXXIV.

Tale, senza citare fonti, lo dà il Breholles.21

 Tale, sempre senza fonti, lo dà il Capasso.22 La fonte è solo l'Iamsilla (op.cit., pag. 130): «Il marchese Lancia che dal canto della madre era in stretta linea di sangue parente del principe Manfredi». Nel 1238 divenne Vicario Generale da Pavia in su nel primo dei vicariati che Federico istitui per stringere l'Italia in una struttura burocraticamente accentrata e compatta.23 

Ma già accanto a lui si faceva largo un altro fratello di Bianca, Galvano, il cui nome negli atti della cancelleria staufica per la prima volta appare nel marzo del 1243 in un mandato di pagamento.24 

Nel novembre del 1243 in una lettera «close» di Federico egli viene indicato come Vicario Generale della Marca Trevisana.25

20Breholles op. cit.: vol. II pp. 279 - 305 - 312 - 318 - 375 

21. Breholles op. cit. vol. II p. CLXXXIV: «Manfred Lancia, Frère de Bianca» 

22 Capasso «Historia diplomatica regni Siciliae », pag. 100, in nota. 

23 Ficker Julius, Forsschungen zur Reichs - und Rechtsgeschichte Italiens 1868 1874, vol. II, pag. 498. 

24 Tale mandato fu pressantemente ripetuto altre due volte a distanza di qualche mese perché i soldi non erano stati prontamente consegnati. Breholles, op. cit. Datum Piscarie 22/3/1240, pag. 858/Datum Fogie 10/5/1240, pag. 984; Datum in castris obsdione Faventiae 31/8/1240, pag. 333. 

25 Breholles op. cit., documento n. 377; & Cum lator presencium... nuncius Galvagni Lancie sacri imperi citra flumen Lolii usque Tridentum et per totam marchiam Tervisinam vicarii generalis ».

Il Gallo nei suoi Annali di Messina lo dice notato come i tradigoto della città per l'anno 1246.26

 Alla morte di Federico, i Lancia si schierarono dalla parte di Manfredi anche nei primi screzi con la corona imperiale. 

E Corrado imperatore, consapevole che i Lancia costituivano la colonna portante di Manfredi «comandò che Galvano e Federico, il fratello minore di Bianca,27 dovessero uscire dal regno insieme con le loro mogli, le sorelle, i figliuoli e le figlie di ogni età». 28

 Essi poterono poi rientrare in Italia a morte di Corrado nel 1254. 29

 Divenuto Manfredi re di Sicilia, nel 1258, fu raggiunto da o una scomunica papale che lo accomunava ai due fratelli Lancia, o nell'aprile del 1259 papa Alessandro IV ordinava che «seu Galvanus seu Fridericus Lancea frates quorum pravo et iniquo consilio idem Manfredi specialiter ducitur» fossero interdetti nelle città e in tutti i luoghi in cui erano stati signori.30 

Tranne che nel breve momento dell'esilio, in tutta la lotta disperata che Manfredi combatté contro le forze congiunte del papa e dei comuni al centro-nord, e contro le sedizioni baronali del regno di Sicilia, i fratelli Lancia costituirono la punta di diamante dei suoi eserciti, e una delle forze piú autorevoli e trainanti del ghibellinismo italiano, che raggiunse in quel tempo il momento della sua massima potenza. Nella curia di Barletta il 2-2-1257 Galvano fu fatto conte del Principato di Salerno, e gran Maresciallo di Sicilia e suo fratello Conte di Squillace. 

26 Gallo, Annali di Messina, tomo III, pag. 169. Ciò non è improbabile, anche O mancano i documenti ufficiali, perché, come nota il Gregorio, «avveniva che i baroni di prima dignità, gli stessi conti, rinunciavano di buon grado alla residenza Rel loro castelli per amministrare alcune città del demanio». ' 

27 lamsilla op.cit. pag. 117. 

28 Iamsilla op.cit. pag. 117. 

29 Galvano fu quindi delegato da Manfredi come suo nunzio presso la corte pontificia di Anagni e li, nello stesso anno, stipulò una pace di corta durata tra InnoOnzo IV e Manfredi (Capasso, op.cit., pagg. 76-77, che a sua volta cita Nicola de Curbio, n. 40. 

30 Capasso, op.cit., pag. 169, Documento n. 310.

E poco appresso Federico veniva nominato Vicario Generale di Manfredi in Calabria e in Sicilia.31

 Ma nel 1266, quando il papa, garantitisi i crediti dei banchieri toscani e romani, si alleò con Carlo d'Angiò, le maglie si strinsero intorno a Manfredi che molti abbandonarono. È di allora la frase certo un po' romanzata, ma verisimile che il Malaspina mette in bocca ai due Lancia: «et si statim nos oporteat mori tecum, non te negabimus en personam tuam... vestigio sequimur...».32

 Nella sconfitta di Benevento sul cui terreno Manfredi moriva, Federico e Galvano furono tra i rari superstiti e trovarono scampo in una avventurosa fuga verso gli Abruzzi e la marca d’Ancona;33 da lí «in Calabria evaserunt et... Terracinam perrexerunt».34

 Giunti a Roma finsero di implorare la remissione della scomunica dal papa. Ma la commedia era volta a prender tempo e a servire da copertura al segreto lavorio con cui, senza intervallo, dopo il disastro, febbrilmente organizzarono attorno a loro le forze ghibelline, da cui ricevettero di fatto lettere promissorie e denari. Allora si recarono in Germania a «Svegliare il cucciolo dormiente», il sedicenne Corradino, nipote di Federico, «qui ab illorum omnium promissis impulsus» decise la campagna militare per strappare l'Italia all'Angiò.35

La stagione eroica del piccolo figlio di Corrado durò meno di un mese. Nella catastrofe di Tagliacozzo, Corradino cercò scampo nella fuga affiancato dal duca d'Austria, da Galvano Lancia e da un figlio di quest'ultimo, Galeotto. Traditi dal Frangipane e consegnati all'Angiò, condannati alla pena capitale, i due Lancia furono decapitati. Ma alla morte di Galvano, l'Angiò volle aggiungere un sovrapprezzo di ferocia: «Tandem Galvani filius patre presente, ac similem sententiam expectante, capite mutilatur».36

31 Iamsilla, op.cit., pag. 194. 

32 Malaspina, op.cit., Libro III, cap. X.

33 Malaspina, op.cit., Libro III, cap. XII. 

34 Capasso, op.cit., pag. 313 in nota al par. 516. 

35 Malaspina, op.cit., Cap. XVII del Libro III.

36 Malaspina, op.cit., Cap. XII, Libro IV.

Estinti dunque e Federico e Manfredi e Corradino, si poteva pensare morto ogni seme della casa di Svevia e ogni speranza del casato dei Lancia. Ma nel 1262 Manfredi aveva sposato la sua figlioletta quattordicenne, Costanza, a un figlio cadetto del re d'Aragona, Pietro, che divenne, nel 1282, dopo i Vespri siciliani, il nuovo re di Sicilia. 

I Lancia tornarono allora in forza dai loro esili; tra i primi, la vedova e i figli di Galeotto Lancia; e fu il maggiore di questi giovani, Corrado, che divenne il primo barone i di casa Lancia della terra e della fortezza di Longi, col privilegio datato in Catania il 15 ottobre 1302 /13 indiz. (Roccho Pirri - Chronologia regum, pagg. 46/47: «Inde Galeocti uxor cum liberis iram Caroli Andegavensis declinantes, in Siciliam se transtulerunt ubi rege Petro I uti Cunstantiae uxor genere propinqui satis benigne excipiuntur... Conradus enim, Galeocti maior natu filius, anno 1302, rege ex diplomate dato Catanae, 15 octob., oppidis Longi, et Castaniae donatur») — Inveges A., Annali della felice città di Palermo, Palermo, | 1651, Parte III: « Corradus Lancea consanguineus noster, filius Galeotti, et nepos Galuani, qui seruiendo nostris anteGessoribus contra Gallos amiserunt vitam... Tibi Corrado damus Terram Longi, cum eius castro... et cum Castaniae, Rendaculum et S. Marina».

Passarono oltre 3 secoli.

Intorno alla metà del 1600, il barone Pietro Maria Lancia, consapevole che con lui si spegneva il casato, non avendo avuto figli maschi, riuni le ossa dei suoi antenati, le compose e le seppelli in una cripta ricavata sotto il coro della cattedrale di Longi, come la lapide sopra impostavi, ancor oggi dice: « Don Petrus Lanza,/Longi baro ac familiae/ caput e ducibus Bavariae ortae maiorû hic reduscit composuit tumulavit Anno DNI 16


Laudedeo Testi

Capitoli di Concordia

tra

L’Università di Longi

e

Il Barone Francesco Lanza

(1570)



Messina

Tipografia D’Amico

1903


Un estratto dalla relazione integrale, redatta per conto del Comune di Longi,

 di Laudedeo Testi sui

CAPITOLI DI CONCORDIA

tra l’Università di Longi e il barone Francesco Lanza

(1570)



“Nel passato settembre volli recarmi nell’interno della catena Peloritana, vago di conoscere con precisione quella parte della Sicilia, 1’unica che fino ad allora mi fosse ignota. La realtà superò di molto ogni mia immaginazione, poichè la natura ha riunito in quei luoghi con accordo mirabile maestà e bellezza. Ricorderò sempre con intensa emozione le balze scoscese che levano al cielo punte arditissime, i pascoli sterminati che vestono di verde ogni colle, i boschi folti di quercie o di cerri giganteschi, che stendono, colle verdi criniere squassate dal ponente, dense e quasi impenetrabili ombre piene di fantasie e di visioni.

Nelle vicine caverne profonde e misteriose aleggia tuttora l’antico genio di nostra gente negli avanzi preistorico-archeolitici, nei frammenti d’ossa spaccate, nella scheggia di pietra, nei rozzissimi fittili, o nella più recente ascia bronzea. (N.d.r. Si presume che il Testi abbia visto questi reperti archeologici in quei luoghi). Mentre a Castrum Longum, sopravvivente solo nella memoria dei posteri e in qualche muro semi diruto, la vita greco-romana si rivela all’ occhio intento, che scruta il solco aperto dal vomere dell’aratro, ancora virgiliano, tornante al sole i rubei lucidi frammenti delle anfore. E il popolo narra la sera, novelle di saraceni ritiratisi sull’arce preparati all’ ultima pugno disperata o di feroci vendette popolari esercitate sull’odiato barone, ucciso lentamente e in modo atroce, insieme con la moglie, nel suo stesso castello. E’ bello in questi monti vivere e sognare.

I giorni di cattivo tempo, che m’impedivano d’andare vagabondando e fantasticando li passavo negli archivi comunali o parrocchiali. Così venni raccogliendo una quantità di materiale inedito che ritengo utile per la storia del diritto siciliano, privato e pubblico. Fra i molti documenti scelgo, per ora, quello che contiene i Capitoli di concordia tra l’Università di Longi e il barone di detta Terra (Esistono nell’archivio  comunale di Longi).

Ora che nuovi e più ampi orizzonti di diritto si svolgono dinanzi agli occhi ansiosi delle plebi, e  che un senso di rinnovellata giustizia tende a far scomparire anche in Sicilia gli ultimi avanzi del feudalesimo, il quale angariò per tanti secoli lo misere popolazioni campagnole, credo non sarà discaro ai lettori dell’Archivio  conoscere come fin dal 1570 i nativi di Longi, povero ed oscuro paesello di montagna, cercassero in qualche modo di limitare i poteri baronali.Erano a ciò favorevoli i tempi.

……………..

Studiando nell’archivio comunale del luogo vari documenti, volli informarmi della sorte che avevano avuto gli usi civici locali e seppi che anche Longi fu vittima di magistrati corrotti, essendo noto che il primo eletto (sindaco) e il segretario del comune, quando si intentò lite al barone, erano dipendenti e stipendiati di quest’ ultimo. Nessuna meraviglia che, per allora, il comune restasse soccombente, perchè la G. C. dei Conti di Palermo composta del Marchese D. Francesco Pasqualino Presidente, del Marchese G. Battista Guccia Vice Pres. e di altri nobili consiglieri, abilmente preparata, ritenne il 9 luglio 1845 << i feudi su cui verteva la questione facessero parte non del comune di Longi, ma di quelli di Galati e di Alcara » fondandosi su  due documenti allora recentissimi, fatti fare in quel modo dalle persone interessate, mentre nell’ archivio comunale erano numerosi i documenti, qualcuno scritto dagli stessi baroni, che dichiaravano come i feudi avessero sempre fatto parte del Comune. (Supplica del Marchese Spinotto 1748. Lettera di manutenzione della G.C. del 28 luglio 1629, del 1648. Da un ordine provvisionale del Tribunale di Palermo del 9 aprile 1659 e finalmente dalla sentenza definitiva del 28 giugno 1782 data da Ferdinando I. Qualcuno di questi documenti si trova nell’Archivio di Longi dove lo rintracciai in mezzo ad una farragine di minute, di capitoli matrimoniali dei baroni del luogo ecc. ecc.).

Nessuno di questi documenti fu presentato in causa ben s’intende. Come, curiosità giuridica e perché ne resti traccia non cancellabile nell’Archivio vogliamo riportare la motivazione speciosa di parte della sentenza: «L’intendente di Messina (e non era vero) e il barone ritennero che i feudi non fossero nel territorio di Longi e poichè il comune non si è gravato di questa parte dell’ordinanza non è necessario che la Corte se ne occupi. >>

Quasi bastasse non gravarsi di cosa non vera, perchè questa vera debba ritenersi dal giudice o non spettasse invece al magistrato l’obbligo di indagare se 1’ asserto di una delle parti, senza 1’appoggio d’ alcuna prova, sia la verità.

…….

Tutto l’atto è compreso in due fogli di carta, intonsi, della dimensione di centimetri 31, occupa sette facciate…… Il manoscritto che è molto macchiato, riesce, in qualche punto, d’incerta o difficile lettura a causa della mancata conservazione del documento, il quale del resto è vergato con scrittura.

Messina 15 dicembre 1902.

 Laudedeo Testi.”


L’argomento segue con il testo, relativo ai contenuti dei “CAPITOLI DI CONCORDIA TRA UNIVERSITÀ DI LONGI E LA BARONIA DEI LANCIA”, ripreso dal saggio di Giusi L’Abbadessa “L’Università di Longi dal 1183 al 1658” in quanto è di immediata e chiara comprensione (una sorta di traduzione) rispetto alla lettura del documento originale, redatto in lingua latina del tardo medioevo mista ad un siciliano dell’epoca.

“Un documento del 1570 che Laudodeo Testi nel 1902 trovò nel1’Archivio comunale di Longi, consente di tracciare per larghe linee un profilo delle condizioni dell’Università di Longi dopo circa tre secoli di dominio baronale e dei rapporti intercorrenti tra comunitas e baronia.

Il testo è un atto notarile redatto per mano del notaro Nicoli de Rubeo della terra di Galati.” (Fu pubblicato nell’Archivio storico messinese, III).

Il Testi riferisce che sulla guardia posteriore, in caratteri sincroni, e probabilmente della stessa mano che vergò 1’atto, reca scritto Capitoli di concordia tra l’Università di Longi e il barone di detta terra>>.

Il manoscritto era molto macchiato e riuscì al Testi di difficile e incerta lettura; la trascrizione risente di tali difficoltà; di essa dunque riferirò solo ciò che dovette apparirgli chiaro e non controverso.Innanzi al notaio compaiono, da un lato, don Francisco Lanza, barone del tempo e, dall’altra, in qualità di Giurati e difensori dell’Università di Longi alcuni abitanti del luogo.Costoro sono stati appositamente eletti in una assemblea dell’Università convocata in una pubblica piazza al suono della campana e alla presenza del notaio stesso.E ciò in riferimento e in esecuzione di una prassi che viene detta abituale (<<uti fieri solet»).

Questi Giurati sono come i boni homines di un tempo, scelti fra i più rappresentativi <<primatores et nobiles>> della comunità, ma, a differenza di quelli, hanno un mandato elettivo e la funzione di rappresentare specificamente l’Università, di contrarre in suo nome obblighi, e di difenderne i diritti innanzi all’autorità baronale. Il quadro che si ricava dalle pagine è composito e vario. Le poche macchine della produzione del lavoro sono in mano del barone. Suo è il paraturi, una rudimentale fabbrica di panni, dove si manifatturavano a cottimo due tipi di tessuto: l’abracio per l’abito contadino, e lo stamigno che serviva per gli stacci.

Suo è il mulino.

Gli allevamenti sono sottoposti a decime: su capre e pecore non è esatto nulla fino a 10 capi, ma si impongono due grani a capo da dieci animali in su, e 10 tarì per più di cento capi, più due bestiole, a scelta di Sua Signoria.

Nulla sui porci fino a 10 capi e nulla fino a 14 porcellini, ma 3 tarì per centinaio. Cinque grani a testa per le vacche,3 per ogni vitello. Sull’allevamento pesa il contributo della beccaria: 10 grani per gallina, 3 grani per ogni pollastra e il documento stabilisce: «l’ancidiri di gallini s’abbia a fari pro li strati e non intrari in lochi chiusi per ammazzarili… ed ammazzarli p(resenti) gli officiali...di Sua Signoria».

Ma su11’al1evamento gravava anche altro balzello: di pascolo, «a tempo di ghianda»: due tarì per meno di 10 capi; per più di 10 capi, a discrezione del fattore che poteva o esigere il carnagio o due tarì per capo. Inoltre, a Sua Signoria, 1’Università doveva «accattari un bonu crapio seu crapia o uno porco e, mancando, pagare 12 tarì» (come diritto di caccia).L’Università potrà andar per legna, tranne di quella verde e con esclusione di cerri e di quercie e potrà raccogliere ghianda nei boschi quando sugli alberi non vi saranno più di 10 once di frutto.Altro diritto che il barone rivendica è la vendita con prelazione del proprio vino e fa espresso divieto ai coltivatori di vendere il proprio per due mesi «quali misi vorrà». Come si vede, il barone impone balzelli ed erode come può i diritti della comunità. Sono inoltre descritte in modo minuzioso tutte le multe per violazione delle norme e quanto pagherà il porco, quanto il bue, quanto se sciolto, se colto, entro tre passi dal confine, e se la pastura era corta, se fradicia, se sottile. Tutto un elenco di notazioni che chiarisce come dovette essere fiscale e inquisitivo il controllo del barone e dei suoi uomini sugli habitatores del feudo.

Per gli uomini che contravvengono, oltre alle multe, è previsto il carcere, ma il testo, laconico al riguardo, si rifà ad usi antichi.

Il discorso muta se riferito all’agricoltura.

Il barone (è la vera ragione dell’atto), sottraendole al diritto di pascolo della comunità, requisisce 8 salme di terreno allo scopo di realizzare due <<difisi>>,  per fare erba per i cavalli del servizio militare, e per cavalli, giumente e buoi suoi propri, impegnandosi a non rivendere queste terre e garantendo a tutti libero pascolo, nel caso in cui, contravvenendo all’impegno preso, le rivendesse. Il testo fa un cenno ancora a servitù della gleba, e si citano i vassalli accanto e in contrapposto ai burgisi, ma la gran parte dei lavoratori della terra è ormai solo quella salariale, con cui il barone deve fare i conti.

Per il trasporto di paglia e alberi, di sarmenti e di pali, non si può pretendere lavoro di corvé: <<vu1endu l’università dari aiutu» gli uomini debbono essere compensati con la spisa di lu manciari e biviri>>. Ma non vulendu dari l’aiutu ogn’unu sia libero >>.

Per il trasporto (con buoi o muli o cavalli) di mole per il mulino, si concorda un compenso di 18 tarì per mola con <<la dispisa del mangiati e biviri» e sei misure di grano. Tale compenso è previsto anche nel caso che occorrerà «consari li prisi>>. I tessitori nel paraturi saranno compensati con 1 grano per canna per 1’abracio, e con 4 grani per ogni canna di stamigno.Il lavoro salariale appare in qualche modo articolato: e si fa obbligo al barone di pagare «la mercede» a secondo delle arti, li zappaturi pri 1’arti sua, e 1i correri e mercenari e li uomini burgisi>>.Sono richiamati i diritti dei proprietari di allodi: «Quelli persuni, le quali teninu possessioni infra li boschi di S. Sig. comu supra Vinu e lo Drpso siano di d.ti possessioni veri Sig. e Pai, tantu di lu terrenu, quantu di l’arbori domestici e servagi...».

Inoltre Sua Signoria abbia da osservari et si contentare di la osservanza ed anziana consuetudine, chi si soli guardari e si usa al presente intra la Terra di Longi e la Terra di Galati di essiri Burgisi di una terra e 1’altra e non essiri obligati come Burgisi a pagari (decime e dogane) per li cosi proprii...>>.

L’atto brulica di uomini di Sua Signoria: bagli, e loro sostituti, ufficiali, un capitano, «segreti», fattori preposti a compiti distinti, anche un fattore della ghianda.

Ma sembra sopravvivere ancora 1’antica tradizione dei boni homines a garanzia di una corretta applicazione delle leggi, anche se il loro ruolo appare limitato, nell’ambito civico, a quello di testimoni in caso di violazione di patti tra Università e potere baronale: le infrazioni infatti debbono essere contestate solo alla presenza di uomini degni di fede, che «siano scritti e fazano fidi», secondo 1’antica formula. «Cui tagliassi ruvoli o cherri si piglianu legittimamenti infrangranti more solito, dummodo che non sia Bffli (ufficiali baronali), né uomo di casa di Sua Signoria; e che l’Offli che lo pigliassi co ajunto con un altro testo digno di fido, siano scritti e fazano fidi»...  

<< Li Patruru e lu Purcaru possano pigliari lo Test. undi lu trovanu>>.Firmano 1’atto altro notaro, di cui non è precisata la provenienza, l’arciprete di Galati, un presbitero e alcuni testi di Francavilla e di Galati.

Tutto sommato, però, questo documento consente di ipotizzare, (almeno per una parte del1’Università), un livello economico meno misero di quello di altre piccole comunità montane del tempo. I capitoli infatti prevedono decime per branchi di centinaia di porci e per greggi di centinaia di capre e pecore 3 tari per centinaio»). Le multe per i bovini sono invece calcolate solo per capi, proprio perché la previsione di un armento di 100 capi sarebbe stata irreale.

Ma 100 o più pecore, 100 e più porci rappresentavano un potenziale di rendita non usuale nella civiltà contadina e pastorale del 500 siciliano.

E inoltre uno dei capitoli di concordia assicura che non incorrerà in multe chi «essendo di servitù» metta il suo mulo o il suo cavallo a pascolare nelle terre baronali. E quello era un tempo in cui per 1o standard medio della vita di un burgisi o di un villano, l’acquisto di un ronzino, per il prezzo che già al tempo degli svevi si aggirava sulle 4 onze e per quello che costava mantenerlo, era - dice Illuminato Peri - <<addirittura una velleità>>. (Peri Illuminato «Uomini, città e campagne in Sicilia dall’XI al XIII secolo», p. 23).

Convalida questa ipotesi anche quanto su11’incremento demografico del paese riferisce Vito Amico: «Sotto Carlo V - egli scrive - Longi contava 172 case e ne11’anno XCV del suo secolo erano 578 gli abitanti» ma «nella metà del secolo seguente numeravansi 289 case e 1054 abitanti>> (Amico Vito M., Lexicon topographicum sìculum).

Ora, se una popolazione, ne1l’arco di un secolo, si raddoppia e può costruire 120 case per i 500 nuovi abitanti, appare evidente che dovesse godere di una certa sicurezza sociale e di una rassicurante disponibilità economica.

Una piccola fonte di reddito dell’Università longitana era rappresentata nel cinquecento anche da11’affitto di alcune terre. Da un rivelo delle varie Università comunicato al Tribunale del patrimonio nel 1593-94 sullo stato dei loro patrimoni e demani apprendiamo che 1’Università di Longi aveva in proprietà delle terre comuni probabilmente donativi, fatti in epoca non rilevabile, da sovrani che avevano rinunciato ai loro diritti in favore dell’Università al fine di costituirle fondi comuni di cassa per pagare le varie collette, donativi, contributi, adoamenti e tutte le altre spese a cui le Università erano tenute. Tali terre però gli abitatori di Longi non avevano in possesso esclusivo: tra l’Università e il baronato esisteva ciò che il Genuardi chiama «diritto di condominio». Ecco perché, decidendo 1’Università di Longi di ingabellare alcune terre comuni ai borgisi armentisti e ai pastori, nel rivelo, accanto ai suoi rappresentanti «giurati eletti dal poplico parlamento>>, figura l’altra parte, il barone Lancia pro-tempore. Il Genuardi che purtroppo riproduce del documento solo lo stralcio riportato appresso, sulla ripartizione degli utili della gabella accredita l’ipotesi che la metà dei proventi spettasse al barone, metà all’Università.

<< Li territori di ditta terra si solino alcuni anni cum lu intervento del Spettabile baruni di detta terra et per li depotati eligendi per li genti di ditta terra onz. 10. Quali pagano li borgisi di ditta terra cui à bestiame et si parti per testa della bestiame quali dura da la prima di settembro per fin all’altro settembro et così si soli fari alcuni anni>>. ( Genuardi L., Terre comuni ed usi civici in Sicilia prima dell'abolizione della feudalità, Palermo, 1911).”


Nota. Il testo originale dei “Capitoli di Concordia.” è trascritto nella pubblicazione di Giusy L’Abbadessa per i tipi de “La Grafica editoriale di Messina- anno 1990”.

Si dà qui l’interpretazione riportata nei testi di alcune parole maggiormente incomprensibili, :

Burgisi= affittuario di un terreno da coltivare;Pai = Padroni;atrasci = attrezzi; Patruri = Pastori; legmu = legittimo;Xmi = decime.


Lapide della sepoltura, nella Chiesa Madre di Longi, del barone Pietro Maria Lanza, firmatario dell’accordo con il popolo longese.





CRONISTORIA DELL’ANTICA  AMMINISTRAZIONE

Allorquando nel luglio del 1903 il paese si liberò dal governo di un’amministrazione dispotica, un inno generale fu innalzato a dimostrazione di fiducia e di simpatia per la novella amministrazione che, scuotendo il giogo, avea instaurato il paese a novella vita. Ora sono gli stessi caduti di allora che innalzano gli scudi insinuando e montando le masse ignoranti con mille infamie, che sentenziano la fine dell’amministrazione modello.

É bene in questo travolgere di vicende rievocare il passato funesto dell’amministrazione che fu e riassumere l’opera spiegata per ben quattro anni dell’amministrazione che vive ancora animata dagli stessi sentimenti di patriottismo, d’imparzialità e di bene pubblico, sentimenti espressi con pubblici manifesti allorquando io fui Sindaco.

Ad illustrare la prima parte basta richiamare la relazione di S. E. il Ministro Giolitti che precede il decreto di scioglimento di questo Consiglio comunale del 26 febbraio 1903. Con essa si accusa il Sindaco di allora di sleale condotta, si dice che “le elezioni si facevano sotto le pressioni «esercitate dalla famiglia del Sindaco e non corrispondevano alle legittime aspirazioni della parte migliore di questa popolazione”.

« La situazione della rappresentanza municipale peggiorò, rimanendo completamente ascritta al volere ed al governo, quasi dispotico, della predetta famiglia del Sindaco, guidata dall’unico intento di reggere le redini del potere per mezzo di una maggioranza tenuta compatta o per ragioni di parentela, o con partecipazione a vantaggi materiali. Cosi non poche opere pubbliche furono deliberate ed eseguite per favorire i protetti e consolidare proprietà di privati, senza che fossero consigliati da reali bisogni del Comune; l’esecuzione di esse fu stabilita in lotti di L. 400 ciascuno per sfuggire all’obbligo di appalti e compierli in economia; furono adibite ai lavori persone debitrici della famiglia dei Sindaco, che ricuperava i crediti riscuotendo i salari dovuti dal Municipio a quegli operai.

Nella spesa municipale si è sempre studiato di avvantaggiare consiglieri ed anche qualche assessore, pagando loro prestazione di opere manuali e forniture commesse. I pubblici impieghi, in ispecie quello di maestro elementare e di medico condotto, sono sempre conferiti ai parenti del Sindaco, e per indagini fatte eseguire si sono rilevate irregolarità nel conferimento dell’Esattoria comunale.

Da molti anni per ordine del Sindaco sono state soppresse due strade pubbliche. . . . . . . . . Dato formale «ordine che le due strade in parola venissero riaperte, il Sindaco si è sempre mostrato riluttante ad obbedire, poichè la riapertura di una di esse lederebbe interessi di un suo zio. Un provvedimento a carico del Sindaco non cambierebbe la fisionomia e le tendenze del Consiglio comunale di Longi, poiché l’amministrazione rimarrebbe soggetta alla prepotente influenza della famiglia del Sindaco stesso, e il prolungarsi di uno stato di cose, che già appassiona gli animi di molti potrebbe recare agitazioni pericolose per l’ordine pubblico.

Una misura di carattere eccezionale si sente pertanto indispensabile per riparare alle riscontrate irregolarità e ridonare a quel Comune un’amministrazione che sia la legittima espressione della volontà degli elettori.

Il R. Commissario cav. Beisso, venuto allora da Roma, con la relazione che lesse al Consiglio, ecco quanto riferisce sul ruolo focatico: «La commissione non credette opportuno di formulare neppure la matricola 1903, recando grave danno al regolare movimento economico del Comune. Perciò, anco in considerazione che il maestro di scuola, presidente di essa Commissione, non figura nel ruolo degli anni passati, ho provocato dal Presidente del Tribunale la nomina di un Commissario  In proposito è bene notare che il detto maestro di scuola per l'anno corrente è stato tassato pel pagamento di detta tassa di famiglia; ebbene l’unico e solo in tutto il paese che ha fatto reclamo è stato lui, sostenendo di non dover pagare tale tassa perché vive in comunione con suo zio l’arciprete. Il Comune dovette sostenere una non lieve spesa per convocare la commissione apposita che, con l’intervento del Pretore del mandamento, dovette discutere l’unico e solo reclamo. Ecco i savii ed i salvatori della patria. Continuando con la relazione del R. Commissario sarebbe lungo il solo accennare ciò che riguarda la pubblica istruzione, e, quindi, riportiamo un solo capitolo: « Riguardo al campicello, e perché si conoscano a luce meridiana i sedicenti amici del popolo, eccovi un brano «di storia documentata, le cui prove, giacenti alla Sottoprefettura, non potrebbero essere sottratte da chicchessia... «Ma poiché la Sottoprefettura venne a tempo informata «della losca faccenda, la quale, se fosse riuscita, avrebbe portato al concedente l’utile di vedersi bonificare, a spese del Comune, un terreno sassoso, a pendio, brullo perfino «di qualunque erba spontanea, e la di cui proprietà non è effettivamente chiara, guadagnandovi oltre a trecento e più lire per la sola costruzione dei muri di cinta, nonchè «una rendita annua di L. 10 di fronte a. 400 mq. di terreno, la Sottoprefettura, dico, saviamente volle spiegazioni con nota 3 febbraio 1899 N. 505, e le spiegazioni le furono date, ma in un modo che non voglio qualificare, perché dovrei scegliere nel vocabolario la più rovente delle parole. Fortunatamente, per quanto gli speculatori si arrovellassero, la Sottoprefettura sospese ogni esecuzione e così quando venni tra voi, il campicello deliberato con tanta tenera urgenza, era rimasto un pio desiderio..........

«Epperciò mi rivolsi al Duca d’0ssada Loffredo Vincenzo, il quale da buon ufficiale dell’esercito e da ottimo cittadino, mi rispose: «Scelga nelle mie proprietà quella «zona di terreno che più stima utile al progresso educativo agrario di Longi, ed io lo concederò volentieri gratis in perpetuo a complemento delle scuole.» Mi recai difatti «in contrada Cerosîmi e là venne dal perito, sopra mia «indicazione, designata l’area di mq. 1490 di terreno fertilissimo e coverto da molti alberi fruttiferi. Tale concessione autorizzata con decreto prefettizio 11 spirante luglio, fu resa esecutoria giovedì passato, 16 stante, con «una festa che rimarrà indimenticabile nel cuore e nella «mente di tutta Longi, salvo di coloro i quali non vedono al di là del proprio tornaconto.»

Non riportiamo quanto di edificante la relazione ci fa apprendere sul capitolo dei lavori pubblici, basta leggere solamente il brano riguardante la strada S. Salvatore accennata nella relazione che precede il decreto di scioglimento del Consiglio comunale.

È bene però riferire quanto il R. Commissario ci apprende riguardo di conciliazione: «Appena fui tra voi vidi che il Comune, mentre stava in disagio, lasciava poi che un suo locale fosse per pochi soldi tenuto dai civili; lo richiesi al locatario che di buon grado lo retrocesse. Ma vennero subito opposizioni da parte di pochi, cui stavano più a cuore i propri personali interessi, che l’utilità pubblica. Né lasciarono alcun mezzo da parte per confondere e spaventare; si «arrivò per fino a commuovere la Prefettura con un telegramma minacciante nientemeno che la rivoluzione. «Ma quando l’autorità si accorse del tranello ed ebbe la dignitosa protesta di cinque soci, sopra undici che ne contava il casino, dette forza alle mie provvigioni, talchè riebbi il contrastato locale senza che il popolo versasse «neppure una lacrima».         

Questo precedente dovrebbe ammaestrare le autorità al giorno d’oggi.Non vogliamo dilungarci a riportare ciò che il R. Commissario dovette deplorare in riguardo ad una interessata agitazione che si fomentava anco allora in rapporto agli usi civici; sarà bene però rammentare su questo argomento le sue conclusioni. <<. . . . . . Stando così le cose e perché non si continui dalla furberia interessata un giuoco veramente inqualificabile, Voi (al nuovo Consiglio) cui so che stanno a «cuore gli interessi ed i diritti di Longi, Voi dico, ratificherete, non ne dubito punto, la nomina da me fatta dell’on. comm. avv. Gatto Cucinotta, quale consulente per gli usi civici.

«A questa maniera soltanto potrete calmare gli animi dei contadini scaltramente eccitati e da taluni messi su «a tumultuose richieste che non si possono vagliare o «soddisfare, venendo a mancare l’esame e l’integrazione dei titoli.

«Anzi, farete meglio, nell’interesse di tutti i comunisti (gli abitanti del comune n.d.r.), se diffiderete legalmente i sedicenti possessori di documenti a metterli fuori, altrimenti ogni galantuomo dovrà severamente giudicare costoro, l’autorità per misure d’ordine pubblico, metterli a posto con i mezzi che non le mancano . . . . . .

«Dimostrate insomma che il rendere giustizia, sia pure amministrativa, non è privilegio esclusivo di taluni ma dovere generale, vivo e sacro di quanti ricevono l’onorifico, ma difficile ufficio di consigliere del proprio Comune. Soltanto in questa maniera, lo ripeto, ogni trama contra la verità e la realtà delle cose verrà meno perché «il vero è luce rilucente da cui restano abbarbagliati e confusi tutti coloro che hanno comune col gufo l'amore delle tenebre.»

E dopo tutta questa vergognosa diagnosi dei mali che affliggevano e rodevano quell’amministrazione per opera di una interessata consorteria, il giudizio che ha dato lo stesso paese si rileva dal verbale della seduta consiliare in cui la relazione fu letta. Il nuovo Consiglio ratificò la nomina dell’avvocato consulente, questi studiò i titoli del Comune, scrisse una relazione che è agli atti del Comune stesso, ma la malvagità si fa più fiera e le tenebre sono più oscure al giorno d’oggi.

Non è fuori proposito riportare anco l’ultimo brano della relazione del 28 aprile 1904 scritta dalla Commissione composta dai membri della Giunta provinciale amministrativa signori Stagnitta, prof. Orioles ed avv. Pisani, recatisi qui in Longi per inchiedere su di un ricorso calunnioso.«È certo che il partito della disciolta amministrazione si era reso ormai inviso alla grande maggioranza del paese, la quale si rivolse al Marchese di Cassibile affinchè intervenisse nella lotta e raccogliesse intorno a se il corpo elettorale, per abbattere il partito dell’arciprete Sirna, « e con ciò resta escluso che il Marchese abbia avuto quell’interesse personale che gli avversarii gli attribuiscono e che solo l’avrebbe potuto spingere a quegli atti illeciti denunciati dal ricorrente Bellissimo.»

Ecco per ultimo quanto ha letto S. E. il senatore Cavasola alla IV sezione del Consiglio di Stato nella seduta del 25 maggio 1905: «Disciolta con decreto reale del 26 febbraio 1903 l’amministrazione comunale di Longi, furono indette le elezioni amministrative pel 19 luglio 1903.

«La lotta per tali elezioni fu aspra tra i due partiti: il «vecchio spodestato e che dalla relazione ministeriale precedente il decreto di scioglimento del Consiglio comunale, era stato giudicato in modo molto severo e che faceva «capo all’arciprete di Longi; e l’altro: il partito giovane «composto di quanto di migliore vi è nella popolazione di Longi e da tutti quei cittadini che rimasti inattivi, nelle precedenti lotte, avevano sentito il dovere di portare il loro voto nella lotta nuova per non fare ritornare al governo della cosa pubblica i rappresentanti della parte, che avevano dato tante prove d’inettitudine e di favoritismo. Il nuovo partito assai preponderante di numero sull’altro, fece capo al Marchese di Cassibile».

Aggiungere commenti a tutto quanto si è esposto sarebbe un diminuire l’eloquenza di tali constatazioni scevre da passioni di parte e del giudizio riportatone dallo intiero paese, che poté finalmente guarirsi da una lebbra che lo rodeva.

Si provino pure i personaggi di questa storia, che sono quelli stessi che con tutti i mezzi cercano di riafferrare il potere, a smentire, non me, ma gli illustri autori della storia stessa.

L'OPERA DELL’ATTUALE AMMINISTRAZIONE COMUNALE

Quando questa amministrazione venne al potere ebbe in consegna una cassa con L. 0, 68 di deficit (verbale di verifica di cassa del 31 agosto 1903); ed ereditò L. 1873, 99 di debiti giusta la seguente distinta: resto di stipendio al commesso Bellissimo L. 224, 50; fitto scuola maschile L. 50; proietti L. 94, 77; ferrovia Messina-Cerda L. 266; accertamento passa bestiame L. 100; ratizzi al circondario di Patti 16 L. 95, 84; lavori all'acqua L. 80, 30; pel campîcello scolastico L. 169, 25; spese di liti L. 139, 65; aggio al Tesoriere per due annate precedenti L. 160, 02; debito Battei L. 281, 60; debito Tipografia Mistretta L. 21l, 26; in totale L. 1873, 99. Con economie e con introiti straordinarii procurati con taglio di arboscelli e vendita di legno morto nel bosco comunale, nel turno di poco tempo i debiti furono tutti estinti, tanto che l’anno finanziario si chiuse con un fondo di cassa di L. 1924, 73 (vedi verbale di verifica 31 dicembre 1903).

Dopo un anno appena di vita amministrativa andò in effettila vendita degli alberi del bosco comunale che per dieci anni altri amministratori non avevano potuto effettuare; con ciò il Comune introitò L. 14230 e l’amministrazione onesta pensò di acquistare cartelle del Debito pubblico costituendo una rendita annua di L. 600 circa. Qualche altra amministrazione avrebbe maneggiato e distribuito meno equamente tale somma.

Rialzate cosi le finanze del Comune, senza rincrudelire tasse, anzi scemando queste, si è pensato ad importanti opere pubbliche. Per accennare: si è dotata la chiesa del cimitero del relativo campanile e di tutti gli arredi sacri, inaugurandola al culto pubblico, ciò che non avevano fatto per circa venti anni gli altri amministratori. Si è attuata l'illuminazione pubblica con 50 lumi fatti costruire economicamente ed appaltando il servizio con gran vantaggio del Comune che così si è elevato a popolo civile. Si è acquistato un bellissimo orologio da torre dalla casa Michelangelo Canonico, sostituendolo ad un vecchiume che rammentava i tempi preadamitici.Si è instituita una scuola mista di grado superiore col concorso dello Stato. Si è instituita a tutte spese dello Stato una scuola serale. Si sono riattate le strade S. Margherita, Scinà, S. Croce, il corso Umberto I, il passo Mastro Mînico, la via Dirupo ecc., necessarie ed importanti pel transito pubblico. Si sono esumati i progetti delle due importantissime opere quali sono: la tubulatura metallica dell’acqua potabile e la costruzione della casa comunale, le quali, malgrado i progetti d’arte da me compilati siano approvati da molti anni, non si sono volute eseguire per interesse personale.

Con la cooperazione dell’illustrissimo signor Duca d’Ossada si è instituita una festa con mercato di bestiame la quale tanto incremento potrebbe portare al paese. Si è eseguito un accurato, imparziale e completo accertamento di terreni usurpati in tutte le contrade del territorio, attuando la relativa reintegra in favore del Comune. Uno solo tra tutti gli usurpatori si è mostrato riluttante all’ accertamento e quindi alla reintegra, l’ex Sindaco Leonardo Sirna, in pregiudizio del quale si è accertata una usurpazione in contrada Lunari, egli chiedendo una revisione ed una nuova prova crede di contestare il fatto reale. Si è pensato al rimboschimento delle coste Lunari di proprietà del Comune, con cui nel turno di pochi anni si realizzerà una rendita annua non indifferente.

Con tutte queste opere eseguite e con tutte le nuove spese sopportate, alle quali bisogna aggiungere L. 210 per l’acquisto di un sottano dal signor Baglio Antonino; L. 345,99 pagate per ratizzi circondarialì e quasi L. 1500 spese inutilmente per la quistione  della rivendica dei diritti civici, l’esercizio  passato 1906 si è chiuso con un fondo di cassa di L. 1022, 64 ‘(Vedi verbale verifica cassa 31  dicembre 1906).

Ed ora una parola sulla modesta opera mia personale: ho fatto instituire un portalettere rurale a spese del Ministero delle Poste e dei Telegrafi; in tempi andati e nella stagione estiva specialmente, molte corrispondenze giacevano nell’ufficio postale per parecchi giorni, col servizio attivato ora tutte le corrispondenze pervengono subito ai destinatarii, anco nelle più lontane contrade.

Trovai in atti la pratica iniziata dall’amministrazione per l’impianto del telegrafo; il Ministero aveva aderito alla proposta però, disponendo il tutto, il Comune dovea pagare una somma rilevante per l’impianto oltre un canone annuo non indifferente; ciò valeva quanto dire rinunziare al telegrafo. Ebbene, con mie insistenti istanze e con l’opera del Deputato del collegio ho ottenuto l’impianto del telegrafo a spese esclusive dello Stato; il Ministero dell’Interno ha autorizzato quello delle Poste e Telegrafi, per tale impianto, questo ha incaricato la Direzione delle costruzioni per l’inizio dei lavori e puossi dire ora che tale impianto è opera compiuta.

A tutti sono noti i danni prodotti in quest’anno dalle frane; io con amorevole sollecitudine invocai subito i provvedimenti urgenti, coadiuvato dall’ opera solerte del brigadiere dei RR. CC. sig. Bonanno Giovanni chiesi sussidii alla Provincia ed allo Stato, mi recai a proprie spese, alla Prefettura ed al Genio Civile in Messina per trattare l’interessante quistione personalmente ed ottenni cosi un sussidio di L. 1200.

In compenso di questa mia opera mi ebbi un ricorso infamante a firma di quattro volgari mascalzoni i quali esponevano al Sottoprefetto che il cimitero si era diroccato che gli scheletri umani erano in mezzo alla strada, che la puzza. dei cadaveri infettava tutto il paese ed il Sindaco dormiva in sonni tranquilli, quindi Voi Sottoprefetto mandatelo al rogo!

Sin dalla mia adolescenza ho meditato le condizioni disastrose del paese per mancanza di viabilità; assunto poi l’incarico di Sindaco con lavoro indefesso e paziente ho pensato sempre alla realtà di una strada a ruote. Ho constatato con rammarico che per ottenere tale ideale si rendevano impotenti la legge sulla viabilità obbligatoria e quella per le strade di accesso alle stazioni per mancanza assoluta dei fondi relativi alla quota di spesa spettante ai Comune. Altro rimedio non vi era se nonché ottenere che riparasse la Provincia alla deficienza finanziaria del Comune.

Varii tentativi fatti dagli amministratori che si erano succeduti trovai in alti ma tutti con esito negativo, le suppliche e le preghiere avevano lasciato il tempo che avevano trovato negli archivii della Prefettura, del Genio Civile e del Ministero. Nuove preghiere e nuove suppliche furono fatte da me ma non valsero a commuovere le autorità. Un primo congresso si tenne in Frazzanò con i comuni interessati ma senza esito felice, un secondo se ne tenne nella stessa sede, nel quale si costituì un comitato che in persona dei quattro Sindaci interessati si recò a Messina per innalzare un grido di soccorso.

Dopo ciò i Sindaci di Frazzanò, Mirto e Caprileone affidarono a me l’apostolato che disimpegnai con affetto vero di funzionario, di cittadino e di patriotta. Ebbi l’autorevole ed affettuoso ausilio del consigliere provinciale avvocato cav. Cammà (con il quale era cugino n.d.r.) e del signor Duca d’Ossada, mercè la cooperazione dei quali la onor. Deputazione Provinciale a 15 luglio 1904 ad unanimità deliberò di assumere per conto della Provincia la spesa per la costruzione della strada. Finalmente sormontate serie opposizioni e vinti varii ostacoli nella seduta del 6 aprile- u. s. il Consiglio Provinciale ratificando la precedente deliberazione della Deputazione Provinciale alla quasi unanimità deliberò: «di assumere l’onere della spesa per la costruzione della strada, che, dalla Mandria Cupani, lungo la provinciale Messina-Palermo, conduce a Longi attraversando i comuni di Caprileone, Mirto e Frazzanò . . . . . .»

Di tutto ciò bisogna render gli innegabili sentimenti di grazie al Deputato Provinciale avv. cav. Cammà, al Duca d’0ssada ed al Consigliere provinciale cav. avv. Letizia assidui cooperatori, ma è giusto concedere a me il conforto della riconoscenza per l’opera personale, indefessa, assidua e costante, di pellegrinaggio presso tutti i consiglieri provinciali e di assistenza in tutte le fasi della pratica.

Mercè l’autorevole intervento del Deputato onor. Faranda la pratica stessa avviata dal Consiglio Provinciale con buoni auspicii è ora al Ministero, con promesse di essere coronata felicemente, tanto che puossì affermare fatto compiuto l’ideale di tanti anni.

I malvagi che vegetano a Longi mi negheranno perfino la soddisfazione morale di tanto lavoro disinteressato, ma l’opera mia è stata apprezzata fuori della mia patria col documento che rendo di pubblica ragione: «Municipio di Frazzanò-Addì 4 maggio 1907 --0ggetto: Strada rotabile. Illmo sig. Sindaco, Longì- Pregiomi parteciparle che questo Consiglio Comunale in seduta dei 28 aprile u. s. ha deliberato all’unanimità tributare un voto di plauso e di ringraziamento a V. S. Illma per l’interessamento spiegato in prò della costruzione della strada rotabile Mandria Cupani - Longi. Nella fiducia che tale interessamento permanga fino al conseguimento dei nostri ideali vengo a confermarle i sensi della mia personale considerazione. Coi dovuti ossequii. Il Sindaco Dottor Fragale Lorenzo.»

Sì provino pure i malvagi a smentire, non me, ma queste opere che per tutti i secoli sfidando le infamia e le calunnie, diranno sempre. «Auspice l’amministrazione onesta.>>

Se in un certo periodo d’interregno certi atti hanno fatto fanatica una massa che già era ignorante, è bene uniformarsi ora a nuovo regime di sana giustizia perché in ogni modo sarà riversata su chi di ragione tutta intiera 1a responsabilità degli atti futuri.

E’ bene si sappia pure che io fui Sindaco per volontà degli elettori, sono riconfermato tale per volontà degli stessi malgrado i selvaggi ostacoli frapposti da un pugno di disonorati, e lo sono ancora per le parole lusinghiere del Prefetto della provincia comm. Trinchieri. Ma siccome quando finisco di fare il sindaco posso fare i conti di casa mia e, quando questi non voglio fare, posso liberamente esercitare le mie due professioni, che se non voglio esercitare in Longi trovo di esercitarle altrove ove continuamente l’opera mia si richiede dalla illimitata fiducia di numerosi clienti, non subisco sopraffazioni ed il giorno in cui potrò, da libero cittadino, giudicare cose e persone sarà per me giorno di festa.



L’APOTEOSI E LA DENIGRAZIONE  

Sin dal giugno del 1902 si palesarono le accuse contro l’amministrazione che fu, sin da quell’epoca la stessa che vide barcollare il potere amministrativo che mal si reggeva; fu allora che la medesima scese sul campo della rivendica dei dritti civici del Comune. La trovata non poteva essere più insidiosa. poiché fu questa che spiegò la lotta del 1903, fu questa che occupò e preoccupò R. Commissario; è questa che tiene agitato il paese tuttodì.

Della quistìone si occupò il R. Commissario nel 1903 facendo compire uno studio dall’avv. prof. Gatto Cucinotta da Messina, il quale con una relazione che è tra gli atti del Comune, ha fatto perdere l’entusiasmo del momento. Mi occupai io sin dal primo giorno che fui Sindaco e con amore vero e sentito intrapresi un lavoro di ricerche presso: l’archivio di Stato provinciale di Messina (vedi documento 4 settembre 1903); la biblioteca comunale di Messina (v. doc. 23 settembre 1903); la biblioteca comunale di Palermo (v. doc. 12 settembre 1903); la biblioteca nazionale di Palermo (v. doc. 13 settembre 1903); l’archivio notarile di Patti (v. doc. 2 settembre 1903); l’archivio di Stato di Palermo (12 gennaio 1904). Come dimostrano i documenti fui Sindaco in luglio 1903, in settembre dello stesso anno avevo già condotto a buon fine un lavoro di ricerche per integrare quanto secondo la relazione dell’avv. Gatto Cucinotta, mancava fra i titoli che possiede il Comune. Ma il manipolo di falsarii per demolire l’attuale amministrazione e per denigrare me, con tutti i mezzi illeciti, infamarono l’amministrazione, calunniarono me, seminarono il discredito e la malafede in tutto il paese.

Fu allora che io spogliandomi di ogni attribuzione cedetti tutto in mano di coloro che predicando ai quattro venti dicevano che in mano loro erano riposti i tesori del paese, in loro potere erano documenti, loro soli potevano sostenere e superare la lite, loro soli potevano rivendicare i diritti conculcati del Comune.

Ed io più che alle loro ciarle cedetti ai desideri di alcuni appassionati e montati che con ansia invocavano l’opera di redenzione dei novelli paladini, opera che astutamente si fa intravedere ma non si compie mai.

Farò, seguendo i fatti succedutisi, una dettagliata storia, lasciando ai lettori i commenti e gli apprezzamenti.

Durò al potere l’amministrazione Sirna dal 1898 al 1903, vale a dire quattro anni, durante i quali mai si parlò di rivendica di diritti civici; gli atti della stessa amministrazione sono in archivio comunale a dimostrare il mio asserto; trovasi soltanto la traccia di un tentativo, il consigliere dell’epoca signor Guarnera Basilio mise all’ ordine del giorno di quel Consiglio << rivendica dei dritti civici su Botti e Mangalavite» ma restò il solo tentativo perché il consigliere signor Guarnera. fu obbligato a ritirare l’ordine del giorno. Chiunque può domandare allo stesso se è vero che allora fu chiamato dall’arciprete Sirna, il quale invitandolo a ritirarsi l’ordine del giorno gli disse «nulla c’è da sperare.»

Nell’està del l902 si accentuò il malcontento contro quell’amministrazione, la quale per scuotere specialmente l’intervento di un illustre personaggio aveva bisogno di un'arma potente, e questa la trovò nella quistione dei diritti civici.

Fu allora che incominciarono le insinuazioni presso il popolo con ciarle, con manifesti e con giornali; fu allora. che venne a Longi a villeggiare il prof. Testi; fu allora che tutti coloro che in passato avevano malmenato il popolo si professarono apostoli del popolo stesso.

È cosi che avviene una falsa apoteosi ed una ingiusta denigrazione; i veri Erricone di Longi diventano gli dei, gli onesti galantuomini per esser messi in cattiva luce sono infamati e calunniati ( n.d.r. Enrico Alfano, detto “Erricone” era il capo della camorra napoletana e fu arrestato, negli U.S.A. dal detective Petrosino).

Si dice, l’idea della rivendica dei diritti civici potè affermarsi quando venne in Longi il prof. Testi e trovò tutti i titoli in base ai quali si può proclamare causa vinta. Ma il prof‘. Testi non ha fatto alcuna scoperta; i documenti da lui trovati in archivio comunale sono quelli stessi rinvenuti e studiati dal dottor Ciminata circa venti anni fa; sono quelli stessi che mio padre (nella qualità di Sindaco del Comune n.d.r.) diede allo studio del professore Orioles circa dodici anni fa, il quale non consigliò la lite; sono quelli stessi studiati dall’avv. Gatto Cucinotta, il cui parere leggasi nella dettagliata relazione. Ammessa anco scoperta quella del prof. Testi, tale fu fatta in settembre del 1902; l’amministrazione Sirna durò al potere fino a marzo 1903. Perché in otto mesi di amministrazione non intentò la lite?

E continuando, che cosa ha fatto il prof. Testi? Ha fatto ricerche di titoli ed ha stampato un opuscolo. Dove sono i documenti che ha trovato? Sono di là da venire. Che cosa è l’opuscolo che ha stampato? È la copia fedele di un documento che abbiamo nel nostro archivio comunale «Capitoli di concordia tra l’Università di Longi ed il Barone di detta terra,» ciò dice lui stesso nell’ opuscolo a. pag. 4. Che cosa contiene questo documento e quindi questo opuscolo? Racchiude i diversi privilegi che esercitavano i Baroni del tempo sulla terra di Longi, accettati e confermati dal Barone don Francesco Lanza.

Tutti coloro che avevano ed hanno interesse di montare le masse ignoranti ed esporre all’odio di classe gli attuali amministratori, gonfi e superbi di questi studii compiuti e dei documenti che vantavano di avere in loro potere, hanno predicato causa vinta, ma tutto debbono fare loro perché loro soli sanno fare, mentre il Sindaco e gli altri amministratori tradiscono gli interessi del Comune.

Posto ciò ho convocato il Consiglio comunale nominando in seno allo stesso una commissione composta dai signori Lazzara Rosario fu Francesco, Lazzara Antonino fu Salvatore e Famiani Celestino fu Salvatore, per agire e procedere sulla quistione. Passò molto tempo ma questa commissione nulla fece; invitata da me rispose che da sola non poteva agire e che aveva bisogno dell’opera di altre persone.

Riconvocai il Consiglio e proposi che alla commissione composta da tre consiglieri di opposizione si aggiungessero: l’arciprete Sirna, il maestro Sirna, il signor Zingales D. Francesco ed il signor Sirna Leonardo, anch’essi tutti di opposizione, ciò che il Consiglio fece plaudendo la mia proposta. Fu comunicato a tutti per iscritto tale incarico e risposero tutti, con linguaggio più o meno conveniente, accettando con piacere l’incarico e promettendo di mettersi subito all’opera; richiesero i documenti esistenti in archivio per studiarli, consegna che fu fatta addì 10 febbraio 1905.

Passò lungo tempo ma la commissione nulla fece; a mio sollecito rispose che per potere agire occorreva. in seno alla commissione l’intervento del prof. Testi. Riconvocai il Consiglio dal quale feci nominare anco il prof. Testi membro della commissione. Passo ancora tempo, ma la commissione nulla fece, neanco con l’intervento del prof. Testi; a mio sollecito mi si rispose che il prof. Testi aveva scritto di non accettare lo incarico se non prima si fosse data riparazione a pretese offese. Riconvocai il Consiglio, il quale dando un voto di lode a1 prof. Testi, mandò allo stesso calda preghiera perchè continuasse i suoi studii.

 Passò tempo ancora, ma nulla fece il prof. Testi, nulla fece la commissione; dopo lunga mora fu risposto dal professore Testi che egli i documenti non li aveva, che sapeva dove erano e che per rinvenirli dovea recarsi in Sicilia (Messina, Patti, Palermo, Longi) e che per far ciò intendeva essere pagato, mentre prima si diceva che tutto sarebbe fatto gratuitamente. Lo invitai ad espletare tutto subito, comunicandogli che il Comune gli avrebbe pagato fin’anco i sospiri; dopo lungo andare rispose che intendeva essere pagato prima di muoversi da Parma e che ricevendo l’indennità in L. 387 sarebbe venuto in Longi in giugno del 1906. Mi affrettai a mandargli tutta intiera la somma e da giugno venne in Longi negli ultimi di settembre. Essendo qua lo pregai perché lasciasse scritta una relazione sullo studio e le ricerche che avea compiuto; mi fu risposto che per espletare le sue ricerche dovea recarsi ancora a Palermo, e che ritornando di là avrebbe fatto tutto. Partì per Palermo, da dove mi scrisse che le L. 387 erano finite già, e che per continuare gli occorrevano altre L. 40, che mi affrettai a mandargli telegraficamente. Aspettavo il suo ritorno in questa, quando appresi da un signore della commissione che era ritornato direttamente a Parma. e che da li avrebbe mandato la relazione non oltre il mese.

Lasciai trascorrere più di un mese e lo invitai a mandare la relazione; mi fu risposto che essendo occupato con due concorsi non aveva tempo disponibile per le cose di Longi, ma che del resto pensava a ritornare una terza volta fra il bel popolo di Longi…

Per finire, dovetti usare minaccia per avere dopo lungo andare una relazione e restituiti alcuni documenti del Comune che avea per lo studio.

Che cosa dice questa relazione? Enumera tutti documenti che il Comune possiede in archivio, indicando gli scaffali e le relative caselle ove gli stessi si trovano in originale; fa la storia, soltanto in parte, della famiglia Lanza, giuoca di fantasia coi numeri.

 Quale è stata l’opera degli altri signori componenti la commissione? Negativa.

Dopo tre anni ho dovuto ritirare i documenti loro consegnati; ho pregato il rev. arciprete Sirna a comunicarmi l’opera sua e della commissione per riferirla al Consiglio e provocare dallo stesso un provvedimento; a questa mia lettera il reverendo arciprete non si è degnato rispondere. Ritirati i documenti ho pensato iniziare il giudizio, ma mi fu impedito dagli avversari, dicendo che tale lite dovea essere riservata a loro. Pensai avere un parere legale da persona competente e feci nominare dal Consiglio il senatore Inghilleri. Tale nomina fece innalzare gli scudi degli avversariì, i quali arrivarono alla spudoratezza di mettere in losca luce anco la figura dell’illustre giurista.

Invitai allora i signori avversarii a scegliere loro un avvocato consulente, e lo scelsero nella persona dell’avvocato prof. Coviello dell’Università. di Messina, il quale, previa nomina del Consiglio, ha avuto consegnati i titoli per lo studio, ha avuto pagato l’onorario in L. 200 e si attende ora la sua relazione.

Intanto i simulati amici del popolo hanno ottenuto il loro intento; le elezioni del 1907 sono avvenute, e loro hanno avuto l’agio di farle procedere sotto l’incubo di mille imposture e, malgrado siano rimasti sconfitti, hanno potuto fare ricatti di voti con la promessa, che vincendo loro, all’indomani della loro ascensione al potere, si sarebbero impossessati di tre feudi, che avrebbero distribuito soltanto tra coloro che cooperavano per la loro vittoria . . . . . .

Ecco l’apoteosi e la denigrazione, i sedicenti amici del popolo sfruttando la buona fede dei gonzi salgono sugli altari all’altezza di tanti dei e profanando gli stessi altari tentano sopraffare gli onesti ed i galantuomini.

Agli spassionati il giudizio di tanta opera nefasta; ai volgari calunniatori non mi resta che dire un'ultima parola: di tutto quanto mi addebitate fatemi accuse pubbliche e sottoscrivetevi, io vi concedo la prova. Questo non fate, e allora ricevete il mio disprezzo ed il giudizio di quanti ancora non vi conoscono.


 I VERI TERMINI DELLA QUISTIONE SULLA RIVENDICA DEI DIRITTI CIVICI DEL COMUNE

La quistione va distinta in due giudizi: diritti che si esercitavano sulla Baronia di Longî pertinente agli eredi del Duca di S. Giorgio; rivendica dei diritti civici che si esercitavano sui feudi Botti e Mangalavîti posseduti dagli eredi del Barone Anca; l’una e l’altra quistione sono state controverse e siamo ora di fronte a giudicati. La prima si è definita in questi termini: La lite provocò prima una ordinanza dell’Intendente di Messina nel 1842, con la quale si stabili che, in corrispettivo degli usi civici (già accertati e definiti con precedente ordinanza) il Comune dovesse ricevere la terza parte dei boschi Soprano e Sottano e la quarta parte delle terre enunciate nel primo giudicato, cioè quello che accertò l'esistenza degli usi civici a favore del Comune; la divisione perciò avea lo scopo di liberare i fondi dagli usi civici.     Dopo questa ordinanza non si accordarono le parti, si fece una perizia per determinare i valori dei fondi e assegnare le varie quote, ma contro questa elevarono eccezione i duchi di S. Giorgio, ai quali rispose il Comune, finchè in ultimo le parti stabilirono di transigere. In base a questa transazione si venne all’atto definitivo di divisione che fu compiuto, con soddisfazione del Comune il 14 gennaio 1853.

Oggi, dopo 54 anni, si eccepisce che il Comune con tale divisione fu frodato, adducendo che allo stesso furono assegnate le terre più sterili e sassose e che queste stesse furono concesse in misura erronea, cioè 14 salme in meno; che nella divisione non fu compreso il feudo Gazzana e tutta l’altra proprietà del Duca.

Entrare in merito della quistìone non è opera del primo arrivato, ma che un atto di transazione sovranamente approvato è irrescindibile, può giudicarlo chiunque abbia un briciolo di senso comune. Ed io ho fatto a me stesso mille quesiti e mille paradossi ho visto; ci potrebbe essere azione di nullità o di rescissione; ma questa è prescritta o no? Azione per dolo, per violenza o per lesione oltre il quarto, ma non è a parlare. Vi potrebbe essere l’errore, ma in tale ipotesi perché la domanda sia ammissibile dovrebbe esser provato che la lesione sia stata oltre il quarto. Ma questo estremo secondo la relazione del prof. Testi non c’è.

Infatti secondo le cifre dello stesso, al Comune doveano toccare salme 74,217 sulle terre misurate; dunque la parte di cui restò privo deve ammontare a più di salme 18, 554; invece egli dice che il Comune ne ricevette in meno salme 17, 687. E l'errore c’è: 1/3 di salme 94=salme 31 333; ¼ di salme 160 = salme 40 000

Spettanti al Comune sui boschi e altre terre salme 71 333 e non salme 74, 217 come dice il prof. Testi con i suoi giuochi di fantasia; perciò il Comune invece di salme 17, 687 ne ebbe in meno salme 14, 803.

Ma c’è da dire; a parte che il Comune allora rinunziò alla nuova perizia voluta dalla Duchessa che era disposta a pagare, non è più il caso di tenere conto della prima perizia del 1844, ma soltanto bisogna ritenere quella si proponeva con l’avviso dell’Intendente del 21 dicembre 1850, che ebbe poi la sua pratica attuazione quando si fece il distacco.             Oltre a ciò, nel caso trattasi di divisione più apparente che reale; dunque ci troviamo di fronte ad una divisione o ad un atto col quale il Comune alienò un diritto reale mercè una transazione per porre fine alle contestazioni? E le transazioni possono impugnarsi per lesioni? E l'azione è personale, o no? Se si, si deve sperimentare contro il Duca di S. Giorgio od i suoi eredi, non contro il Duca di Ossada chè é semplice acquirente a titolo particolare dei fondi; egli per molti anni ha posseduto in buona fede, dopo che ha acquistato in buona fede in forza della transazione del 1853.

Ma neanco contro i duchi di S. Giorgio vi è da sperimentare, perché gli stessi con la medesima transazione cedettero al Comune 15 salme di terre in antiparte, le cosiddette coste Lunari, Graffo, Piccirilli, ecc.( attorno al paese) contentandosi di ritenere su tali terre solo una salma e mezza.Sulle salme 22 a cui ammontano queste terre la Duchessa avrebbe dovuto aversi i 3/4, cioè salme 16 e mezza, ed il Comune salme 5 e mezza; viceversa si stabili che il Comune ne avesse, e ne ebbe di fatto, salme 20 e mezza, cioè 15 salme in più di quanto gliene spettavano. E così se la transazione cade (ciò che non può essere) i duchi di S. Giorgio invece di debitori sarebbero creditori, perché le 14 salme di differenza, se pur sussiste, sarebbero compensate e superate dalle 15 salme che furono concesse in più.

Questo quanto riguarda la Baronia di Longi; ma si sproloquia dicendo, nella divisione non fu compreso il feudo Gazzana, non furono compresi i fondi Bonajunta, Leazzo e tanti altri fondi che possiede il Duca d’Ossada.

Si potrebbe obiettare: il Comune intende rescindere la divisione perché non ebbe quanto gli spettava in compenso degli usi civici abbandonati; dunque si ammette che con quella divisione si rinunciò agli usi civici.

Ed allora la quistione degli usi civici non può risorgere; infatti bisogna riconoscere che la sostanza della pretesa si circoscrive sulla quantità dei beni che al Comune doveano essere dati per compensarlo degli usi civici abbandonati; ma gli usi civici dal momento che si fece la transazione furono estinti, e nello stesso atto al N. 2 si dice, si assegni al Comune una quarta parte delle terre in compenso civici.

Dato che si potrebbe tornare sulla quistione, quali prove di avere esercitato dritti su questi beni si potrebbero fornire? Nessuna. Vi sarebbe la presunzione di ritenere il fondo Gazzana nel feudo di Longi. Ma la legge che vige ancora in materia, pel regno di Sicilia, sanziona presunzione o propende ad ammettere la libertà della proprietà, lo stato di possesso? C’è dippiù; chi parla a credito avrebbe dovuto avere la mia pazienza, il mio zelo ed il mio amor patrio per compiere lo studio che ho fatto io, fare la ricognizione dei beni del Duca d’Ossada e vedere le cose più da vicino. Apparteneva la Gazzana all’abbadia dei RR. PP. dell’ordine di S. Basilio Magno del monastero di S. Filippo di Fragalà, sita nel contado di San Marco, territorio di Frazzanò. Con decreto della Sacra Congregazione e del Santo Concilio di Trento l’Abbadia fu aggregata all’ Ospedale Grande di Palermo (S. Spirito) ai 10 di aprile del 1579.

Il 23 settembre 1589 papa Sisto V, riformando il numerario dei monaci assegnò ad ognuno per vitto, vestiario ed altro una rendita sopra i beni di suo ordine e consenso fatti stimare, e cioè: fego S. Nicolò a Maniaci, fego della Gazzana nel territorio di Longi, fego di Grappidà nei territorio di Maniaci e la Difisa intorno al monastero, questa ultima in seguito a ricorso dei rettori dell’ospedale.

Dopo ciò il feudo Gazzana dal predetto ospedale fu gabellato a certo Michele Biuso, poi a certo don Carmine Zingales. Con atto del 20 settembre 1701 in notar Giuseppe Cairone da Bronte fu gabellato a don Silvestro Napoli per onze 80 ogni tre anni; con atto del 14 settembre 1706 in notar Onofrio Vollaro da Patti fu gabellato al figlio di don Silvestro, don Gaspare per anni sei. Con atto finalmente del 3 aprile 1709 fu censito per onze 20, tari 20 e grana 10 da don Gaspare Napoli per ereditazione di suo padre don Silvestro soggetto al fldecommesso primogeniale.

In quest’atto si legge: Detto fego tiene aggregate due tenute, una di salme 12 chiamata la Valle del Fondaco nel territorio di Galati, confinante con essa Gazzana ed altra di salme 4 detta di Cavallaro; più S. Fantino nel territorio d’ Alcara. Anche tenere aggregate altre 4 tenute avute in detto territorio di Longi, soggette queste tantum alla decima, quando si semina, stante l’erba spettare alla Baronia di Longi; sono cioè: Gurna salme 6, Colla salme 4, Valle S. Nicolò salma 1, Druso salme 7 (e queste quattro precisamente rientrarono nella divisione del 1853). Leggesi pure: nella detta tenuta dello Druso sugli alberi cerri, ruvuli e celsi neri averne mai avuto dominio e percetto decime l’ospedale, spettando alla Baronia.

Con real comando del 20 settembre 1771 re Ferdinando dichiarò le concessioni enfiteutiche fatte dai monasteri, e quindi anco la Gazzana, beni allodiali, onde si comprenda anco il passato i beni conceduti in enfiteusi dai sudddetti luoghi pii si considerano come allodiali.Nei capitoli matrimoniali di donna Teresa Napoli fatti dalla madre, e nell’atto di assegnazione del fratello Giuseppe, leggesi la provenienza di alcuni beni che sono riportati come allodiali liberi; questi sono: oltre la Gazzana, il fondo Mastro Isidoro, che fu lasciato per messa quotidiana, ed il luogo di Placidazzo in contrada di Bonajunta, lasciato a don Antonino Napoli; i luoghi della fronda Giardino, Cerosimi e Scinà.

Nel testamento di donna Flavia Lanza del 16 ottobre 1696 in notar Zingale leggesi che il loco nominato di Liazzo lo comprò don Gaspare Napoli da certo Paolo lo Presti, mentre quello aggregato si apparteneva alla di lui moglie donna Flavia come bene allodiale giusta li suoi confini.

Il loco Scinà in contrada Vignalazzo pervenne da Bentivegua Lucia vedova Miceli.

Nei capitoli di accordo del 1710 tra don Pietro e Rocco Lanza, per cessione della causa intentata dall’altro fratello Silvestro, si legge che Liazzo e Bonajunta sono beni allodiali.Con atto 9 aprile 1799 la fidecommisseria Gemma concesse al Napoli ad enfiteusi due fondi convicini in contrada S. Lorenzo, come dalla stessa acquistò il fondo Giardinellicon atto 10 ottobre 1802.

Certo Brancatellì Salvatore per atto 27 settembre 1832 in notar Stefano Zìngales vendette un’altro fondo in contrada S. Lorenzo al signor cav. Napoli, a lui pervenutogli dalla fidecommisseria Gemma con l’atto del 9 aprile 1799. Gli eredi del sac. Gaetano Famiani vendettero il fondo Chiusette al Marchese don Bernardo con atto del 26 agosto 1817; questo fondo era pervenuto al Famiani dalla fidecommisseria Gemma per Patto del 9 aprile 1799.

Con atto del 23 ottobre 1859 in notaro Giuseppe Zingales, dalla duchessa S.Giorgio fu comprato un fondo in contrada Filipelli o Liliciazzi da Calafiuri Francesco.

All’asta pubblica in Patti sono state acquistate dalla Marchesa donna Maria Napoli sedici tenute così distinte. N. 4 in contrada Vina e Filipelli della chiesa S. Michele; n.1 in contrada Stifana della chiesa SS. Annunziata; N. 2 in contrada Vina della chiesa SS. Salvatore; N, 15 in contrada Filipelli, sei della chiesa SS. Annunziata, sette del SS. Salvatore, due della cappella di S. Francesco; N. 2 in contrada Gurna del SS. Salvatore; N. l in contrada Castagnà della chiesa Annunziata, come da verbali del Tribunale di Patti del di 28 settembre 1868, 29 maggio 1868, 27 agosto 1868 e 4 settembre 1868.

Da certificato dell’esattore don Giuseppe Zingales in data 12 giugno 1834 risulta che gli attuali beni furono rivelati al nome di don Bernardo Napoli.

Francesco Cottone, che di tanta munificenza legò il paese di Longi, nel suo testamento fatto 262 anni fa, dichiara alcuni di questi fondi, quali Loco Nuovo, Leazzo, Bonajunta, ecc., di proprietà esclusiva del Barone di Longi.

Di fronte a tali irrefragabili risultanze io non concepisco quali pretese possa vantare il Comune contro il Duca di Ossada, ma ad ogni modo noi siamo di fronte alla lettera dello stesso Duca che è stata pubblicata e che è agli atti con la quale egli ha detto testualmente: «Sarei sommamente lieto se il Comune trovasse dei titoli veramente serii da poter far valere sul feudo Gazzana e sugli altri «fondi per dimostrarmi sempre signorilmente largo come «per il passato.». E che il prelodato Duca in passato si sia mostrato signorilmente largo lo dimostrano: le elargizioni di frumento fatte al paese in tempi di carestia, i vari legati, il campicello scolastico, la Piazza Annunziata,ecc.Ci daranno ragione i Satrapi della patria tirando fuori i titoli che vantano di avere nascosti, e noi chiameremo alla parola il signor Duca, altrimenti inizieremo la lite per come l'amministrazione attuale è ben disposta.

Per la rivendica dei diritti civici che si esercitavano sugli ex feudi Botti e Mangalavite, la quistione va posta in questi termini. Il nostro diritto su questi feudi fu riconosciuto con unaprima ordinanza dell’Intendente di Messina del 13 febbraio 1843, con la quale fu dichiarato il Comune di Longi nel possesso del diritto di legnare per uso del fuoco negli ex feudi Botti e Mangalavìte e fu ordinato il corrispondente compenso in via d’estimazione a farsi da tre periti; ciò che fu fatto ai 4 di settembre 1843. Con altra ordinanza del 15 novembre 1843 lo stesso Intendente, rigettando le opposizioni e dimande prodotte dal Barone Anca avverso la perizia, dichiarò questa omologata, fissando il prezzo del diritto del Comune negli ex feudi suddetti nella somma capitale di ducati 12990, ed ordinò il corrispondente distacco di terra.

Avverso le cennate ordinanze don Francesco Anca ricorse alla Gran Corte di Palermo sotto il dì 25 gennaio 1844, perché eccessiva gli sembrava la valutazione e perché il reclamo contro la prima ordinanza dovea sospendere la perizia. E la Gran Corte dei Conti di Palermo con sentenza del 13 aprile 1844 fece diritto al Barone Anca e condannò il Comune senza riconoscergli diritto alcuno, in grazia alla infamia di chi sovrastava ai destini della patria Longi sessantadue anni addietro, il quale si rese contumace alla Gran Corte; e questi non fu mio padre, nè mio nonno, ma l’ascendente di coloro che ora alzano la fronte, professandosi apostoli del bene pel popolo di Longi.

La detta sentenza fu notificata al Comune ai 3 di agosto del 1844 ed approvata con rescritto del 26 giugno 1845, e tutti gli amministratori succedutisì per sessantadue anni non pensarono mai a presentare reclamo al Re per tentare un provvedimento istruttorio o sospensivo avverso l’accennata sentenza. Trattandosi di diritti incompensabili il Comune, o meglio i comunisti (abitanti del Comune n.d.r.), sarebbero sempre nel pieno diritto di poterli esercitare e rivendicare, provando il condominio dei feudi e la loro territorialità, e dimostrando che il Comune preesisteva come Comunità alla infeudazione (coi Capitoli di Concordia del Barone don Francesco Lanza, dalla quale famiglia Corrado fu investito nel 1308). Su questi argomenti però l’ultima parola non spetta a me, nè a nessuno di Longi; è riservata invece a uomini dotti, e perciò prima d’intentare un giudizio si è pensato provocare il parere legale dell’avv. prof. Covìello 2).

2 Posteriormente alla compilazione del presento il prof. Coviello con la sua relazione dà completa ragione a me.

Ecco i veri termini sulla quistione della rivendica dei diritti civici del Comune.


DOMANDE CATEGORICHE

Anni addietro il rev. arciprete Sirna, in società con altri, voleva acquistare il feudo Mangalavite; si domanda: allora vi erano i diritti civici del Comune sul detto feudo, o sono sorti da quattro anni a questa parte?

Pochi anni fa il rev. arciprete Sirna tenne un comizio in casa sua ove manifestò ai numerosi intervenuti che, in ordine alla rivendica dei diritti civici del Comune, c’è da sperare qualcosa su quanto riguarda il Duca d’Ossada, ma nulla si può sperare su Botti e Mangaiavite. Come va che lo stesso ad ogni vigilia d’ elezione promette invece che vi sono da rivendicare tesori?

Durante la sua amministrazione il consigliere dell’epoca signor Guarnera Basilio mise all’ordine del giorno <<Rivendica dei diritti civici su Botti e Mangalavite» perché egli, il rev. arciprete Sirna, chiamò in casa sua il signor Guarnera obbligandolo a ritirarsi l’ordine del giorno col detto «nulla c’e da fare?»

Alcuni anni addietro si tenne una riunione politica in casa di esso rev. arciprete Sirna, ove il sig. Jannì Giuseppe, presente lui, ebbe a dire: sappiamo che nessun dritto del Comune c'è da rivendicare, ma se noi togliamo di mezzo questa quistione non vinceremo mai la lotta elettorale. Come va che ora il rev. arciprete si è convertito e si fa tenero apostolo di questa rivendica?

Nel 1903 il rev. arciprete Sirna assicurando causa vinta promise che avrebbe dato di tasca propria al Comune L. 1000 per fare la lite per la rivendica dei dritti civici. Dopo le elezioni dello stesso anno 1903 io gli scrissi pregandolo di erogare la somma promessa giacché anch’io avrei contribuito in proporzione delle mie sostanze.

Perché il rev. arciprete a questa mia lettera non rispose? L’amministrazione Sirna tenne il potere quattro anni. Perché in questo lungo periodo non pensò mai alla rivendica dei dritti civici del Comune, anzi soffocò il tentativo fatto dal consigliere sig. Guarnera?

Il rev. arciprete Sirna sa che nella specie trattasi di rivendica di dritti civici, dei cosidetti dritti incompensabili, pertinenti perciò ai singoli e non al Comune; la lite quindi debbono farla i singoli e non il Sindaco; il più misero di Longi perciò può sfidare in giudizio i signori Baroni, voglia o non voglia il Sindaco di Longi. Perché egli dunque non si è fatto promotore di tale opera patriottica e non ha lanciato una citazione, salvo poi a chiedere l’intervento del rappresentante il Comune?

Dall’attuale amministrazione il rev. arciprete Sirna ebbe l’incarico di procedere ed agire sulla quistione. Perché per tre anni tenne per proprio uso e consumo tale incarico senza. far nulla?

Queste risposte il rev. arciprete Sirna è pregato di favorire, non a me, perché io conosco i polli di Longi, ma ai suoi consoci della «Concordia» prima di rendere l’anima sua a chi spetta.

Ai detti consocii altre domande rivolgo io.

Credete forse che il manipolo di sconsigliati che hanno agitato ed agitano il paese carezzandovi, affratellandosi ed affiatandosi, facciano opera pel bene pubblico? Credete forse che certa gente ha sperperato tutte le sue sostanze in lotte elettorali restando sul lastrico pel bene del popolo? Credete forse che la lotta elettorale si acuisce a tal segno che dei disonorati spendono migliaia di lire in lotte amministrative e arrivano alla spudoratezza di comprare la volontà di un consigliere mille lire per il bene del paese?        Non credete invece che la indecorosa lotta si è fatta per loschi fini d’interessi personali, i quali si sarebbero risoluti detronizzando me sottoscritto Sindaco e mettendo alla portatutti gli impiegati del Comune, quali sono: il segretario comunale, il commesso di segreteria, la levatrice, il messo comunale, la guardia municipale, ecc., i quali hanno servito il Comune con tanto zelo, onestà ed onorabilità?

Ma in omaggio alla lealtà dei gentiluomini, come sempre, l’onestà ha trionfato e segnatamente tre figure si sono nobilitate; esse hanno sprezzato il vile oro che a discrezione venne loro offerto, ma con sentimenti nobili non hanno tradito la loro coscienza, non hanno macchiato ii loro onore. Voi Sirna Angelo, Giuffrida Salvatore e Valenti Francesco, pensate che le L. 6000 offertevi per fare mercimonio delle vostre persone, e che con disprezzo avete rifiutato, valevano altrettanto fango buttato sulla vostra faccia onorata. Pensate che questa è stata la migliore testimonianza di fiducia e di stima che avete dato a me personalmente, al paese ed alla patria intiera; e valga a maggior prezzo la mia imperitura gratitudine che orgogliosi vi fa andare col capo in alto in mezzo alla società, mentre in fronte a vili mercenarii resterà scolpito eternamente il marchio della infamia.

Valga per voi, onesti operai e modesti contadini, l’inno di gloria che innalzato da tutte le coscienze oneste vola per la patria intiera.

E voi imperatore della cosiddetta «La Concordia» non fate la voce grossa con la vostra Società; dite al paese, fra i vostri 200 soci, quanti sono iscritti senza avere dato  adesione, quanti ne figurano ad onorem, quanti sono assenti, quanti analfabeta e quanti finalmente ne avete condotto armati di schede elettorali alle urne del 28 luglio u.s. Raccogliete la bandiera che tentate di abbrunare e pensate che il giorno in cui, non una sola delle mille promesse fatte potrete mantenere, i vostri stessi amici vi metteranno al rogo.

Io non ho interessi da liquidare, nè ambizioni da soddisfare; ho detto e debbo esser pago concludendo:

Se nonché coscienza m’assicura

La compagnia che l’uom francheggia

Sotto l’usbergo del sentirsi pura.


Longi,Settembre 1907.

ANGELO ZINGALES>>






Utilizzando un programma on-line, in internet, è stato possibile tramutare le pagine scannerizzate del libretto in testo Word per farne una pagina formattata per la pubblicazione. E’ stato un lavoro complesso in quanto il suddetto programma non è perfetto nella “traduzione”. Mi scuso quindi per eventuali imperfezioni grafiche. Inoltre, ho lasciato il testo così com’è scritto nella stesura originale dell’epoca, il cui stile, ortografico e del periodare, è quello in vigore nell’800 e del principio del 1900. Ma ne ho ritenuto importante la pubblicazione per i riferimenti agli avvenimenti storici, che hanno interessato il paese nel corso dei secoli, nonché per alcuni toponimi del territorio longese.

Per qualche termine desueto ho cercato di dare un’informazione, ad eccezione della parola “fego”, che non trova riscontro in alcun dizionario consultato e per la quale, quindi ho dovuto ricorrere al greco. Il suddetto termine potrebbe essere letto come “querceto” o bosco di quercia per la produzione della ghianda in quanto in greco “φηγο`ζ“ significa quercia ed anche ghianda. Per corruzione, quindi, avvenuta nei secoli, a noi è pervenuta la parola “fego”. Ma, da un glottologo ho appreso che significa anche “feudo”.





“Popolazione e risorse a Longi a metà Settecento”

di Marta Angela Maria Fabio


Dalla tesi di laurea di Marta Angela Maria Fabio, laureatasi in Lettere moderne e contemporanee, pubblico alcuni fra gli argomenti più direttamente interessanti la storia longese di quel periodo, eliminando necessariamente le tabelle statistiche per un più rapido apprendimento di carattere generale. Ringrazio Marta per avermene data l’opportunità ed il consenso alla pubblicazione, ma la ringrazio soprattutto in quanto da galatese, seppure abitante presso il Casale di Liazzo, ha voluto privilegiare la comunità longese trattandone aspetti ed argomenti nella sua tesi di laurea.


La comunità di Longi attraverso il rivelo del 1740

Nel 1740 la popolazione di Longi era di 506 abitanti, di cui 273 uomini e 233 donne distribuiti in 203 fuochi. Il paesaggio urbano con il Castello, la Piazza, la chiesa Matrice e le abitazioni si delinea nei suoi elementi essenziali. I fuochi si distribuivano nei seguenti tredici quartieri: Piazza, quartiere della chiesa Matrice, quartiere Borgo, quartiere della Torre, quartiere S. Leone, quartiere Portagrande, quartiere Castello, quartiere Santa Caterina, quartiere S. Michele, quartiere S. Nicola, quartiere del Dirupo e infine i quartieri del SS. Salvatore e della SS. Annunziata. Una sola parrocchia, la chiesa Matrice, due chiese sacramentali, quella del SS. Salvatore e quella della SS. Annunziata e una più piccola, la chiesa di S. Caterina si dispongono nel paese dando nome ad alcuni quartieri. Ma altre chiesette o cappelle si distribuiscono nel territorio al di fuori dell’abitato urbano e a un miglio lontano dal paese si trova la Grancia del convento di S. Maria. I sacerdoti costituiscono il 4,74% della popolazione. Questo numero è rilevante in considerazione dell’esistenza di una sola parrocchia e dell’aumento della popolazione maschile rispetto a quella femminile. Tuttavia questo dato, se apparentemente sembra numeroso, pare che costituisse una normalità. In una relazione del 1823, nel descrivere le rendite delle chiese, l’arciprete don Francesco Famiani mette in rilievo la mancanza di preti in quell’anno rispetto a quelli precedenti: “Dal mese di Maggio per fare il verme di seta gran parte della popolazione si ritira nei luoghi di campagna e dimorano fino al mese di Novembre, e vi sono cinque chiese di campagna per gli abitanti per ascoltare la Messa nei giorni festivi; ed è una mia costernazione perché non siamo che otto preti: parte sono morti per l’età e numero sei per l’epidemia di anni cinque addietro. Eranvi qui preti numero ventuno e ora numero otto”. Ancora nel 1821 il numero di preti a Longi risulta non molto distante da quello rilevato dal rivelo del 1740.   Nel 1823 la chiesa della SS. Annunziata fu distrutta a causa di un terremoto e ricostruita successivamente in un'altra zona del paese.

Il nostro rivelo appartiene alla serie dei riveli indetti nel 1738 secondo il Bando pubblicato in quello stesso anno.

Dichiarando l’età e il suo ruolo all’interno della casa e specificando i rapporti di parentela con i suoi coresidenti, il rivelante fornisce informazioni utili per intraprendere studi di tipo demografico. Egli si dichiara capo di casa e accanto al nome fa segnalare l’età, che però viene registrata solo per i maschi superiori ai diciotto anni. Dalla registrazione dell’età sono escluse le donne, anche quelle che dichiarano in qualità di capofamiglia, e i religiosi. Dei coresidenti viene specificato il ruolo, spesso segnato con una sigla. Nel caso della presenza di un figlio che ha preso i voti, questi viene indicato con la sigla cl posta accanto al nome. Dai riveli analizzati non riscontriamo casi di convivenza del capofamiglia con persone al di fuori del proprio nucleo familiare ristretto. Non ci sono genitori o sorelle o fratelli del capo di casa che vivono sotto la sua tutela, fatta eccezione del solo caso di uno zio e un nipote che verrà presentato in seguito. Non c’è neanche traccia di schiavi o perpetue. Dopo aver presentato le informazioni di natura anagrafica, il capofamiglia dichiara i beni di sua proprietà distinti in urbani, rusticani e mobili. Dall’esempio del rivelo di Antonino Pidalà, si può notare che la descrizione dei beni segue uno schema preciso e fisso: denominazione del bene, indicazione della località o quartiere in cui si trova, confinanti e valore indicato in onze e calcolato secondo stime prestabilite col fine di riportare il capitale del suddetto bene. I beni urbani riguardano le case. Generalmente non sono specificate caratteristiche relative alla tipologia edilizia o ai materiali costruttivi; tuttavia alcuni sacerdoti dichiarano di possedere una casa solerata, cioè a più piani.

Terreni, strutture atte alla produzione agricola, censi e rendite sugli immobili costituiscono i beni rusticani. Questa ampia categoria mostra i vari tipi di coltura presenti sul territorio: nel nostro caso vigne, alberi di gelsi e di castagne costituiscono la produzione prevalente. A seguire, rinveniamo gli alberi di ulivo con alcuni palmenti, gli alberi di noci, di fico e altri alberi domestici, ma si trovano anche canneti, terre scapole (non coltivate) e in fruttifero. Dislocate nelle varie località della campagna longese sono le case di nutricato e le logge di mangano, strutture finalizzate all’allevamento e alla produzione del baco da seta.  Per quanto riguarda il bestiame si contano solo bovini ed equini con l’esclusione dei cavalli. Buoi d’aratro, vacche selvatiche, balduine e mule rientrano nei beni mobili. Non abbiamo traccia di ovini e suini o animali da cortile. Completano il quadro gli oneri: dal più frequente e comune, dovuto a spese di manutenzione per la casa e spese di produzione agricola, ai censi di diverso tipo, su un appezzamento di terreno, sulla casa, oppure per la celebrazione di messe sia sul bene fondiario stesso, sia per commemorare il proprio defunto o per altre funzioni. Al termine della dichiarazione si tirano le somme. I compilatori portavano a termine il rivelo di ogni singolo capofamiglia redigendo il ristretto delle anime, ossia la sintesi dei coresidenti divisi per genere e calcolavano il reddito annuo netto dalle eventuali spese. 31 Altro nome per indicare l’asino.

Popolazione e struttura della famiglia. Analisi della popolazione in base al sesso e all’età.

Usando i dati quantitativi relativi alla popolazione distinta in base al sesso possiamo calcolare il rapporto di mascolinità (54%) e osservare la superiorità di numero dei maschi rispetto alla popolazione femminile. Il 9,52% della componente maschile è costituito da religiosi di cui 24 sacerdoti, il priore della Grancia di Santa Maria e un frate. Si è già accennato alla mancanza della dichiarazione dell’età per le donne, che non rientrava nelle finalità dell’amministrazione centrale, interessata alla composizione della milizia; per questo stesso motivo, inoltre, non vengono rilevate le età dei maschi inferiori ai 18 anni. ……

Restando fedele alla logica descrittiva del materiale informativo trovato nel rivelo, segnaliamo i casi in cui un quartiere è abitato da una sola famiglia: i preti don Antonino Famiano e don Giuseppe Sancetta dicono di abitare l’uno nel quartiere S. Michele, l’altro in quello del Dirupo; mentre nel quartiere S. Nicola vive soltanto Antonio Brancatelli con la moglie e i figli. Tutte le altre famiglie sembrano distribuirsi nei quartieri in modo relativamente omogeneo. Venti famiglie vivono nel quartiere che si dirama nei pressi del Castello baronale e da cui prende il nome. Non distante da questo si trova il quartiere Santa Caterina, che conta 6 famiglie. Il più popolato è il quartiere Piazza con 38 famiglie. A seguire il quartiere della Portagrande con 26; il quartiere che prende nome dalla chiesa del SS. Salvatore ne conta altrettante e le case che sorgono accanto alla chiesa Matrice ospitano 16 famiglie. Dodici se ne registrano nel quartiere San Leone, 10 nel quartiere della SS. Annunziata, 22 nel quartiere Torre e infine 7 famiglie nel quartiere Borgo. Nell’ipotesi ragionevole che tutte le famiglie, di cui il capofamiglia porta lo stesso cognome, discendano da un antenato comune e che quindi siano a gradi diversi reciprocamente imparentate, si possono individuare alcune parentele più allargate. In ordine di grandezza, i Pidalà, gli Zingales, i Brancatelli e i Frisenda. Seguono i Lazzara, i Russo, i Bartolo, i Fabio, i Pagni, i Sancetta, i Calagiuda, i Galati, i Lando e i Miceli. La ripartizione delle famiglie nei quartieri non si presenta in modo compatto. Ad esempio la parentela più ampia, i Pidalà (21 famiglie) si distribuisce a gruppi di tre o di quattro famiglie in ogni quartiere in cui risiedono. Allo stesso modo i Fabio (5 famiglie) si dividono su quattro quartieri differenti: Antonino e Salvatore con le rispettive mogli vivono nel quartiere Portagrande; Giacomo nel quartiere della chiesa matrice; la vedova Domenica Fabio vive insieme alla figlia nel quartiere Castello. Pertanto le parentele si distribuiscono nel paese non concentrandosi in un singolo quartiere, ma in più quartieri. ….

Il 68,11% della produzione è costituito da fronde di gelso per la lavorazione della seta. Questo dato mostra che, sebbene siano presenti altre tipologie di coltura, la gelsibachicoltura era il settore largamente prevalente. Si trattava di una risorsa vantaggiosa per molti: buona parte della produzione era nelle mani delle chiese e in misura minore, ma non indifferente, proveniva dai beni dichiarati dai sacerdoti come soggetti privati. Se mettiamo insieme le quote di queste due categorie di possidenti, scopriamo che esse assorbono il 45% della produzione totale. Si conferma perciò l’appartenenza di Longi all’area della seta individuata, fra gli altri, da Maurice Aymard44 nel Val Demone, una delle tre zone amministrative in cui era suddivisa la Sicilia.

 La produzione della seta e il consumo di grano

La seta, come si è già detto, ha caratterizzato un’intera area della Sicilia, costituendone per circa tre secoli la ricchezza principale. Questa attività è entrata nella vita quotidiana delle famiglie divenendo la base di equilibri politico-sociali e al tempo stesso è stata una coltura trainante, merce di scambio sul mercato sia locale sia internazionale. Ma la coltura dei gelsi rappresentava una risorsa ancor più importante con la quale far fronte all’ «endemica penuria di grano di terreni troppo scoscesi e irregolari per produrlo». Longi si inserisce perfettamente in questo quadro. Un confronto tra le diverse produzioni presenti nel territorio longese dimostra quanto importante sia la sericoltura rispetto alle altre e quanto quasi nulla la coltivazione cerealicola.

Dato il rilievo che assume la seta nella società e nell’economia di Longi, proviamo a indagare il rapporto tra la produzione, il reddito ricavato dalla vendita e la capacità di sostentamento, misurata in consumo di grano, dei fuochi il cui capofamiglia produceva fronda per la seta. In uno studio sui consumi alimentari dell’isola, Aymard ha calcolato che ogni anno una persona consumava mediamente una salma di grano. A Longi, nel primo decennio del ‘700, una salma di grano duro aveva il prezzo di 10,33 tarì. …... Più della metà delle famiglie longesi produceva fronda (56,5%); di queste 99 famiglie, più della metà aveva la possibilità di coprire il suo bisogno di grano per l’alimentazione (57,6 %). La famiglia più numerosa presentata nel rivelo è quella di Andrea Famiano, il quale, oltre a possedere una vigna, viveva praticamente dell’attività legata alla seta: con il reddito proveniente dai gelsi (36 sacchi di fronda e una casa di nutricato) riusciva a sfamare ben dodici persone. Invece, le famiglie che non avevano le risorse sufficienti per garantirsi il sostentamento soltanto con questo introito sono quarantadue. Per alcune di queste famiglie il reddito derivante dalla vendita della fronda risulta addirittura negativo o nullo. Ciò potrebbe significare sia una insufficienza globale del volume della produzione, sia una insufficienza relativa, cioè con un ricavo non abbastanza consistente per recuperare i costi di produzione della fronda. Felice Brancatelli vive con la moglie Catarina e la figlia Angela. Le entrate maggiori gli provengono dalla produzione di fronda, ma sebbene con il ricavo di quel che produce riesca a coprire appena le spese per la coltura dovute alla zappatura, all’aratura e alla gabella, il peso dell’affitto sulla fronda grava sulla produzione a tal punto che il suo reddito, comprensivo degli altri beni, risulta negativo

Conclusioni

Dall’analisi condotta attraverso lo studio del rivelo, Longi emerge come una piccola comunità di circa cinquecento abitanti, con una componente maschile maggiore di quella femminile, un alto numero di preti e un alto numero di vedove rispetto ai vedovi. In tredici quartieri vivono 203 famiglie, la stragrande maggioranza delle quali, circa l’88%, possiede una casa e un pezzo di terreno coltivabile. Si tratta dunque di una realtà largamente fondata sulla produzione agricola, considerato peraltro lo sparuto numero di mastri, presumibilmente artigiani, rubricati nel documento. La struttura della famiglia appare fortemente nuclearizzata e di dimensioni contenute rispetto a quelle della famiglia dell’Europa continentale. Inoltre, si registra una media di componenti per fuoco ancora più bassa rispetto a quella di una famiglia siciliana di metà Settecento, generalmente composta da 3 o 4 membri, come confermano gli studi di Domenico Ligresti. In relazione a questo dato si sottolinea la probabile sotto registrazione degli infanti, una lacuna per altro riscontrabile in tutti i riveli. Tale sottostima potrebbe comportare variazioni che tuttavia non altererebbero di molto il dato relativo alla dimensione della famiglia, ma al massimo lo porterebbero ai livelli sopra indicati. Si può ipotizzare, inoltre, che il ristretto numero medio di componenti per famiglia fosse dovuto all’elevato tasso di mortalità. Per esempio, tra le coppie sposate senza figli, il 58% è rappresentato da coppie giovani il cui capofamiglia ha un età tra i 20 e i 39 anni. Per verificare questa ipotesi, però, occorrerebbe ricostruire la demografia delle famiglie a partire dal metodo Henry, basato sui libri parrocchiali. La netta prevalenza degli aggregati domestici semplici è comunque un risultato paragonabile a quello proposto da Ligresti come modello di famiglia siciliana. Anche in questo caso, tuttavia, solo una indagine su altre fonti, specificamente su quelle notarili, potrebbe far luce sui meccanismi di trasmissione della proprietà e sulla disponibilità di risorse delle giovani coppie tramite le doti delle spose. In ogni caso, è doveroso sottolineare che tra i capifamiglia alcuni non dichiarano il possesso della casa, ma allo stesso tempo non si trovano informazioni più specifiche sul domicilio di quanti non possedevano questo bene: non sappiamo, insomma, sotto quale tetto vivessero, se presso l’abitazione di proprietà di un parente o di un estraneo. Sebbene ci sia un’ampia corrispondenza tra le famiglie e le abitazioni censite, resta comunque un margine di errore nel valutare la presenza o assenza di aggregati complessi a causa, appunto, delle difficoltà davanti le quali ci pone la fonte. Prestando attenzione al possesso delle case, sembra affiorare una gerarchia basata sulla loro tipologia, poiché i pochi esempi di case solerate, cioè a più piani, si trovano esclusivamente nelle dichiarazioni dei sacerdoti. Chi non ha una casa possiede comunque un appezzamento di terra e da nessuna delle dichiarazioni emergono nullatenenti. L’analisi della distribuzione delle colture, invece, ha messo in evidenza la larghissima prevalenza della produzione di fronda (le foglie ed i rami dell’albero di gelso. n.d.r.) per l’allevamento del baco da seta. La gelsibachicoltura costituiva la base di un processo produttivo che si concludeva con la produzione della seta e la manifattura tessile: dunque la popolazione di Longi viveva largamente di questa attività. Per la maggior parte delle famiglie legate alla sericoltura la fronda costituiva una fonte di reddito tale da garantire da sola, al netto delle spese di produzione, la copertura dei fabbisogni alimentari essenziali. Tuttavia nel 43% dei casi il reddito ricavato dalla produzione della fronda non era in grado di garantire da solo il sostentamento alimentare delle famiglie, che andava procacciato mediante fonti di reddito complementari, a partire dalla vendita di forza-lavoro per altri proprietari agricoli. “




La produzione della seta 

Dopo la pacificazione tra demenniti ed arabi, questi ultimi, “scoperta l’abilita degli abitanti di Demenna nella produzione e lavorazione della seta, nonché la sfarzosità dei loro indumenti, fecero loro tante ordinazione che in pochi decenni s’impiantarono parecchi gelseti, con nuovi opifici in tutto il territorio per aumentare la produzione della seta grezza.”(Gaetano De Maria).

Sin dalla presenza dei demenniti, quindi, sul territorio delle Rocche del Crasto e dintorni, secoli VI-X, la lavorazione della seta, diffusa dai bizantini, costituì un importante fattore economico. Pregiata era la “seta di Demenna”. Si ha notizia  che nei secoli successivi siffatta produzione continuò e si diffuse nel territorio. 

La valle del Fitalia, tra il XV ed il XIX  secolo, è interessata all’allevamento del baco da seta ed alla produzione di seta grezza. Molti produttori erano i principali proprietari terrieri della zona.  Vengono attrezzate alcune casette di campagna per l’allevamento del baco e la produzione dei bozzoli. 

A Longi, il barone aveva destinato i casolari di Liazzo e di Bonaiunta all’allevamento del baco ed i terreni attorno, decine di ettari, erano coltivati con piante di gelsi, le cui foglie venivano mangiate dal baco. I contadini ed i piccoli proprietari  vendevano i loro bozzoli o al barone o ai commercianti che si presentavano in loco.

Sul manufatto veniva applicata una gabella detta dei “due tarì”. A tal riguardo, scrive la Laudani:” I Padroni della gabella potevano scegliere di tenerla in economia, come il caso di molti feudatari che affidavano a persone di loro fiducia l’esazione oppure cederla a gabelloti locali. I quali diventavano i padroni assoluti per la gestione delle autorizzazioni delle fasi di lavorazione e per la determinazione dell’importo della gabella…..Grande quindi il potere di questi esattori ed enorme la possibilità di deroga, di favori , di contrattazione nelle loro mani.” Alcune categorie di produttori, in particolare quella  dei religiosi, erano esentate dal pagamento di una parte delle gabelle ed era malcostume diffuso in tutta la Sicilia intestare la produzione di seta a parenti ed amici ecclesiastici, esenti dal pagamento . (!!!) Anche a Longi, alcuni centri religiosi allevavano bachi e producevano la seta.

 (da uno scritto di Salvatore Sutera pubblicato su I quaderni della Valle del Fitalia.)


Nota personale.

Si evince da quanto sopra riportato che il nocciolo era allora inesistente sul territorio. Il noccioleto si è esteso ben dopo, cioè quando i vigneti furono infestati da parassiti per cui la produzione di uva e vino non dava il raccolto degli anni precedenti. Fu il Barone di Longi – quale non è dato sapere – che estirpò gran parte dei suoi vigneti sostituendoli con l’impianto di nocciole. “Jardino du Duca” (sotto il Serro) ed il Vignale furono i terreni che il Duca dell’epoca destinò a noccioleto. L’esempio venne seguito da altri proprietari terrieri i quali coprirono grandissima parte dei terreni nelle contrade del paese. La coltura intensiva del noccioleto, sino ad alcuni decenni addietro, era un’ottima fonte di reddito (integrativo) per le famiglie. Oggi i noccioleti non vengono più curati a causa di molteplici fattori: il costo elevato della mano d’opera- che, peraltro, quella femminile per la raccolta del frutto, è irreperibile-, la disomogeneità delle cultivar non appetibile al mercato dolciario, la forte concorrenza estera che ha fatto crollare il prezzo alla vendita delle nostre nocciole per cui non è conveniente la raccolta del prodotto. E dire che il gusto organolettico della nocciola dei Nebrodi è il migliore in assoluto; dovuto probabilmente alla terra ed al clima mediterraneo.

A tutto ciò è da aggiungere una  proliferazione dei ghiri che distruggono il frutto ed un cimiciato che rende immangiabile la nocciola.

L'allevamento del baco ( nota da internet)



Bachi di 21 giorni

Il baco si nutre esclusivamente delle foglie dei gelsi (bianco  e  nero)

Le sue uova (dette semenza) si schiudono tra la fine di aprile e l'inizio di maggio, quando le foglie sugli alberi si sono completamente formate. 

L'allevamento veniva curato nelle case dei contadini e le stanze adibite a questo scopo avevano, oltre alle finestre, aperture supplementari sopra le porte o sotto le finestre stesse per garantire l'aerazione. 

Bachi di razza diversa producono bozzoli di differente colore: bianco candido (i più pregiati), da giallini fino ad arancioni (meno pregiati).


Dalla tesi di laurea (pubblicata nella edizione precedente di Alle pendici delle Rocche) di Giada Araca,  ho estrapolato alcuni argomenti che ho ritenuto importanti per la conservazione di una memoria storica della vita socio-economica condotta dai longesi quando ancora esisteva la cultura contadina, soppiantata, nel dopoguerra, da altre attività lavorative.

Il Duca                Le terre facenti parte del Comune di Longi erano in misura schiacciante di proprietà del Duca; a detta dei contadini, i ¾ dell’intero Comune erano di sua proprietà. Il Duca possedeva le terre in zona Baronia di Cinca1 (da Passo della Zita fino al bosco Soprano escluso), che comprende: Sette Fontane, Colla, Rocca che parla, Pizzo Lupo, Pizzo  Stifani, Pizzo Aquila e Vina; un piccolo terreno in zona Bonifazio, vicino al fiume, adibito per lo più al pascolo perché roccioso e poco adatto al seminativo; nelle contrade di Bonaiunta, di Liazzo, di Pado di circa 500 ettari, il bosco Sottano2; il bosco Vignale ed i feudi di Gazzana, Botti3 e Barillà, bosco incluso, coltivati a grano e con la miglior resa, (circa  900 salme), per cui erano le terre più ambite dai contadini. Oltre alle terre, il Duca possedeva tre “casini”, cioè tre dimore: uno al Passo della Zita, che, secondo l’intento dei feudatari antenati dell’ultimo duca doveva essere adibito ad alloggio dei soldati, ma rimase incompiuto; uno nel feudo di Gazzana e un altro a Bonaiunta. Sia gli uomini che le donne hanno lavorato alla costruzione di uno dei “casini” del Duca, portando a spalla le pietre che arrivavano dalla stazione ferroviaria di Zappulla.         Nel castello, situato al centro del paese, veniva venduto il grano che fino all’inverno era tenuto in deposito nei magazzini di Mangalavite e Barillà, per essere poi trasferito in quello di S. Antonio, che era alle spalle della Chiesa della SS. Annunziata, a Longi, oggi non più esistente.  Le olive ottenute dalla raccolta erano portate al frantoio e l’olio prodotto era destinato sia alla vendita, sia ad un uso personale. Le olive erano raccolte da operai, tra uomini e donne, pagati a giornata: gli uomini salivano sugli alberi e con un bastone scuotevano i rami mentre le donne raccoglievano le bacche cadute per terra.                Gli operai erano pagati in tre modi diversi: alcuni in denaro (il salario corrisposto per una giornata di lavoro da un privato era equivalente a quello pagato in due giorni dal Duca, che quindi pagava la metà); altri con l’olio prodotto (circa un litro al giorno). Alcuni prestavano la loro opera gratuitamente a titolo di favore. Il Duca era considerato da tutti “pricchio”, ma, al contrario di altri Signori, è stata una figura abbastanza presente sui suoi territori. Avaro (la maggior parte dei ricchi lo sono NdA.) perché pagava, come detto, i braccianti la metà dei proprietari privati (quando questi ultimi corrispondevano 75 lire giornaliere, il Duca ne dava 35); però gli stessi contadini accettavano quella retribuzione perchè nei suoi terreni si faceva meno fatica in quanto egli era considerato come lo Stato; cioè, come si usava - a detta degli intervistati -  per un lavoro statale, “ci si poteva grattare la testa”. 

3.3–Gli ultimi Duchi                                                                                                                      ..…. Essa (la duchessa Zumbo NdA) donò al Comune di Longi, nel 1955, con atto pubblico, un fondo rustico comprensivo di un fabbricato (case Ferrante) in località Carbonello, con l’obbligo di istituire una colonia estiva montana dedicata alla memoria del marito, e, con altro atto pubblico, cedette sempre al Comune un terreno  in zona Giardinello, dove oggi sorge la scuola materna, che venne realizzata con un finanziamento della Cassa per il Mezzogiorno I casini della contrada Ferrante (Gazzana) e quello di Passo Zita, mai terminati, sono stati costruiti – come riferito da alcuni intervistati - per dare lavoro alla gente bisognosa. Gli infissi avevano misure doppie di quelle normali, proprio per dare più lavoro ai falegnami, ai fabbri e ai muratori. Le case Ferrante avevano il primo piano completo di infissi, che vennero divelti quando il Comune – divenuto proprietario – diede in affitto il pianterreno per il ricovero di animali.                                        

 Il Duca produceva anche calce viva. Gli operai costruivano in pietra le “calcare”, cioè dei vani vuoti all’interno con una cupola, in modo da poterci inserire i prodotti del sottobosco (rami secchi, foglie) utili per accendere il fuoco, della durata di circa 48 ore. In cima alla cupola c’erano tre pietre chiamate “pennenti”: appena esse erano cotte si spengeva il fuoco e si facevano riposare per circa 3/4 giorni, Dopo veniva macinata la parte cotta e la calce ottenuta veniva così divisa: una parte era del Duca che conservava nei magazzini per poi venderla, un’altra veniva donata a chi ne aveva bisogno ed il resto era per chi l’aveva lavorata.                                           

È sicuramente per questo suo comportamento di solidarietà nei confronti dei bisognosi che non si ebbero mai, nei rapporti con l’ultimo Duca, momenti di forti tensioni, nel senso di rivolte (come era accaduto con altri suoi antenati), anche se i contadini erano e si sentivano sfruttati.                   Il Duca ha iniziato a vendere le proprie terre durante il fascismo, partendo dai feudi più lontani dal paese; egli cedette i propri terreni, divisi in quote da 1 ettaro ciascuna, a prezzi onesti (£. 3000 ogni quota) come incentivo a far rimanere i contadini nel proprio paese e per non farli emigrare. La divisione dei terreni è stata fatta con confini in modo molto regolare, come se fosse un reticolato, ed è ancora oggi ben visibile e mantenuta nel feudo “Gazzana”.                                          Il fenomeno dell’emigrazione, però, soprattutto dal secondo dopoguerra in poi, è stato sempre più frequente e gli uomini che partivano inizialmente lo facevano per guadagnare un po’ di denaro per potere un giorno tornare a casa e comprarsi un po’ di terreno. Invece, la maggior parte degli emigranti non fece più ritorno; soprattutto quelli che emigrarono nelle Americhe, seguiti poi anche da coloro che erano andati in Europa o nel nord-Italia. Le persone hanno comunque un ricordo positivo del Duca e di sua moglie perché essi donarono molte terre ai cittadini longesi.

Patti agrari              Tutti i terreni di proprietà del Duca erano dati in gabella ai coloni, più precisamente ai “mitateri”; il Signore cedeva in affitto delle “cote” di terreno ai contadini, che veniva pagato in natura con ciò che veniva prodotto dal terreno stesso.                         Il Duca, come anche gli altri proprietari terrieri, stabiliva tre diversi tipi di accordi per la lavorazione dei propri terreni, in sostanza due tipi di patti parziari e un affitto.                         Il proprietario e il contadino decidevano prima dell’affidamento della quota di terreno il prezzo da pagare a fine accordo - solitamente una quota di ciò che verrà prodotto- e il conduttore coltivava quello che voleva.            Terre “a semenza” (“sumenza”): a inizio accordo si stabiliva cosa sarebbe stato coltivato e il proprietario dava il seme necessario al contadino assieme al terreno. Al momento del raccolto veniva tolta la parte corrispondente al seme fornito dal proprietario e ciò che rimaneva veniva diviso a metà: “a terraggio”: al momento della consegna della terra si stabiliva quanto il conduttore doveva pagare per l’affitto della terra. Se, per esempio, il canone da corrispondere a fine accordo era stato quantificato in 100 kg. di grano, il contadino ne avrebbe dovuti corrispondere altrettanti, indipendentemente da quanta era la resa. In questi casi poteva succedere che il contadino avesse lavorato per niente, o anche peggio.                Questo accordo, che era praticamente sempre orale in considerazione anche del livello di istruzione dei contadini, solitamente aveva una durata quasi annuale. Esso cioè aveva inizio a settembre/ottobre (dipende da dove era situato il terreno, se in montagna o a minor altitudine), cioè nel periodo di semina, e terminava nel periodo di raccolta, che era nel mese di luglio. In caso di ritardo nella corresponsione del pagamento, erano dovuti dal contadino degli interessi; se non riusciva a pagare a fine anno doveva pagare l’anno seguente con altri interessi, che ammontavano a 1 mondello (“munneddu”) – circa 4 litri -  ogni tomolo (“tummunu” = 273 metri quadrati circa)             

Alla scadenza degli accordi potevano verificarsi diverse situazioni. Il caso più frequente era quello in cui il contadino riaffittava lo stesso terreno per un altro ciclo di produzione stipulando con il proprietario un nuovo accordo oppure poteva richiedere  un diverso pezzo di terreno situato in un’altra zona. Ma,poteva cambiare padrone il contadino, con la speranza di migliorare le sue condizioni; cosa che di fatto non accadeva mai perché gli obblighi erano altissimi. C’era anche, però raramente, chi faceva direttamente un accordo della durata di 2 o 3 anni, ma poteva verificarsi anche che il padrone stesso non rinnovasse il contratto perché il contadino non riusciva a soddisfare a pieno l’accordo.                La quota di terreno presa in affitto dai contadini corrispondeva a circa un ettaro di terreno, che di solito corrispondevano a 6 tomoli di semina (senza concimazione).               Nel caso in cui un contadino avesse arrecato danno (ad es. con i propri animali) alla coltivazione di un altro, lo ripagava in natura con una parte del suo raccolto.

Figure intermediarie fra il Duca e i contadini                  Il Duca, che era proprietario di gran parte delle terre del Comune di Longi, cedeva in affitto tutte le sue terre, che faceva controllare dai “campieri”, sue persone di fiducia addette al controllo dei pascoli e della semina, che assolvevano al loro compito armati di fucile. Essi, per il loro lavoro, ricevevano un pagamento misto in denaro e in prodotti della terra.                                   I principali campieri erano Iannaci, Castano, Sariti e Miceli; ma ce ne erano anche altri minori.  I campieri non avevano zone fisse e giravano per tutti i terreni. Era soprattutto nel periodo di fine mietitura che passavano a dividere i raccolti con la parte spettante al Duca e, al momento della raccolta del grano, si prendevano per sé un mannello (“munneddu”) per ogni salma. Lo stesso succedeva per la produzione di formaggio, dalla quale trattenevano per sé stessi una percentuale. Ricevevano un beneficio economico anche sulla emissione di verbali (multe), utilizzati nei confronti dei contadini che, per esempio, avessero recato danno con i propri animali ai terreni. Un’altra figura molto importante, ancor più dei campieri e vicina al Duca, era il “Ministratore”, cioè il fattore: egli teneva la contabilità al Duca e i campieri dovevano rendere conto a lui.

I prodotti delle terre di Longi                  Il maggior prodotto più frequentemente coltivato era il grano; in tutti i feudi la metà di ogni quota era coltivata a grano, poi venivano gli altri tipi di cereali (granoturco ad es.), i legumi come la cicerchia (“chiecchera”, che è una pianta molto coltivata in questa parte dei Nebrodi e in particolare nella zona di Longi, è una leguminosa, simile ai ceci, che però contiene un principio venefico per l’uomo e gli animali, la latirina. ) e gli ortaggi nei piccoli orti familiari.  Il miglior terreno era quello della località di Barillà, di conseguenza anche il più ambito dai contadini.             

 La parte di grano di spettanza del Duca era conservata nei magazzini di Barillà e di Mangalavite. Il grano del Duca durante l’inverno veniva trasportato e tenuto in deposito presso il magazzino di S. Antonio, dietro la Chiesa SS. Annunziata, e venduto nel Castello di Longi.                 

Le terre che circondavano il paese (da passo Zita fino al Belvedere Serro e la zona Vendipiano) non si prestavano alla coltivazione di grano ed erano quindi per lo più dedicate alla coltivazione di mensalora, cioè, come già detto, piccole olive di qualità pregiata con poca polpa.                           Per dare lavoro alla gente, il Duca impiantò un grande vigneto nelle sue terre nei pressi del Passo Zita.                              In contrada Pado si coltivavano ortaggi negli appezzamenti di proprietà dei contadini, mentre, nella parte restante, crescevano noccioli e castagni , ancora oggi esistenti.                  Il Duca, che faceva raccogliere le nocciole ai contadini, aveva un metodo originale per capire se qualcuno a fine lavoro si stava portando via, a sua insaputa, delle nocciole. Li faceva passare sopra un solco scavato nella terra; per oltrepassarlo, le persone erano costrette a sollevare, una alla volta, le gambe e se in tasca avevano delle nocciole queste avrebbero fatto rumore.                                   Gli agrumi, pochi alberi, erano coltivati solamente vicino al fiume Mylè (al confine con il Comune di Galati Mamertino) sotto al Serro, perché bisognosi di molta acqua.                                                Il Duca si faceva pagare anche le ghiande che i contadini raccoglievano sui suoi terreni per nutrire e ingrassare i maiali.

Le terre dei contadini                    La maggior parte dei contadini di Longi possedeva dei piccoli fazzoletti di terra adibiti a orto, nelle contrade, e dei terreni nella zona di S. Giorgio, denominata Nicolicchia, nel comune di Alcara Li Fusi, avendoli comprati ad un prezzo relativamente basso. Ma, questi piccoli appezzamenti non erano sufficienti al sostentamento di una famiglia numerosa, così tutti – come detto - prendevano in affitto a “gabella” delle quote (“cote”) di terreno di proprietà del Duca oppure lavoravano come braccianti a giornata nei suoi terreni e/o di altri proprietari terrieri della zona.                                       La giornata lavorativa di un contadino era così scandita. Sveglia alle quattro circa per essere a lavoro poco prima dell’alba, dove ci si recava con l’asino o con il mulo per circa un’ora di cammino. Si cercava di essere il prima possibile sul terreno, perché finché il sole non era alto si poteva lavorare bene, poi arrivava il caldo. Si faceva pausa per mangiare: per la colazione (8,30 circa), per il pranzo, quando il Crasto faceva ombra, e per la pennichella. Si lavorava fino a quasi il tramonto e si faceva ritorno a casa con il buio.

L’organizzazione del lavoro su base stagionale.                 La terra veniva arata ad agosto-settembre, ma a maggior altitudine si arava anche a ottobre. A fine ottobre iniziava la semina di grano, a gennaio-febbraio il grano era spuntato e veniva zappettato (“zappuliato”), cioè si toglievano le erbacce con una piccola zappa. Verso aprile-maggio si “scerbava”, cioè si ripassava nuovamente per togliere le erbacce cresciute. Le erbacce erano considerate importanti, perché venivano seccate e trasformate in fieno da dare agli animali come cibo. A fine giugno-luglio è finita l’annata, perché c’è la raccolta e la trebbiatura del grano. Agosto era forse il mese in cui il contadino poteva “riposarsi”.                        C’era chi, finita la trebbiatura, andava a lavorare fuori Longi in comuni limitrofi (ad es. Alcara Li Fusi, San Fratello, ecc.), nella Piana catanese, a Enna o a vendemmiare nelle “marine” (soprattutto nel Trapanese); in questo caso mancava da casa circa 2-3 mesi (da luglio a settembre); questo per guadagnare un po’ di denaro, visto che “soldi non ce n’erano!”. Si creavano dei gruppi di uomini che partivano alla volta di altre province ed è in queste occasioni che sono nate le “chianote luncitane”: gli operai, a sera, si riunivano e un capo-coro intonava una strofa cui seguiva il ritornello “ah, ah, ah” di tutto il coro.            

Le tecniche di coltivazione dei terreni      Il principio utilizzato da tutti i contadini per la coltivazione del territorio di Longi era lo stesso: ogni quota di terreno veniva divisa in due parti, in una parte era rigorosamente coltivato il grano e nell’altra si coltivava qualcuno degli altri generi già elencati. I contadini per far riposare il terreno alternavano le coltivazioni; quindi se, in una certa metà in un anno, veniva coltivato grano, l’anno successivo vi si sarebbe coltivato un altro prodotto agricolo. In pratica il terreno non riposava mai, fruttava tutti gli anni, ma producendo generi diversi.                                        La tecnica adottata per la sistemazione dei terreni in pendenza era la stessa per tutti: venivano scavati due solchi “madre”, più profondi, ai margini del terreno, all’interno del campo si tracciavano degli altri solchi leggermente obliqui a quelli madre, che conducevano l’acqua ai due solchi principali, facendola defluire a valle, evitando così possibili allagamenti del terreno e delle piante, che altrimenti non avrebbero potuto produrre niente. I solchi erano tracciati in modo da configurare una pendenza moderata del terreno (quindi sufficiente a fornire il deflusso dell’acqua), ma non una pendenza eccessiva (che avrebbe comportato erosione e dilavamento). Essi erano configurati nello stesso modo anche dai vicini di terreno. In caso di più forte pendenza del terreno, i solchi erano quindi tracciati più decisamente di traverso rispetto alle linee di massima pendenza.      I solchi per seminare erano tirati a mano o con l’aratro tirato da muli o asini, meno di frequente da buoi, e successivamente sistemati con lo zappone.                               

I confini tra le varie proprietà erano mantenuti utilizzando il metodo delle “lenze”, cioè si fissava nel terreno uno spago da un punto a un altro, in modo da tracciare una linea dritta, e accanto allo spago veniva costruito un “murazzo”, cioè un muro a secco, per materializzare il confine.

Strumenti di lavoro                 L’attrezzo più nominato durante le interviste è stato lo sciamarro o zappone, usato ovviamente per zappare; poi la falce per mietere il grano; l’aratro, usato da chi aveva asini, muli o buoi, per arare il campo.             Negli anni più recenti, si è iniziato a usare i trattori. Anche per la trebbiatura sono intervenuti i mezzi meccanici; si è formata in proposito anche una cooperativa, che però utilizzava strumenti non molto moderni.                Per macinare il grano e ottenere la farina ci si rivolgeva ai mulini, che erano ad acqua e dunque situati lungo i torrenti (questa zona è particolarmente ricca di corsi d’acqua a regime torrentizio). Nel Comune di Longi ce n’era uno nella zona Scinà. Esisteva anche un mulino sul confine tra i comuni di Longi e Galati Mamertino, in contrada Forte Mylè

Il bestiame dei contadini                         Tutte le famiglie di contadini possedevano animali (anche se pochi), come conigli, galline, maiali, capre, pecore, tutti sistemati nella stalla della casa di campagna. Avevano anche l’asino o il mulo, usati sia come mezzo di trasporto, sia di lavoro, come ad esempio per arare i campi o per trebbiare il grano, visto che per lungo tempo non sono esistite trebbiatrici meccaniche.                                   Non c’erano grossi allevatori di bestiame nella zona di Longi; quelli che ne avevano 3 o 4 buoi venivano considerati “massari”. Il massaro impiegava un giorno per arare un campo con i buoi, mentre il contadino 3 giorni a mano. Le pecore e le capre venivano fatte pascolare nelle terre di proprietà del Comune.

Le case                La maggior parte dei contadini possedeva una casa nel paese di Longi e una o due casette in una delle contrade, le quali rappresentavano una necessità per loro perché il percorso da esse al luogo di lavoro era più che dimezzato; era un grande vantaggio visto che si recavano a lavorare a piedi o sui animali da soma.                Le frazioni o contrade erano, considerate campagna, chiamate “o locu”, che deriva dal latino "locus" e significa podere, terreno ma anche contrada.                                        Le famiglie rientravano a Longi dalle case delle frazioni tra il 15 e il 20 dicembre, cioè dopo aver scannato il maiale da mangiare per Natale; e tornavano a spostarsi in campagna dopo la prima domenica di maggio, giorno in cui si celebra la festa di S. Leone.                Le case in campagna avevano la stalla “catoio” (locale che sta “sotto”, dal greco catà) al piano inferiore, dove venivano alloggiati gli animali e il cibo per essi; al piano superiore si trovavano le stanze e la cucina ove, visto che i pavimenti erano fatti con semplici assi di legno, si sentivano gli odori che provenivano dalla stalla; per contro, il vantaggio era che il sistema serviva come riscaldamento, perché il calore delle bestie saliva nelle stanze.               

Altre casette le ritroviamo nel feudo Barillà, che “il Duca d'Ossada aveva fatto costruire per gli operai che lavoravano la sua terra seminata a grano, ben 99 casette con annessa chiesetta; si trattava  ovviamente di residenze stagionali in occasione dei lavori di aratura, semina, mietitura, trebbiatura e trasporto del grano nei magazzini del barone di Longi. Oggi ci sono solo alcuni resti di mura.”

I CARBONAI

I carbonai lavoravano nei boschi: Soprano (proprietà del Comune di Longi), Barillà (proprietà del Duca D’Ossada), Mangalavite (proprietà del Barone Caramazza) e Scavioli (Comune di Alcara Li Fusi). I carbonai venivano pagati in diversi modi; di solito dividevano a metà col padrone il carbone ottenuto.                   Il padrone del bosco decideva la parte di alberi che quell’anno sarebbe stata tagliata, poi passavano i funzionari della polizia forestale che segnalavano gli alberi che non dovevano assolutamente essere tagliati (si preferiva tagliare gli alberi più secchi e mantenere quelli più belli). Dopo di che un imprenditore comprava il legno “in piedi” (gli alberi destinati al taglio) e chiamava i carbonai per fare il carbone. Al termine del loro lavoro i carbonai pesavano il carbone e venivano pagati dall’imprenditore in denaro. Tutto il lavoro e le incombenze nella parte di bosco comprata dall’imprenditore erano completamente a suo carico. Oppure, il legno veniva messo all’asta prima di essere tagliato (“in piedi”) e veniva venduto al maggior offerente. Altra ipotesi era quella che il proprietario lottizzava gli alberi da tagliare e i carbonai decidevano quali lotti del bosco lavorare; al termine del lavoro il carbone veniva diviso a metà con il padrone.

                                                                      

Ph: Pagliaio 

Le terre comunali                 Le terre del Comune si trovano: a nord-est di Longi,  un piccolo appezzamento in zona “’u Sdirrupo” (il dirupo), che è un  terreno sconnesso con pietre, praticabile solo per il pascolo delle capre, per l’utilizzo del quale il Comune non percepiva affitti ; alla contrada  Petrusa e  presso il bosco Soprano, per i quali il Comune, ove usufruiti, pretendeva e pretende pagamenti “in natura”, chiamati “terraggio” (dal latino terraticum, canone per la terra; altrove infatti il termine è terratico”); altri appezzamenti sono sparsi in diversi posti, il più consistente dei quali si trova nei pressi della contrada Filipelli.                Gli usi civici sulle terre del Comune, riferiti alla raccolta della legna secca, sono tutt’oggi in vigore e sono regolati da un vecchissimo accordo sottoscritto tra il feudatario, il Barone di Longi e la Universitatis (comunità) Terrae Longis.             Nella zona di Petrusa si coltivava grano. Il pagamento era in base a quanto veniva seminato (es. se si seminavano 20 Kg. di sementi di grano, il contadino doveva dare 20 kg. di grano, mentre per il granoturco si faceva a metà ); se invece non si otteneva raccolto non veniva pagato niente al comune. Il bosco Soprano era usato essenzialmente per il pascolo di ovini (pecore e capre); il pagamento annuale per questo tipo di uso ammontava, prima della seconda guerra mondiale, a qualche forma di formaggio o a una o due lire ad animale; nelle zone tra gli alberi, dove non c’era ombra, si seminava il grano. Si effettuava anche la raccolta di legna secca, che poteva essere presa gratuitamente da tutti (mentre sui terreni del Duca andava pagata anche quella): era quella che utilizzavano i contadini per trasformarla in carbone oppure venderla.                             La legna pregiata veniva trasportata, per conto del Comune, con una teleferica che partiva dal bosco, passava da Pado e arrivava fino a Liazzo; là c’erano dei camion che caricavano la legna e la trasportavano a Torrenova, sul mare, per la costruzione di barche. La legna del Duca, invece, veniva trasportata sulla strada privata costruita da lui, che arrivava a Randazzo (CT), dove il Signore aveva altri terreni. Questa strada fu fatta costruire a spese del Duca con trattori affittati da cooperative ed impiegati in quella zona per pochi mesi in quanto, essendo essa a grande altitudine, laddove la buona stagione è relativamente breve, non era possibile utilizzarli per tutto il periodo dell’anno.

Le strade e la transumanza                Tra le strade è importante ricordare la “Regia Trazzera” (tratturo) che attraversava il comune di Longi: iniziava da Torrenova ed arrivava a Troina e perfino a Gela. Era una strada che consentiva agli animali di evitare i corsi d’acqua, che avrebbero dato loro grossi problemi per attraversarli. La Trazzera era utilizzata soprattutto dai pastori che praticavano la transumanza e il primo punto attrezzato per le soste era la “Costa Lunara”, vicino all’attuale campo sportivo di Longi, il secondo punto era vicino alle case di Mangalavite.

Conclusioni             Molti contadini hanno mantenuto le loro terre, soprattutto quelle comprate in passato con le rimesse degli emigranti; ma esse, dove non sono state abbandonate, vengono dedicate al pascolo e alla coltivazione per uso personale di ortaggi, frutta, nocciole, ecc.                               I numerosi appezzamenti di terreno, un tempo lavorati al massimo dello sfruttamento, potevano essere utilizzati dalla comunità per immettere i propri prodotti sul mercato. Invece, un salto in avanti, verso un’agricoltura capitalistica, non si è registrato. Ancora oggi si preferisce destinare i prodotti della terra all’autoconsumo familiare, che si discosta enormemente da quello di un tempo, perché è semplice e limitato. La spia più convincente del fenomeno di abbandono delle terre è quella del grano: un tempo coltivato sistematicamente e in grandissime quantità, anch’esso poteva essere un prodotto da immettere sul mercato (anche se la concorrenza estera è molto “aggressiva”), mentre invece è scomparso dalle colture tradizionali della comunità longese.              

 “La vita rurale di Longi è cambiata quando la terra non produceva più un reddito sufficiente per vivere e il costo della mano d’opera ha cominciato ad aumentare; inoltre, la scolarizzazione dei giovani sino alla licenza media ha comportato che parecchi figli di contadini o di operai scegliessero di continuare a studiare sino al diploma o alla laurea; ed ancora, l’apertura delle fabbriche nel settore delle confezioni di vestiario ha assorbito mano d’opera in gran parte femminile, ma anche maschile. In conclusione, sono venute meno parecchie braccia-lavoro all’agricoltura. Tutte queste cause hanno dato il colpo finale all’impossibilità di coltivare ciò che prima costituiva un reddito per le famiglie – noccioleto e seminativo – con l’impiego dei mezzi meccanici, nonché la forte concorrenza dei relativi prodotti da parte della filiera importate dall’estero (come ad esempio le nocciole dalla Turchia).           

Quando si raccoglievano le nocciole

                     Dopo la raccolta, le nocciole venivano liberate dalla brattea (spatellate) e stese al sole per asciugare

Oggi non esiste praticamene a Longi il settore dell’agricoltura; la maggior parte dei braccianti agricoli va a lavorare al rimboschimento, la restante parte viene chiamata per i lavori dell’orticello o per i piccoli lavori negli appezzamenti di terreno, laddove è richiesta la pulizia delle erbacce.


“A Pisera”: oggi, come allora! Dopo la trebbiatura, le spighe di grano vengono battute, sull’aia, dai cavalli o dai buoi ed il cereale, mondato, viene raccolto in sacchi di iuta.


L’antico forno a legna e la madia in cui si impastava la farina prima di infornarla per farne il buon pane di casa




REPUBBLICA ITALIANA

Regione Siciliana

Assessorato Territorio e Ambiente

DIPARTIMENTO TERRITORIO E AMBIENTE

Servizio 4 "ASSETTO DEL TERRITORIO E DIFESA DEL SUOLO”

Piano Stralcio di Bacino

per l’Assetto Idrogeologico (P.A.I.)

(ART.1 D.L. 180/98 CONVERTITO CON MODIFICHE CON LA L.267/98 E SS.MM.II.)

………..

• Bacino Idrografico della Fiumara di Zappulla ed area tra Fiumara

di Zappulla e Fiume Rosmarino (016)

Relazione

Anno 2006


……….

3 PIANO DEGLI INTERVENTI PER LA MITIGAZIONE DEL RISCHIO

GEOMORFOLOGICO.................................................................................... 207

3.1 Stato della progettazione proposta dagli Enti Locali............................... 208

3.2 Elenco dei rischi elevati e molto elevati ed interventi programmati ...... 273

……….

Schede di censimento dei dissesti


STRALCIO RELATIVO AL COMUNE DI LONGI 


Comune di Longi

Nel territorio del comune di Longi ricadente all’interno del distretto idrografico,

nell’ambito delle 120 aree in dissesto censite, sono state individuate altrettante aree

appartenenti a 5 classi di pericolosità.

In particolare sono state classificate le seguenti aree:

􀂃 N. 48 aree ricadenti nella classe a pericolosità molto elevata (P4) per una superficie

complessiva di 282,94 Ha;

􀂃 N. 18 aree ricadenti nella classe a pericolosità elevata (P3) per una superficie

complessiva di 32,68 Ha;

􀂃 N. 25 aree ricadono nella classe a pericolosità media (P2) per una superficie

complessiva di 40,37 Ha;

􀂃 N. 23 aree ricadono nella classe a pericolosità moderata (P1) per una superficie

complessiva di 14,04 Ha;

􀂃 N. 6 aree ricadenti nella classe a pericolosità bassa (P0) per una superficie di 30,38

Ha.

In relazione alla determinazione delle classi di rischio sono state individuate n. 111 aree

a rischio di cui:

􀂃 N. 11 aree a rischio molto elevato (R4) per una superficie complessiva di 4,29 Ha;

􀂃 N. 50 aree a rischio elevato (R3) per una superficie complessiva di 13,29 Ha;

􀂃 N. 22 aree a rischio medio (R2) per una superficie complessiva di 2,81 Ha;

􀂃 N. 28 aree a rischio moderato (R1) per una superficie complessiva di 6,93 Ha.


Nelle aree a rischio R4 ricadono i seguenti elementi vulnerabili: centro abitato, nuclei

abitati.

Nelle aree a rischio R3 ricadono i seguenti elementi vulnerabili: tratti di strade

provinciali e comunali, cimitero, viabilità secondaria e case sparse.

Nelle aree a rischio R2 ricadono i seguenti elementi vulnerabili: centro abitato, tratti di

strade comunali, campo sportivo, cimitero, strade rurali e case sparse.

Nelle aree a rischio R1 ricadono i seguenti elementi vulnerabili: centro abitato, tratti di

strade provinciali e comunali, campo sportivo, strade rurali e case sparse.

Centro abitato

Per quanto riguarda più nello specifico il centro abitato sono state riscontrate le seguenti

aree pericolose:

− La porzione orientale dell’abitato di Longi è stata edificata sull’orlo di una

scarpata rocciosa costituita da calcari liassici e calcari in facies di “Medolo”,

stratificati ed intensamente fratturati. In particolare in corrispondenza del

Belvedere Serro sono avvenuti in passato crolli di elementi lapidei di

dimensioni inferiori ad 1 m3, che hanno reso instabile parte del muro

orientale della piazza; in tale zona è stata perimetrata un’area di pericolosità

elevata (P3) ed è sottoposta a rischio molto elevato (R4) la piazza e gli edifici

pubblici prossimi all’orlo della scarpata. Il piazzale e le strutture ricreative

poste più a Sud hanno subìto lesioni attribuibili ad una deformazione

superficiale lenta dei terreni di substrato costituiti da materiali detritici con

scadenti caratteristiche meccaniche; tale zona è soggetta ad una pericolosità

media (P2) ed a rischio molto elevato, coinvolgendo strutture di interesse

pubblico (E4).

− La parte del centro abitato presso la Via Plebiscito è stata interessata negli

ultimi anni da deformazioni lente del substrato che, in coincidenza di eventi

piovosi prolungati ed eventi sismici, determinano il progressivo ampliamento

dello stato fessurativo delle abitazioni civili e della viabilità urbana; in tale

zona è in fase di esecuzione un intervento di consolidamento. Questa zona

del centro abitato (E4) ricade in un’area a pericolosità media (P2) ed è a

rischio molto elevato (R4).

− Sulla sponda destra del Torrente S. Maria alla periferia Nord-occidentale

dell’abitato sono avvenuti in tempi diversi numerosi smottamenti delle rocce

calcareo-marnose estremamente fratturate ed alterate che costituiscono il

pendio sub-verticale. Nella zona a monte è perimetrata una frana complessa

attiva che determina localmente lesioni alle strutture murarie della strada

provinciale S.P. 157 e della villa comunale direttamente coinvolti dal

dissesto, mentre nella zona a valle su entrambe le sponde del Torrente

S.Maria un area a franosità diffusa coinvolge i terreni antistanti la Caserma

dei Carabinieri e gli edifici adiacenti. È stata perimetrata un’area a

pericolosità elevata (P3) e sono sottoposti a rischio molto elevato (R4) la

villa comunale (E4) ed a rischio elevato (R3) l’adiacente tratto della strada

provinciale (E2); a valle è presente un area a pericolosità media (P2).




Il paese adagiato su una base rocciosa

− Nella periferia meridionale del centro abitato, a Sud della Piazza degli Eroi

diverse abitazioni hanno subìto negli ultimi anni lesioni alle strutture murarie

conseguenza di deformazioni lente del substrato su cui insistono; si

determina un areale a pericolosità moderata (P1) in cui risultano a rischio

medio (R2) le abitazioni e le strade coinvolte dal dissesto (E4). Il versante

calcareo presente a Sud fino alla periferia del centro abitato, in C.da S.Croce,

è soggetto a fenomeni di crollo di elementi lapidei; lungo la parete sono

evidenti blocchi limitati da fratture aperte e blocchi disarticolati che creano

una condizione di pericolosità molto elevata (P4) per l’area sottostante dove

insistono sia il tracciato della strada comunale per il cimitero che quello della

strada provinciale S.P. 157 (E2), a rischio elevato (R3), ma anche il centro

abitato fino a C.da S.Croce (E4), a rischio molto elevato (R4).

Frazioni e nuclei abitati

Tra le situazioni pericolose nel territorio comunale si segnalano:

− A monte della frazione di Stazzone esiste una parete rocciosa costituita da

calcari liassici, da cui in passato si sono staccati elementi lapidei. È stata

perimetrata un’area a pericolosità molto elevata (P4) che si spinge fino al

tracciato della strada provinciale S.P. 158, pertanto è a rischio molto elevato

(R4) la parte di abitato a monte della strada (E4) ed a rischio elevato (R3) la

strada stessa (E2).

− Il versante a valle del nucleo abitato di Pado è interessato da un fenomeno

franoso complesso che determina un area a pericolosità elevata (P3). Sono

sottoposti a rischio molto elevato (R4) alcune abitazioni della periferia

meridionale del nucleo abitato (E3), a rischio elevato (R3) il tratto della

strada provinciale S.P. 158 (E2), di recente interessato da un evidente

abbassamento della carreggiata, mentre a rischio medio (R2) sono le case

sparse e la viabilità secondaria (E1) della zona a valle.







Pillole sparse

Selezione di alcuni brani, pubblicati su internet, riguardanti eventi e fatti storici degli ultimi tre secoli,relativi alla Sicilia, ai quali il paese di Longi non rimase estraneo anche se nessuna fonte (l’archivio storico, come detto, è andato distrutto) ci fornisce informazioni circa il coinvolgimento di suoi concittadini. Che senza dubbio ci sarà stato. Li pubblico, in ordine sparso e senza riferimento bibliografico, in quanto il testo è stato estrapolato da diversi siti ed adattato per inserimento nella presente pubblicazione.

Eventi storici 

Dinamiche di una terra conquistata

All’indomani dello sbarco di Garibaldi in Sicilia, la popolazione tutta, in particolar modo i contadini, lo accolsero trionfalmente, lo aiutarono nella lotta contro le truppe borboniche, insomma non parteggiarono certo contro di lui: un vero trionfo, se si pensa anche che ai contadini furono fatte promesse mirabolanti sulle magnifiche sorti e progressive del loro avvenire, quali la redistribuzione dei latifondi e l’abolizione di varie tasse. Garibaldi, però, si dimostrò più realista del re, e alla rivolta dei contadini contro il ripristino della tassa sul macinato, imposta da Cavour subito dopo l’annessione della Sicilia al Piemonte, rispose con una sanguinosa repressione ordinando l’uccisione di migliaia di contadini, tradendo non solo le proprie promesse, ma soprattutto gli ideali di cui si era fatto alfiere difensore.

L’ECCIDIO DI BRONTE

In Bronte, il 1° agosto vi fu il primo esempio di come agivano i "liberatori" piemontesi. Alle notizie delle avanzate garibaldine, i contadini insorsero contro i padroni delle terre, aizzati dai settari che, dovendo sollevare comunque dei tumulti, promettevano loro le terre secondo i proclami garibaldini. Essi insorsero il 2 agosto, commettendo violenze nei confronti dei notabili, saccheggiando e bruciandone le case. Furono uccisi una decina di "galantuomini". Cosicché il 4 agosto furono inviati a Bronte ottanta uomini della guardia nazionale, comandati dal questore Gaetano de Angelis, i quali però fraternizzarono con gli insorti, addirittura consentendo che venissero uccisi nella località detta Scialandro altri quattro "galantuomini. 

Garibaldi preoccupatissimo inviò il 6 agosto sei compagnie di soldati piemontesi e due battaglioni cacciatori, l’Etna e l’Alpi, al comando di Nino Bixio. Queste orde circondarono il paese, ma poiché i rivoltosi erano già scappati, Bixio fece arrestare l’avvocato Nicolò Lombardo, ritenendolo arbitrariamente il capo dei rivoltosi e poi facendolo passare anche per reazionario borbonico, mentre invece era stato l’unico che aveva cercato di pacificare gli animi di tutti. Lo stesso giorno 6 agosto Bixio emise un decreto con il quale intimava la consegna di tutte le armi, l’esautorazione delle autorità comunali, la condanna a morte dei responsabili delle rivolte e una tassa di guerra per ogni ora trascorsa fino alla "pacificazione" della cittadina. Bixio si rivelò in questa vicenda un feroce assassino. Per terrorizzare ulteriormente i cittadini, uccise personalmente a sangue freddo un notabile che stava protestando per i suoi metodi. Nei giorni successivi raccolse piú di 350 tipi di armi e incriminò altre quattro persone, tra le quali un insano di mente. Il giorno 9 vi fu un processo farsa che condannò a morte i cinque imprigionati, che erano del tutto innocenti e che fece fucilare spietatamente il giorno successivo. Per ammonizione, all’uso piemontese, i cadaveri furono lasciati esposti al pubblico insepolti. Bixio ripartí il giorno dopo portando con sé un centinaio di prigionieri presi indiscriminatamente tra gli abitanti. La Sicilia, nel frattempo, venne posta praticamente in stato d’assedio dalla flotta piemontese, con l’aiuto delle navi francesi ed inglesi, che effettuarono un blocco dei porti e delle coste, causando il crollo dei commerci marittimi e di ogni altra attività produttiva dell’isola. Da <http://www.brigantaggio.net/Brigantaggio/Storia/Altre/Prima.htm>

Nota aggiunta

Nunzio Longhitano Longi del fu Giuseppe, di anni 40, villico, assieme ad altri brontesi, venne condannato dal Tribunale nominato  dal  Generale Nino Bixio, nel mese di agosto dell’anno 1860. Ciò avvenne in occasione della protesta messa in piedi dai cittadini di Bronte, che chiedevano l’estensione dei diritti, sul possesso della terra, promulgati dal “dittatore” Giuseppe  Garibaldi  durante la sua conquista della Sicilia.


I primi emigranti


“Il cognome Longhitano deriva da “Longitanus” abitante di Longi, piccolo paese dei Nebrodi, dal quale provenivano. Intorno al XVII secolo, la crisi della sericoltura, allora fiorente in “Valdemone”, portò, molti di questi abitanti a trasferirsi sul versante meridionale dei Nebrodi e da qui, verso la Piana di Catania per coltivare il grano di cui avevano bisogno per sopravvivere. Tali abitanti furono appunto chiamati “Longitani”, donde il cognome così diffuso in Bronte e nei paesi circostanti.”  

Ad Enna, il cognome Longi è molto diffuso; assieme a coloro che portano il cognome Alongi ( antica denominazione del paese), queste persone sono eredi di longesi, che nei secoli scorsi sono emigrati.                                                                                                                                    

Possiamo affermare, pertanto, che i primi emigranti longesi lasciarono il paese intorno al XVII secolo in cerca di lavoro. Ma forse, anche prima.


GARIBALDINI LONGESI

Angelo Brancatelli, nato nel 1840, dopo lo sbarco dei “Mille” a Marsala, si arruolò nelle file delle camice rosse combattendo agli ordini di Garibaldi, convinto di fare il bene della Sicilia per liberarla dal dominio dei Borbone. Rientrato a Longi, visse per cento anni.

Altro garibaldino fu Angelo Zingales, nato il 22 agosto del 1845 e vissuto sino al 22 marzo 1934.

Ci viene difficile riuscire a capire come notizie di avvenimenti, accaduti a parecchi chilometri di distanza (i Mille sbarcarono a Marsala), siano potute giungere a Longi, considerata la difficoltà di un collegamento viario dal litorale marino all’interno delle montagn



LONGESI ILLUSTRI

P. TOMMASO LANDI: UN LONGESE, GRANDISSIMO, CHE MERITEREBBE L’ONORE DEGLI ALTARI


Longi: anno 1599, 580 anime. Era feudatario il barone Baldassare della potente famiglia Lancia. Faceva parte della corte di nobili e di maggiorenti locali la famiglia dei baroni Landi, da cui nacque, in quell’anno, Paolo. Compiuta l’età, il giovane Landi chiese di indossare l’abito domenicano presso il Convento di S.Girolamo in Messina e cambiò il suo nome di battesimo con quello di Tommaso: Paolo Landi divenne, così, Padre Tommaso Landi da Longi. Conseguita la laurea in teologia, profuse il suo impegno a formare un nucleo di missionari, dei quali egli fu il capo ed il pioniere.


Dopo dieci anni di evangelizzazione, con incarichi in terre lontane – siamo già nel 1640 – il Padre Generale Provinciale lo premiò col titolo di Baccelliere, il quale gli consentiva di accedere ai gradi accademici superiori. Si dedicò, quindi, all’insegnamento, a Messina, della cui sede fu anche Priore, dopo esserlo stato altresì del Convento di S. Zita a Palermo In entrambe le sedi, promosse l’edificazione della Cappella dedicata alla SS. Vergine del Rosario. Finito il suo incarico di Priore, fu inviato nelle missioni d’Oriente ed arrivò a spingersi nelle regioni dei Tartari per la conversione di quei popoli barbari. Dal 1648 e sino al 1655 fu Vicario Generale della missione di Chio.               A seguito della sconfitta turca, avvenuta nel 1644, ad opera dei Cavalieri Gerosolimitani di Malta, i Maomettani, vedendo Tommaso Landi molto attivo nel suo ministero, lo presero per spia e lo imprigionarono. Fu liberato grazie all’intervento da parte di un influente personaggio greco, certo Giovanni Castelli.                 In data 2 aprile 1655, il Padre Generale dell’Ordine invitava Tommaso Landi ad accettare la carica di Priore della Valletta e Vicario Generale dell’isola di Malta. Rientrato a Messina, dopo l’espletamento della missione a Malta, fu designato Direttore dello Studio Generale della città e, nel 1660, insignito del titolo e dei privilegi di Maestro in Teologia. "Per la fama del suo apostolato e per le sue eroiche virtù, Papa Alessandro VII voleva crearlo Vescovo di Nixa, isola dell’arcipelago greco; ma la sua profonda umiltà non gli fece accettare la meritata onorificenza e l’eccelsa dignità, onde per il resto della sua vita, volle tenersi nascosto al mondo".     


Il fondatore dell’ordine  domenicano, Domenico di Guzmán in un affresco del beato Angelico del convento di San Marco a Firenze

Tommaso Landi coltivava, altresì, la penitenza, sottoponendosi a digiuni o dividendo il suo vitto ai poveri,battendosi il corpo a sangue, dormendo poco, disteso sul pavimento o sulle travi del letto, portando, per 15 anni, sul corpo nudo, un pungente cilicio e un’aspra catena di ferro ai fianchi per rendersi degno di Gesù Cristo. Egli, nato ricco e nobile, vestì poverissimo e con abiti dimessi coltivando il disprezzo per la propria persona. La sua famiglia, proprietaria di terreni a Longi, gli assegnò un legato di 15 scudi annui, per i suoi bisogni personali, ma Padre Tommaso devolvè questi denari al Convento; così come non accettò mai regalie da parte di parenti ed amici.                     

 Fece erigere una Cappella in Messina in onore di S. Tommaso d’Aquino, del Quale volle imitare la bellezza virginale. Virtù, questa, che promanava dal volto splendente di candore, talvolta straordinario, che era più intenso quando distribuiva l’Eucaristia ai fedeli: il suo viso era "tutto raggiante di luce a guisa di stella splendente".               

Come Padre Pio, in tempi recenti, cui fu donata la possibilità dell’ubiquità, anche il nostro venerabile concittadino fu baciato dal dono della bilocazione. Pur trovandosi, in quel periodo, a Malta, il Padre comparve, infatti, a Messina, ad un Magistrato di Corte, Nunzio Luca, mentre questi implorava la S.Vergine del Rosario. Il fenomeno ebbe a ripetersi anche dopo la Sua morte e, ad ogni apparizione, per il detto magistrato le cose si appianavano.                                         

Il 18 gennaio 1669, all’età di 70 anni, Padre Tommaso Landi da Longi rese la sua bell’anima a Dio: consumato dalle dure penitenze, logorato dagli attacchi di gotta alla mano ed al piede, una lenta febbre, in pochi giorni, lo ridusse in fin di vita. Un popolo immenso partecipò ai suoi funerali e pezzetti delle sue vesti o dei suoi capelli vennero applicati alle parti ammalate dei sofferenti, i quali, per i meriti del Venerabile Padre, "ne ottennero grazie e prodigi dal Signore, che premia i Suoi Servi dopo la morte".                  Il Capitolo Generale dell’Ordine dei Predicatori, nel 1670, in Roma, volle onorare questo grande Missionario Domenicano, che dedicò se stesso alla salvezza delle anime, compresa la sua, per la maggiore gloria di Dio, definendolo "summae Theologiae magister". Padre Tommaso è stato anche proclamato "glorioso Venerabile" in quanto Gli fu riconosciuta l’eroicità delle Sue virtù, praticate mentre era ancora in vita, che sono proprie dei Santi. Così è stato onorato, allora, dagli eminenti Organismi Ecclesiastici, questo nostro eccelso concittadino, morto in odore di santità.

Da Wikipedia, riporto quanto segue: "Venerabile è un titolo che la Chiesa cattolica conferisce, post mortem, a persone che ritiene si siano distinte per "la santità di vita" o "l'eroicità delle virtù", e per le quali ha avviato il processo di Beatificazione. Dopo una prima fase, in cui si riconosce il titolo di servo di Dio alla persona in esame, da parte del vescovo della diocesi a cui apparteneva l'esaminato, in una fase successiva del processo il titolo di "venerabile" è attribuito dal Papa.   Il "venerabile", una volta tale, potrà procedere verso la beatificazione e la successiva santificazione dopo il riconoscimento e l'ufficializzazione da parte della Congregazione delle Cause dei Santi di almeno un miracolo, di qualsiasi genere, realizzato grazie alle azioni del candidato in questione."

Ed ancora, da “ Santi, Beati e Testimoni” :

 "L’iter per la santificazione.         Iniziato il processo canonico per la sua beatificazione e canonizzazione, egli è chiamato servo di Dio. Questo è il titolo che il vescovo d'origine del candidato alla canonizzazione (e per il Papa non può che essere Roma) gli conferisce, quando ritiene che ci siano fondati elementi per affermare che egli/ella ha vissuto cercando di conformarsi radicalmente al Vangelo nelle azioni e nelle parole e - per quanto è possibile intuire - nei pensieri e nei sentimenti. La prova sta proprio in quella fama di santità, cui abbiamo accennato sopra. Non succede a tutti che si scriva: «Santo subito».    Terminata la severa inchiesta a livello diocesano, testimonianze e documenti raccolti nella diocesi di origine vengono consegnati alla Congregazione delle cause dei santi. Qui un esperto, il relatore, esamina e valuta quel materiale e prepara un dossier - detto Positio - in base al quale almeno nove teologi valuteranno se effettivamente il servo di Dio ha vissuto secondo il Vangelo in modo non comune. Se il parere dei teologi è positivo, il servo di Dio è sottoposto al giudizio di un'altra Commissione, formata da vescovi e cardinali. Se anch'essi sono concordi nel giudizio positivo, il servo di Dio viene presentato al Papa, perché emetta il suo parere definitivo. Dichiarando che quel servo di Dio ha vissuto con intensità non comune le virtù cristiane e che intorno a lui c'è un'autentica fama di santità, il Papa lo indica come modello autorevole di vita evangelica: alla latina, è venerabilis, degno di essere ammirato e imitato, degno esempio, per chi voglia corrispondere alla proposta, che Dio fa a ogni uomo: «Sii santo, come lo sono io».       Dunque, il titolo di servo di Dio è dato all'inizio del processo canonico dal vescovo locale, quello di venerabile è assegnato dal Papa al termine dei lungo itinerario. A questo punto si verifica se il venerabile abbia "compiuto un miracolo", come si dice comunemente. In realtà, Dio solo compie miracoli: il venerabile intercede, perché Dio ascolti ed esaudisca le preghiere di coloro che gli si sono rivolti per chiedergli di pregare anche lui il Padre, perché conceda il miracolo. Verificato - con inchiesta altrettanto severa - che si tratta di autentico miracolo, il Papa iscrive il venerabile tra i beati, e le persone a lui devote o la gente della sua diocesi di origine possono pregarlo come beato con fiducia e imitarlo con frutto. Quando il beato farà almeno un altro miracolo, il Papa lo proclamerà santo, cioè lo indicherà a tutta la Chiesa come un modello di cristiano, cui ci si può rivolgere con devozione."

 Di conseguenza, Tommaso Landi aveva iniziato a percorrere i vari stadi per la sua santificazione; superato il livello provinciale, il Papa direttamente lo avrebbe proclamato Venerabile. P. Tommaso era, quindi, ad un passo della sua canonizzazione. Cosa successe perchè il processo si arrestasse?


Ho interessato , a tal riguardo, la Curia Generalitia dell’Ordo Fratrum  Praedicatorum , la quale mi ha inviato la seguente lettera, di cui malla pagina seguente:



 Ho scritto al Convento Domenicano di Messina, ma non ho avuto riscontro. E’ ovvio, considerato che nel 1908 il famoso tragico terremoto ha raso al suolo la città e, con essa, sono andati distrutti tutti i documenti conservati negli archivi. Rosario Priolisi, infatti, primo ricercatore della vita del  nostro Padre, in una sua memoria scrive che” il convento dei domenicani di Messina, sito nella via delle Munizioni, è stato  distrutto dall’incendio appiccato dai soldati borbonici al deposito di armi dei rivoltosi del 1848, il quale era attiguo al convento”. 

Dimenticato dai suoi concittadini contemporanei, probabilmente perché le comunicazioni allora erano difficili con il nostro paese e le notizie non giungevano facilmente, a distanza di secoli, Longi, suo paese natale, saprà renderGli quel giusto onore e quei riconoscimenti, che Paolo Landi, pardon il Domenicano "Padre Tommaso Landi da Longi" finalmente si merita?

Le notizie biografiche su P. Landi sono state date da  P. Matteo Angelo Coniglione dei Predicatori Domenicani  nel bollettino «Eco di San Domenico»  “Un missionario siciliano dimenticato. Ven. p. Tommaso Landi da Longi (1599-1669). A. 22, n. 6 (giu. 1950), p. 43-45; A. 22, n. 7 (lug. 1950), p. 53-5”





FRANCESCO GEMMA  

La storia di un uomo, impegnato nella costruzione della giustizia sociale. Un Don Bosco “ante litteram”

Dalla pubblicazione dello scrittore  Rosario Priolisi , dal titolo “Padre Francesco Gemma”, inserisco alcune pagine.


Note biografiche “Nasce a Longi il 20 marzo 1685. Al battesimo gli viene imposto il nome di Francesco.I suoi genitori sono Antonio e Rosalia Gemma, di famiglia borghese, che possedeva beni e a cui appartengono magistrati, avvocati, funzionari e commercianti. Abitano nella casa di ampi locali sita lungo il corso dell’attuale via Scuola. ………

Sin da piccolo Francesco ha l’opportunità di ascoltare gli esercizi spirituali e quaresimali dei Padri Gesuiti di Palermo e dei Padri Domenicani di Messina, chiamati annualmente dalla parrocchia, dando i primi germi ed impulso di una vocazione religiosa.         A 12 anni, ottenuta l’autorizzazione del padre, entra in seminario, Collegio d’istruzione dei gesuiti di Messina, ove completa il suo percorso formativo e scolastico, addottorandosi in lettere classiche, filosofia, diritto e  morale, nell’Università Studiorum dello stesso Ordine. Fra i componenti della famiglia, il fratello Antonio, medico.

Ritorna alla casa del Padre in età veneranda; sepolto nella chiesa-madre, la lapide con l’epigrafe viene divelta, così come molte altre, nel corso dei lavori di rifacimento del pavimento, eseguiti negli anni 1935-1936. 

Dagli atti consultati apprendiamo pure che celebra due matrimoni nel maggio del 1751 e settembre 1771; che provvede, a sue spese, al restauro degli affreschi alla volta della cappella del Santissimo Sacramento e dell’altare maggiore in marmo policromo della chiesa del SS Salvatore (preziose opere d’arte distrutte dalla frana che ha investito il paese il 15 marzo 1851).La chiesa, nel tempo, era un fiore all’occhiello di fede e di tradizioni, quale sacra sede di solenni celebrazioni liturgiche ed Eucaristiche, dettagliatamente trascritte e riportate in atti nell’archivio diocesano di Patti.” 

Il Sacerdote FRANCESCO GEMMA era un prete di frontiera, ricco di fede e di coraggio, un prete del ‘700 contro l’analfabetismo, un precursore di don Bosco e della dottrina sociale che lo ispirava, un prete anti-conformista,  che va contro ogni legislazione e prassi, spezzando molti orizzonti culturali consolidati a favore di ragazzi poveri, analfabeti, emarginati, per portarli più vicino a Gesù, nella convinzione che non è possibile scindere l’aspetto ecclesiale da quello sociale, si pone al servizio di una chiesa che vive nel mondo, un uomo con un grande carisma per costruire il suo sogno, un uomo, che, in tale contesto, si staglia da protagonista del secolo del nostro paese.……..

Per concretizzare la sua vocazione, fonda nel nostro paese la prima scuola pubblica dell’istruzione libera, popolare, gratuita, che non piacque ai padroni, ai nobili, agli insegnanti laici di allora, all’ambiente ecclesiastico con tendenze conservatrici, ha rilevato quanto per lui fosse doloroso non essere stato capito in particolare da coloro che riteneva i suoi padri. …………            

Operò in una società di esclusione sociale, in un secolo di violenza, nel quale la forza legale non proteggeva in nessun modo la povera gente, ed in cui i prepotenti, i padroni calpestavano quotidianamente ogni diritto ed il fenomeno dell’analfabetismo coinvolgeva la quasi totalità dei cittadini, oltre l’80%. …........

……..

In quel lontano 1700, oltre 25 bambini su 100 morivano prima di raggiungere il primo anno di vita. Per chi ce la faceva, la vita era grama: sin dalla più tenera età dovevano guadagnarsi e cercare il pane, lavorando da mattina a sera nei campi e sottoposti spesso a violenza soprattutto dalla classe dei vassalli e valvassini, servi e sudditi del feudatario cioè da coloro che, incaricati ad amministrare un feudo, erano obbligati a un tributo e ad un servizio (il regime feudale era molto duro, come duri erano i tempi).  ……..

L’uomo istruito, aggiungeva, si presenta come uno che sa pensare con la propria testa, giudicare col proprio pensiero, camminare sulle proprie gambe. Senza istruzione, non c’è progresso, l’educazione, l’istruzione, lo studio sono fatti di vita e non di sapere. …….

Pieno di fede, facendo capire che la fede sposta anche le montagne, capace di superare barriere, diversità, appartenenze, con atto del 4 maggio 1729 rogato dai notai Alessandro Zerino e Messana di Palermo, anticipando i tempi, fonda in Longi la prima scuola pubblica per togliere, come si legge nel contesto dell’atto, i ragazzi dalla zappa ed assicurare loro un avvenire migliore dei loro padri. 

Inizia concretamente a dedicarsi all’educazione dei ragazzi come ludi magister, una qualifica che associa le mansioni di maestro, di catechista e direttore spirituale. ……..

I locali della scuola vengono ubicati nell’attuale civica “Via Scuola” così descritti: ampi locali della mia abitazione e di quelli attigui di mio fratello dott. Antonio antistanti la piazza e confinanti col giardino dell’illustre barone di Longi, messo a disposizione della scuola. 

Se ne deduce che quelle abitazioni vengono trasformate ed adeguate in un vero e proprio plesso scolastico.

I mezzi finanziari di sostentamento sono ricavati dai frutti delle cospicue rendite dei beni patrimoniali terrieri ereditati dal padre Antonio e dalla madre Rosalia, dagli interessi delle cartelle del debito pubblico presso la Banca Nazionale di Palermo; inoltre, giusto atto del notaio Lionti di Palermo, dalle rendite dei beni patrimoniali delle concittadine gran dama rev.da madre Suor Gerolama Felice Cottone e della sorella suor Vittoria Felice del Monastero di S. Caterina in Palermo, della famiglia di Francesco Cottone, a cui è dedicata una via cittadina, in segno di perenne memoria e ringraziamento per avere gestito il negotium frumentarium, cioè l’ammasso di grano e cereali che venivano distribuiti alla popolazione nelle ricorrenti carestie che seguivano le epidemie di colera e di vaiolo.

Altre rendite destinate alla scuola, giusto atto notarile del notaio Giovanni di Salvo di Palermo, sarebbero pervenuti dai frutti dei beni patrimoniali, post mortem, ereditati dal padre Francesco, di Maria Lazzara senza figli, vedova Giovanni Battista. Nel contesto dell’atto costitutivo con un linguaggio legato alle coordinate storiche, sociali e culturali dell’epoca, spiega e partecipa le motivazioni della sua scelta: Mi ha affascinato l’idea di essere utile a tanti poveri ragazzi per liberarli da tutte le schiavitù dell’uomo, e farli camminare verso un futuro ed una visione nuova.”.

Questo, in sintesi, l’organigramma della scuola: la scuola rimane aperta undici mesi all'anno, rimane chiusa dal 16 maggio al 25 giugno per la raccolta, il nutricato da baco da seta in campagna (la coltura del baco era comune a tante famiglie e comunità religiose, si calcolava che un tumulo di terra coltivato a gelseti producesse un reddito annuo di 18 onze di gran lunga superiore ai terreni coltivati). 

La seta longese era tanto appetibile da venire spesso richiesta, al pari del lino, come contropartita di derrate agricole o di manufatti, soprattutto panni di lana, poco reperibili.Longi fino agli inizi del 1800 era chiamato il paese della seta, poiche il paesaggio era dominato da morus alba e morus nigra.        La scuola rimane anche chiusa per i precetti domenicali, festività religiose e civili, fra cui viene annoverata la solennità di S. Antonio di Padova nell’ottavo giorno di agosto, oggi non più rinnovata.

…….

Affida la direzione e la programmazione didattica ai R.R. P.P. Superiori e Lettori (professori) della venerabile Compagnia di Gesù di Palermo, Gesuiti dotti e zelanti dotati di spirito e di autorità, ai quali viene assegnato il compito di selezionare il corpo docente, ritenuto idoneo ed abile fra i membri della Compagnia stessa collaborati da sacerdoti secolari, cioè laici, e regolari della terra di Longi, un servizio che esige eccellenti competenze.

Ai ragazzi vengono forniti carta, penne, calamai, libri, sussidiari, testi di educazione religiosa e civica. In ogni aula devono essere esposti le immagini del SS. Crocifisso, di Nostra Signora, di S. Michele Arcangelo.

Ogni allievo, all’entrata e uscita dalla scuola, si genufletta al SS. Crocifisso e baci la mano all’ insegnante e prima dell’inizio delle lezioni, si reciti il Pater Noster. L’ora di entrata e uscita dalle lezioni sarà data dalla campanella della vicina S. Caterina. Ogni domenica, i chierici, gli allievi, i maestri, tutti in coro, col vessillo della Croce reciteranno lungo il perimetro della chiesa madre le litanie per imparare la dottrina cristiana. Il direttore, gli insegnanti, devono essere tutti consacrati agli educandi, siano come padri amorosi, servano di guida, diano consigli ed amorevolmente correggano, escluso ogni castigo violento, cercando di tenere lontani anche quelli leggeri, di farsi amare che farsi temere nel reprimere e punire gli sbagli commessi, così l’allievo non resta avvilito. In loro deve vedere un amico che vuole farlo crescere come buon cristiano, ricco di valori, si faccia in modo che ragazzi già infelici nella società trovino nella scuola un sorriso, un po’ di serenità. “Amateli”, diceva, i ragazzi: si otterrà di più. Picchiare gli scolari, aggiungeva, è un errore, il ragazzo è come un albero, che non può crescere bene, se lo si comprime e lo si soffoca. ……

Completato il ciclo della scuola “elementare” in cui si insegna a leggere, scrivere e far di “conto” per diventare poi operai o artigiani, i ragazzi, ritenuti idonei per amore allo studio e di buona condotta morale, per merito letterario vengono promossi alla scuola superiore ed avviati allo studio della grammatica italiana, della lingua latina e greca, della filosofia, della matematica, delle leggi civili e canoniche (un ginnasio ed un liceo classico, sempre nella sede scolastica di Longi). Cosi il nostro paese può vantare il sommo privilegio di avere in quel lontano secolo non solo un corso di scuola elementare, ma anche di una scuola secondaria.     Ai ragazzi di ottimo ingegno, meritevoli per dottrina e costume vengono assegnate delle borse di studio per attendere alle professioni di aromataio (farmacista), di medico fisico e chirurgo, di notaio, di arti meccaniche.

Altre borse di studio vengono assegnate per chi attende allo studio di pittore, scultore, di artigiano, canto figurato strumenti ecclesiastici. 

Per chi attende agli studi della teologia morale, della retorica, della filosofia, e sente la chiamata del Signore a diventare sacerdote è previsto il pagamento delle rette a frequentare il collegio della Compagnia di Gesù di Palermo. Rispondendo alla chiamata del Signore, due i giovani (quelli accertati) che hanno beneficiato delle rette di pagamento a frequentare il Collegio dei Gesuiti, Tommaso Franchina e Giuseppe Guarnera divenuti sacerdoti dell’Ordine dei Gesuiti, e poi professori nella stessa scuola istituita da padre”.

N d. r. -  Al pari di P. Tommaso Landi, anche P. Gemma ha condotto la sua vita all'insegna del bene verso il prossimo ed i deboli, uniformando lo scorrere della giornata a principi e comportamenti  umanitari e di profonda fede cristiana. Una vita di santità, ritengo!  Il domenicano Landi morì in odore di santità; il gesuita Gemma ritengo altrettanto. Due longesi per i quali nessuno si peritò  di iniziare un percorso di procedura ecclesiastica per innalzarli agli onori degli altari. La domanda sorge legittima: perchè? Diverse possono essere le risposte. Ma una, che sa di antica saggezza,  è inconfutabile: “nessuno è profeta nella sua patria”! A mio sommesso parere, Longi ha perso più di una occasione per potersi fregiare di essere il paese natio di qualche santo. Peccato!



Francesco Zingales da Longi, Generale di Corpo d’Armata


Il quadro  si trova presso la sede della Scuola Ufficiali di Torino in quanto Francesco Zingales è stato, tra l’altro, Comandante della Scuola Ufficiali di Modena.

Fu un condottiero, un eroe longese             E’ un privilegio ed un onore per il nostro paese aver dato i natali ad un uomo insigne, co-protagonista della storia d’Italia della prima metà del secolo scorso. Servì la Patria con dedizione e fu comandante “profondamente umano”. Parecchi degli aspetti della sua vita di alto Ufficiale sono ai più sconosciuti.  

Il 30 novembre 1950 moriva, a Milano, all’età di 66 anni, Francesco Zingales. Era nato a Longi il 9 gennaio 1884 da Francesco Zingales (padre e figlio con lo stesso nome) e da Angela Sirna. Per sua espressa volontà testamentaria, i funerali si sarebbero dovuti svolgere in forma semplice, seppure con gli onori militari, e con il “silenzio” suonato dal trombettiere sulla sua tomba; non volle fiori, né che alcuno prendesse il lutto. Ma, la centralità della chiesa di S.Babila, dove ebbe luogo la cerimonia religiosa, la presenza di autorità dell’esercito e di una compagnia di bersaglieri, che rese gli onori militari, l’affluenza di tante persone amiche e di conoscenti resero solenni le esequie. Le molte decorazioni, deposte su un cuscino portato da un ufficiale, dietro la bara, erano lì a testimoniare la Sua presenza attiva nella storia d’Italia per un terzo di secolo: dalla guerra di Libia all’invasione della Sicilia. E’ stato sepolto a Venezia, nella Cappella di famiglia, Bressanin-Candeo, appartenente alla moglie Maria Candeo.                                           

Pascoli ed Ussari furono due dei suoi professori al liceo di Messina, i cui studi concluse brillantemente, tant’è che Ussari gli aveva consigliato di intraprendere la strada della letteratura, ma il giovane Francesco, che sentiva fortemente il richiamo della divisa, preferì frequentare il Corso allievi Ufficiali presso l’Accademia di Modena, della quale, in seguito, divenne Comandante. Avuti i gradi di tenente, ebbe come destinazione Palermo, laddove trovò anche il tempo per iscriversi all’Università e conseguire la laurea in Giurisprudenza. Nel “cursus honorum” raggiunse il grado di Generale di Corpo d’Armata, l’apice di una carriera militare in seno all’Esercito, dopo il quale c’è l’incarico politico di Comandante Supremo. L’Enciclopedia Britannica lo cita come autore di testi militari, non smentendo così l’Ussari, che aveva sperato per lui un futuro letterario.             

Durante il terremoto di Messina del 1908 fu autore dell’ultimo salvataggio, operato nel giorno dell’Epifania, cioè dieci giorni dopo la catastrofe, di due donne, madre e figlia, che si erano rifugiate sotto il letto, formato da trespiti e tavole, e si erano nutrite con delle pere, conservate là sotto.            Ebbe un rapporto d’amicizia con Gabriele d’Annunzio, che ricopriva il grado di Tenente mentre Francesco Zingales, con quello di Capitano, faceva parte dello Stato Maggiore. Il poeta, nel fargli dono dei tre volumi della sua “Leda senza cigno”, vi scrisse la seguente dedica: “Al valoroso Capitano Zingales questi tre volumi che non valgono i Suoi tre nastri azzurri. Gradisca: ottobre 1916”. I nastri azzurri si riferivano alle tre medaglie al valore, delle quali il nostro concittadino era stato insignito. Al quale, peraltro, il D’Annunzio dedicò un sonetto, in cui, riferendosi alla figura di Cristo che benedice l’Italia (nel bassorilievo del battistero di S.Pietro) toccando con la mano la Dalmazia, termina con l’invocazione “ e grida / su fino all’Istria e al grande orlo dalmatico: / Libera alle sue genti l’Adriatico”. Il Vate d’Italia, con il suo ingegno profetico, aveva forse previsto che il suo Ufficiale superiore avrebbe successivamente conquistato la Dalmazia. La qual cosa avvenne, durante la seconda guerra mondiale, da parte del Corpo d’Armata Autotrasportabile agli ordini del nostro Generale. Ma, il rapporto d’amicizia tra i due uomini fu interrotto prima, esattamente nel 1920, allorché il Tenente Colonnello Zingales, Capo di Stato Maggiore del Generale Caviglia, dopo il trattato di Rapallo, consegnò a D’Annunzio l’ordine di sgomberare Fiume.   Ernesto Massi, Ufficiale dei Bersaglieri a disposizione del Generale, Professore di Economia politica presso l’Università di Roma, in un articolo titolato “Un Siciliano Eroico” e pubblicato su “I Vespri d’Italia”, ha rievocato alcuni passaggi della vita del Generale Zingales: comandante del XXXV Corpo d’Armata, in Russia, nel dicembre del 1942, per sfuggire all’accerchiamento delle divisioni sovietiche chiese ed ottenne di essere autorizzato ad eseguire una rischiosa manovra di disimpegno per uscire dalla sacca in cui i suoi uomini vennero a trovarsi (“i soldati italiani non amano aspettare passivamente la sorte ma preferiscono affrontarla a viso aperto” ebbe a dichiarare in quell’occasione); diede così inizio alla ritirata delle armate sud fino al Donez e ad alla gigantesca battaglia difensiva sul Don. “Lo rivedo il giorno di Natale nelle prime ore del pomeriggio – scrive Massi – mentre già scendeva la terribile notte russa sulle bianche distese gelate e acquistavano maggior risalto le fiamme che poco lungi divoravano un villaggio, inquadrata che fu la nostra colonna da un improvviso e micidiale fuoco di mitragliatrici, balzare dalla macchina, e lui, pur piccolo di statura, ergersi sulla persona sì da apparire a me altissimo e chiamare a raccolta intorno a sé i suoi uomini per snidare l’insidia”. …” Negli scontri successivi ammirai la sua calma imperturbabile mentre tanti erano stati presi dal mal di Russia, da una specie di angoscia delle interminabili steppe nevose, delle lunghissime notti, del pericolo inafferrabile ovunque in agguato che turbava il normale raziocinio…..”. Nel libro, che descrive la ritirata dei nostri soldati, dal titolo “Il tragico Don”, gli autori, Fortuna e Uboldi, così si soffermano sul nostro condottiero: “Zingales è un ufficiale energico, intelligente. Nel luglio 1941 gli era stato assegnato il comando del Corpo di Spedizione Italiano in Russia (CSIR), ma giunto a Vienna con le truppe italiane in viaggio per il fronte orientale, si era ammalato di broncopolmonite e l’avevano sostituito con Giovanni Messe. Nell’estate successiva, Zingales è arrivato in Russia, convinto che il destino gli debba una rivincita per il mancato comando dello CSIR. Così la prospettiva di essere al centro dell’offensiva russa (è il 19 dicembre 1942) da un lato lo preoccupa, ma dall’altro lo esalta”.    “Del condottiero ebbe le intuizioni sul campo di battaglia, continua Massi, : così in Jugoslavia, quando intuì il valore risolutivo di una nostra rapida avanzata, litoranea, anche agli effetti del fronte greco-albanese, ed occupò fulmineamente la Dalmazia, senza lasciarsi arrestare dagli ordini dell’Armata, che finse di non ricevere; così in Libia, quando, assunto il comando di Corpo d’Armata di manovra in fase di ripiegamento, intuì la nuova situazione avversaria e trasformò la ritirata in un’avanzata che portò alla rapida rioccupazione della Cirenaica;  anche allora furono i comandi superiori a fermarlo e la partenza di Rommel per un’improvvisa licenza segnò la sospensione della controffensiva; così in Sicilia quando intuì i piani del nemico e concepì ed attuò quell’audace movimento di fianco, sotto la pressione nemica, che consentì il recupero delle divisioni “Aosta” e "Assietta" che stavano per essere tagliate fuori dalle forze corazzate del generale Patton, schierandole su una nuova linea nella Sicilia orientale; una siffatta manovra di recupero non si sarebbe osata imbastire in nessuna scuola di guerra”. … “ Egli aveva fatto la guerra con convinzione, direi quasi con ingenuità, senza riserve mentali e si era adoperato con tutte le sue forze per condurre alla vittoria le truppe che la Patria gli aveva affidato. Egli porta nella tomba più di un segreto di cui venne a conoscenza quale capo dell’ufficio storico nell’altro dopoguerra: non per niente ebbe ad incontrare diffidenze ed ostilità che molto lo amareggiarono”.              “L’abito del comandante, conclude Massi, non gli impedì di essere profondamente umano: lo ricordo, commosso sino alle lacrime, a Stalino fra i feriti della Pasubio, la gloriosa divisione che per quattro giorni resistette all’urto di quattro divisioni sovietiche. Lo ricordo in Sicilia preoccupato di assicurare il pane alla popolazione civile, di aiutare famiglie bisognose di funzionari e di insegnanti che da vari mesi non percepivano lo stipendio, di soccorrere gli indigenti”.          

 Mentre era in Sicilia, pose, anche se per breve tempo, il suo comando a Mirto e trovò così l’occasione per visitare il suo paese natio al fine anche di verificare le condizioni dei suoi concittadini in quel difficile periodo. In tale circostanza, come scrive Priolisi nel suo libro “Per ricordare..” ordinò al “Genio Militare di costruire due tronchi della strada rotabile Longi-Galati Mamertino, segnatamente nelle contrade Scilidoni e Liazzo, che ne ostruivano il collegamento”.           Si racconta, inoltre, - come precedentemente scritto -che il  Generale Francesco, avendo saputo che le truppe tedesche avevano piazzato alcune bocche da fuoco ai piedi del Pizzo di S.Nicola (Rocca che parla) con l’intento di bombardare il suo paese e quello di Galati Mamertino, riuscì a dissuaderne quel comandante. A Longi, si udirono i tuoni dei cannoni tedeschi contro le truppe alleate, e viceversa, ma nessuna bomba cadde né sul paese, né nei dintorni.                          

Qui non vogliamo fare una cronistoria della sua carriera, dei vari incarichi ricoperti, dei comandi avuti, delle numerose medaglie ed onorificenze conferitegli. Di ciò hanno parlato altri testi. Vogliamo, però, rammentare alcuni passaggi della sua vita di Ufficiale e di eroe, decorato al valore. A 43 anni è già Colonnello, a 51 Generale di Brigata, a 57 Generale di Corpo d’Armata. Durante la guerra Italo-Turca, nel 1912, viene decorato con medaglia d’argento al V.M. perché “Comandante la sezione mitragliatrici, benché avesse 5 serventi feriti e 4 colpiti da insolazione, seppe con coraggio ed intelligenza far funzionare egregiamente la sezione eseguendo personalmente il tiro nell’ultima fase del combattimento. Quando dovette ritirarsi, mancando il personale, trasportò egli stesso per un certo tratto una mitragliatrice, dando l’esempio della fermezza e dell’energia”.


Altra medaglia d’argento gli fu conferita, nel 1916, per “la bella condotta tenuta durante i combattimenti che condussero alla presa di Gorizia ove prestò opera efficace, non solo nei servizi di S.M. a lui affidati, ma prendendo parte volontariamente alle azioni delle truppe, che con slancio ed ardire seppe spingere all’assalto”. Scorrendo il suo stato di servizio, leggiamo una serie di medaglie di bronzo, nastrini, autorizzazioni a fregiarsi di medaglie commemorative delle varie vicende cui prese parte, di onorificenze ricevute.   

Nel 1941, venne nominato Cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia poiché “conferì alle sue divisioni grande efficienza bellica e spirito guerriero. Durante breve, ma intenso ciclo operativo, in cui le circostanze richiedevano spiccata rapidità di concezione e d’azione, guidò le sue truppe all’occupazione di importanti e vasti territori, conseguendo sul nemico, con ritmo incalzante ed ininterrotto, decisivi risultati. Fronte Giulia Dalmazia”.      

A seguito di siffatta azione di conquista della Dalmazia, nell’aprile-maggio del 1941, gli venne conferito l’incarico di Governatore di Spalato. Per l’operazione sul fronte russo del 1942, fu nominato Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia perché “ coinvolto in periodo di crisi, di lavoro e di riordinamento del C.A. da lui comandato, dall’aspra offensiva nemica, resisteva per sette giorni al crescente impressionante aumento della pressione, ripiegando per ordine superiore, quando la situazione, per cedimento laterale, era già seriamente compromessa. Nel successivo periodo, lottando contro nemici di forze e mezzi superiori e difficoltà di ogni genere, dirigeva l’azione del nucleo rimasto con perizia, decisione e sereno sprezzo del pericolo, confermando la caratteristica di valoroso che appare dall’azzurro del suo petto”. Bellissima motivazione!                            Da quanto descritto, risalta una figura eccezionale, che per lunghi anni ha avuto affidati compiti di comando e di grossissima responsabilità operativa. Ci troviamo dinnanzi ad un uomo dotato indubbiamente di un’intelligenza non comune, di capacità imputabili non certamente alla media, bensì di fronte ad un condottiero vero, ad uno studioso di tattica e di strategia militare, applicate con successo, talora per la prima volta, nonché in presenza di un uomo che sapeva commuoversi di fronte al dolore ed essere sensibile ai bisogni della gente, pur nella freddezza del suo temperamento, discendente dal ruolo cui era chiamato, quello del comando.                       

A distanza di oltre  quarant’anni dalla sua scomparsa, attraverso la documentazione esistente, a noi viene descritto un uomo che s’impone per la sua statura istituzionale e per la sua personalità di combattente e di servitore della Patria. Quanto scritto sulla sua lapida tombale “…il generale di Corpo d’Armata Francesco Zingales qui attende che sia resa giustizia al Soldato d’Italia” è senz’altro una provocazione alla storia contemporanea dell’Italia perché i milioni di italiani che combatterono durante l’ultima guerra mondiale non hanno fatto altro che servire la loro Patria, che li ha chiamati a difenderLa, giusta o sbagliata che fosse la causa. Il cittadino ideologicamente può dissentire, ma il Soldato deve obbedire e difendere i colori della propria divisa, della propria bandiera, del suo Paese. In guerra, i contendenti di entrambe le parti hanno le loro ragioni da difendere: non esiste chi ha ragione e chi ha torto. E’ il rapporto di forza che, alla fine, dà ragione al vincitore. Semmai, sono da condannare gli orrori ed i crimini di guerra. E di queste azioni cruente indubbiamente il Soldato italiano non può essere mai incriminato. Egli ha solo adempiuto ad un dovere: quello del Soldato, quello di Italiano in quel ciclo storico! E’ vero, la conquista, in epoca relativamente recente, della libertà e della democrazia, l’Italia la deve ad altri popoli, che con il loro sangue hanno sconfitto uno dei periodi più bui della storia delle nazioni: il nazifascismo. Ma, ripetiamo, il Soldato in grigio-verde obbediva agli ordini, che ufficialmente la sua nazione gli impartiva. Aveva ed ha ancora ragione, quindi, il generale Francesco Zingales nel momento in cui ha fatto incidere sul suo sacello un appello per rendere “giustizia al Soldato d’Italia”, il quale ha sempre onorato la sua divisa.                        

Un uomo di quella levatura non può continuare ad essere ignorato dalla collettività che gli ha dato le origini. Si legge nei documenti militari che lo riguardano: “Francesco Zingales da Longi”. E Longi non può seguitare a simulare di non sapere o a far finta che non gli appartiene. E’ ora che una testimonianza visibile della sua opera sia affidata ai posteri attraverso una memoria storica.  

La figlia maggiore del generale, Angela Maria, vedova del barone palermitano, avv. Michele Tortorici, mi ha raccontato, mentre era in vita, che suo padre, nonostante i suoi impegni, derivanti dalle responsabilità dei diversi incarichi militari avuti, lo avessero allontanato dalla Sicilia, nel suo animo rimase sempre attaccato alla propria terra ed ai Siciliani, che stimava per la loro tenacia e la loro frugalità. Tant’è vero che, nel 1927, preferì impiegare nelle campagne della moglie, in San Donà di Piave, sconvolte dai combattimenti dopo Caporetto, dei contadini longesi, e rimase fortemente addolorato quando venne a sapere della disgrazia occorsa ad una loro congiunta rimasta vittima di un incidente, presso la stazione ferroviaria di Mestre, con amputazione di entrambe le mani. Emigranti longesi, bisognosi del pane quotidiano, che si univano ad un altro grande e più fortunato “emigrante”, che offriva loro lavoro. “Lavoratori siciliani – afferma la figlia del generale – che, in quel primo dopoguerra, erano oggetto di riconoscenza e affetto, da parte dei veneti, quali profughi, nel 1917, in Sicilia”.                       San Donà di Piave divenne il paese d’adozione del nostro conterraneo, pur avendo egli fissato la sua residenza in quel di Venezia, in quanto vi trascorreva parecchio tempo, dimorando nella villa di pertinenza, per gestire la grande estensione di terreni della moglie. Campagne, che trasformò in “Agenzia Zingales”, laddove Agenzia sta per Azienda, dando, così, lavoro a parecchi contadini del luogo e, come detto, anche a longesi. Quel Comune ritenne doveroso, per i meriti sopra descritti, intitolare una “Via Generale Francesco Zingales”. (Sic!).                

Il nostro Comune, invece, non ritenne di inserire il suo cognome nella targa che commemora la realizzazione del Monumento ai Caduti pur avendo egli fatto pervenire il bronzo di cannone per la fusione con cui venne creata l’artistica statua. “Ingrata patria non avrai le mie ossa”, disse  Publio Cornelio Scipione Africano rivolgendosi alla sua Roma. Fu così anche per il Generale Francesco Zingales, il quale , dopo la fine della guerra , non venne più a Longi e fu sepolto a Venezia.

Notizie inviatemi dai figli 


Giuseppe (da Padova):


Io ricordo sempre che il dizionario dello Zanichelli cita papà come "generale, studioso, forte tempra di soldato" e vorrei che anche le sue doti di studioso fossero ricordate.

Ne è testimonianza la nomina, subito dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, a capo dell'Ufficio Storico dell'Esercito, dove veniva raccolta la documentazione e la storia del recente conflitto. In questo lavoro, curò personalmente il volume sul "La conquista di Gorizia" alla cui preparazione ed esecuzione aveva partecipato direttamente. Il volume è stato ristampato nel 2006, per le celebrazioni del novantesimo dell'annessione di Gorizia all'Italia; gli appassionati ne hanno seguito le tracce trovando ancora puntuali riferimenti.

Non conosco le opere militari del papà; so però che fu uno dei primi fautori della guerra di movimento, in cui potevano fornire un grande contributo i più moderni mezzi di trasporto e i carri armati, risparmiando le vite dei combattenti. Lo dimostrò in Dalmazia e nella riconquista della Libia, ma anche nelle manovre di sganciamento nelle sfortunate campagne di Russia e Sicilia.

Questa sua capacità di condurre grandi unità motorizzate gli è stata riconosciuta anche dai tedeschi (vedi www.Wikipedia.de). Non è poi un caso che fosse stimato uno dei più colti fra gli ufficiali dell'Esercito e gli siano state affidate l'Accademia di Modena e la Scuola di Applicazione di Parma.

Vorrei anche ricordare che papà tornò alla fine di Agosto del '43 dalla Sicilia (dove era stato inviato il giorno dopo lo sbarco anglo-americano) con una ferita che richiese il ricovero all'ospedale militare di Merano. Qui, alla notizia dell'armistizio, ebbe una congestione cerebrale che lo tenne in coma per alcuni giorni. Ciò fu anche una fortuna perché riuscì a sottrarsi sia all'internamento in Germania, sia alle richieste di adesione all'esercito di Salò. Dopo la Liberazione dell'Italia del Nord, fu subito reintegrato in servizio ma rifiutò di far parte del Collegio che doveva giudicare il comportamento di altri ufficiali.


Dalle memorie di Angela (Palermo):


Per quanto riguarda la parte che si riferisce ai rapporti con Gabriele d’Annunzio, riproduco qui di seguito una parte delle memorie di mia sorella Angela :

I combattenti della prima guerra mondiale avevano, fra i loro obiettivi, anche la liberazione della Dalmazia e alla fine del conflitto vi fu chi, come Gabriele D’Annunzio, non si rassegnò ad accettare “la Vittoria mutilata”. Mio padre aveva avuto ai suoi ordini il Tenente D’Annunzio nel 1916 , nella conquista di Gorizia. In quell’azione papà aveva ricevuto la sua terza medaglia al valor militare e il poeta gli aveva dedicato la “Leda senza cigno” con le parole: ”Al valoroso capitano Zingales questi tre volumi, che non valgono i suoi tre nastri azzurri”. ( Una conferma di quanto raccontatomi personalmente dalla figlia Angela).

Poi avvenne la marcia dei legionari su Ronchi, la proclamazione dello “Stato di Fiume’, il Natale di Sangue (1920) e il Trattato di Rapallo. Il Generale Caviglia incaricò il suo Capo di Stato Maggiore (mio padre) di comunicare  a D’Annunzio  l’ordine di lasciare la città.. I militari obbediscono. Papà non lo incontrò più, ma conservò un sonetto, inedito e ormai perduto. 


Da Maria Rita (da Roma) ed Enrico ( da Milano) :


L’Ufficiale che, al funerale, portava le medaglie su un cuscino era Franz Zingales, Capitano della Folgore, un nipote (pluridecorato al V.M. ndr). Nella Basilica di San Babila la banda militare suonò  l’’attenti’, l’Inno al Piave, il Silenzio. 

Partenza per la Russia nel luglio 1941: a Papà era stato affidato il comando del CSIR-Corpo di Spedizione Italiano in Russia, che lui stesso aveva preparato ed organizzato. Pochi giorni prima della partenza, Papà fu operato di ernia, e l’operazione fu da lui stesso disposta in segreto, perché non pregiudicasse la partenza. Una domenica, Papà ordinò al suo autista, Giuseppe Girompini, di reperire una macchina civile e di portarlo da Cremona, dove risiedeva il comando, a Milano, dove un suo conterraneo e amico, il chirurgo Prof. Ciminata, lo avrebbe operato.  Il  Girompini, che aveva famiglia a Milano,  portò Papà presso l’ospedale di Monza, ed attese a casa di essere riconvocato per riportarlo a Cremona.   Papà partì pochi giorni dopo per la Russia, con il CSIR, con il treno militare. Ma a Vienna venne fatto scendere, febbricitante, e ricoverato in ospedale. Mio Padre ritornò successivamente sul fronte russo, come comandante del XXXV Corpo d’Armata ‘Autotrasportabile’.  

In Libia,  gli era stato ordinato di rinunciare alla presa di Tobruk per lasciare questo onore all’alleato tedesco. Ignorò ripetutamente l’ordine finchè fu fatto rientrare in Italia, nel marzo 1942. Questo episodio è descritto dal Generale Enrico Caviglia nel suo Diario.  Mia Madre, nel raccontarmelo, mi disse che si aspettava, di ritorno a Roma, di essere ‘silurato’. Cosa che non avvenne.

Cronologia della sua carriera

Tenente nella Campagna di Cirenaica e Tripolitania, 1912 - Capitano all’inizio della prima Guerra Mondiale, 1915 - Maggiore (promozione per merito di guerra), Battaglia di Gorizia, novembre 1916 - Tenente Colonnello e Capo di Stato Maggiore, ottobre 1917 - Al Ministero della Guerra, Gabinetto del Gen. Caviglia, nel 1919 - Direttore dell’Ufficio Storico del Min. Guerra, fino al 1923 - Direttore Capo Divisione presso lo Stato Maggiore Centrale, giugno 1925

Colonnello  dal giugno 1926 - Comandante in 2° della Scuola di Applicazione Fanteria nell’agosto 1930 -Generale di Brigata nel settembre 1934 -Comandante dell’Accademia di Fanteria e della Scuola di Applicazione di Fanteria di Modena, gennaio 1936 -Generale di Divisione , luglio 1937 -Generale di Corpo d’Armata , gennaio 1940 (XXXV Corpo d’Armata Autotrasportabile, con sede a Cremona) - Campagna di Yugoslavia,  1940  - (partenza per la Russia, 1941) - Campagna di Libia, 1941 – 42  - Campagna di Russia. 1943 -Campagna di Sicilia, 1943 - Collocato  nella riserva, per età, dal 10 gennaio 1947 


Non giurò alla Repubblica Italiana, sostenendo che aveva servito la Patria per oltre 40 anni sotto il suo unico giuramento, prestato da Sottotenente, nel settembre 1905.


Nota personale. 


Nel cimitero di Longi, sulla destra entrando, ci sono tre tombe (gentilizie) senza nomi. In due di queste sarebbero sepolti i corpi dei nonni della famiglia del Generale e dei suoi fratelli. Questa notizia mi è stata riferita, a suo tempo, dai miei nonni paterni, i quali ne erano a conoscenza perché i loculi sono prospicienti la nostra  cappella di famiglia.





Prof. Antonino Ciminata

La nutrita letteratura scientifica

 

    E' nato a Longi nel 1889 il medico e scienziato, Prof Antonino Ciminata, ed è morto a Milano nel 1960.

    Nelle notizie della sua biografia, apparse sulla pubblicazione di Rosario Priolisi "  Per ricordare", leggiamo che, dopo essersi laureato in Medicina e Chirurgia presso l'Università di Palermo e conseguita la specializzazione in chirurgia generale a Roma ed a Vienna. Partecipò alla prima guerra mondiale come ufficiale medico guadagnandosi una medaglia d’argento al V.M. ed una promozione sul campo a capitano medico. Finita la guerra, venne nominato direttore sanitario e chirurgo presso l'ospedale di Monza. Nel 1939 lo vediamo titolare della cattedra di “Tecnica delle operazioni chirurgiche”, per lui appositamente creata per le alte doti di specialista,  presso l'Università  degli Studi di Milano. In  quel periodo pubblicò il noto trattato di “Patologia Chirurgica”, che ancora adesso viene consultato dagli specializzandi chirurghi. Scrisse anche un testo di “Patologia Clinica”.

Fu medico della famiglia di Clara Petacci, l’amante di  Benito Mussolini, della cui figlia Edda fu testimone nelle nozze con il conte  Galeazzo Ciano, il Ministro degli Esteri, fucilato per ordine del suo stesso suocero. Assieme al prof. Noccioli, ginecologo, operò d’urgenza , a Roma, Claretta per una gravidanza extrauterina con minaccia di peritonite perforante. 

Un paio di giorni prima che partisse per la Russia, al comando della ARMIR, il Generale Francesco Zingales pregò il suo amico e concittadino, Antonino Ciminata,  di sottoporlo ad intervento chirurgico per una dolorosa ernia. Ma, non avendo fatto il normale decorso post-operatorio, né essendo in convalescenza perché non comunicò ai suoi superiori di questa necessità non volendo essere sostituito nel comando dell’Armata, il Generale fu costretto a farsi ricoverare a Vienna per i postumi dell’intervento, riuscito si, ma che minacciavano serie complicanze.

Caduta la Repubblica di Salò, Ciminata si rifugiò in Svizzera, temendo di essere epurato, ma rientrò in Italia non essendo stato trovato alcunché a suo carico e gli fu restituita la cattedra universitaria presso la Facoltà di Medicina e Chirurgiadi Milano.

Ebbe encomi e riconoscimenti di valoroso studioso ed eminente chirurgo dalla Società di Biologia di Vienna, dalla  Società Italiana di Biologia Sperimentale, dall’Accademia Medica e dal Congresso Internazionale dei Chirurghi.

Sposò una nobildonna austriaca dalla quale, però, non ebbe figli. Nacque dalla N.D. Mariannina Marchiolo, della omonima famiglia baronale di Galati Mamertino, e da Antonio, medico, notaio ed anche  Sindaco di Longi. Donna Mariannina fece restaurare, abbellendolo, l’altare del S. Crocifisso nella Chiesa Madre.

Altre notizie sulla sua biografia sono state riprese dal  testo  dello scrittore Francesco Lazzara,  “Longi nel ‘900… ed oltre”.


Numerose sono state le pubblicazioni: MONOGRAFIE TROVATE NEL CATALOGO SBN ed OLTRE 40 

ARTICOLI SONO STATI TROVATI IN PUBMED, LA MAGGIOR PARTE DEI QUALI IN LINGUA STRANIERA. L’elenco completo è pubblicato nel mio libro “alle pendici delle Rocche”- I edizione



Il prof. A. Ciminata, Ufficiale medico




Inoltre al FONDO STORICO del Comune di Monza e’ conservato  il

Lascito Antonio Ciminata (medico e docente universitario), costituito da 796 volumi (XX sec.) quasi esclusivamente di medicina tra cui si segnalano periodici e pubblicazioni di atti di società nazionali ed internazionali di chirurgia.




       Gen. della Giustizia Militare Avv. Leone Zingales

(1882- 1962)         


Laureatosi in giurisprudenza presso  l’Università di Messina nel 1908 entra, per pubblico concorso, nella MAGISTRATURA MILITARE a PALERMO. 

L'impresa Libica lo trova presente, dall'inizio del 1911 fino al 1915, nella sua funzione di magistrato militare. 

Nel maggio dello stesso anno, viene inviato fra i reparti mobilitati sul fronte austriaco sino al 1918. Sul tale fronte, il 15 agosto 1918, viene concessa una medaglia d'argento al V.M. per fatti di guerra. 

Nel settembre 1933 fu inviato in Somalia. Fu a capo di quella Procura militare e fu dipendente e diretto collaboratore del Maresciallo GRAZIANI,

Della sua attività giudiziaria, fatta di disciplina e di umanità, dava atto un avanzamento per meriti di guerra, cosi motivato: “per avere svolto un'attività fervida, appassionata, veramente eccezionale. Magistrato coltissimo, carattere integro, adamantino, ha mantenuto sempre alto in ogni circostanza il prestigio della giustizia militare ed ha reso preziosi servizi all'Esercito ed al Paese. Fronte SUD 1935-1936".

Rientrato in Patria, nel 1941 chiese ed ottenne di essere inviato sul fronte  russo e vi rimase fino al 1943, ove, attraverso la sua opera, l'indigeno  imparò a conoscere la bontà intrinseca della giustizia italiana, a gloria della civiltà  Occidentale, di contro alla giustizia imperiale, asservita agli interessi  dell’assolutismo zarista, ed a quella più recente e settaria legata al carro stalinista.

La sola volta che fu richiesta la pena di morte fu a carico di un militare colpevole di omicidio aggravato a danno di una giovane russa: venne condannato, invece, a pena temporanea perchè la stessa madre della vittima chiese che il Tribunale volesse essere misericordioso, lasciando al reo la possibilità di continuare a vivere nella grazia di DIO.

Al sopravvenire dell'8 settembre 1943, e prima che sopraggiungessero le truppe tedesche, mise in libertà numerosi detenuti renitenti al lavoro obbligatorio e detenuti politici; rimasero esclusi per doverosa opera di giustizia i soli detenuti per gravi reati comuni.

Ricercato dalle SS, si diede alla latitanza insieme ai suoi due figli ufficiali, pluridecorati al Valore Militare. Nei primi di febbraio 1944, previa perentoria diffida, raggiunge la sua sede di Padova.

Si era nel tempo della Repubblica Sociale Italiana. Dal 2 febbraio al 12 aprile furono quelli 70 giorni densi di lotte e di vittorie contro la morte.

Non una sola condanna a morte venne richiesta ed emessa, nonostante che si trattasse di parecchie centinaia di denunciati in stato di arresto per reati di favoreggiamento o prigionieri nemici, evasi da campi di concentramento o mancanti alla chiamata alle armi: reato che comportava la pena capitale. Essi furono tutti prosciolti in istruttoria.

Un alto Presule del Veneto, che ebbe liberati tutti i suoi parroci, detenuti sotto l'accusa di favoreggiamento, disse e scrisse dello Zingales: "Potrei conferire circa i sentimenti suoi di giustizia e di coraggio anche contro le disposizioni che gli erano imposte. Non volle condannare a morte nessuno. I miei sacerdoti, dei quali mi servivo come intermediari, trovarono presso di lui, sempre comprensione ed appoggio”. Fra moltissimi altri, un capo patriota, liberato dalla fortezza di Verona dove era stato rinchiuso dai tedeschi e votato alla morte (egli era ed è di fede comunista) scrisse: “Mi risulta che il generale Zingales prima e dopo di me si adoperò con tutte le sue possibilità affinché altri patrioti fossero messi in libertà".

Tale attività non rimase ignota ai nazisti che avevano già deciso l'arresto dello Zingales, che, messo in avviso dai nostri servizi di informazione, riuscì a sottrarsi alla cattura.

Il Consiglio di Stato, Sezione Speciale per l'Epurazione, con sua decisione del 28 febbraio 1946, affermava nei confronti del Generale Zingales: scarcerò e prosciolse gran parte di tali detenuti esponendosi a rischi che, profilandosi sempre più minacciosi, lo costrinsero a cercare un pretesto per venire a Roma, da dove non rientrò più nella sua sede”.

Rientrato in servizio dopo la Liberazione e destinato al Tribunale di Firenze, veniva, nel dicembre 1946, inviato in missione al Tribunale Militare  di Milano per sostituire temporaneamente il titolare, assente per malattia. Dovette, quindi, indagare nel procedimento penale per la sparizione del tesoro della Repubblica Sociale Italiana (il così detto TESORO DI DONGO - vale a dire tutto l'insieme dei valori, valute pregiate, metalli preziosi confiscati alla colonna fascista in fuga verso la Svizzera  - il cui processo gli era pervenuto nei primi di gennaio dalla Corte di Cassazione per ragioni di competenza.

Ricercò senza timore e con coscienza i responsabili fino a che, improvvisamente, il 15 marzo venne sostituito e rinviato alla sua primitiva sede, ch'egli, peraltro, non raggiunse.

Contro il provvedimento, sia per la forma che per la sostanza, protestava serenamente ma energicamente nell'unico modo consentito ad un magistrato: presentando, cioè, una lettera di dimissioni dalla magistratura militare di cui con fede di apostolo aveva fatto parte per circa 40 anni, di cui quindici spesi nell'assicurare il rispetto del diritto nel disordine della guerra.

A Sua Ecc. il Ministero della Difesa

“Con nota n. 1070 dell’11 Marzo il Procuratore Generale Militare mi ha convocata per le ore 10 del 18 c.m., onde prestare il giuramento previsto per il personale civile di ruolo, di cui nella circolare n. 10917, in data 22 febbraio 1947 di codesto ministero.

Mi permetta di astenermi dal prestare tale giuramento.

Il trattamento recentemente usatomi offende la mia dignità di magistrato e demolisce l'opera da me prestata in tale qualità nello espletamento di un compito in cui le supreme ragioni della giustizia, che non può essere uguale per tutti in regime di libertà, si associano ad altri interessi materiali e morali del Paese in questo periodo di travagliata sua rinascita.

Sento quindi venuta meno in me la fede di potere continuare o saldamente reggere il mio Ufficio per una coscienziosa, serena e libera applicazione delle leggi della Patria; pertanto chiedo di essere collocato a riposo".

F.to Leone Zingales

(Dalla pubblicazione di Rosario Priolisi “Per Ricordare”)



Dott. Angelo Zingales 

E' GIA' NELLA LEGGENDA

 Sindaco di Longi, ad inizio del XX secolo, per ben 12 anni, "Uomo" e Galantuomo, Politico ed Amministratore con elevate capacità, due lauree, viene ricordato soprattutto per le sue imprese e le iniziative a rischio. Grazie alla sua tenacia,  il paese, dopo secoli di isolamento, poté congiungersi con una rotabile alla S.S.113. Numerose le opere realizzate. Importante per la storia longese il testo del discorso, qui di seguito, pubblicato per intero.

La pubblicazione del 1911, "I Sindaci d’Italia nel Cinquantenario del Risorgimento Nazionale", soffermandosi su Longi, dà notizia che il paese conta 2415 abitanti, i quali in larga parte contribuiscono alla sua economia dedicandosi all’esportazione dei principali prodotti, specialmente uva, carbone, nocciole. Riferendosi al Sindaco dell’epoca, si legge che " Angelo Zingales d’Antonino, natovi nel 1876, percorse l’Istituto Tecnico e l’Università e si laureò in Chimica-farmacia ed in Agronomia. E’ Sindaco dal 1903 ( e lo fu sino al 1916, ndr), guadagnando, in questo tempo, la stima e l’affetto dei compaesani, la considerazione delle autorità tutorie.         

Rosario Priolisi, nel suo libro sugli uomini illustri di Longi, così si sofferma sul personaggio in argomento: "elevata statura politica, competenza amministrativa, chiara cultura, straordinaria capacità caratterizzarono la sua personalità ed informarono il suo operato di amministratore e riporta, tra l'altro,  il testo del deliberato del Consiglio Comunale di Frazzanò, datato 4 maggio 1907, relativamente all'impegno profuso, dal Sindaco Cav. Angelo Zingales, per la realizzazione della strada rotabile. Il predetto telegramma  testualmente recita:" Ill.mo sig. Sindaco Longi- Pregiomi parteciparle che questo Consiglio Comunale con seduta del 28 aprile u.s. ha deliberato all'unanimità tributare un voto di plauso e di ringraziamento a V.S. Ill.ma per l'interessamento spiegato in prò della costruzione della strada rotabile mandria Cupani- Longi. Nella fiducia che tale interessamento permanga fino al conseguimento dei nostri ideali, vengo a confermarle i sensi della mia personale considerazione. Coi dovuti ossequi. Il Sindaco f.o dott. Fragale Lorenzo".                                                                                                                                              

Nel settembre del 1907, il dott. Angelo Zingales tenne un comizio, che, poi, pubblicò in un libretto dal titolo: "Lotte barbare nel Comune di Longi", che è conservato agli atti dell’Archivio Storico del Comune. Leggendo la pubblicazione, si acquisiscono notizie interessanti che riguardano anche la storia "recente" di Longi. Il testo integrale è pubblicato alla fine del corrente testo.                 

 Il Farmacista-Sindaco, nonchè agronomo, Angelo Zingales, oltre che di solida cultura, era dotato di un forte carisma, accompagnato da un temperamento autoritario che sprizzava dai suoi due metri di altezza; una figura che incorniciava baffi e capelli rossicci e che sprigionava una forza muscolare eccezionale. Uomo esuberante e coraggioso, era portato spesso ad essere temerario:  e rischi personali ne corse parecchi. E’ stato l’unico Sindaco di Longi protagonista di alcuni episodi, che fanno parte ormai della leggenda del paese, assieme al personaggio: descriviamo quelli che abbiamo appreso attraverso il racconto resoci da persone, che, ancor ragazzi, lo hanno conosciuto, oppure  che li  hanno avuti riferiti, quei fatti, dai loro genitori.   Dopo l'avvento al potere del Partito Fascista, vennero indette elezioni amministrative che, nel nostro paese, videro partecipanti due liste concorrenti, di cui una d'ispirazione fascista, capeggiata e sostenuta dal farmacista, Cavaliere Angelo Zingales, e l'altra dal Colonnello Guarnera, che rappresentava i "Combattenti", con il patrocinio del Duca d'Ossada: quest' ultima, al di là dalle previsioni, ottenne la maggioranza consiliare dopo un'infuocata campagna elettorale. Si racconta che, dopo le abbondanti libagioni, nelle sale del Castello Ducale, per festeggiare la vittoria, come d'uso, l’esponente della lista vincitrice fu accompagnato, in corteo, alla sua abitazione con ovazioni di giubilo e con rilevanti espressioni irrisorie e di scherno rivolte agli sconfitti. Informato del fatto, Angelo Zingales intercettò il corteo avversario nella Via Vittorio Emanuele, all'angolo con Via S. Spirito; i vincitori,  ivi pervenuti, si videro apostrofare con la seguente lapidaria e "storica" frase: "Cento asini accompagnano un somaro". Si dice che la pesante espressione lasciò attoniti ed esterrefatti i suoi avversari politici, i quali, psicologicamente sopraffatti, sciolsero mestamente e silenziosamente la manifestazione, miseramente fallita.        

Nella seconda metà degli anni venti, dopo lo scioglimento delle Camere dei due rami del Parlamento da parte di Mussolini, ci viene riferito che Angelo Zingales, giunto al vertice del potere amministrativo locale, gestì il Comune di Longi con intelligenza e con decisione. Si racconta, in merito, che egli, informato del fermo di un dipendente del Comune da parte dei Carabinieri di Galati Mamertino, che avevano la competenza territoriale anche su Longi, si recò immediatamente nella Casa Comunale e, dopo aver indossato la "Sciarpa Tricolore", simbolo della suprema autorità comunale,  inseguendoli lungo la strada mulattiera, raggiunse, ai limiti del territorio comunale longese con quello galatese, i militari dell'Arma, ai quali ingiunse imperiosamente di liberare il fermato e di rientrare nella Casa Comunale di Longi. I carabinieri, comandati da un sottoufficiale, non poterono fare altro che obbedire perché gerarchicamente inferiori al Sindaco, che, in loco, è anche Ufficiale di Pubblica Sicurezza. Così la cronaca dell'epoca, tramandata in maniera scarna. Ma, attraverso la stessa, si apprende, inoltre,  che l'intervento "autoritario" del Sindaco sia scaturito dalle insufficienti motivazioni contenute nell'ordine di carcerazione e, pertanto, la sua era un'iniziativa (forse al limite della legalità, ma il rischio ed il coraggio  erano nel suo D.N.A.) a difesa del "suo" dipendente comunale.  Il quale, peraltro, non venne più "importunato" rimanendo quindi a piede libero: a tal punto ci convinciamo che il Sindaco "avesse visto nel giusto". Dopo il grave accaduto, però, che non siamo in grado di commentare per carenza di elementi di valutazione, le autorità competenti, ovviamente nel rispetto assoluto delle leggi in materia,  ordinarono l'arresto del primo cittadino di Longi, probabilmente per abuso di autorità. Egli, opportunamente avvisato in tempo del provvedimento restrittivo della sua libertà, che lo stava per colpire, raggiunse in fretta gli esponenti centrali del Partito Fascista per invocare il loro autorevole e commendevole intervento, che ebbe a sostanziarsi con l'annullamento dell'ordine di arresto e con il trionfale rientro in paese del Sindaco Angelo Zingales. Sembrerebbe, questo, un episodio poco gratificante per il personaggio che stiamo illustrando; ma, considerato che non si è a conoscenza, in maniera approfondita, delle motivazioni che lo indussero a prendere una posizione a difesa del suo concittadino, rischiando personalmente, ogni giudizio ci sembra fuori luogo. Ci troviamo, però, indubbiamente di fronte ad un abuso di potere. Ma, commesso da chi? L’Amministrazione comunale aveva chiesto, attraverso i canali ordinari e ufficiali, dei finanziamenti, che però non arrivavano, per delle opere urgenti ed importanti per il paese. Il Sindaco ritenne opportuno, a quel punto, di andare a chiedere l’autorevole intervento del Re Vittorio Emanuele III. Dopo aver raggiunto in calesse la stazione ferroviaria di Zappulla, prese il treno alla volta di Roma, che raggiunse dopo 24 ore di viaggio. Presentatosi al Quirinale, riuscì a superare lo scoglio dei Corazzieri di guardia al portone d’ingresso fregiandosi della fascia di Sindaco e dichiarando che era atteso in udienza dal Re. Ma, giunto nell’apposito salone, non essendo nella lista di coloro che dovevano essere ricevuti dal Sovrano, il Cerimoniere si rifiutava di annunziarglielo per cui ne venne fuori un’accesa disputa con intervento dei Corazzieri, che volevano buttarlo fuori con la forza. Successe il finimondo: Angelo Zingales reagì con la sua non comune forza e, a causa del tafferuglio, il Re uscì dal suo studio per rendersi conto di cosa stesse succedendo. Fu così che un Sindaco di un piccolo, lontano paese, sperduto tra i monti della Sicilia, venne ammesso all’udienza reale non programmata, ottenendo peraltro quanto abbisognava alla sua Longi. Tra cui la costruzione della strada Rocca di Caprileone-Longi.     

 A quei tempi venivano chiamati ad eleggere il Sindaco ed i Consiglieri Comunali solo quei pochi cittadini che sapevano leggere e scrivere. Angelo Zingales si accorse che, per due voti soltanto, avrebbe perso le elezioni. Che fare? Il giorno delle votazioni, di buon mattino, s’inventò dei lavori urgentissimi da fare presso la sua tenuta di campagna, a Crocetta; invitò due lavoratori-elettori, suoi avversari politici, di accompagnarlo per quei lavori con l’impegno, però, che, prima della chiusura del seggio, sarebbero stati liberi per andare a votare. Erano, quelli, tempi grami per cui i due uomini accettarono, loro malgrado, di andare a guadagnare il denaro, insperato, di quella giornata lavorativa, anche se non gradita considerata la provenienza della richiesta. Giunti a Crocetta, il farmacista invitò costoro a fare colazione, prima di iniziare il lavoro, introducendoli in casa. La conversazione s’intrecciò con abbondanti e stimolanti cibarie, alcune piccanti, innaffiate da parecchi bicchieri di vino, che l’astuto padrone di casa, senza berne egli stesso, aveva cura di tenere sempre colmi e di fare in modo che i suoi "ospiti" li mandassero giù. Il vino, di propria produzione, era buono, il lavoro poteva aspettare, la conversazione procedeva allegramente assieme alle caraffe, che andavano vuote alla botte e tornavano piene. Di conseguenza, gli effetti non tardarono a farsi sentire. I due si addormentarono tra le braccia di Bacco consentendo ad Angelo Zingales di recarsi in paese, a cavallo, per votare, ovviamente dopo avere chiuso, con un lucchetto esterno, la porta dove i due "lavoratori" russavano sonoramente. Ritornato nel pomeriggio tardi in campagna, il farmacista svegliò i due dormienti. Ne scaturì, com’era logico, un acceso diverbio, ma la vista dei soldi della lauta paga di quella giornata si suppone abbia sanato ogni cosa. Le gambe ancora malferme dei due "beoni", che si accompagnavano all’ora già tarda, sconsigliarono loro di affrettare il passo per raggiungere, a piedi, il seggio in paese. Angelo Zingales vinse le elezioni, e probabilmente non fu denunziato per sequestro di persona. Talora, anche così andavano le cose, cent’anni addietro…, a Longi!              

Sino ad alcuni decenni addietro, quando la strada era ancora  una mulattiera, passare di notte dinnanzi al Cimitero era un’impresa alla quale pochi temerari si accingevano perché il luogo, circondato da cipressi, era tetro e buio, come tutti i cimiteri d’altronde, e, si raccontava, abitato da fantasmi, che qualcuno avrebbe visto uscire dalle tombe. Angelo Zingales, trascorreva con la famiglia i mesi estivi, sino a settembre inoltrato, a Crocetta. Di giorno, scendeva in paese per la sua attività di farmacista e di Sindaco, quando ricopriva tale carica, e la sera, anche ad ora tarda, se ne tornava in campagna. Fu durante un solitario rientro notturno che, giunto nei pressi del Cimitero, vide un’ombra bianca muoversi nel chiarore lunare. Scese da cavallo e si avviò verso il "fantasma". Giuntovi al cospetto, apostrofò con parole, qui irripetibili, i pupari del lenzuolo, perché appunto di un lenzuolo si trattava, che, issato su una lunga pertica, veniva fatto alzare e scendere per dare la possibilità all’altro compare di rubare tranquillamente l’uva dal campo vicino dissuadendo chicchessia, preso dal terrore, dall’avvicinarsi. Per la verità, si trattava di una coppia, marito e moglie, cui piaceva l’uva e non aveva paura dell’atmosfera cimiteriale. I due riconobbero subito il personaggio con cui avevano a che fare e, buttandosi ai suoi piedi, ne implorarono il perdono per l’atto compiuto. Ciò, pur tuttavia, non li scansò da una sonora scarica di botte. Da quella notte, il territorio fu "bonificato" ed in parecchi poterono transitare dal Cimitero, durante le ore serali e notturne, serenamente e senza patemi d’animo.             Altro episodio riferito fu quello di una lite che egli ebbe con due cittadini. I toni si alzarono, vennero alle mani ed, essendo accanto ai ”due canali”, quel gigante, per difendersi dall’attacco di due uomini, afferrò di peso, uno alla volta, i due “maneschi” e li buttò nella vasca della fontana. Non ci è dato conoscere l’epilogo della “discussione”.          

Angelo Zingales, appartenente ad una famiglia che ha dato tre Sindaci al paese, - il padre Antonino, prima, ed il pronipote Gaetano, poi, - è stato un personaggio storico di rilievo della Longi di fine ottocento-inizio del novecento; senza dubbio, è stato anche il Sindaco più impegnato ed il più fattivo nella realizzazione, in quell’epoca difficile, di opere pubbliche, quantitativamente più numerose, in un rapporto proporzionale, rispetto ad oggi.              

Egli, infatti, durante la sua gestione, ha effettuato l’impianto dell’illuminazione pubblica con 50 lumi, ha acquistato un nuovo orologio da torre (installato alla Chiesa Madre), ha sistemato le acque potabili e la fognatura, ha costruito l’edificio scolastico, ha riedificato la Casa Comunale (il piano terra di quella attuale) fornendo, tra l'altro, gratuitamente al Comune il legname e le travi occorrenti facendo tagliare gli alberi di castagno presso la sua proprietà della Crocetta, ha dotato di campanile ed arredi sacri la Chiesa del Cimitero, ha istituto una scuola mista di grado superiore ed una serale col concorso dello Stato, ha riadattato alcune strade comunali, ha fatto rimboschire le coste Lunari, ha fatto attivare il servizio di portalettere e quello telegrafico, ha ordinato il consolidamento di pendii franosi. Infine, in concorso con i Sindaci del comprensorio, con l’aiuto di suo cugino Avv. Cammà, Consigliere Provinciale, e del Duca d’Ossada, il Sindaco si adoperò fattivamente per la costruzione della strada rotabile Rocca di Caprileone- Longi impegnando, tra l’altro, l’on. Faranda di Tortorici di sollecitarne il finanziamento da parte del Ministero.           

In aggiunta alle predette opere, fece costruire anche il "lavatoio pubblico", laddove le donne del paese si recavano per lavare i panni accompagnando le ore, che vi trascorrevano, con canti e motteggi. Quando le lavatrici elettriche invasero le case, alcuni decenni addietro, l’Amministrazione ritenne più utile demolire il lavatoio per far posto ad un ricovero di automezzi del Comune. Oggi, sarebbe stato un sito "attira-turisti", da offrire alla visitazione del paese!          

Queste ed altre opere furono realizzate durante le sue due legislature per complessivi 11 anni più quell'anno di Commissario Prefettizio; inoltre, avuta in eredità una gestione deficitaria, quantificata in £. 1873,99, in poco tempo i debiti furono tutti estinti e l'Amministrazione fu messa in condizione, attraverso le somme depositate nel fondo cassa, di acquistare cartelle del Debito pubblico costituendo una rendita di £ 600 circa.

Angelo Zingales, colpito da grave malattia, allora incurabile, morì all'età di soli 54 anni.

Da “Per Ricordare” di Rosario Priolisi,  pubblico un suo scritto:

“Dott. Prof. Angelo Zingales, (1876- 1930) Sindaco di Longi 


Era figlio del Cav. Uff. Antonino Zingales Schifani, che fu Sindaco di Longi in diversi periodi: 1874-75; 1879-80; 1886.

Dopo aver frequentato l'istituto tecnico, si iscrisse all'università di Palermo, conseguendo due lauree: in chimica - farmacia ed in agronomia. 

Fu sindaco di Longi dal 1903 al 1908, dal 1910 al 1916, e Commissario Prefettizio nel 1925-26 guadagnando stima e riconoscenza dei concittadini, considerazione delle autorità provinciali e nazionali. 

Operò in un contesto economico e storico con forte scadimento della vita sociale e notevole abbassamento della cultura; lontani, quindi, da quella civiltà comunale, cioè da quella nuova forma di vita politica e sociale che permette il formarsi di una società cosciente di sè, desiderosa di sviluppo e di cultura.

L'economia locale, se paragonata alle zone progredite, era nettamente arretrata: industria inesistente, nè i contadini miglioravano la coltivazione delle terre, non essendo ancora spezzato il

carattere semi-feudale che i rapporti agricoli avevano. Il feudalesimo non era mai morto nella nostra Sicilia ed il contadino incontrava solo il potere del signore-proprietario, dotato ancora non solo di  privilegi economici, ma anche del potere, per cui erano costretti a vivere sotto il peso dell'antica piramide feudale in un'età che ormai conosceva l'uguaglianza orizzontale dei principi della rivoluzione francese del 1789.

In  FONTAMARA di Ignazio Silone, il più grande romanzo sociale italiano, c’è l'elenco di chi sta sopra e chi sta sotto nella scala sociale, sottolineando lo stacco tra i diversi gradi: “In capo a tutti c'é Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. 

Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra, poi vengono le guardie del principe, poi i cani da guardia del principe. Poi nulla, ancora nulla. Poi vengono i "cafoni".

In questa cornice sociale ed economica venne ad operare il sindaco dott. Angelo Zingales, contrassegnata da livelli sociali e culturali differenziati, dalla povertà e dalla miseria di gran parte della popolazione con infrastrutture inesistenti, da quelle idrico-igieniche a quelle viarie, per cui amministrare la cosa pubblica era un'impresa tanto coraggiosa quanto ardua.

Per buona sua sorte, Longi trovò un sindaco, proprio nella persona del dott. prof. Angelo Zingales, all'altezza del compito, avente qualità adeguate per affrontare sì drammatici e secolari problemi che affliggevano la comunità.

Elevata statura politica, competenza amministrativa, chiara cultura, straordinaria capacità caratterizzarono la sua personalità ed informarono il suo operato di amministratore.

La fiducia e la riconoscenza riscosse ne fanno fede.

Al fine di lumeggiare la personalità dell’ illustre personaggio, che ha segnato un lungo periodo della vita pubblica di Longi, si approfondiscono alcuni aspetti della sua operosità:

- ha realizzato l'illuminazione pubblica con 50 lumi a petrolio. 

- ha acquistato l'orologio da torre dalla casa Michelangelo Canonico 

- ha istituito, a spese dello Stato, una scuola serale.

- ha realizzato l'installazione della tubatura metallica dell'acqua potabile e la costruzione della casa comunale.

- ha portato a termine la pratica per l'istituzione del portalettere rurale a spese del Ministero delle Poste dei Telegrafi e l'impianto del telegrafo.

Fra tutte le opere pubbliche realizzate assume somma rilevanza sociale ed economica, nonchè di progresso civile, la costruzione della strada provinciale Zappulla - Longi.

La costruzione della strada rotabile era stata approvata con legge dello Stato del 1881, ma solo con la legge 3 luglio 1902 n. 297 era stata autorizzata la costruzione di quei tronchi non ancora costruiti per congiungere i comuni di Caprileone e Mirto con centri di Longi e Galati Mamertino.

I vari tentativi fatti dagli amministratori pro-tempore si erano dimostrati infruttuosi, vane erano state le suppliche rivolte alla Prefettura, al Genio civile ed al Ministero dei lavori pubblici.

Promosso un comitato, composto dai sindaci di Mirto, Caprileone. Frazzanò e Longi, al sindaco Zingales venne affidato il fiducioso incarico di attivarsi con forza presso gli organi preposti per la realizzazione del comune problema.

Grazie anche alla fattiva ed incisiva collaborazione del duca d'Ossada, dott. ing. Vincenzo Loffredo, barone di Longi, la deputazione provinciale il 15 luglio 1904 decise di assumere a carico della provincia la spesa per la costruzione della strada, delibera ratificata dal consiglio provinciale nella seduta del 5 aprile 1905: "il consiglio delibera di assumere l'onere della spesa per la costruzione della rotabile, che, dalla mandria Cupani conduca a Longi, attraversando i comuni di Caprileone, Mirto e Frazzanò”.

Al riguardo, si trascrive il deliberato del consiglio comunale di Frazzanò: “Muninicipio di Frazzanò - addi 4 maggio 1907 - oggetto: strada rotabile.

Ill.mo sig. sindaco, Longi- Pregiomi parteciparle che questo Consiglio comunale con seduta del 28 aprile u. s. ha deliberato all'unanimità tributare un voto di plauso e di ringraziamento a V. S. Ill.ma per l'interessamento spiegato in prò della costruzione della strada rotabile mandria Cupani - Longi. Nella fiducia che tale interessamento permanga fino al conseguimento dei nostri ideali, vengo a confermarle i sensi della mia personale considerazione. Coi dovuti ossequi. Il sindaco f.° dott. Fragale Lorenzo.

I lavori si protrassero per oltre due decenni; il sindaco Zingales, morto nel 1930, non potè meritatamente gioire di vedere circolare la prima macchina nell'abitato di Longi, giunta in modo estemporaneo, cioè improvviso, nei primi di luglio del 1932, alla guida del sig. Petrisi di Torrenova; dopo pochi giormi, è giunta, questa volta annunciata, un'altra macchina (un camioncino); lo storico evento si rese più lieto soprattutto per noi ragazzi, fra cui il sottoscritto, per il dono di manciate di caramelle elargite a piene mani per tutto il Corso Umberto 1° dal concittadino don Rosario Zingales, imprenditore, che, a passo d'uomo, guidava il mezzo, fra due ali di popolo festante e plaudente.

Anche per quest'atto, carico di simpatia, ravvivo la gratitudine verso il personaggio ricordato, che ha lasciato di sè un'eredità di affetti, una larga stima negli amici e nella comunità.”


 Dalla pubblicazione  del MCMXI "I Sindaci d'Italia nel Cinquantenario del Risorgimento Nazionale" .




NINO RUSSO, FONDATORE DELLA B.C.C “VALLE DEL FITALIA”

 

Nino Russo

Nino Russo, nato nel 1932 da una famiglia di contadini, era dotato di grande intelligenza, di fantasia e di spirito d’iniziativa. Inizialmente fotografo, il suo studio era fucina di incontri, di discussioni e di idee per realizzare progetti al servizio della comunità longese.

Eravamo molto amici e quando mi recavo al paese, abitando a Messina, trascorrevamo intere nottate a discutere sui suoi propositi. Due erano le idee che attraversavano la sua mente: una cooperativa per il credito artigiano ed una struttura per il turismo invernale a Gazzana. La prima riuscì a concretizzarla, la seconda, da Nino preconizzata, è oggi in fase di elaborazione  progettuale da parte del Parco dei Nebrodi: una pista da sci che partendo dal Monte Soro si snoderebbe attorno al lago Biviere per addentrarsi nel bosco di Mangalaviti e dintorni. 

Le sue intuizioni e la sua lungimiranza si dovettero confrontare con mentalità restie a recepire i suoi progetti, ma con tenacia ed attraverso il dialogo continuo riuscì a convincere parecchia gente a sorreggerlo nel difficile impegno di far nascere la Cassa Rurale ed Artigiana della Valle del Fitalia. Nino ed i Soci fondatori ne sottoscrissero un capitale di lire 13.280.000. Da allora, dall’originaria sede in un magazzeno iniziò il suo cammino meraviglioso verso l’attuale struttura, che si insediò nell’immobile più prestigioso del paese: il Castello feudale. E divenne Banca.

Nino Russo iniziò la sua carriera di bancario quale collaboratore esterno del Banco di Sicilia di Tortorici, laddove si recava a seguito di incarico dei suoi concittadini per il disbrigo di pratiche ed operazioni bancarie. Era un incarico di fiducia che il nostro uomo assolveva con onestà e con competenza. Quando le porte della nascitura Cassa  Rurale ed Artigiana si aprirono ai longesi, Nino ne divenne il primo impiegato assieme ad un direttore esterno. Nel frattempo, conseguì il diploma di Ragioniere essendo stato sin’allora un autodidatta. Collocato in pensione, venne acclamato Presidente onorario della B.C.C. della Valle del Fitalia.  Nel 2007 ebbe fine la sua vita intensa vita, ricca di emozioni e di soddisfazioni.

Scrive Maria Lorena Franchina, nell’articolo apparso ne “I Quaderni della Valle del Fitalia”, editi dalla omonima Fondazione a Nino Russo intestata, che “negli anni ’70 aprì una scuola per l’avanzamento delle arti, dei mestieri e dell’agricoltura” ed inoltre che riuscì a farsi finanziare dalla Regione Siciliana uno studio di fattibilità dedicato alla realizzazione di una diga. Si trattava, infatti, della costruzione di un invaso alla “Stretta di Longi” alimentato dalle acque del fiume Milé o Fitalia. La sua finalità era quella dell’irrigazione dei terreni agricoli circostanti. Ma sarebbe nato anche un laghetto artificiale che avrebbe arricchito il paesaggio circostante e che avrebbe consentito anche gli sport acquatici. L’opera non venne realizzata perché la portata fluviale risultò essere insufficiente  per la fattibilità dell’opera. Mah! Col senno del poi, probabilmente è stato un bene sia per la fragilità geologica del terreno attorno al paese sia perché… le escursioni odierne alla bellezza selvaggia della “Stretta” non sarebbe stato possibile effettuarle. 

 Il suo partito fu la Democrazia Cristiana; il suo Sindacato la CISL, attraverso il cui Patronato assisteva i lavoratori. Solidi erano i suoi valori dettati da cristiana solidarietà e dai sani principi morali appresi dai suoi genitori. Ma Nino era anche un poeta. Rammento, infatti, quando andai a trovarlo per esprimergli le mie condoglianze per la morte della mamma, che mi fece leggere una sua poesia scritta nella nottata e dedicata alla sua cara genitrice. Bellissima e commovente! Non piangeva mentre io leggevo quelle rime ma guardava con intenso amore il corpo spento dell’adorata mamma nella bara. Ritengo che ne abbia scritto di altre perché la sensibilità del suo essere era quella che induce a pensare che avrebbe trovato conforto, soprattutto nei momenti difficili, nella mano che vergava le rime uscite dal suo stato d’animo. Era un uomo forte, umano ed interpretava i bisogni della sua gente, ma anche un allegro compagno ed un amico



Questo libello, di autore anonimo, è stato pubblicato nell’anno 1896 ed ho tro una copia parecchi anni addietro nella biblioteca della mia famiglia. Ritengo  conveniente di doverlo pubblicare quale reperto di una cronaca “pettegola”, che ha visto protagonisti alcuni personaggi longesi dell’epoca, i quali ovviamente rimangono sconosciuti.

“O tempora , o mores”, anche allora.

Lo stile ed il lessico, quelli in uso in quel periodo, li ho lasciati  nella stesura originale, pur lasciando a desiderare sia l’ortografia  sia la punteggiatura.


PROFILI BIOGRAFICI

DI

UNA NOVELLA  MESSALINA

E DI

UN MENELAO CONTENTO

Spiccata la rosa dal rosaio,     con che facilità diventa rizza e secca !             Questo la tocca,   quello l’annusa,          quell'altro la sfoglia e,             finalmente, tra rustiche mani si sciupa.

Scrivo così, a sbalzi; i lettori troveranno in questa fedele narrazione fatti svoltisi nella vita; fatti, che purtroppo faranno arrossire anche la più corrotta creatura. Ma lo svelare i vizi può riuscire di salutare ammonimento agli altri. Ho cercato più volte una definizione della donna, ma fin’ oggi non ho potuto trovarne una esatta. V’ha chi la dice il più vago fiore del mondo, chi invece la fa una bestia più terribile della tigre, chi più astuta della volpe, e in tale occasione la mettono in contrasto con il diavolo, da cui non si lascia vincere, I molti in fine le danno la facoltà d’impastoiare, con un sol filo dei suoi capelli, il più spavaldo dei guerrieri di Ariosto. 

Quest’ultima opinione credo si adatti di più a definire la donna, e specie colei di cui intendo tracciare il profilo. I protagonisti sono illustri personaggi, degni dei romanzi di Paul de Kok; l'azione si svolge in un ridente paesello, edificato da alcuni profughi dell’antica Castro, coronato da monti, sormontato da boschi, da lussureggianti foreste e minacciato dagl’impeti del vicino fiume. Lei è una donna di regolare statura, piuttosto snella, dai capelli tra il nero ed il castagno, testa piccola, ovale, naso aquilino, bocca breve, instabile nel parlare e specie nello sparlare del prossimo. L’occhio furbo, penetrante, rivela, a chi la guarda, l’essere doppio di lei; e qualche grinza qua e là, agli angoli degli occhi, mostra i segni dello sciupio libidinoso che ella fa continuamente del suo corpo. 

Ha scarne le mani, molto tese per gli amici che a lei concorrono. 

Figlia di un dottore, uomo d'antica pasta e di non poca cultura, tanto, che le accademie dell’universo non esitarono a chiamarlo Ippocrate redivivo, ebbe a precettore un volgar pretonzolo, modello insuperabile di castità e di zelo nell'esercizio del suo ministero. 

Essa, portante il nome della Vergine da Quisquina, seppe cattivarsi la stima del precettore; questi godeva pure una vivissima simpatia per lei e studiava il modo per attirarla a sè. La signorina però si amoreggiava con un giovane, un pò agiato, e, quando già si trattava di passare a matrimonio, l’affezionato precéttore le ruppe lė uova nel paniere, perchè si rammentò di un suo nipote del Celeste impero. 

Pensò egli che un matrimonio sarebbe stato opportuno e che i due sposi avrebbero potuto benissimo vivere con lui. 

Si affrettò quindi a preparargli un buon patrimonio e così coronò le aspirazioni del vecchio dottore, caduto in bassa chirurgia. 

Ma, ohimè! nel bel meglio muore il reverendo, lasciando i due poveri tubanti afflitti e sconsolati; ma le nozze si celebrano, ad esse però non tien dietro tutta quella felicità che s’imprometteva, perchè essi avevano quasi dato fondo al patrimonio ereditato e per tutto quel che diremo.

** *

Comincio con trascrivere la prima impresa, con cui debuttò la nostra eroina, come mi fu raccontata da chi vi ebbe parte non ultima.

Díce egli: Essendomi recato nel ’73 (1873 n.d.a.) da mia sorella, per licenziarmi, pria di partire soldato, ebbi la fortuna di conoscere in casa di lei l’attrice del vostro racconto, che mi feri il cuore. Decisi stringere con lei relazione amorosa, ed astutamente mi feci amico del dottore, padre di lei. Erano otto giorni che dimoravo da mia sorella, quando si diede l’occasione di una festa in famiglia, a cui intervenne anche la mia bella. Ed assieme alla mia bella si presentò un giovane pecoraio, uno dei soliti tipi di borgese, ricco di stabili e d’armenti.

Come di consueto in simili convegni și cominciò a danzare al suono del liuto, e la figlia del dottore si diede a strisciare waltzer e contradanze col nostro pecoraio.

I convenuti, ammirando  l'elegante coppia, si sbellicavano dalle risa, e le risa ben presto si mutarono in manifesti segni di disprezzo.

Me ne tornai a casa scandalizzato di quel contegno. Meritava la dottoressa tale trattamento? Ma la gente senza un motivo non denigra una fanciulla!. 

L’indomani, essendomi imbattuto in una delle invitate della sera innanzi, feci le mie rimostranze e mi fu detto, con grande sorpresa, che la dottoressa era servita di zimbello, perchè aspirava alla mano del pecoraio. 

Disilluso, giurai di mutar contegno verso di lei. A casa del dottore mi mostrai serio, ma la sirena ebbe tali vezzi che mi riscadlò il sangue, e quasi, mio malgrado, mi strappò una dichiarazione d’amore. Ebbi risposto un bel no, che, come per incanto, ristabilì la calma nei miei sensi eccitati...

Mi accomiatai, perchè l'indomani dovevo partire ad indossar la divisa,

* * *

É bene notare, che io surrogavo nella leva il mio fratello maggiore, ma non essendo arrivata in tempo la mia domanda al Distretto militare, la surroga non fu permessa. Allora mi portai nella capitale della Sicilia e continuai gli interrotti studi di chimica e scienze naturali.

ll matrimonio con il pecoraio non ebbe più effetto, perchè alla cappa nera, che al soave orezzo dei fichi d’India aveva già gustato il dolce boccone, non garbò che succedesse; si conchiuse invece il celeştiale connubio.

lo la rividi tre mesi dopo il fausto matrimonio in una riunione in casa di mia sorella : non era più il fiore olezzante di due anni fa,ma una rosa appassita; sembrava una donna carica d’anni, tanto era emaciata dalle sofferenze. L’indomani un calzolaio del paese dei fusi si congratulò meco, perchè avevo saputo, la sera innanzi, conquistare il cuore della Venere sofferente.

 – Ma che cuore?! s' è legata, da tre mesi, ad altro uomo, che certo sà renderla felice?!... ... 

 - Non è così, mio signore, rimbeccò il calzolaio; lei è fortunato, la signora è matta per lei. 

– Che matta d'Egitto, che fortuna?!... Ella doveva ponderare prima il suo avvenire. Addio, addio, lasciatemi. 

L’atteggiamento corrucciato, che aveva tenuto la signora nella sera precedente, e il lenonismo del calzolaio, mi fecero nascere in mente improvvisa l’idea di una conquista. E subito cominciai a formulare il mio piano d’attacco. Ad appianare le maggiori difficoltà contribuì il marito stesso, il quale, avendomi incontrato, con una insistente gentilezza, mi volle presentare alla moglie. Entrammo in una stanza, l’unica stanza che serviva da studio, da ricevimento, da pranzo e da dormire: l’abitazione di un modesto vangatore, camuffato alla borghese. In quel salottino, messo alla buona, trovammo la moglie, assorta non so in quali pensieri; forse meditava un più lieto ąvvenire. Ella, con il sorriso in bocca e raggiante di gioia, per la mia improvvisa presenza, si alzò da sedere e mi porse la mano. Nello stringere quella mano trovai più profusione di due anni addietro. Al contatto delle palme mi soggestionò : T'amo e mi pento di non averti amato !... I nostri fluidi si misero in comunicazione ed ognun di noi trasmetteva, per mezzo di essi, le idee concepite come se stessimo a parlare, – T’ho conquistata, dissi tra me. 

Quella figura di marito compiacente ci sedeva discosto, in segno di rispetto e, quasi per avvertirmi che le sue dovízie non erano punto scemate, m’invitò ad assaggiare i suoi gustosi mạnicaretti, inaffiandoli con vino generoso. Tra un boccone ed un bicchiere, uno sguardo ed un segnale, più si eccitò in me la passione : anch’ella diventò nervosa; non si aspettava che il momento opportuno. Il marito nulla comprendeva, si compiaceva anzi che avevo saputo distogliere la moglie dall’abituale mestizia. 

–Venga, venga, mi diceva, quando lo può, a casa mia, per infondere a mia moglie un pò del suo spirito. Le giuro, che dal primo dì del nostro matrimonio ella non è stata più dessa; non è più quella donna che formava la delizia di chi le si accostava. La vedo sempre con il broncio, simile ai bambini quando non sono contentati nelle loro richiesțe, 

- Ella, come colui che piange e dice: Sicuro che dovrò essere col grugno, giacchè in te ho trovato un sasso, una montagna di ghiaccio ; era meglio che fossi rimasta nubile a trastullarmi coi giocattoli che papà mi provvedeva, anzichè essere moglie di nome e non di fatto. Sono martire, e lo sa il Signore; dicono che con il matrimonio si accrescano le felicità, per me è stato al contrario. Le continue vessazioni, alle quali mi sommette questo burbero, mi fanno parere una schiava, e nessun angelo consolatore cerca di riscattarmi. 

- Perchè, mi volsi io a lui, marterizzate questo modello di Canova ? Sapete che voi eravate indegno di impalmarla?!.. 

Dal modo con cui si esprimeva quella sposa infelice, mi convinsi, che il marito le era più d’incomodo, che di sollievo, e compiva le funzioni matrimoniali con l’indice, invece che con ciò che natura ci diede,

Quel giorno più non vi leggemmo avante,

* * *

Questo matrimonio tra due ceti differenti, tra due esseri opposti: la donna bella, gentile, cortese, civile, libidinosa fino alla ninfomania; l’uomo, invece ruvido, di ceto zappatore, che la fa a pugni con l’eleganza e con il galateo, e, quel che è più, affatto energico nelle funzioni matrimoniali, portò la donna alla prostituzione.

 Questa creatura, che, essendo stata messa nell’alcova coniugale, si vide ecclissare la luna di miele e arrestare dinanzi il padiglione l’avvenire della voluttà, spezzò le briglie e corse alla rovina. 

ll mostro, degno nipote del pretonzolo, sembra un rappresentante della famiglia dei Cimpanzè, non colto, ma astuto, non ha lasciato gentiluomo del paese, a cui non abbia rivolto una nera calunnia, un libello, un’infamia. 

La vuol fare da legale e spilla i gonzi. I suoi del partito lo tengono come strumento dissolvente. Tramontata l'eredità dello zio, non ha a qual santo votarsi per varcare il lunario e ricorre all'ignominia. Fa prostituire la moglie per trarne profitto, e quando questo non c'è ricorre ai tribunali, non per avere risarcito l'onore, ma per iscroccar denaro. 0 la borsa o la vita!...

* * *

Ritorniamo all'indomani del mio primo accesso in casa della sposina. Diamine! Un uomo che si sente spifferare sul muso: « Voi non eravate degno di sposare quella ragazza », si ribella; ma egli, per la mala fede, per trarmi nei lacci, tacque. Non aveva sposato quella donzella per amarla e renderla madre, ma per farne una pubblica vespasiana e quindi menar la vita di michelazzo. 

Il mio primo pensiero fu di ritornare dalla signora. Bussai e fu ella stessa che venne a torre il serrame : 

 -- Oh che sorpresa! Entrate; che piacere avervi in casa mia.

 – Vostro marito è in campagna? 

– Si, in campagna, a raccogliere le nocciuole, Entrate. 

 — Ma la gente?!...

-- Che può immaginare la gente?!,,,

Entrai e mi condusse nel solito salotto, ove soli fummo e senza alcun sospetto . . . 

Poveretta, non era dedita al libertinaggio, alla corruzione, al mal fare; l’indegno marito la travolse ! . . . . . Ella assolutamente voleva essere tolta da quell’imbarazzo, voleva seguirmi, voleva farsi tutta mia; però lecitamente. 

– Ma come, signora? le palesai io : Voi siete unita civilmente con quell'uomo di legno; e poi noi possiamo godercela lo stesso. 

– Se volete farmi felice, mi rispose, vi dò io la strada. Sentite: Scartabellando nella libreria del pretaccio ho trovato un libro, nel quale ho letto, che, qualora l’uomo si trovi nello stato d'impotenza, la legge scioglie il matrimonio. Mio marito trovasi in questa condizione, come avete potuto osservare or sono pochi secondi; egli è impoteńte: tutto quindi è in favor nostro. 

Quest'argomento così stringente mi disarmò di qualunque obbiezione : 

– Va bene! Pel momento intanto seguitiamo a coltivare le nostre gioie; in seguito penserò io. 

Ma, la gente cominciò a susurrare e mi impedì frequentare la tresca in quella casa. Per non esservi più fermento in paese, i nostri abboccamenti li facevamo in casa della di lei madre. Ivi, con più libertà, di accordo con la madre, si concretò di intentare la lite per lo scioglimento del matrimonio.  Con lo slancio di un guerriero mi avevo prefisso redimere quell’angelo in sembianze umane. Ma dovevo continuare gli studii e quindi partire. Mi accomiatai da loro con questo generoso proponimento. Nell'abbracciare la mia sirena, le strappai una ciocca dei suoi biondi capelli, per tenerli come reliquia. 

– Lasciate questa cosa inutile, prendete quest'anello, come vero pegno della mia fedeltà. Io sarò vostra, purchè mi liberiate dagli artigli di quella o brutta arpia di mio marito. 

– No, l'anello io non l’accetto, perchè, pel momento, non ho con che cosa ricambiarvelo. Permettete che io porti meco un ricordo, frivolo per voi, ma pregevolissimo per me.

– Giacchè voi non volete contentarmi, vuol dire, cha, appena valicherete il fiume, dalla corrente farete trascinare il mio nome. 

– No, mia bella, il vostro nome, da circa due anni, è stato scolpito, nel mio cuore. Volete che vi contenti? Eccovi il mio dito, mettetevi l'anello.

Momento di vera emozione provai, quando ella, con la sua manina toccava la mia, per aggiustare il pegno della sua fedeltà (!) 

Il mio ricordo fu un verbo : V’amerò.

* * *

 Appena giunto in città intanto una lettera del mio amico notaio, che avevo incaricato di sorvegliarne le mosse, mi annunziava, che lo stesso della mia partenza, la signora, chiusa a chiave, s’era dato bel tempo giuocando alle carte con Filippino. 

Filippino, giovane agiato del vicin paese, era venuto a passare il tempo in quello della nostra avvenente signora. La dovizie dello stesso invogliarono il marito di presentarlo alla moglie, Filippino, che si addestrava alle prime armi, abboccò all’amo. 

A me non garbò il giuoco alle carte con l’ imposta serrata', nè la condiscendenza del marito, nè tampoco il licenzioso agire della moglie. Non prestai fede alla semplice asserzione del notaio, volli attingere la verità da un’altra fonte, la quale mi diede la stessa acqua della prima. D’allora in poi mandai quella donna capricciosa, degna moglie del marito, lontano dalle mie calcagna.

* * *

La corrispondenza tra me ed il notaio continuò: in una lettera egli mi raccontò, che la signora, con suo marito ed altri amici, si era recata nel paese della sardella, per divertirsi allo spettacolo dei burattini. Lo spettacolo finì a notte avanzata e piovigginosa; la comitiva, non potendo ritornare a casa, dovette riparare in locanda, in una stanza, dove pure alloggiava l’usciere del mandamento. Essendovi quest’estraneo, andarono a letto prima gli uomini, poi, dopo avere spento il lume, le donne, che si erano svestite nella stanza della locandiera. Due delle donne andarono a trovare i letti dei rispettivi mariti, la signora invece si coricò con l’usciere...:... La bella eroina all'indomani si sviscerava dalle risa, Questo fatto, il 10 giugno 1879, un giornale di Palermo lo rendeva noto al pubblico.

- Eccovi raccontata la mia galanteria con la donna resasi popolare.

- Mi dica, signore, Ella è in grado di potermi fare un po' di luce sui fatti del cavaliere? 

- Godette anche lui delle grazie della signora, ma la tresca fu sventata dalla di lui moglie, che li sorprese nel più bello, , ,

– E del notaio che cosa ne sa?

– Il notaio è uno dei personaggi più importanti. — In ogni casoláre del nostro paese fervono le lotte elettorali, ed il notaio era uno dei capoccia del partito, in cui militava quel cesso di eunuco. Queste due buone lane, per tenere acceso il fuoco nei cuori dei loro partiggiani, misero su una fucina per coniar reclami, ricorsi, querele, libelli, e commettere qualunque nefandezza per tenersi in gambe. L’arsenale era il tugurio dell’uomo-legno, ed il notaio lo frequentava per dirigervi le operazioni e per montarvi macchine infernali, allo scopo di annientare le forze nemiche. Quivi s’incontrò con la signora, che gli fu prodiga delle più affettuose accoqlienze . . .

Il notaro, essendo esattore delle imposte, poteva carpir denaro e darsi bel tempo con la sua druda. Ma, la fonte si disseccò presto e le sorti del partito volsero anch’esse in male. Allora decise di abbandonare il paese e ripigliar la tresca a miglior tempo...

* * *

Quando ci vedemmo in Palermo, egli, che era a conoscenza delle mie antiche relazioni, e ne provava dispetto, con l’intenzione di farmela dimenticare, cominciò a parlarmi małe di lei, dicendomi che faceva l’occhio di triglia al maestro di scuola , che Paolino le faceva il bellimbusto e che il Temente le aveva mandato delle letterine, anzi una era caduta nelle mani del di lei zio il  Vicario. 

Conoscete voi, mi diceva, quel marmocchio di Eugenio, il chierchiuto abbate? Anch’egli le ronza d'attorno. È divenuta una sfrenata puttanaccia, che non arrossa nell’adescar fringuelli. Che dirvi poi di quel mascalzone di suo marito ? Si gloria nel vedersi corteggiare la moglie, che alla chetichella mette all’incanto.

 Stomacato l'interruppi, avvertendolo di bandire una volta, per sempre simili discorsi dalle nostre conversazioni. Questo fu il patto, che stipulammo entrambi, e fu scrupolosamente mantenuto.

lo intanto sorvegliavo le sue mosse, e lui, forse, le mie. Da accurate indagini seppi che egli era in corrispondenza epistolare con la signora e che il medium era un mio intimo. Mi misi allora in corrispondenza con questo , curando che il notaio sapesse di questa corrispondenza. Egli allora cominciò a servirsi di me per ispedire qualche lettera all’intimo. Ecco quanto desideravo, ed una volta finalmente arrivai a sorprendere una lettera, con dentro un bigliettino profumato. Eureka, esclamai. Questo biglietto io lo conservo ancora, anzi sentitelo:

 

« Palermo, 4 luglio 1880.

« Carissima..., – Quando padre don Eugenio ascenderà al sacerdozio, tu da spudorata penitente, andrai a confessarti. Certamente egli ti assolverà i peccati che seco lui hai commesso. Or dimmi: Da chi ti facesti ingravidare? Tu dici da quello scoglionato di tuo marito; a me questo parlare? Io che so che lui è impotente? Certamente fu tuo cugino Eugenio. 

« Basta; pensa per l’avvenire, e rammentati che l'anima del nostro Ciccino dal cielo grida vendetta,

« Tuo Piddu.

« P.S.– Briccona, se tu mi confesserai tutto, io ti perdonerò ogni cosa ».

Che eloquenza di lettera?!..... Ciccino era stato il primo frutto delle notarili ebbrezze.

Di questo documento mi avvalsi per mettere un bavaglio al mio amico notaio. Sottrassi l’originale e vi sostituii un apocrifo, zeppo di contumelie, degno di una donna di siffatto conio.

Il mio intimo, con modi loioleschi, voleva carpirmi l’originale, ma le sue arti fallirono sempre. Certamente il notaio dovette essere a conoscenza di ciò, ma non profferì verbo; io, facendo lo gnorre, continuai ad accarezzarlo, e così la durammo finchè egli ritornò al suo alveare, dove riprese i suoi amorazzi, ricollegato, per ragioni di partito, con l’uomo-legno. - Elevati sugli altari da un onorevole, furono ben presto atterrati per le nefandezze commesse. Ridotti sul lastrico si trovarono alle prese con la fame, ed allora si rammentarono che avevano una donna a loro disposizione. L'uomo-legno ricominciò a dar la caccia ai merlotti e il notaio da canto suo procurava anch’egli avventori. Uno di questi fu il dottor Ciccino, il quale ebbe occasione di avvicinare la signora in campagna, quando andò a darle la notizia che il notaro era partito per Messina. Il loro idillio fu đi breve durata, perchè il dottore dovette ritornarsene presto in paese. Menelao l’invitò a bere il bicchiere dell’addio mescendo il vino che avea vinto alla briscola a mastro Giuseppe, mentre donna Ciccia si struggeva. 

Presto ritornò il notaio. Egli annunziò la sua venuta per mezzo di Rosario, che portò alla signora un bel pacco di dolci. I regali del notaio consistevano in cuoiame, tessuti e droghe. 

– Ho una fame da lupo, disse il notaio, arrivando 

– Anch'io, continuò la signora, non ho mangiato ancora, sicura che da voi avrei trovato salsicci e salami a discrezione...

* * *

Il notaio s’ intratteneva molto di frequente con la signora e la salute se ne risentiva non poco. Gli amici e i parenti glielo avvertivano, ma egli, pur conoscendo il male, s’appigliava al peggiore, perchè non sapeva distaccarsi da lei.  

Le conseguenze non tardarono a risentirsi e furono fatali: il vampiro le aveva succhiato il sangue dalle vene e la tisi, galoppando, aveva costretto li povero notaio a guardare il letto. 

 – Muoio, egli spesso ripeteva agli amici che lo visitavano, muoio, perchè il male è incurabile, e, se non morissi, la donna che mi ha scavata la fossa, non sarebbe più degna dei miei sguardi. . Già il rantolo della morte precedeva la partenza dello spirito, le parche gli preparavan la bara, il prete, con voce chioccia, biascicava preci, gli amici, inconsolabili, gli facevan corona, ed egli, con la disinvoltura di un filosofo, aspettava il colpo fatale della falce; e quando eran tutti intenti a raccogliere l’ultimo anelito del moribondo, si spalanca un uscio, ed una donna, sconvolta, si presenta. Era la signora, lą passata diletta del morente; era venuta per fargli abbracciare, per l'ultima volta, l'angioletto, il frutto del loro concubinaggio. Il prete tenta di allontanarla, per non far dannare il moribondo, ma essa, con la faccia di un patibolare, rintuzza e cerca di avvicinarsi al letto del notaio. Questi allora, rontolando e con voce fioca, si sforzò di parlare per dirle. Va via...brutta figura... - vattene... tetraggine del diavolo . . . hai sciupato le . . . mie sostanze e ... la mia vita... ora che ... cosa cerchi?... Fammi... morire nella... pace dei ... giusti!... Ella, quatta quatta se ne va. 

Poi egli si rivolge agli astanti, e specialmente al suo intimo Rosario, continuando: Non vi stiate ad...incatenare con ... quella brutta... strega, perchè difficilmente : ... potete liberarvene...; rammentate... queste parole... di. .. un mo...mor...ente. . . 

"Terminate queste parole, i contrassegni della morte si fecero palesi, e fissando gli occhi al tetto, si muore. -

Morì compianto dagli amici e dai parenti; e di lui non è rimasto che un ricordo, una lontana memoria.

 * * *

Morto il notaio, la signora, per sottrarsi dalla pubblica gogna, si ritirò in campagna, dove fu ben presto consolata da un rappresentante della santa chiesa, un cosino alto e grosso quanto un soldo di cacio; però, tantillus homo ..., sed magnus in peccato. Amicissimo del marito della signora, andava spesso a trovarlo in casa, e di giorno e di notte ... , specie quando era sicuro di non trovarvelo, allo scopo di fabbricare con lui libelli ed infamie a danno del prossimo e per fare andare a rovescio le faccende di chi lavora per migliorare le condizioni della propria famiglia.

Dio ha fatto gli uomini e tra di loro si accoppiano . . .

La signora si era talmente affezionata con quelle tre spanne di pretonzolo che andava quotidianamente a rassettargli la casa, e non permetteva che donna alcuna, sotto qualsiasi pretesto, accedesse in casa del suo fantoccino. Ma questi, da bravo curato, cui piaceva la varietà, more praetorum, fissò presto il suo sguardo su altre ragazze, non meno belle della fenomenale signora, che, ingelosita e bramosa di rendergli subito la pariglia, adocchiò da parte sua don Nardo, che le corrispose teneramente.

La generosa signora fu larga della sua benevolenza anche a Leo, a Turiddu e a Ciccino, cugini di don Nardo, ai quali pure dispensava ogni volta succulenti manicaretti. Che ci si poteva fare ? era di ottimo cuore la signora . . .

* * *

– È questa la parte di cronaca, che io conosco e che vi ho narrato fedelmente. Continuate ora voi.

Entro subito in argomento e parlo di un suo novello amore; è con un giovinotto ; suo parente, tornato di fresco in paese, il quale in sulle prime fa il ritroso , ma poi, davanti alle eloquenti insistenze dell’appassionata, ceda e s’ingolfa nell'amorazzo, con lo slancio che è proprio dei giovani. E mentre l'imberbe seguiva le più smodate passioni della voluttuosa, non si accorgeva che gli preparava un’altra magica catena. Gli diceva che la sua ragazza era riservata per lui, lui solo doveva sposarla. 

Fatalmente egli però dovette allontanarsi di nuovo dal paese, ed il distacco, come potete immaginare, riescì molto doloroso: non mancarono le solite proteste di amore ed i soliti giuramenti di fedeltà (!). 

Al povero giovane, nella nuova residenza, fioccavano regali e lettere frequentemente, che alimentavano ed accrescevano l'amorosa fiamma, cosi che, cogliendo l’occasione delle feste pasquali, egli ritorna e non gli par l'ora di volare tra le braccia dell'adorata. Ma, triste delusione!... Spiccata la rosa dal rosaio, con che facilità diventa vizza e secca ! Questo la tocca, quello l'annusa, quell'altro la sfoglia e, finalmente, tra rustiche mani si sciսpa.

Il delirante giovane viene a constatare che altri godono i frutti a lui riserbati e, vergogna a dirsi, si accorge che un mucchio di giovinastri fanno ridda intorno a quella volgare donna, che ha cambiato il talamo.in lupanare. Grandemente sorpreso, a questo osceno spettacolo, egli ċarica d'invettive la spudorata Messalina, e la fugge, qual rettile velenoso. Ella vorrebbe mostrare la sua innocenza, ma tutti i tentativi si spuntano contro l'inflessibilità dell’irritato parente, ed allora si rassegna, procurandosi bel tempo con i nuovi ganimedi.

* *  *

Fra tutti i cavalieri di corte tiene il primato il figlio di mastro Ciccio; lui, come il più accorto, la visita di frequente, spesso la porta in campagna, sopra la sua baia e, non di rado, fa scorrere il pollice sopra l’indice, allegerendo cosi le tasche del suo gilet, che porta discretamente fornite. Ben di frequente si fa vedere, a casa, dal marito, presso cui va per istudiare, e tutte le volte che questi non si trova fa le veci la signora, che di penna e calamaio se ne intendė assai.

- Vi giuro, dice la professoressa, che con i vostri modi e la simpatia che mi professate, vi siete cattivata la mia stima, il mio affetto e il mio sincero amore.

- Io non ho dubitato mai di lei, gentile signora, ed è per questo che ardisco  giurarle intenso amore… 

– Sentite, soggiunge lei, credetemi che ho intenzione di passare gli ultimi tempi della mia vita felici con voi, e, non mi vergogno a dirlo, l’amore non ha limite. 

E difatti, menano vita più che felice, passano il tempo quasi insieme: una volta vanno alla fontana, e lì, al rezzo di un albero, mangiano un bel canestro di gelsi; al ritorno entrano in casa dalla porta opposta a quella d'ingresso, e se ne stanno a discorrere soli... Poi vanno in campagna, dove riposano un pò, sopra la molle erba, che vegeta sotto le folte nocciuole. Di quando in quando però va a disturbarli qualche indiscreto, e allora corrono nella stalla, o in qualche altro sito. Intanto lui, forse por gli abusi, resta a letto per tre o quattro giorni, durante i quali supplisce il cugino Peppino. Però lei non dimentica facilmente l'affettuoso ganimede, niente affatto, scende appositamente da campagna, si reca dal caro figlio di mastro Ciccio, va dinanzi il letto e gli fa bere un pò di latte e caffè, che amorosamente ha portato per lui, e quindi gli dà un pochettino di divago ...

* * *

Ma, il di lei cognato, che finora ha lasciato fare, non vuole più sentirne di preferiti e vuole restare lui solo padrone del campo...

Il figlio di mastro Ciccio si discosta un poco; per altro, ciò che deve fare, lo fa di nascosto e al buio, quindi poco o nulla se ne cura.

La signora pel cognato dimostra una geniale simpatia, che non ha mai manifestato in tutto il tempo del suo progresso, Dice alla gente che il cognato le vuole un bene sviscerato e che lei altrettanto a lui: perciò spesso va alla di lui casa e gli rende quei servigi, che meschinamente può . . . 

 Lui però vuole sempre disobbligarsi, e le porge, quando lo può, qualche bigliettino da cinque, di cui in famiglia ha di bisogno e non poco. Meno male che Turi, il figlio del massaio, soddisfa le esigenze di lei, altrimenti il povero diavolo non ci potrebbe spuntare; infatti lo tollera per questa esclusiva ragione (si vede anzi ch’è molto ragionevole...).  

Frattanto la signora si deve portare in Messina, allä Corte delle Assisie, per testimoniare su un fatto di ricotta: prima di partire raduna tutti i curati e si fa riempire il borsellino.

Durante il viaggio s’imbatte con un gentil signore, che non conosce : attacca subito intime relazioni e, arrivati in Messina, albergano insieme. Fa ritorno, ma a mal’incuore, perchè nessuna volta ha potuto capitare a solo don Leopoldo, sua vecchia conoscenza. 

Tornata, avverte il figlio di mastro Ciccio, che suo cognato è accanitamente adirato contro di lui e che deve visitarla di nascosto. Egli ringrazia l’amorosa signora e le promette che d’allora in poi farà le cose con la maggior segretezza possibile. 

L’avverte inoltre che la sera è sola, il marito rimane in campagna, quindi, volendo, può andarla a visitare, ma tardi, perchè prima deve dare udienza al cognato. 

 Il figlio di mastro Ciccio si tiene accorto, a notte avanzata va sotto il balcone, dà il segnale convenuto e, dopo pochi istanti, la signora, în semplice camicia , si presenta davanti la porta e amorevolmente l’invita ad entrare per mettersi in dolce colloquio... 

I carabinieri intanto, sapendo che la signora ai suoi avventori prepara eccellenti pasti, spinti dalla gola, allo spesso vanno a far dejouner da lei, come la più rinomata cuoca del paese, quando il marito non c’è, possono andarvi lo stesso, essendo ormai divenuti amici intimi, tra di loro poi non si tradiscono, anzi si aiutano scambievolmente. 

Le male lingue però non permettono che questa amicizia continui a lungo, i carabinieri, sbalzati di qua e di là, lasciano marito e moglie in grande sconforto, atrocemente feriti da questa sventura, Speriamo che presto trovino chi li consoli ! . . .

                            UN CURIUSU

                               chi taliava di lu pirtusu di la chiavi.





Indice: titolo con a fianco il numero della pagina

 

PREFAZIONE  -  7

PERCHE’ QUESTO TESTO . 9

Le origini-Da Demenna a contrada S. Pietro, e poi a Longi - 13

Dal mio saggio “Tra Krastos e Demenna”- 14

Nascita di Longi - 32

Una breve digressione sulle origini delle popolazioni limitrofe - 36

ANTICHE STRADE CHE ATTRAVERSAVANO IL TERRITORIO DI LONGI-  37

Demenna, dopo mille anni  - “Cercando Demenna”, con la Rai Educational- 38

La gola di Dimnas? Ma è la “Stretta di Longi”! - 40

UN ANTICO BORGO ED UN CASTELLO ALLE PENDICI DELLE ROCCHE DEL CRASTO - 46

I primi feudatari appartennero al CASATO DEI LANCIA (o Lanza) - 47

La Casata dei Napoli  - 53

I Napoli ed i Loffredo -Cassibile, Baroni di Longi -  54

IL CASTELLO -  58

Longi nel medioevo e nei successivi secoli -  60

Annotazioni relative al periodo del regno delle Due Sicilie.   -63

Eventi calamitosi e disagi -   65

PROTESTE DEI CONTADINI  - 72

LA BARONIA DI BUTTI E MANGALAVITE - 74

Nel dopoguerra, l’ombra della mafia su Mangalavite e Botti -  80

Il castello di Mylè, a Liazzo. - 85

Castello di Muely   - 88

DALLA RACCOLTA SULLE ORDINANZE DI  PROMISCUITÀ  DALL’ INTENDENTE DI MESSINA-   90

 I Sindaci che si sono alternati al “Palazzo municipale” -  95

SIMBOLI DELLE LISTE NELLE TORNATE   ELETTORALI  DEGLI ULTIMI DECENNI  -  98

Santa Maria di Monserrato -  99 

L’Unità d’Italia ha depredato il Sud. Eravamo ricchi e i Savoia ci derubarono -105

Le due guerre mondiali - 108

Anche Longi ha avuto i suoi  Partigiani – Leone Gemma     - 115

UNA FAMIGLIA DI MILITARI - 120

ALCUNE OPERE PUBBLICHE REALIZZATE NEL DOPOGUERRA -121

Il primo Sindaco con l’avvento della Repubblica: il monarchico Nino Zingales -123

Vent’anni dopo la mia gestione del Comune. - 126

Alcune foto che ci riportano al passato - 140

A Longi un complessino musicale d’epoca -147

A ritroso nel tempo - 150

“Così rivive il castello di Longi”-  153

La curva demografica del paese durante i secoli -161

Luoghi di culto esistenti, tra aperti e quelli scomparsi -167

San Leone, Vescovo di Catania, è il protettore di Longi       -168 

IL CROCIFISSO E LA SUA CROCE - 173

LA CONFRATERNITA DEL SS. SACRAMENTO - 174

La storia dell’ufficio postale -179

Il Monumento agli Emigranti Longesi - 180

TRADIZIONI E CANTI POPOLARI-  181

Spigolando tra... la gente... e tra le carte. -185

La diruta chiesa di S. Salvatore - 188

 Altre immagini del paese 192

Longesi decorati con medaglia al Valore Militare -204

Proposta di modifica di alcune strade o piazze - 205

La Petagna, mostra museale naturalistica -207 

PER IL TEMPO LIBERO-          211

La passione dei longesi per il teatro-   215

SCRITTORI, POETI, ARTISTI CONTEMPORANEI -    217

Cronologia longese in sintesi  -  219

I BENI PERDUTI E…quelli posseduti  - 221

I “Murales” di Castiglione - 222

Università di Longi dal 1183 al 1658 -  229

Capitoli di Concordia tra L’Università di Longi e Il Barone Francesco Lanza (1570)  -   243

Lotte barbare nel Comune di Longi - 249

“Popolazione e risorse a Longi a metà Settecento”- 265

La produzione della seta - 269

Dalla tesi di laurea  di Giada Araca – Il Duca -  272

Immagini della meravigliosa “civiltà contadina”-  280

Piano Stralcio di Bacino per l’Assetto Idrogeologico  RELATIVO AL COMUNE DI LONGI -  283

Pillole sparse - 287

Biografie longesi - 289

P. TOMMASO LANDI: UN LONGESE CHE MERITEREBBE L’ONORE DEGLI ALTARI-291 

FRANCESCO GEMMA -  296

Francesco Zingales da Longi, Generale di Corpo d’Armata - 300

 Prof. Antonino Ciminata - 308

Gen. della Giustizia Militare Avv. Leone Zingales -311

Dott. Angelo Zingales - 314

NINO RUSSO, FONDATORE DELLA B.C.C “VALLE DEL FITALIA”  - 322

Gaetano Zingales - ERRANTE TRA NIDI, PAESI E POLTRONE - 324

PROFILI BIOGRAFICI DI UNA NOVELLA  MESSALINA E DI UN MENELAO CONTENTO -471

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

 


Bellissima visione di Longi (Ph. di S. Migliore)


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